2006 completo - Associazione Augusta
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N. 38 Sommaire Augusta 2006 UGO BUSSO, MICHELE MUSSO, BARBARA RONCO Dan tor dar geissu Il turno delle capre Revue éditée una tantum par l’Association Augusta d’Issime sous le patronage de l’Assessorat régional à l’Instruction et à la Culture 2 JOLANDA STÉVENIN Au temps où l’on élevait des chèvres Aperçu sur l’économie pastorale jusqu’en 1950 14 LUCIENNE FALETTO LANDI A propos de chèvres… 15 PAOLA CIPRIANO Kuntjini van Eischeme Racconti Issimesi 16 BATTISTA BECCARIA La “questione walser” alla luce di recenti studi su alcune comunità presenti nella diocesi novarese 19 COMITÉ DE RÉDACTION JOLANDA STÉVENIN La cappella di Mühni 26 Président Lucienne Faletto Landi FRANCESCO DAL NEGRO A Lady’s Tour round Monte Rosa… Viaggiatori, turisti e primi alberghi nella valle del Lys 29 FAUSTA BAUDIN - MASSIMILIANO SQUINABOL La Valle dell’Alleigne, a Champorcher Un SIC (sito importanza comunitaria) da tutelare e da valorizzare 32 Membres M. L’Abbé Ugo Busso Michele Musso Imelda Ronco TIZIANA FRAGNO L’abbigliamento della borghesia issimese nel secolo XIX 35 Rivista disponibile online www.augustaissime.it [email protected] Photo de couverture Villaggio del Chröiz, vallone di San Grato. Casa detta “delle colonne”, inizio secolo XVII. Foto di Ugo Busso. La photo de la quatrième de couverture, Vallone di Tourrison “Pian de l’Omo” salendo verso l’alpeggio del Krecht. Giovane pastorella anno 2004. Foto di Alessandro Bolla Autres photos: CLAUDINE REMACLE Maisons à colonnes 39 DON UGO BUSSO As chnechtji zélltni dschéin ieste summer z’alpu Un pastorello vi racconta la sua prima estate in alpeggio 43 VITTORIO BALESTRONI Il teschio prelevato dall’ossario del cimitero Un racconto di Campello Monti 49 WILLY MONTERIN Gressoney-La-Trinité: Osservatorio Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.) 50 Franco Restelli, Ugo Busso, Edmondo Ronco, Willi Monterin, Michele Musso, Massimiliano Squinabol, Beppe Busso, Claudine Remacle. Tous droits réservés pour ce qui concerne les articles et les photos. Le Comité de rédaction laisse aux auteurs la responsabilité de leurs articles. Imprimerie Valdôtaine Aoste 0165 / 239559 — 1 — EUGENIO SQUINDO D’Gròsso Albezò Alpenzu Grande 52 IN MEMORIAM Lina Busso: saranno “parole” da ricordare 54 Don Giovanni Christille 55 Simone Ronco 55 Dar blljitzker tüat an junhen alper van Eischeme Il fulmine uccide un giovane alpigiano di Issime 55 La chevrette vagabonde 56 A U G U S T A Dan tor dar geissu Il turno delle capre UGO BUSSO - MICHELE MUSSO - BARBARA RONCO Le capre sono animali produttivi e di poche necessità e rispetto ai bovini, a parità di foraggio, producono una maggior quantità di latte. Possono essere nutrite con minor spesa e lavoro, richiedono una minor qualità e una maggior varietà di foraggi, e utilizzano pascoli marginali scarsamente produttivi e diversamente utilizzabili. Quasi tutte le famiglie possedevano un paio di capre, ed il metodo di allevamento si affidava per lo più alla risorsa collettiva che andava dall’uso dei terreni marginali solitamente comunali ‘almini’, alla conduzione al pascolo; ma anche dalla condivisione, nella stagione morta, di terreni privati. Questi terreni cosidetti non produttivi, sono zone solitamente scoscese lungo le pendici dei monti, con arbusti e pietrame, là dove l’uomo stesso non si avventura, ed appartengono generalmente al Comune che concedeva il diritto di usufruirne tassando ogni capo condotto. I terreni comunali sono separati dagli appezzamenti privati da recinzioni, da mulattiere, da terrazzamenti, o, come è il caso di quelli sopra il villaggio di Champriond o del Rickard, da lunghi muri in pietra. Servivano come pa- L scoli collettivi anche per bovini (quando facilmente accessibili), sia in autunno sia in primavera, ma anche in estate per quegli animali che rimanevano al piano. Un tempo ai contadini più poveri era data priorità nell’uso di questi terreni. Da dicembre, quando si scendeva definitivamente al piano per trascorrervi l’inverno, ciascun villaggio formava la sua mandria ‘troppe’ di capre per condurla al pascolo comune, una volta al giorno. Ogni proprietario ‘particulier’ era tenuto ad impegnarsi nella custodia della mandria, a turno ‘dan tor dar geissu’. Il turno prevedeva un’equa divisione del lavoro impegnando ogni famiglia a garantire un numero di giornate lavorative pari al numero di capi posseduti ed avviati al pascolo comune. Ogni villaggio aveva diritto su una determinata porzione di territorio comunale, generalmente: Seingles superiore, sulla zona detta Fei, e come per Pioani, Seingles inf., Varellji, su tutta la zona verso Pirubeck; Tunterentsch, sui territori sopra Fontaineclaire; Champriond, sui beni comunali sopra la frazione; Pra, sui beni comunali sopra la frazione, nelle zone dette Sappil e Écki; Réivu (Riva), Kruasi (Crose), Rollji (Rollie), Rickurt, sul territorio a confine Nella foto z’Loeisch Emelleji e Clotildi (Linty) al mayen del Tschachtelljer. Fidèle Marie (*1850†1928) e Geneviève Christine (*1853 †1932) Christellje. Insieme ad un’altra sorella Marie Christine (*1862 †1937) detta “La bionda”, aprirono il primo negozio di alimentari ad Issime. La famiglia Christellje condusse per 29 stagioni estive (dal 1860 al 1888) l’alpeggio costituito ^ dai tramudi di Höischer, Tannu, Reich, della casera presso la ‘Grand Pierre’ di Mühni e Rollumattu nel vallone di San Grato, e possedeva i mayen di Tschachtelljer, bruciati il 25 marzo 1945 dalle milizie a ser vizio delle forze tedesche dopo aver avvistato dei giovani issimesi che vi si erano rifugiati. Marie Christine diede avvio allo scambio, con la vicina Piedicavallo (Valle d’Andorno), fra i prodotti d’alpeggio e pasta, riso, farina e vasellame provenienti, attraverso il biellese, dalla pianura piemontese. Aprirono così il primo negozio di alimentari con annessa osteria ad Issime. — 2 — A U G U S T A con Rollie superiore sopra il Fei, verso Bel Krecht krüpp, lungo la mulattiera per il vallone di San Grato “Birriuku” e nella zona detta d’Wasseri; Duarf generalmente sui beni comunali sopra i villaggi di Grand Champ e Cugna. Gli animali erano fatti uscire se il suolo “era terreno”, cioè se non era ricoperto di neve, e richiamati verso sera per servir loro un fagotto di fogliame (foglie di frassino, acero, raccolte in autunno sfogliando gli alberi) e fieno. Il turno durava generalmente fino alla tarda primavera, da aprile in poi si pascolava anche lungo i corsi d’acqua dove spunta la prima tenera erba. In estate chi non conduceva un alpeggio dava in affitto gli animali, e, solitamente, teneva una capra ‘zugeiss’ al piano per garantire le necessità alimentari della famiglia. La capra seguiva la propria padrona, quando la famiglia si trasferiva nei mayens per lavorare i campi di segale e patate e per raccogliere il fieno, e ancora quando le donne si recavano nelle praterie di montagna ‘schelbiti’ a raccogliere l’erba selvatica. Tutti avevano bisogno del fieno che nasce spontaneo, non solo le famiglie più povere, per completare il quantitativo necessario per la morta stagione. In estate, inoltre, avendo una capra al piano, si poteva mandare in alpeggio tutte le vacche possedute ed economizzare così per l’inverno il foraggio raccolto. Tutto questo non è da sottovalutare, perché consentiva di mantenere uno o forse due capi di bestiame in più durante l’inverno. In un sistema integrato di economia alpina, ad Issime per lo meno, in linea generale, il latte vaccino era destinato alla produzione di formaggio “tome” e burro, soprattutto quello estivo d’alpeggio, per il mercato esterno, molto attivo verso il Piemonte, mentre il latte di capra era per il consumo interno. Mantenere le capre voleva dire avere, dalla tarda primavera, dopo la nascita dei capretti, fino ad autunno inoltrato, del latte per i fabbisogni alimentari della famiglia (per la colazione e per preparare la minestra) ed economizzare così sul latte vaccino destinato alla produzione casearia, qualcuno ha affermato: “Si usava il latte di capra per consumare meno burro, per condire la minestra”. Chi possedeva un certo numero di capre utilizzava il latte per allevare un vitello da macellare in autunno o/e per mescolare al latte vaccino, soprattutto quando quest’ultimo scarseggiava dopo il periodo estivo, per produrre dei ‘formaggini’ (tomette). DI ZUGEISS, DI TROPPUNGEISS LA CAPRA DI CASA, LE CAPRE D’ALPEGGIO Wier nöit het muan pheen a chu het pheeben an geiss, sua um heen génh an tropf milch zam hous. D’geiss ischt gsünni, mit dar geissumilch het mu gnorrut d’chinn, wénn het gwénkht d’milch dar eju, vür d’chleinu chinn d’geissumilch ischt vill béssur dén d’chünumilch, du ischt nöit gsinh in ün^dschi lénner an andren ousganh. Di zugeiss ischt blljibben zam hous, un di troppungeiss ^ sén kannhen z’alpu. D’geiss ischt fürbi, dschi passrut nji z’vuadruscht wa van uabna, lljibur gitsch eim ambri aber ^ dan krüpp; ischt auch schülljigi, dschi esst nümmi z’bruat wénn mu het drab kiet a muntschutu. Turrun, sit a schupputu joar léckentsch auch turrun d’geiss, um lugun wélla séji d’reinu (bataille des chèvres). ^ Pheffun, d’geiss wénn dschi gsit etwas stüeren, a wislu ol ^ a murmunu, leitsch dschich an pheffun um averturun d’andru. ^ Spéiten, d’geiss tut spéiten wénn dschi areit meerw geemiri ol umréifi lauber. Hantsch Imelda Chi non poteva permettersi di mantenere una mucca teneva una capra, per avere sempre un po’ di latte in casa. La capra è sana, con il latte di capra si allevavano i bambini, se per qualche motivo mancava il latte della mamma, ma per i neonati il latte di capra è molto più adatto del latte di mucca, non vi erano altre soluzioni a quei tempi. In estate una capra la si teneva sempre per i bisogni della famiglia, ma chi ne aveva di più le mandava all’alpeggio. La capra è furba, non passa sul bordo del precipizio ma a monte, piuttosto fa’ precipitare chi sta sul bordo; è pure schifiltosa, non mangia più il pane da cui è stato preso un morso. Combattere delle capre, da diversi anni si fa pure la battaglia delle capre, a livello regionale, per eleggere la regina. Rumore di allarme della capra, se vede muovere qualcosa come una donnola, una marmotta, ecc. la capra fa un rumore caratteristico per avvisare le altre. La capra vomita facilmente quando le capita di mangiare veratro fresco oppure del fogliame immaturo. L’allevamento caprino, secondo gli studi di economia di montagna, ebbe grande sviluppo a partire dal tardo XVIII secolo e inizio XIX secolo. Per quanto riguarda Issime sappiamo, dal censimento del bestiame della Reale delegazione sabauda del 1782, che, su una popolazione di 1413 persone (era compreso anche Gaby), vi erano 754 bovini e 951 tra capre e pecore, mentre all’inizio del XX secolo, su una popolazione di 800 unità circa, le capre monticate nel vallone di San Grato erano 300 (dagli studi del sacerdote agronomo Monsignor Capra), mentre a metà degli anni ’60 del secolo scorso, su una popolazione di poco meno di 400 individui, se ne contavano solo più una ventina ad Issime e una trentina a Niel, dove, un tempo, se ne contavano 150 più o meno (Raveau. Grenoble, Institut de Géographie Alpine, 1968). Sappiamo, dalla testimonianza del messo comunale ‘garde champêtre / tschampi’ di allora, B. Linty che nel 1961 un’ordinanza impedì ai proprietari di condurre le capre nei beni comunali per i danni che queste vi arrecavano, anche alle nuove piantine messe a dimora. Il fatto può essere interpretato, non tanto come causa di abbandono dell’allevamento caprino, ma come indizio di diminuita importanza di quest’ultimo nel contesto economico-sociale della comunità anche in relazione al concomitante incremento dell’allevamento bovino e alla relativa attività casearia sempre più rivolta alla nuova risorsa offerta dalla Regione Valle d’Aosta, la Fontina. L’allevamento caprino ad Issime, per lo meno per il XX secolo, in parallelo alla crescente importanza dell’allevamento bovino, più dispendioso in termini di impegno, è stato una forma estensiva di zootecnia integrata che garantiva un carico di lavoro inferiore con una buona resa produttiva, anche in relazione alla ‘risorsa territorio’ presente nel paese. — 3 — A U G U S T A D’GEISS: DA RÉICHTNUNH DAR OARMU LE CAPRE: LA RICCHEZZA DEI POVERI A voart z’Eischeme villjen ellji hen pheeben geiss unzana déi das hen nöit kheen khés gut. D’oustaga un da summer hendsch dschu kiat zu wénn dschi séin gsortrut weerhun ol wénn dschi séin kannhe chroutun in d’almini. Wénn war hen kheen glljéivrut d’schul, hüten d’geiss ischt gsinh z’weerch van d’junhschtu. Dar brouch séiwer kannhen geere villuru zseeme. Wéilu hewer unzana kumbunurut z’machun chüjini. Eis het troagen z’meelu, as annes eier, ol zücker, ol üali ol d’fannu ol d’lümmiti. Witt hewer gvunnen z’phieri. Vür d’milch hewer nuan kheen z’melhien an geiss. Witten schien gséltschaft, z’hüten d’geiss ouf tur d’Wasseri. Nuan a voart hennich kiat as söiri d’lounu. Ischt gsinh wénn dschi hemmi gschikcht hüten d’geiss unzana dan tag das dar bischuft ischt nündsch gcheemen prismun. Un da winter?. Da winter séindsch blljibben im goade. D’hérbscht, vür d’geiss hemmu gschneiten ol abiotturut éscha un ahiri um nen geen i z’laub da winter. Wa wénn z’ischt nöit gsinh vill schnia un nöit z’vill choalt hemmudschu gleit ous auch da winter. Ouf tur la Kosta hentsch dschi gleit d’ackuart z’machun dan tor dar geissu. All muargana, krat das ischt gsinh zu d’sunnu eini un d’endri a bitor séin kannhe leesen zseeme d’geiss alluru um dschu vüren ouf tur d’almini wua dschi hen génh gvunnen, unzana da winter etwas z’esse. Wiar het kheen an einig geiss ischt kannhen an einig voart un wiar het kheen zwianu ol dröiu ischt kannhen zwurru ol dröischtu. Van in d’Réivu un za Rollju ellji déi tringjiltini hen gvüllt hurtigi auch d’choaltu un d’churzun toaga z’wintersch. Unz héi allz wol. Z’wuschta ischt wéilu pschit wénn an geiss ischt blljibben varschtakhti. Wua mu hetschu gvürt un wua dschi séin kannhe süjen vaksi ol bérrini ol halma ol z’roudschurun grempjini, séin gsinh üerter z’merteil wiltu mit schürfi, gruass krüppa, ol éischig schlljüchtini. Sua ischt pschit mia dén a voart das an geiss ischt gschprunnhen abber as véddji wua dschi ischt blljibben varschtakhti antweegen van unna ischt grech gsinh an schürfu un unnan ouf hetsch nümmi mua sprinnhe. Ischt sua das wénn dan oabe eina het gwénkht hendsch mussun goan zwei ol dröi mit lanterni un seili um dscha antvéddju um nöit dscha loan doa alli d’nacht im vroscht. Mu het auch mussun ne heen zacht antweegen déi moanada, unz d’oustaga, séindsch gsinh pruntu un varlljiren auch as gitzi wierti gsinh an gruasse schoade. Nunh um heen as söiri milch zam hous hemmu nümmi manhal z’pheen an geiss. Mu het tellur z’dscha chaufen all toaga wa andem ellji, unzana d’oarzada röimen da wert van déi milch das tut sövvil wol da chinne un ellji wir hen mua wacksen wol, auch antwegen das ündschi hen kheen zwian geiss im goade. Auch das ischt gsinh an reichntunh vür d’oarmu. Schützersch Dschoantsch Ugo Una volta ad Issime tenevano quasi tutti delle capre, persino quelli che non avevano nessun terreno. In primavera e d’estate se le portavano dietro quando uscivano per lavorare o quando andavano a falcettare sui terreni comunali. Quando avevamo finito la scuola, pascolare le capre era il lavoro dei più giovani. Abitualmente andavamo volentieri in tanti insieme. Qualche volta combinavamo persino di cucinarci delle frittelle. Uno portava la farina, un altro delle uova, o dello zucchero o dell’olio, o la padella o i fiammiferi. Della legna ne trovavamo dappertutto. Per il latte, bastava mungere una capra. Che bella compagnia a pascolare le capre su in località d’Wasseri1. Solo una volta mi sono un po’ arrabbiato. È stato quando mi hanno mandato a pascolare le capre persino il giorno in cui il vescovo era venuto a darci la cresima. E d’inverno? D’inverno stavano nella stalla. D’autunno per le capre si tagliavano rami dai frassini e dagli aceri o li si sfogliavano per dare loro le foglie d’inverno. Ma se non c’era troppa neve e non faceva troppo freddo si facevano uscire anche d’inverno. Su per la Costa, si sono messi d’accordo di fare un turno delle capre. Tutte le mattine, appena spuntato il sole gli uni e gli altri a turno andavamo a raccogliere insieme le capre di tutti per condurle su per i territori comunali dove trovavano sempre, anche d’inverno, qualche cosa da mangiare. Chi aveva una sola capra andava una sola volta, e chi ne aveva due o tre andava due o tre volte. Dalla Riva a Rollie tutti quei campanelli mettevano allegria anche alle giornate più fredde e più corte d’inverno. Il peggio succedeva ogni tanto quando una capra rimaneva bloccata. Dove le si conduceva e dove andavano alla ricerca di erba olina o fili d’erba o bacche o per rosicchiare dei rametti, erano posti piuttosto selvaggi con strapiombi, grossi cucuzzoli o torrentelli ghiacciati. Così è capitato più di una volta che una capra fosse saltata giù da una cengia per rimanere intrappolata perché di sotto c’era forse uno strapiombo e da sotto in su non riusciva più a fare il salto. Capitava allora che, se la sera una mancava, dovevano andare in due o tre con lanterne e corde per liberarla e non lasciarla lì di notte al freddo. Si doveva anche averne riguardo perché in quei mesi fino in primavera erano pregne e perdere anche un capretto sarebbe stato un grosso danno. Adesso per avere un po’ di latte non occorre più tenere una capra. È più facile andarlo a comperare tutti i giorni ma intanto tutti quanti, anche i dottori elogiano le qualità di quel latte che fa così bene ai bambini e tutti noi abbiamo potuto crescere bene anche perché i nostri familiari avevano due capre in casa. Anche quella era una ricchezza per i poveri. Ugo Busso 1 Con il termine d’Wasseri si identifica quella conca di deiezione alluvionale che risale verso il vallone di San Grato. Il Gründjischbach, denominazione che ritroviamo nelle carte altimetriche tratte dall’IGM, per gli Issimesi viene identificato con d’Wasser o d’Wasseri, ossia le acque intendendo quella zona in cui confluiscono alcuni rivi e ruscelli, il ruscello proveniente dalla zona di Bühl, il torrente Margherita e altri minori. — 4 — A U G U S T A SCHÜTZERSCH-DSCHOANTSCH ELENA, LIXANDRISCH VITUARI U LAURA Éischeme – Kruasi, lljicke moanut 2006 ELENA BUSSO SCHÜTZERSCH-DSCHOANTSCH (*1930), VITTORIA (*1921) E LAURA (*1928) BUSSO LIXANDRISCH Issime – Crose, febbraio 2006 ^ Elena: War sén dschu kannhen leesen allu zseeme un té séwer kannhen ouf in d’almini wa bsinnimich génh un té ^ zu hewenen glugut zu va wéit un dan oabe séiwudschu kannhen leesen zu. Laura: War hen génh glugut mit dam velspigal ol mu ^ dschu hetti gsia, ischt gsinh doa a l’Enfer… Elena: Bsinnimich van aus schwachs Bianki, das ischt gsinh as schwachs, kannhen ouf, ich wiss nöit ol is het ^ dscha kheen mümmer, in d’leidi hets mer beitut… Laura: Hets der glotzit… Elena: …génh mer beitut in d’leidi, bsinnimich doa unner Bel krechtsch krüpp, ischt kannhen doa dür, aswi doa dür, bin kannhen dür un allu d’geiss mer zu un Bianki doa in d’leidi un woa ischt gsinh as weegji um passrun doa hets mer beitut! Un génh, neh! Ich hen génh mussun gian a schnetz wa hen gvrücht drab un nöit mu kannhen darbéi. Vittoria: Ecco, dé ischt déi voart doa auch ouf in Valbounu mir hets mer wélljen geen. Elena: Bélla dir, mir hets génh beitut, génh loan passrun… Laura: Doa ischt auch gsinh in d’leidi? Oh, doa ischt nöit sövvil hübsch. Vittoria: Na, ben, war sén nöit gsinh dür z’vuadruscht, séwer gsinh dangher. Laura: Ja, d’accord, wa hettis der wol auch keen ambri doa tur d’schlucht wértischt kannhen ambri. Elena: Woa hets gsian as söiri leid das dou hescht mussun passrun hets der beitut. Vittoria: Schwétz, witten karrunju, ischt gsinh an pettele, neh, is het kheen as lénhs hoar. ^ Elena: Ah, bsinnamadscha noch déi wéissun geiss. ^ Vittoria: Wa strano das L. bsinndschi nöit… A rasunh dou hescht nöit kheen z’goan, ich bin kannhen vill vérti lee^ sen zu d’geiss, ja, dschu kannhen gian da muarge un té zu ^ ^ dschu gvürt ouf un té zu war sén dschu kannhen gian. ^ Elena: Chaque geiss het kheen dschéin tringju aschuan, ^ doa sua, antschtannen allu wéllu dschi sén gsinh. ^ * Hescht dschu pient ous tur di tringju. Elena: Jia, ous tur di tringji. ^ ^ Laura: Zu wénn dschi sén arrivurut heddudschu mussun ^ troan woa dschi… Vittoria: Ah, ben, chacun… darnoa séntsch kannhen… Elena: Wir hen kheen Kruasi un Rollji, neh? Vittoria: Na, wa ischt nöit gsinh auch d’Réivu? Elena: Meroakul auch Méji, Pöizersch. Vittoria: Ja ambri Rose, dunghmich is séggi gsinh auch. Elena: Jia, war hen kheen déi zien ol vüafzen geiss… Vittoria: Jia, jia antweegen war hen kheen zwienu, dröiu chaque… Laura: Doa S. het nöit kheen d’geiss. J. het nji kheen khén geiss. ^ Elena: Ah, dschiendri hentsch nji kheebe? ^ Vittoria: Na, ich bsinntimich nji das dschi hetti kheen d’geiss. Elena: Eh, unner allz hewer kheeben déi zien, vüefzen geiss. Wénn ischt franh gsinh leid leid, wa z’merteil ich bsinnimich génh das ouf tur déi almini ischt génh gsinh ieber, ouf tur Eeru, un… Elena: Le abbiamo radunate tutte e poi le abbiamo portate su nei beni comunali ma mi ricordo sempre che le sorvegliavamo da lontano, e alla sera andavamo a raccoglierle. Laura: Guardavamo sempre con il cannocchiale per localizzarle, era lì a l’Enfer… Elena: Mi ricordo della vostra dispettosa capra Bianki, quella era proprio dispettosa, andata su, non so se ce l’avesse con me, nei posti più scoscesi mi aspettava… Laura: Si appostava… Elena: Sempre mi aspettava nei posti pericolosi, mi ricordo lì sotto il cocuzzolo di Bel Krecht, andava di là non so come, sono andata io pure e tutte le capre mi seguivano e Bianki lì nel dirupo, dove c’era un passaggio lì mi aspettava! E sempre, neh! Io dovevo sempre munirmi di un bastone ma avevo paura di lei e non le andavo vicino. Vittoria: Ecco allora è quella volta su a Valbona, anche a me voleva dare delle cornate. Elena: Ah, persino a te, mi aspettava sempre al varco, mi lasciava sempre passare… Laura: Anche lì era in un posto pericoloso? Oh, là non è tanto bello. Vittoria: No, non eravamo sul bordo, eravamo in qua. Laura: Sì, d’accordo, ma se ti avesse buttata giù dal canalone saresti precipitata. Elena: Dove vedeva un po’ brutto e tu dovevi passare ti aspettava. Vittoria: Ma dimmi un po’ che carogna, aveva il pelo lungo e irsuto. Elena: Ah, me la ricordo ancora quella capra bianca. Vittoria: Ma strano che L. non si ricordi, si vede che tu non dovevi andare, io sono andata diverse volte a radunarle di mattina, portarle al pascolo e alla sera andare a riprenderle. Elena: Ogni capra aveva la sua campanella e già dal suono le riconoscevi. * Le riconoscevi dalla campanella. Elena: Sì, dal suono della campanella. Laura: Poi quando ritornavate dovevate portarle a casa loro. Vittoria: Ah, sì, ciascuno… dopo andavano… Elena: Noi avevamo Crose e Rollie, neh? Vittoria: No, ma non c’era anche la Riva? Elena: Forse anche Maria, Christille. Vittoria: Sì, giù R. mi sembra pure ci fosse. Elena: Sì, avevamo dalle dieci alle quindici capre… Vittoria: Sì, sì, perché ne avevamo due o tre ciascuno… Laura: I C. non avevano le capre. G. non ha mai avuto nessuna capra. Elena: Ah, loro non ne hanno avute? Vittoria: No, io non ricordo avessero avuto capre. Elena: Eh, in totale avevamo dalle dieci alle quindici capre. Quando faceva proprio brutto tempo ma di solito ricordo che su per quei beni comunali non c’era quasi mai neve, su per Eeru, e… * Perché lì andavate anche in inverno. Elena: Era in inverno che si faceva quel lavoro lì. * In primavera no? — 5 — A U G U S T A *.Antweegen doa sédder kannhen auch da winter. Elena: Ischt gsinh da winter z’tun das weerch doa. * D’oustaga na? ^ Elena: Na, d’oustaga chacun, wénn dschi hen dén gvoan ^ a an gitzunurun hewudschu pheeben zam hous. ^ Vittoria: Eh, darnoa hewudschu pheeben zam hous, wissischt, antweegen a la fin mérze, oaberllje hentsch gvoan a an gitzunurun. ^ Elena: Dé hewudschu pheeben zam hous. * Seeschtmer amum vam wéissen bockh? Vittoria: Doa, an tag hewer khüert lachen un schwétzen ambri im goade, wir sén gsinh uabna, chinn, doa im piellje, un a mumanh darnoa khüerewer, gsiewer d’geiss ambri tur…, zwia manna mit d’geiss ambri tur d’matti, ingier doa d’mattu vuarna ingier, un hewer gseit dar mammu ^ ^ ^ ^ “Dschi hennündsch gstollen ündsch geiss, dschi ^ trianündsch awek ünz Bianki!” Un té zu d’mamma het ^ gseit “Na, na dschi triends nuan unz in d’Kruasi”, a rasunh ^ ^ dschöi ischt gsinh avertiriti, wissischt, “Dschi ^ brinnhandscha amum”. Un dé séntsch gcheen ingier in ^ d’Kruasi, woa dscha heji troan i, etwa im piellje ol ganh wissu woa. Laura: Woa ischt gsinh z’hofzit. ^ Vittoria: Ja, ja wa dschi hen kheen gmachut z’hofzit etwa doa in ürriun piellje, wiss nöit ol séntsch gsinh dür im Prospersch piellje? Elena: Wier het gmachut z’hofzit doa, d’muma M.? Laura: Dar éttru M.. Elena: Dar éttru M. un d’muma M. un dar éttru J. un d’muma Elena: Dé da wéissen bockh hettintsch nuanh troan dar muma M., nöit T.? ^ Vittoria: Ja, T., T. hentsch dscha troagen, antweegen T. ischt etwa wol gsinh is auch z’hofzit, wénn ischt gsinh ^ dschéin wetta… ^ Elena: Ah, ischt nöit wénn hets dschi gmannut is … ^ Vittoria: Na, wénn het dschi gmannut muma M., antwee^ gen das dschöi ischt gsinh junnhur dén T., un dé hentsch nen troagen a T. da wéissen bockh; un dé hejis gseit “Hetteder sollun goan süjen an bockh nöit a wéiss geiss”, das doa bsinnimich das hentsch zéllt… Elena: Ischt gsinh z’nen vinnen da wéissen bockh… Vittoria: Eh già! Ischt gsinh z’nen vinnen a wéissen bockh, du a rasunh, hentsch kheen gwisst das ischt gsinh ^ ^ disch wéiss geiss dé séntsch dscha kannhen gian. Vittoria: Ah ja, d’geiss? Jia, jia, ich bin parturut van in d’Réivu, ich bsinnimich van Rose auch das het kheeben… ja z’merteil ischt gsinh Rose das ischt kannhen zu dan geisse. Elena: Zwienu hewer génh kheeben, zwienu ol dröiu… Vittoria: Ja, zwienu? Elena: Zwienu sicher… * Un dé wier das het kheen dröi geiss ischt kannhen dröi toaga? Vittoria: Ischt kannhen dröi toaga… Elena: Wier het kheen zwienu zwien toaga, wier eina an tag, hescht gmachut alli dan tor zu hescht widergriffe. Vittoria: Zu hentsch widergriffe, jia, séwer kannhen in d’Réivu, séwer kannhen gian d’geiss van Rose un té séwer gcheemen in d’Kruasi, doa ischt gsinh auch Josué das het ^ auch kheeben un Schützersch Dschoantsch, un té zu séwer ^ kannhen za Rollju doa zam éttre Jean un té ündschu un té Maju. Elena: No, in primavera, ognuno, quando iniziavano a fare il capretto le tenevamo a casa. Vittoria: Eh sì, dopo le tenevamo a casa, sai, perché alla fine di marzo, aprile iniziavano a fare il capretto. Elena: Allora le tenevamo a casa. * Mi racconti di nuovo del caprone bianco? Vittoria: Lì, un giorno abbiamo sentito ridere e parlare nella stalla, noi eravamo sopra, eravamo bambini, lì nel soggiorno, e un momento dopo sentiamo, vediamo la capra bianca giù per… due uomini con la capra giù per i prati, il prato lì davanti, e abbiamo detto alla mamma “Ci hanno rubato la capra bianca, ci portano via la nostra Bianki!” Poi la mamma ha risposto “No, no, la portano solo fino a Crose”, si vede che lei era stata avvisata, sai, “Ce la riportano di nuovo”. Sono quindi scesi a Crose, dove l’abbiano portata non so, forse nel soggiorno o chissà dove. Laura: Dov’era la festa di nozze. Vittoria: Sì, sì, avevano fatto la festa nel loro soggiorno, penso, oppure non so, nel soggiorno di Prospero. Elena: Chi ha fatto la festa lì, la zia M.? Laura: Lo zio E. Elena: Lo zio E. e la zia M. e lo zio E. e M. Allora il caprone bianco l’avrebbero portato solo alla zia M., non a C.? Vittoria: Sì, a C. era destinato, perché C. pure era a nozze, se c’era sua sorella… Elena: Ah, non era quando si è sposata lei… Vittoria: No, era quando si è sposata la zia M., lei era più giovane di C., e così lo hanno portato a C. il caprone bianco; allora lei avrebbe detto “Dovevate andare a cercare un caprone, non una capra bianca”, quello mi ricordo che raccontavano… Elena: Bisognava trovarlo il caprone bianco… Vittoria: Eh già, bisognava trovarlo un caprone bianco, si vede che sapevano che c’era questa capra bianca, così sono andati a prenderla. Vittoria: Ah sì, le capre? Sì, sì, io sono partita dalla Riva, mi ricordo di Rose, anche lei aveva… sì, generalmente era Rose che seguiva le capre. Elena: Due le abbiamo sempre avute, due o tre… Vittoria: Sì, due? Elena: Due sicuramente… * E chi aveva tre capre le portava per tre giorni? Vittoria: Andava tre giorni… Elena: Chi ne aveva due, due giorni, chi una un giorno, facevi tutto il giro e poi ricominciavi. Vittoria: Poi si ricominciava, sì, andavamo alla Riva a prendere la capra di Rosi, poi salivamo a Crose, lì c’era Giuseppe che ne aveva pure, i Busso, poi a Rollie dallo zio Giovanni, poi le nostre e quelle dei Ronco. Laura: C. e P., quando erano lì a Rollie, non avevano… Elena: Non mi ricordo. Vittoria: No, C. e P. non mi ricordo avessero avuto le capre, penso non avessero neanche le mucche; io ricordo soltanto che quando è nato S. e C. lo allattava, e Domenico aveva tanto male agli occhi, è andato da C. a farsi mungere negli occhi. Era la medicina, una volta c’era quella medicina lì. E così facevamo il giro e tornavamo su nei beni comunali, portavamo su le capre e poi le sorvegliavamo tutto il giorno, sai… * Stavate tutto il giorno con le capre? Vittoria: No, non eravamo su, neh, tornavamo indietro, non rimanevamo su con le capre, risalivamo alla sera ma di giorno le guardavamo da lontano, che direzione — 6 — A U G U S T A Laura: C. un P., du das séntsch gsinh doa za Rollju, hentsch nöit kheen… Elena: Bsinnimich nöit… ^ Vittoria: Na, C. un P. bsinnimich nöit das dschi hetti ^ kheen d’geiss, dschi hen njanka… in dar iesti hentsch njanka kheen d’chü, ich dénghien njanka das hettintsch kheeben chü; ich bsinnimich nuan das wénn ischt gwuarte S. das C. het mu keen z’sougen un Domenico het kheen vill wia an d’auge, ischt kannhen dür z’C., ischt mu kannhen tun z’melhjen in d’auge. Ischt gsinh remmedi, a voart ischt gsinh déi remmedi doa. Un dé hewer gmachut dan tor un séwer kannhen amouf in d’almini, hewer gvürt ouf d’geiss ouf in d’almini, un té zu hewenen glugut zu allen tag, wissischt… * Sédder gsinh allen tag mit dan geisse? Vittoria: Na, war sén nöit gsinh ouf, neh, war sén gcheen hinner, war sén nöit blljibben ouf mit dan geisse, séwer kannhen amouf dan oabe, ma tagsch hewenen glugut zu, ^ glugut woa dschi wérti kannhen un té zu darnoa séwer kannhen un éttlig vérti séntsch anzana gcheemen antweegen wénn hettesch nen keen soalz, as söiri, hentsch gwisst das hentsch areit z’soalz so dé séntsch gcheemen, an^ zana vill vérti, un süscht séwudschu kannhen gian woa ^ ^ ^ dschi sén gsinh; hewudschu gvürt, chacun het dschu troa^ gen amum woa z’dschu het kiet un té dé hewer kheen glljéivrut sua dan tor, ischt kannhen glljéivriti sua là, chacun ischt kannhen sövvil geiss das hets kheeben, ischt ^ ^ kannhen dschu vüren awek un dschu wider kannhen gian dan oabe. * Un chaque joar hedder töischut wier het gvoagen a dan tor? Vittoria: Ah ben, das doa bsinnimich nöit, dénghien nöit, war sén etwa kannhen sua… wier das het wélljen voan a ischt mogoara kannhen. * Sén gsinh d’boffi comunque, ol di töchtiri… Vittoria: Ja, ja, ich auch bin kannhen vill vérti, Honere ischt kannhen, bsinnimich auch ischt kannhen méin mamma anzana, mogoara das wir sén grech kannhen in d’schul. Wénn di hescht gwisst das hescht kheen den tor ^ heschti mussun aréndschurun, wissischt, chacun het mussun müssurun wier goan un dé séwer kannhen sua wi is het kaputurut, wier das het kheen zéit un wier das het muan goan, déi toaga doa hescht mussun goan, ja mussun, wénn hescht kheen gvoan a dan tor bischt kannhen süscht hetti mussun goan as annes. Elena: Mogoara ischt gsinh da schnia mia in d’matti z’goan dür doa zan uabre Rollji, zu ouf in d’almini ischt nöit gsinh schnia, anfor das hetti franh gschnout, bsinnimich nöit das hetti sövvil gschnout. Laura: Doa z’guvver dür unz zam gruasse stein, doa he^ scht dschu gloan un darnoa séntsch kannhen; van doa dür ischt gsinh woase… Elena: Hentsch gvunnen z’essen… Laura: Però as zéitji hescht nümmi muan loan goan d’^ geiss antweegen dschi hen kheeben allz gleit déi baumjini… ^ Elena: Vür das in d’Birriuku hescht dschu nöit muan lécken, ischt auch gsinh allz baumjini. Vittoria: Invece dür doa wider dan gruasse stein, d’Ronhtschiti…[dopo Bel Krecht Krüpp per andare a Eeru, più percisamente sotto Eeru]. Elena: Ouf wider Eeru… Vittoria: Ouf wider Eeru, in d’Eeru vétt… Gaby, Issime-Saint-Michel, pastorelli nei pressi dell’alpe Tresinot verso il colle della Vecchia (inizio XX sec.) (g.c. Archivio Baccoli) prendevano e poi andavamo e certe volte tornavano anche da sole, perché se davi loro del sale, un pochino, sapevano che avrebbero avuto il sale, e venivano anche sovente, altrimenti le andavamo a prendere dove erano, le riportavamo a ciascun padrone e così avevamo finito il turno, finiva così, ognuno in proporzione alle capre che aveva le portava al pascolo e andava a riprenderle alla sera. * E ogni anno cambiavate il turno? Vittoria: Ah bene, quello non lo ricordo, non penso, andavamo così, chi voleva magari andava. * Erano comunque i ragazzi, o le ragazze… Vittoria: Sì, sì, anch’io sono andata tante volte, Onore è andato, ricordo pure che è persino andata mia mamma, forse noi eravamo a scuola. Se sapevi di avere il turno ti dovevi arrangiare, sai, ognuno doveva pensare a chi dovesse andare e così come capitava, andava chi aveva tempo e poteva andarci, quando avevi iniziato il turno dovevi andarci altrimenti avrebbe dovuto andarci un altro al tuo posto. Elena: Magari nei prati c’era ancora la neve, attraversando Rollie di sopra, ma su era quasi sempre libero, salvo proprio nevicasse, non ricordo avesse nevicato tanto. — 7 — A U G U S T A Laura: Bsinnimich nuan van in Eeru… Vittoria: Ah na! Bel Krechtsch krüpp, zu ischt gsinh d’Ronhtschiti, zu ischt gsinh… Elena: Eeben Bel Krechtsch krüpp, das eebensch dür het kheissen d’Ronhtschiti? Vittoria: D’Ronhtschiti hets kheissen un té zu ischt gsinh d’Schwoarzun Blatti… Elena: Jia das ischt aschuan gsinh gchierts dür… Vittoria: …gchierts dür va hindarna, zu ischt gsinh d’Eeru vétt un té zu ischt gsinh dangher héi sua… Elena: Riundu vatt? Na, ouf in den krüpp, Bel krechtsch krüpp, ouf doa wi hets kheisse? Munt de l’enfer! Vittoria: Munt de l’enfer, ja ischt wol doa das ich hen wélljen seen… Laura: Ischt doa das war sén gsinh kannhen chroutun ich un dou un G.? Vittoria: Jia, jia, Munt de l’enfer… Elena: Un z’Albezei! Vittoria: Z’Albezei! Giost, bròavou! Ischt mer nöit gcheen da noame. Laura: A voart, an tag, V. het gseit “Ouf doa ischt noch a ^ schiene joa wa da muarge müssüwünündsch bürren za 2 vünve un goan ouf. Jia, jia, bürt pro [piemontese] za vünve wa wénn war sén arrivurut ouf ischt aschuan gsinh dri V. un wiss nöit wéllz ischt gsinh z’andra middumu. Vittoria: Un déi andru voart doa das war sén kannhen ich un P., séwer gsinh gcheemen dan oabe dangher van ouf zar Balmu un hewer gseit “Dou, doa sua ischt noch…” Laura: Ecco, ecco war sén gcheemen zar Balmu, muare da muarge unner dröi, hets gseit, machun a schienz léddillji van eim ellji dröi… Vittoria: …un té zu ischt gsinh dri E., muma M. un S., aschuan ellji dröi doa; wénn war sén arrivurut doa vom Bel ^ Krechtsch krüpp, dschiendri sén gsinh ouf doa sua gchierti, un doa in Bel Krechtsch krüpp hewer khüert a hunn wuppu un hen gseit “Ecco, war sén bélla gschossni”, ischt gsinh de schwoarze hunn das het kheen E., un hewer gseit a P. ^ “Nunh chierewünündsch amum hinner”, séwer kannhen chieren dangher héi wider z’Albezei un té gcheemen ouf tur ^ Munt de l’enfer, hewenündsch zuagen ouf doa un, ben, hewer noch gmachut a stul léddini, ouf doa von déi séitu doa ischt nöit kannhen khémentsch, antweegen doa ischt tscheb, tscheb z’goan ouf, ja nöit sövvil z’goan ouf wi cheemen ingier mit a léddi, antweegen doa hescht mussun wissun wi di heschti kheen z’chieren, ol di hejischt kheen z’^ chieren va sua un hewenündsch gmachut a stul léddini, hewes gchroutut, hewes gloan dérren un té zu hennich gseit a P. “Nunh chroutewer, ich machemer a léddi” un té binnich gcheemen ingier, ich hen kheen Lucia lljicks, hen mussun cheen ingier geen z’souge antweegen wir hen ^ kheen gmüssurut nündsch machun a léddi van eim un té ^ cheemen un um nöit das hettintsch muan ündsch goan gien awek da joa P. ischt blljibben ouf doa, ischt blljibben doa z’chroutun un ich hemmer gmachut d’léddi un bin gcheemen ingier geen z’sougen dam chinn z’mittag; hennich kiet z’ambéisse un hennich troagen ouf a P. sua hewer noch gchroutut alle noamittag ich un P. un té zu séwer noch kannhen ^ ouf as poar toaga drouf, basta hewenündsch gmachut ouf franh a schiene houfe léddini dors hoei. 2 Laura: Passata la pietraia lì al grosso masso le lasciavi e andavano da sole, da lì in poi c’era il suolo erboso. Elena: Trovavano da mangiare… Laura: Però c’è stato un periodo in cui non potevi lasciarle andare perché avevano piantato degli alberelli… Elena: Per questo motivo anche alla Birriaca non le potevi far pascolare, là pure c’erano gli alberi nuovi. Vittoria: Invece di là verso il grosso masso, a Ronhtschiti …[dopo Bel Krecht Krüpp per andare a Eeru, più percisamente sotto Eeru]. Elena: Su verso Eeru… Vittoria: Su verso Eeru, nelle cengie di Eeru… Laura: Ricordo solo di Eeru… Vittoria: Oh, no! Il cocuzzolo di Bel Krecht, poi c’era Ronhtschiti, poi c’era… Elena: In piano dal cocuzzolo di Bel Krecht si chiamava Ronhtschiti? Vittoria: Ronhtschiti si chiamava, poi c’era Schwoarzun Blatti… Elena: Sì, quello era già rivolto di là… Vittoria: ...rivolto dietro, poi c’erano le cengie di Eeru, poi c’era di qua… Elena: Riunduvatt? No, su quel cocuzzolo di Bel Krecht, su lì come si chiamava? Munt de l’enfer. Vittoria: Munt de l’enfer, è ben lì che volevo dire… Laura: È lì che eravamo andate a falciare io, te e G.? Vittoria: Sì, sì, Munt de l’enfer. Elena: E Albezei! Vittoria: Albezei! Giusto, brava! Non mi veniva il nome. Laura: Un giorno V. disse “Su là c’è ancora un bel pezzetto da falciare, ma alla mattina dobbiamo alzarci alle cinque”, sì, sì, ci siamo ben alzate alle cinque ma quando siamo arrivate su c’era già T.V. e non so più chi con lei. Vittoria: E quell’altra volta che siamo andate io e P., alla sera eravamo partite da Balmu e abbiamo detto “Di lì c’è ancora…” Laura: Ecco, ecco, venivamo da Balmu, domani mattina in tre, disse, fare un bel fascio ciascuna tutte e tre… Vittoria: …poi vi erano là E., la zia Md. e S., già tutte e tre lì… quando siamo arrivate lì sul cocuzzolo di Bel Krecht loro erano su là e ci voltavano le spalle e lì sul cocuzzolo di Bel Krecht abbiamo sentito abbaiare un cane e io dissi “Ecco, siamo belle che fritte”, era il cane nero che aveva E., e abbiamo detto a P. “Adesso ritorniamo indietro” e ci siamo dirette poi verso Albezei e salite a Munt de l’enfer, ci siamo trascinate su di là e abbiamo ancora falciato tanti fasci, da quella parte non saliva nessuno perché lì è molto difficoltoso salire, ma ancora di più scendere con un carico perché dovevi sapere come girarti, di qua o di là, e ci siamo fatte tanti fasci, l’abbiamo falciato e lasciato seccare e poi ho detto a P. “Adesso falciamo, io mi preparo un carico”, poi sono scesa, avevo Lucia piccola e l’allattavo al seno, perché noi avevamo pensato di prepararci il fascio e tornare, non pensavamo di trovare altra gente. P. è rimasta là a falciare e io mi sono preparata il fascio e sono scesa ad allattare la bimba a mezzogiorno; ho poi preso il pranzo e l’ho portato a P. così abbiamo ancora falciato tutto il pomeriggio io e P., siamo poi risalite dopo qualche giorno, basta, ci siamo così preparate un bel mucchio di fasci di fieno secco. “pro” in piemontese è un avverbio che di per sé vale “basta, a sufficienza, basta così”, ma ha un uso molto comune con valore rafforzativo di certo che ...., sicuramente, sì che... — 8 — A U G U S T A VITORSCH MARÉJI Éischeme – z’undra Proa, le 23 mérze 2006 MARIA STÉVENIN (*1917) Issime – Pra, il 23 marzo 2006 Maréji: Antweegen war hen génh ghüt in d’almini déi geiss, wissischt, un té darnoa wénn ischt gcheen la fore^ stale, dschi hen kheen manhal z’machun l’impiantasion, allz ouf hinner d’ketschi, un darnoa hewer mussun lést lécken awek d’geiss, antweegen wénn goantsch nell’impiantasion, doa krat kheen gsétzt ellji d’baumjini, doa woa ^ ischt gsinh as söiri hialts, wissischt, sua as poar dschen^ nechtri un etwas duarna, wa noch dschi hen kheen wéiti ^ ^ z’hüten, disch geiss, dschi hen kheen wéiti z’essen, wissischt, chieren um dabbiri tur d’almini, un wértensch mer kannhen in d’bauma hetti kiet la mülta, hettensch mer kessen d’geiss bélla leebunu. * Wa wénn? ^ ^ Maréji: Hettudschu mussun varchaufen, eh, hettuwudschu ^ varchauft, was willischt doa tun, hennündsch grout déi ^ geiss worom sén gsinh sövvil lljiaub geiss, dschi hen kheen génh a vloame wi…, un génh kheen d’milch unz, villje unz za Winnachte. * Ah, unz za Winnachte, da summer un za Winnachte. Maréji: Unz za Winnachte, van d’oustaga das hen gitzunurut unz za Winnachte hewer génh noch kheen z’melhjen, nöit franh dé grosses quantité wa… un déi mil^ ch ischt gsinh guti, is het keen gut chiedscha das ischt gsinh wi funtunu un an guten gut, dri d’geissumilch darmit mit dar chünumilch, hewer gmischlut, dou, gmischliti, wa is het keen an gute veisste chiesch, ischt gsinh wi essen funtunu, krat glliéich, guti… War hen kheen secksch zücki, allu oan huarni, antweegen déju sén lljiaubu un d’milch gutu, dén déju za huarnu, déju za huarnu wéilu spürrentsch as söiri dan gut stoarhi in d’^ ^ ^ milch, mussischt dscha wélljen, wir, ündsch hettawa dscha ^ njanka kheen manhal z’dscha wélljen, wénn z’is gsinh as söiri réifi, nöit sübit apeina gitzunurut, na! Wa a voart dür da summer ischt gsinh milch wi wérti gsinh chünumilch. * Un da summer un za Winnachte d’milch ischt vür d’chalber auch? Maréji: Darnoa hentsch pheeben as chalb d’oustaga wénn d’chü hen gchalburut, wénn ischt gsinh as stirlji ol dinnhi sua, was ischt nöit gsinh um norrun, wéilu hewer gnorrut, darnoa sén gsinh deeru z’lécken awek un wissischt wol da lebtag van .. dei pòvri contadin wi z’ischt gsinh, génh asparren um heen etwas, un malgré das ischt nöit gsinh sövvil solda, du ischt nöit gsinh wi nunh, das alli d’weeld het solda. D’oaltu lljöit, bsinnimich du, wénn wir hen grürt, das binnich noch gsinh zam hous, binnich nöit gsinh gmannuts, ischt noch gsinh méin pappa. Dan tor, dan tor hentsch génh gmachut… z’meischta das ischt kannhen ischt génh gsinh méin ma, wir hen kheen seckschu darwil…, un sua is het kiet auch déi van d’na^ chpiri, doa van im kantunh, wissischt! Dschi hen ellji kheen an geiss d’uppugu lljöit a voart eina ol zwienu hentsch ellji kiet, doa ischt gsinh Clotilde, d’mamma van Maria ambri doa unna, un té ischt gsinh Vindualasch [Stéve^ nin originari di Niel, Gaby], dschi hen auch kheen zwienu, Vindualasch. Un té ischt gsinh doa woa is het kiet da housunh, grüscht d’ketschi, doa hinner déja van Romanin, doa sua ischt gsinh an oalta, auch das ischt gsinh gmanniti wa is het kheen as töchtirllji un té ischt mu gstuarbe wénn is het kheen sibben, acht joar. A la fin dar ma [della famiglia Trenta] ischt gstuarbe un té ischt blljibben Maria: Perché pascolavamo nei beni comunali, quelle capre, sai .. e poi quando è venuta la guardia forestale avevano bisogno di fare delle piantagioni, tutta la zona dietro alle case e dopo abbiamo dovuto disfarci delle capre, perché se andavano nelle piantagioni, lì appena piantati tutti gli alberelli, lì dove il suolo era un po’ liscio, sai .. qualche ginestra e qualche rovo, ma avevano ancora spazio per pascolare queste capre, avevano ancora posto per mangiare, sai .. vagando per i beni comunali, se fossero andate nella piantagione avrei preso la multa, mi avrebbero mangiato le capre belle vive. *Ma quando? Maria: Le abbiamo dovute vendere, eh! Le abbiamo vendute, cosa vuoi fare. Ci è dispiaciuto, perché quelle capre erano molto buone da latte. Avevano sempre delle belle mammelle come …e sempre fatto del latte quasi fino a Natale. * Ah fino a Natale, in estate e fino a Natale. Maria: Fino a Natale. Dalla primavera quando hanno fatto il capretto, fino a Natale avevamo sempre ancora da mungere. Non delle grosse quantità ma .. E quel latte era buono, dava dei buoni formaggi che erano come fontina, e un gusto squisito, mescolando il latte di capra con quello vaccino, abbiamo mescolato, di .. mescolato dava un ottimo grasso formaggio, era come mangiare fontina, ugualmente buono. Avevamo sei capre senza corna, perché quelle sono molto lattifere e il latte è ottimo, più di quelle con le corna, il cui latte è spesso un po’ forte, dovresti farlo bollire. Noi non avevamo neache bisogno di farlo bollire, quando era un po’ maturo, non subito dopo aver partorito il capretto, no! Ma in estate era come latte vaccino. * E in estate e a Natale il latte era anche per i vitelli? Maria: Dopo tenevano un vitello in primavera, quando le mucche partorivano. Se era un torello … che non era per allevare. Certe volte si allevava, poi ce n’erano di quelli da vendere e … Sai ben la vita dei poveri contadini com’era, sempre risparmiare per avere qualcosa; e malgrado ciò non vi erano tanti soldi. Allora non era come adesso che tutti hanno dei soldi. Gli anziani mi ricordo allora, quando noi facevamo il burro, io ero ancora a casa, non ero ancora sposata, c’era ancora il mio papà … [vi era l’usanza di regalare un po’ di latticello, con una noce di burro fresco]. Il turno, il turno lo facevano sempre .. il più che andava era sempre mio marito. Noi ne avevamo sei quindi .. Così lui prendeva anche quelle dei vicini, lì del villaggio, sai .. Avevano tutti una capra, povera gente allora, una o due ce l’avevano tutti. Lì c’era Clotilde la mamma di Maria lì sotto, e poi c’era Vinduala [Stévenin originari di Niel, Gaby], ne avevano anche due, i Vinduala. Poi c’era quella lì dove ha preso la casa, aggiustato l’abitazione . lì dietro a quella di Romani-n, lì c’era un’anziana donna, anche lei era sposata ma aveva una bambina che è morta quando aveva setto o otto anni. Alla fine il marito [della famiglia dei Trenta] è morto ed è rimasta sola, era una zia di Christillin Vitale [Chrischta]. * Le mettevano tutte insieme le capre. Maria: E allora prendevamo le capre degli uni e degli altri. Di solito ci andava Romano, quando era inverno che non c’era tanto lavoro, le accompagnava fin lassù, vedi là — 9 — A U G U S T A Issime, il mayen di Bourinnes nel vallone omonimo. Anno 1908 (g.c. E. Pomati) auch einigi, ischt gsinh a muma van Chrischtentsch Vital [Chrischta]3. * Hentsch gleit allu zseeme d’geiss? Maréji: Dé darnoa hewer ellji kiet d’geiss van eini un van d’endri, den tor ischt kannhen, z’merteil ischt génh kannhen Rumen, wénn ischt gsinh da winter das ischt nöit ^ gsinh sövvil weerch, hets dschu akumpunjurut ouf doa, gsischt doa woa ischt allu déi bantschi… * Ja, Heerdugun Écku. Maréji: Heerdugun Écku, doa ischt as eebenz krüppji woa ^ z’uabruscht sén gsinh d’almini, mu het dschu génh gvürt ouf doa un doa hentsch kiet da weg un séntsch gfillurut ouf, ouf tur Zappil, ouf tur da Lénnhe Vatt un ouf tur d’Écki un d’uabrun Écki un allz ouf doa, séntsch mu kannhen süjen z’essen. Wénn z’ischt gsinh ieber, wénn ischt gsinh da schnia hescht nöit mua wa wénn ischt gsinh ieber sént^ sch génh kannhen ouf, dschu akumpunjurut unz doa un doa séntsch kannhen un té dan oabe wénn ischt gsinh l’òoura [patois di Gaby], méin mamma het génh ghannut, war hen génh gmachut laub, allu d’éscha, un is ischt nöit gsinh sövvil gruass wi dou wa… ischt gsinh più o meno wit ich, là, wa ischt gsinh leebini z’streeben ouf tur déi bauma, wi is wérti … ah ..uno scoiattolo…ouf tur all déi grampi, trommut an grampe un troan ambri un ich hen abiotturut unna un génh gmachut houfi laub, troagen in di dilli, war hen génh kheen z’scheermen phieri, galataz, un ^ d’oaltun ketschi wissischt wol wi dschi sén, ischt dé nöit gsinh vür le luxe, sén gsinh mia vür widerzin le nécessaire vür z’via, wénn het mu wéilu kaputurut z’zéit das het gmennussurut génh griffen déi veschla, gmachut déi veschla un troagen in di dilli, anche nöit sövvil dors, un té kannhen lécken ouf tur déi galataza ischt gsinh allz… un té arüscht, tan un tan, wénn ischt gsinh hübsch ^ ^ séwudschu kannhen arüschen un hewu dschu gleit im stul… Lebtaga das mu het gmachut, méis chinn! ^ * Un mit dar milch hescht gmachut chiedscha. Maréji: Mit dar milch wénn ischt gsinh réifi, d’oustaga là, wénn ischt gsinh d’gitzini dé éttlljigi henwer varchauft, war 3 dove ci sono tutte quelle cengie. * Sì, Heerdugun Écku. Maria: Heerdugun Écku, lì c’è un cocuzzolo pianeggiante, dove in cima ci sono i beni comunali. Le si portava sempre fin lassù e lì prendevano il sentiero e su per Sappil, su per Lénnhe Vatt, e su per Écki e Écki di sopra. E su di là andavano a cercarsi da mangiare, quando il terreno era libero dalla neve. Quando c’era la neve non potevi, ma quando questa non c’era andavano sempre su. Le accompagnavamo fino lì e poi andavano da sole, e alla sera quando era ora, la mia mamma preparava sempre, facevamo sempre delle fascine di foglie, tutti i frassini, e lei non era grande come te, ma .. Era più o meno come me, ma era svelta ad arrampicarsi sugli alberi come fosse .. ah .. uno scoiattolo .. su per tutti quei rami, tagliato un ramo e buttato giù. Ed io toglievo le fronde e preparavamo sempre dei mucchi di foglie, portate nel fienile, avevamo dei ripari dappertutto, solaio e sai ben le vecchie case come sono, non erano di lusso, ma per ritirare il necessario per il bestiame. Se capitava che il tempo era minaccioso, preso in fretta quei fasci, fatto quei fasci e portato nel fienile, anche se non era tanto secco, e messi su per quelle soffitte. E poi andavamo ogni tanto a rivoltarle per farle prendere aria, scuoterle ogni tanto finchè asciutte le ammucchiavamo. Delle vitacce facevamo, caro mio! * E con il latte facevate il formaggio. Maria: Con il latte quando era maturo, in primavera. Quando c’erano i capretti, alcuni li abbiamo venduti, ne abbiamo tenuto solo uno per noi, avevamo ancora … Non c’erano ancora dei frigoriferi e congelatori, non sapevamo dove conservare. Quando macellavamo un capretto, ne prendevamo un pezzo ciascuno, lì i miei fratelli del ma- Nel villaggio di Champriond negli anni ’50 le famiglie possedevano: Munuku Rumen 8 capi, Chrischtentsch Maria 2 capi, Vindualasch 1 capo, Chrischtentsch Vitale 2 capi. — 10 — A U G U S T A hen krat pheeben eis vür ündsch, hewer noch kheen… a rasunh du ischt nöit gsinh dei frigo un dei cungelator, war hen nöit gwisst woa lécken, wénn di hescht gmétzkut eis war hen kiet a stükhjilti van eim, doa méin brudara van dar ma un Vituari, hennich noch troan as stükhjilti dar mam^ mu das dschi het gmachut un fricandò mit dar puluntu, ischt gsinh guts, gitzuvleisch. War hen nöit kheen dei cun^ gelator, war hen pheeben sua as söiri vür ündsch, war hen 4 kheen an balmu dür in Zéngjiltini , dür im woald, war hen kheen wi as hous, an balmu doa bieri, dür tur da woald, doa in Zéngjiltini, doa béi dan bach ouf…un doa ischt gsinh wi an balmu, ich hen gleit dri trüchni, vür goan gia vür da summer wénn mu het kheen manhal, wénn war hen nöit kheen wéiti gnug dangher héi, wissischt, woa war ^ ^ hennündsch pheeben, wissischt wol woa war hennündsch ^ pheeben, woa dschi hen grüscht nunh… rito e Vittoria. Ne ho por tato ancora un pezzetto alla mamma, che lo faceva in umido con la polenta. Era buona la carne di capretto, non avevamo i congelatori, ne tenevamo così un po’ per noi, avevamo una grotta di là a Zéngjiltini, di là nel bosco, avevamo una specie di cucina, una grotta lì vicino al torrente [dove conservavano la carne]. C’era una grotta, io vi mettevo le foglie secche, per andarle a prendere in estate quando ne avevo bisogno, non avevamo abbastanza posto di qua, sai … dove abitavamo, sai ben dove abitavamo, dove hannno ristrutturato adesso. HANTSCH IMELDA Éischeme – Bennetsch, lljicke moanut 2006 IMELDA RONCO HANTSCH (*1935) Issime – Bennetsch, febbraio 2006 Im Duarf du, déi zéiti hemmu nöit gvunnen z’chaufen milch in d’büttiji un hettumu auch nöit kheen d’solda um ^ dscha chaufen sua z’merteil hentsch kheen an zugeiss, un déi geiss um nöit goan varlljiren allz das zéit séntsch ^ kannhen an tag eis an tag z’andra dschu hüten, z’merteil d’geitala, d’boffi ol töchtirlljini… un an boffu het gseit ar gotta das het kheen nöit lannhuscht varluaren dar ma, hets mu gseit: “Léck a as tringhjilti deer geiss, déja tumer zar^ goan, ich vinnandscha nümmi, muss génh goan süjen, is geit nöit mit dan andre, ischt as hessigs, as schwachs” un ^ disch gotta seemu: “Ja wa ich hen z’trounen, man nöit lécken a di tringhiu dar geiss” un d’boffu: “Trounen mascht dou, d’geiss het nöit manhal z’trounen wa léckmer a ^ as tringhjilti der geiss süscht ich goandscha nümmi hüten” un sua hets mussun lécken a as tringhjilti dar geiss wénn ^ wol dschi het kheen z’trounen antweegen déi geiss doa, nöit sövvil gwannu eina mit dan andre, sén nöit kannhen zseeme ol ischt génh zargannhe aswoar un sua voilà, doa, un wénn d’sunnu ischt arrivurut séntsch kannhen ouf tur d’almini mit dem schuppitji geiss das sén gsinh… In Capoluogo, a quei tempi, non si trovava il latte nei negozi, e neanche avevano i soldi per acquistarlo, così quasi tutti avevano una capra e per risparmiare tempo andavano a turno a portarle al pascolo tutte assieme, di solito erano gli adolescenti, ragazzi o ragazze. Uno di questi ragazzi disse un giorno ad una signora rimasta vedova da poco: “Metti una campanella a quella capra, essa se ne va e non la trovo più, devo sempre andarla a cercare, non va assieme alle altre, è dispettosa, è cattiva” e la signora: “Sì, ma io porto il lutto, non posso mettere la campanella alla capra”. E il ragazzo: “Il lutto lo puoi portare tu, la capra non ne ha bisogno, ma mettile la campanella altrimenti io non la porto più al pascolo”. Così la signora dovette mettere la campanella alla capra anche se portava il lutto, poiché quelle capre lì, non troppo abituate a stare insieme, se ne andavano per conto loro. Ecco, quando giungeva il sole salivano ai beni comunali col gruppetto di capre. Z'NOTTRISCH BRUNO Éischeme – Duarf, mérze 2006 BRUNO LINTY Z'NOTTRISCH (*1937) Issime – Capoluogo, marzo 2006 * Wénn d’willeschmer etwas zélljen… Bruno: Va ben, ich bsinnimich das, nel ’61, z’létscht joar das ischt gsinh la tassa bestiame, da winter ischt mu passrut ter allu d’ketschi un hentsch kunsunjurut vüvvil chü ^ dschi heji kheen, vüvvil geiss un allz un ischt gsinh zwurru zam joar, da summer, het mu khier t um d’alpi; ich bsinnimich das ischt gsinh le 12 septembre un binnich amoddurut da muarge phend va héi, binnich kannhen z’Valniro, exactement za Jatziunu, ischt gsinh Benjamen, eis van dar Pischu das ischt gsinh z’alpu doa, darnoa hen- * Se mi vuoi raccontare qualcosa… Bruno: Va bene, io mi ricordo che, nel ’61, l’ultimo anno in cui vigeva la tassa bestiame, in inverno si passava per tutte le case per controllare il numero di bovine che la famiglia possedeva, quante capre, ecc., questo si faceva anche in estate, quindi due volte all’anno. In estate si passava per gli alpeggi; mi ricordo che era il 12 settembre e sono partito di buon mattino, da qui sono andato a Valniro, a Jatzjini esattamente, là vi era Beniamino, un signore di Fontainemore che era lì all’alpeggio, poi ho at- 4 “di Zéngjiltini” sono dei terrazzamenti sopra il prato detto Varrinnhi prima del villaggio di Zuino, dopo il torrente Pennenbach. Nella balma, Zam Goade - così chiamata anche se non utilizzata come stalla - si ritiravano in autunno le foglie raccolte nel bosco che servivano poi come lettiera per le vacche, le si ritiravano durante l’inverno. La balma si trova aldilà del Pennenbach dopo il villaggio di Tschendriun sopra i terrazzamenti detti Zéngjiltini. All’interno della balma si trova, lungo una parete, un buco simile all’imboccatura di un forno, al suo interno fa molto freddo, Maria poneva della carne di capra per spezzatino che si conservava per almeno un mese, un mese e mezzo. — 11 — A U G U S T A nich trevursurut dür, binnich kannhen in Tschachtulljustein, doa ischt gsinh z’alpu eis van Dunnaz, zu binnich kannhe in Stuale ischt gsinh z’alpu eis van zar Pischu, Pariassa, darnoa binnich kannhe ouf in d’Mühnu ischt gsinh zwei van Uberlann, Jean Stévenin un Mario Stévenin noch, darnoa binnich gcheen ingier in d’Pioani, in d’Pioanu, ischt gsinh Mimmo Lazier das het kheen Flavia - z’hüten - im oarm, das het nuan kheen zwia moanada, antweegen Flavia ischt gsinh gwuarte juillet, un doa in d’Pioanu ischt auch gsinh eis van Uberlann das het kheisse Robert Jaccond un hets mer kunsunjurut d’chü un allz was is het kheen auch is, zu hennich trevursurut dür, binnich kannhen in Prassavinh, passrut dür Preschtevenuart un arrivurut in Prassavinh un binnich kannhen dür in Méttelti hennich gvunnen Pétératsch Jodéfji, zu binnich kannhe ouf in d’Vlüekhji hennich gvunne, ischt gsinh dar éttru Luéi, Angelo Mar tinetti, ischt gsinh eis van Kwarrusu, un darnoa hennich gchiert um ellji d’endri das sén gsinh in Sen Kroasch Gumbu, ingier un ingier. * Un dé dou bischt kannhen markurun vüvvil chü hentsch kheeben un bischt kannhen gian d’solda auch? Bruno: Vüvvil chü hentsch kheen, vüvvil… na, d’solda ischt arrivurut la tassa un séntsch kannhen zalle, dénghien, all’esattoria. * Ah, dou hescht nöit kiet d’solda, bischt nuan kannhen schréiben vüvvil… ^ Bruno: Na, eh! Antweegen ündschi sén gsinh zar Stubbu z’alpu du un té da muarge drouf bsinnimich binnich kannhen dür in Valbounu, das ischt gsinh a fümmala, Chincheré van dar Pischu, het kheen vünv chü un zu binnich gcheen ingier in commune amum z’weerch; un darnoa, le ^ 16 septembre, binnich kannhen in Türrudschun gumbu… * Auch doa bischt kannhen machun dan tor vür… Bruno: Doa hennich gmachut dan tor, z’selb dinh, binnich kannhen in Krédémi ischt gsinh Stoffultsch Vital un dar Früttir, in d’Pioani ischt gsinh César un Flavio, Flavio ischt gsinh as boffilti het kheen zie joar, un ouf in Lei Nir ischt gsinh Attilio Stevenin, Attilio d’la Moulineira hentsch mu gseit, un d’eju, d’eju ischt gsinh aschuan oalti. ^ * Dé ischt gsinh van Uberlann dische héi. ^ Bruno: Jia, jia, dischi héi sén gsinh van Uberlann un séntsch noch gsinh dambor du, noch gsinh ouf in Lei Nir du, ischt gsinh le 16 septembre, un darnoa d’endri joari drouf ^ hentsch dscha kheen bürt, ischt nümmi gsinh. * Un dé dan tor dar geissu sén kannhen machun d’geitala ol… ^ Bruno: Ah, dan tor dar geissu das dschi hen gmachut héi im Duarf, doa an bitz ellji. * Sén gsinh plutot d’chinn ol an bitz ellji… Bruno: Ah, ja, d’boffi z’merteil, ja d’junhu z’merteil, d’junhi eh. Jia, héi im Duarf bsinnimich ischt gsinh dan tor van d’geiss un wir sén gsinh doa zam Preite, Philip du ^ hets dschi pheen z’Tunterentsch, aschuan ellji kheen an troppe van eim, chacun ischt kannhen pour son conte… * Was ischt gsinh das, d’oustaga ol… Bruno: Bélla da winter wénn ischt gsinh hübsch, das ^ ^ hentsch dschu gleit ous da muarge, hentsch dschu gvürt ^ ouf un dan oabe séntsch dschu kannhen gia, héi ischt gsinh sibnu ol achtu, héi im Duarf, hentsch nuan kheen ^ eina grech antwier het kheen zwienu dé hentsch dschu gleit zsee un séntsch nuan kannhen eis. * Un dou bischt nöit kannhe. Bruno: Na, wir sén gsinh ambri doa, wir hen kheen traversato e sono andato a Tschachtulljustein, là c’era un malgaro di Donnas, sono poi andato a Stuale e là vi era un altro di Fontainemore, Pariassa, ho proseguito poi per Mühnu, là ho trovato due di Gaby, Jean Stevenin e Mario Stevenin ancora, sono sceso poi a Pioani, a Pioanu, là c’era Mimmo Lazier a pascolare, che aveva in braccio la figlia Flavia di due mesi, poiché Flavia era nata a luglio e lì a Pioanu c’era pure uno di Gaby, che si chiamava Rober t Jaccond, che mi ha dichiarato il numero di bovine e tutto ciò che aveva, pure lui. Ho attraversato poi per andare a Prassavin passando per Preschtevenuart ed ho proseguito per Méttelti dove ho trovato Giuseppe Ronco, sono poi salito a Vlüekhji dove ho trovato lo zio Luigi e Angelo Martinetti, che era di Carema, poi scendendo sono passato a trovare tutti gli altri del vallone di San Grato. * E allora tu sei andato in giro a segnare quante mucche avevano e sei andato a prendere i soldi anche? Bruno: Quante mucche, sì, quante… no, i soldi arrivava la tassa a casa e andavano a pagare penso all’esattoria. * Ah, tu non hai ritirato i soldi, sei andato solamente a segnare quante… Bruno: No eh! Perché i nostri erano a Stubbu in alpeggio a quel tempo, e la mattina seguente, mi ricordo, sono andato a Valbona, là vi era una certa Chincheré di Fontainemore, aveva cinque mucche, poi sono tornato al lavoro in municipio. Il 16 settembre, sono andato nel vallone di Tourrison… * Anche lì sei andato a fare il giro per… Bruno: Lì ho fatto la stessa cosa, sono andato a Krédémi, là vi erano Vitale Consol e Giuseppe, a Pioani c’erano Cesare e Flavio, Flavio era un ragazzino, aveva dieci anni, e su a Lei Nir c’era Attilio Stévenin [nipote di quell’Edoardo Stévenin che all’inizio del ‘900, a Lei Nir e a Tourrison, subì lo strano fenomeno delle ‘pietre che volavano’], Attilio della Moulineira gli dicevano, e la madre, la madre era già anziana. * Allora era di Gaby costui. Bruno: Sì, sì, erano di Gaby ed erano ancora lassù allora, erano ancora su a Lei Nir, era il 16 settembre, e poi negli anni successivi l’avevano tolta, non c’era più. * E allora il turno delle capre lo facevano i ragazzini oppure… Bruno: Ah, il turno delle capre che facevano qui in Capoluogo, là un po’ tutti. * Erano piuttosto i bambini o un po’ tutti… Bruno: Ah sì, i ragazzi di solito, i giovani di solito, i giovani eh. Sì, qui in Capoluogo, mi ricordo, c’era il turno per pascolare le capre, noi eravamo lì ai Preit, Filippo allora abitava a Tontinel, già ne avevamo un gruppetto ciascuno, ognuno andava per conto suo… * Cos’era quello, in primavera o… Bruno: Anche in inverno, quando faceva bel tempo, le mettevano fuori alla mattina, le portavano su e alla sera andavano a riprenderle, qui ve n’erano sette o otto , qui in Capoluogo, ne avevano solo una per famiglia, forse qualcuno ne aveva due così le mettevano assieme e uno solo le portava al pascolo. * E tu non sei andato. Bruno: No, noi eravamo laggiù, ne avevamo tante, dodici o quindici. * Bisognava mettere insieme quelle che… Bruno: Sì, ma noi laggiù…, qui in Capoluogo e forse alla — 12 — A U G U S T A (g.c. Archivio Boccoli) aschuan villuru, zwélvu ol vüefzunu. *. Wérti gsinh z’lécken zseeme deeru das… Bruno: Ja, wa ambri doa wir…, héi im Duarf, in d’Künju grech hentsch kheen dan tor. Antweegen héi ischt gsinh doa Tas^ sunu das het kheen d’geiss, bsinnimich, Chrisch^ tellje, J., doa, dar Dréisger, Dréisger hets dschi pheen woa nunh ischt la farmacie doa, doa ischt gsinh dan goade, bsinnimich noch, un té ouf un ouf, Kamillet, z’Kuckersch un, ja, bsinnimich nümmi recht allz, là… * Un a voart hentsch kheen d’geiss worom? Vür… ^ Bruno: Vür heen d’milch da summer, auch, dschi hen ellji kheen d’geiss vür da summer. * Ischt gsinh vür intégrér d’chü. Bruno: Eh, vür intégrér d’chü, wier het kheen chinn, d’geissumilch ischt l’idéal vür d’chinn, hentsch génh gseit, noch nunh khüermu seen. * Dou wissischt nöit wi hentsch déssidurut z’machun dan tor, ischt gsinh, all moanada hentsch töischut… Bruno: Wa dénghien nöit, dénghien das, wiss nöit, ischt gsinh an tag van eim, wier het kheen glljiéivrut het amum voan a z’iesta, etwa; ja, das ischt nuan gsinh da winter un ^ d’oustaga antweegen zu da summer chacun… wénn dschi hen ghoeiut, d’geiss hentsch nen kiet zu in d’matti, ischt nöit gsinh z’ganz joar dan tor, na, na. Ischt gsinh da win^ ter, hentsch dschu gleit ouf tur d’almini, da muarge hent^ ^ sch dschu gvürt ouf, zu séntsch dschu kannhen süjen, ^ séntsch dschu kannhen gian; dénghien an tag van eim, wier het kheen zwienu ischt grech kannhen zwien toaga, dénghien is heji funktiunurut sua. Cugna facevano i turni. Perché qui, mi ricordo, là i Ronc aveva le capre, i Christille, G., Adolfo Trenta, abitava dove adesso c’è la farmacia, lì c’era la stalla, mi ricordo ancora, e poi su, Nicco Giovanni, i Bastrenta e non mi ricordo più bene tutto. * E una volta avevano le capre perché? Per… Bruno: Per avere il latte in estate, anche, avevano tutti la capra per l’estate. * Era per integrare la produzione bovina? Bruno: Eh, per integrare, chi aveva bambini, il latte di capra è l’ideale per i bambini, dicevano, ancora adesso si sente dire. * Tu non sai come funzionava il turno, cambiavano tutti i mesi? Bruno: Ma, non penso, credo che, non so, andavano un giorno ciascuno, chi aveva finito ricominciava per primo, probabilmente; sì, quello era solo in inverno e primavera perché poi in estate ognuno… quando facevano i fieni la capra li seguiva nei prati, non era tutto l’anno il turno, no, no. Era in inverno, le portavano su nei beni comunali, la mattina su e la sera le andavano a riprendere, a cercarle; penso un giorno ciascuno, chi ne aveva due avrà fatto due giorni, penso abbia funzionato così. — 13 — A U G U S T A Au temps où l’on élevait des chèvres Aperçu sur l’économie pastorale jusqu’en 1950 par JOLANDA STÉVENIN ans notre village montagneux, il n’y avait ménage qui n’eût au moins une chèvre, pour s’assurer le lait du printemps à l’automne. Les chèvres du pays formaient un troupeau que, aux premières heures du jour, un jeune berger, choisi à tour de rôle parmi les enfants du milieu, conduisait paître sur la montagne. Cette besogne s’appelait en patois lou tór. Chaque matin les ruelles retentissaient d’un cri prolongé: buttì fou-ou-r! ; ce qui signifiait faites-les sortir. A ce cri la ménagère se pressait vers l’étable, tandis que sa chèvre impatiente bêlait et tirait sur sa chaîne. Allant de maison en maison le troupeau s’agrandissait et, tout en faisant une gentille musique de clochettes, se dirigeait vers les gazons fleuris, entrecoupés de rocailles et d’arbustes épineux de la montagne. Il n’était pas facile de se faire obéir de ces bêtes, agiles et capricieuses, qui s’échelonnaient dans les prairies et bondissaient d’un rocher à l’autre, comme des chamois. Il fallait une bonne expérience pour maîtriser le troupeau et le pourchasser jusqu’à une certaine hauteur qui, pour nous à Kiamourséyra, s’appelait la péira dou djòl. De cet endroit, les chèvres, d’elles-mêmes, montaient brouter les fleurs parfumées et les jeunes pousses dont elles se régalaient. Epuisé par ses efforts, le petit berger s’arrêtait quelques instants, le temps de manger une bouchée de pain et fromage, avant de redescendre. Vers six heures du soir, le berger repartait chercher les chèvres, pour les ramener aux ménagères à temps pour faire la soupe au lait. La rentrée du troupeau constituait un véritable spectacle aux yeux des touristes qui, à la tombée de la nuit, flânaient dans les rues du village. Chaque chèvre avait son nom et son caractère à elle. Il y en avait toujours une qui devenait la reine du troupeau et c’était elle qui décidait s’il fallait monter davantage, s’arrêter ou revenir sur ses pas. Les jeunes pâtres redoutaient surtout Fiourina,la chèvre de grand-mère Piéréina, à cause des coups de cornes qu’elle donnait à tort et à travers, sans trop d’égards. Pourtant sa maîtresse prétendait que Fiourina n’était pas méchante du tout, car elle ne faisait que se défendre des gens embêtants. La plus rusée était sans doute Jolibois, la chèvre de mère Marie. Le soir, à la rentrée, elle ne manquait jamais de faire un tour dans la cuisine de sa patronne. De son museau, elle soulevait le couvercle du coffre à provisions, pour D Issime: capre al pascolo sul Monte Crabun (inizio XX secolo) (g.c. Archivio Baccoli) prendre sa ration quotidienne de farine, de son et de pain sec, puis elle courait à la salière manger une poignée de sel et, pour finir son self-service, elle buvait quelques gorgées d’eau au seau de cuivre. Tout cela se passait en moins de temps qu’il fallait à mère Marie pour crier la salóppa (la sale bête!). Le fait est que Jolibois connaissait par coeur tous les coins de la maison, ainsi que l’habitude de sa maîtresse d’oublier toujours les portes ouvertes. Mais les chèvres étaient toutes des coquines: faire des farces ça les amusait. Un jour, la chèvre de commère Marie Gaspard crut pouvoir se jouer de monsieur le curé. Elle franchit le portail de l’église qui restait ouvert les jours d’été, et avança décidée jusqu’à la table sainte pour croquer les bouquets de fleurs, sans se soucier du pot brisé et des cris malheureux de la bonne soeur qui assistait impuissante à un tel ravage. Et maintenant que tout troupeau a disparu, d’autres musiques ont remplacé celle des clochettes de jadis. Des boîtes en carton ont substitué le lait savoureux de nos chèvres. Les jeunes arbres n’ont plus à craindre les bouches gourmandes qui croquaient leurs bourgeons: s’ils étouffent c’est par la pollution. (…) (Tiré de RIEN QUE LE SOUVENIR, Musumeci Editeur, 1988 Jolanda Stévenin) — 14 — A U G U S T A A propos de chèvres… par LUCIENNE FALETTO LANDI ne enquête sérieuse a été menée à Issime et au Gaby sur l’élevage des chèvres jusqu’à quelques années après la dernière guerre mondiale dont les résultats sont publiés dans ce numéro de notre revue. Moi je ne puis parler que de mes souvenirs personnels du début novembre 1942 à la fin mai 1946. Chassés de France par une … odeur de guerre et, quelques années plus tard, chassés de Turin par les bombes qui avaient ravagé le bâtiment où nous habitions, maman s’était rappelée de ce tiers de maison qu’elle possédait à Issime et que personne n’avait plus habitée depuis seize ans. Nous nous y étions donc installés et, contre une monnaie d’or que l’on nommait «marengo» , nous nous étions procuré une chèvre que nous avions appelée Camoussi, car elle ressemblait bien à un chamois. Quand on parlait d’une fille pas trop maline, on avait l’habitude de dire «elle est bête comme une chèvre!» Il n’est rien de moins exact, car les chèvres ne sont pas si bêtes que ça! Je vais de suite vous en donner un exemple : Mon père, qui gagnait notre pain quotidien en faisant des monuments pour le cimetière, avait trouvé des blocs erratiques le long du torrent Tourresoun et il les dégrossissait sur place avant de venir faire le travail plus fin dans la cour devant la maison. Quand il partait le matin vers le torrent, il prenait quelques croûtes de polenta à la poche, en offrait quelques-unes à Camoussi qui en raffolait et ne manquait pas de le suivre. Terminé la polenta elle se gavait de feuilles de noisetiers (son lait sentait bon la noisette!) et rentrait à la maison avec papa. Naturellement, elle s’éloignait un peu de lui et, souvent , il ne la voyait même plus. Alors, parfois, il s’arrêtait pour se rouler une cigarette. Camoussi n’entendant plus le tic-tic du marteau sur le ciseau vidia, arrivait de suite en bêlant comme pour lui demander si c’était déjà l’heure de rentrer. Papa disait : Il ne lui manque que la parole à cette bête! Et elle nous avait été tellement utile avec son abondante production de lait par jour (elle était même arrivée, au grand étonnement de tout le village, à nous donner deux litres de lait par traite). Maman en faisait de bons petits fromages et elle en tirait parfois même un peu de beurre. Et que dire des bonnes soupes qui formaient notre repas du soir. Maman faisait cuire dans une casserole moitié eau, moitié lait, y ajoutait des pommes de terre et des oignons (souvent remplacés par des poireaux qui étaient un produit de notre jardin et qu’elle conservait à la cave dans une bassine avec du sable pris au Lys), écrasait le tout sur l’écumoire avec une fourchette et ajoutait une poignée de riz et des nouilles brisées (quand elle avait pu se procurer un peu de farine pour les faire; découpées et mises à sécher sur le dossier d’une chaise recouvert d’un linge blanc, elles duraient bien quelques jours). U Quand j’avais filé de la laine pour un bonhomme de Lillianes qui me payait avec des châtaignes blanches, la soupe était un vrai régal. Et le lait de Camoussi m’avait aussi servi de fortifiant, car j’étais à l’époque une longue gamine maigre… Une femme de Seingles avait dit à maman : Elle a un peu de chlorose ta fille, il faut lui donner un fortifiant! Et alors, le contremaître de la centrale de l’Ilssa, le bon Spera, qui était marié à Carema, avait assuré qu’il aurait fourni le nécessaire le lundi en rentrant de chez lui. Il était arrivé avec un petit pot de miel et une bouteile de vin de Carema, m’avait fait mettre dans un bol une cuillerée de miel, deux cuillerées de vin et m’avait envoyée traire la chèvre dessus. C’était bon, j’en ai joui pendant une dizaine de jours et.. j’ai vite repris des couleurs ! Lorsque Camoussi avait mis bas un cabri né-mort, maman avait pris sa première lactation pour en faire … des savonettes. L’on m’avait fait cadeau d’une toute petite bouteille de parfum nommé « Cuoio bulgaro » et nous l’avions ajouté à la préparation. Je m’en ètais même servi comme d’un shampoing pour laver mes longs cheveux : chose que toutes les filles du hameau n’avait pas manqué de faire le 22 juillet, jour de Sainte Marie-Madeleine, que l’on considère chez nous la protectrice de la chevelure et qui assure une belle poussée si l’on coupe la pointe de nos cheveux le jour de sa fête. Nous n’avions pas d’appareil pour le séchage, mais ce jour-là le soleil avait fait l’affaire. De la terrine cassée que ma voisine m’avait enseigné à ajuster en la faisant cuire dans du lait de chèvre j’ai déjà eu l’occasion de parler l’an dernier dans cette même revue : c’est quand même une chose à rappeler car la terrine existe encore au Grand-Praz, six décennies après sa rupture: dernièrement un filet plus sombre y est apparu, mais elle peut encore être utilisée. Après cette période à Issime, où nous avions Camoussi, une chienne nommée Méda, un chat répondant au nom de Mistigri, et nombre de poules et de lapins, sans nom ceux-ci, je n’ai plus frayé de près des animaux, mais je garde un souvenir ému de ceux que j’ai nommés car ils ont été pour moi, oserais-je dire, des amis. Si je m’attarde encore un peu à rappeler la période de la guerre, je vois une dame vêtue d’un manteau de fourrure d’opossum (qu’elle appelait son «cache misère»), chaussée de sabots (il fallait bien sauvegarder ses escarpins!) se promenant vers la chapelle de Saint-Valentin avec une chèvre attachée à une corde, la faisant brouter un peu partout et s’arrêtant parfois pour fumer une cigarette….Je pense que chaque Issimien frisant au moins la cinquantaine aura reconnu Madame Fifi, l’épouse du docteur Renato Christillin et, s’il est un peu plus âgé, il se souviendra qu’un jour, à une personne qui venait lui offrir du lait mais qui le lui avait refusé quelque temps avant, elle avait répondu : «Je m’en fiche de votre lait, j’ai acheté une chèvre!». — 15 — A U G U S T A Kuntjini van Eischeme1 Racconti Issimesi PAOLA CIPRIANO Stuarte Jeangji un Ronhsch Clémentine Éischeme - Ribulu, le 16 ocktobre 2003 Giovanni Storto Stuarte (*1928) e Clementina Ronco Ronhsch (*1930) Intervistati a Issime - Ribulu, 16 ottobre 2003 ^ Jeangji: Dschi sén kannhen ouf vür miejen…Wissischt? Unner dan groat in Valniro. (…) Unner dan groat in Valniro un hentsch kiet d’chinn un gschloafen dambor. Hentsch wélljen schloafen dambor vür nöit cheen ingier ellji moal… ^ Un hentsch dschi gleit doa unner an balmu un hentsch gleit hoei nidder vür muan schloafe, un zar mitternacht hentsch ^ mussun laufen awek… Antweegen dschi hen khüert, gian ^ d’chinn un goan wéitur, dschi wandlun, wa a schiene stukh, neh, cheen ingier in d’undrun Écki [vatt vür goan hüten d’^ geiss uab Proa z’Éischeme], dschi hen nöit muan schloafen antweegen hentsch khüert lljöiten da rebbik alli d’nacht… Un hentsch gseit das sén gsinh le masche [hoakschi]. ^ Clémentine: Seeg, un Ida hetter nöit zéllt wénn dschi ischt gsinh dambor mit Victoire? (…) Das hentsch kheeben… ^ ^ Jeangji: Wa dschiendri hen dschi nöit kheen gwandlut. ^ Wa dschi hen khüert alli d’nacht d’geiss das… Clémentine: Das sén kannhen dür un da. ^ Jeangji: Dschi sén nöit gsinh poaslljugu wissischt? ^ Clémentine: Dschöi het kheen zwienu, nunh Victoire het ^ ru kheen noch mia noch.. Dschi het mer génh zéllt, là, déja. ^ Un hetsch gseit das dschi heji gmachut an drolege veers, wissischt? Sén nöit gsinh poaslljugu un séntsch kannhen ^ dür un da, wa auch dschiendri hen nöit gschloafe. Jeangji: Un hejintsch nöit gschloafen alli d’nacht hentsch gseit! ^ Clémentine: Dschiendri hen nöit khüert d’rebbika. Nuan d’geiss hen khüert, wissischt? Jeangji: Sén génh gsinh ouf doa, ouf ol ab, unner dan groat in Valniro. Antweegen doa ischt an balmu, an gruass bal^ mu woa dschi hen gleit dri z’hoei (…) un té ischt auch Bal^ ma sour Tera, dschi seen mu, das wérti an balmu unner heert. Un seets das, ich bin nji kannhen ambri, doa geischt ^ ambri unna un hescht gsia, hescht noch gsia woa dschi hen kheen troan awek dan brunz volli goldini marginh. Giovanni: Sono andati su per falciare, sai .. Sotto il monte di c Valnéira. (…) Sotto il monte di Valnéira e si sono presi su i bambini e hanno dormito lassù. Volevano dormire lassù per non venire giù tutte le sere … E si sono messi lì sotto una balma, e hanno messo del fieno sotto per dormire e a mezzanotte hanno dovuto scappare… Perché sentivano, prendere i bambini e andare in un altro posto, spostarsi, ma un bel pezzo, nèh, venire giù agli Écki di sotto [cengia adibita al pascolo per capre nei monti sopra il villaggio del Pra ad Issime], perché non potevano dormire perché sentivano suonare tutta la, tutta la notte il violino … E dicevano che erano le masche [streghe]. Clementina: Di’, e Ida non ti ha mica raccontato quando era lassù con Vittoria? (…) Che avevano … Giovanni: Ma loro non si erano spostate. Ma hanno sentito tutta la notte le capre che … Clementina: Che andavano in qua e in là. Giovanni: Non erano tranquille, sai! Clementina: Lei ne aveva due, adesso Vittoria ne aveva ancora di più.. Mi raccontava sempre, via, quella lì. E dice che hanno fatto un verso proprio fuori dal normale, sai! Non erano tranquille e viaggiavano sempre in qua e in là, ma anche loro non, non dormivano. Giovanni: E non han dormito tutta la notte han detto! Clementina: Loro non sentivano i violini. Li sentivano solo le capre, sai! Giovanni: Erano sempre su lì, più o meno, sotto il monte di Valnéira. Perché lì c’è una grotta, c’è una grossa balma dove mettevano dentro il fieno (…) e poi c’è anche Balma sour Tera, la chiamano, sarebbe balma sotto terra. E dice che, io non sono mai andato giù, che lì vai giù sotto e si vedeva, si vedeva ancora dove avevano portato via il brunz [paiolo] pieno di marenghi d’oro. A fümmala van Éischeme, le 17 broahut 2004 Una donna di Issime Intervistata il 17 giugno 2004 Funtrunkieeru …Wir hen génh kheen khüert, ich, amanka, hen génh khüert zélljen sua: sén gsinh d’hirtjini ^ ^ ^ das hen ghüt, dschi hen dschi pheeben in disch kantunhi [Tunterentsch, Preit]; un, da muarge, hentsch kheen dén Fontaineclaire… Noi avevamo sempre sentito, io, almeno, ho sempre sentito raccontare così: che c’erano i pastorelli che pascolavano, abitavano in queste frazioni [Tunterentsch, Preit]; e, al mattino, avevano poi quattro o cinque caprette, 1 I testi in italiano sono estratti dalla Tesi di Laurea di Paola Cipriano, Un luogo di incontro alpino. Progetto e immaginario folkrorico in una valle valdostana, Politecnico di Torino – Facoltà di Architettura, anno accademico 2003/2004, relatori: Prof. Ing. Giacomo Donato e Prof. Alberto Borghini. Le traduzione in töitschu dei testi è di Barbara Ronco. — 16 — A U G U S T A vir ol vünv geiss, sén gsinh oarmi lljöit, nöit ellji hen kheen d’chü, déi sén aschuan gsinh réich! Dé hentsch gschükht ^ dischi chinn hüten ouf tur da woald un hentsch nen kheen z’essen a stukh hérts bruat un, a stukh hérts bruat un a stukh chiesch, grech unza desch oalte chiesch, gsoalzni ^ wi… Dé, a voart, dische hirt ischt gsinh ouf tur dan Pirubeck [ischt an tschucke mit a furmu van as huare], ouf doa ^ bieri, mit dschéin geiss un, wénn is het khüert dar chilhun klocku, hets gseit: “Is ischt mittag! Dé essentsch!” Dé hets kesse un d’geiss doa béi mu un, wénn is het kheen kesse, ischt mu gcheen dan dust! An dust z’töivulsch un dé hets ^ dschi gleit a faurun, faurun antweegen… ischt etwa das sua het nöit gmuntut wéit, muss sinh das ischt gsinh zoalts ^ auch du… Hets dschi gleit a faurun un d’geiss hen greekut doa béi, ol lammjini das sén gsinh. Un dé, darnoa, hets khüert a veers, hets bürt z’hopt un hets gsian a fümmala, a schie fümmala das het mu gseit: “Worom faurischt?” Is het ra gseit: “Ich faurun antweegen hen kessen das bissitji das ich hen kheen un nunh hen an gruassen dust un hibbiri ischt nöit wasser, war hen nöit gvunnen ^ ^ wasser khém uart!” “Ah! Giedadscha nöit! Giedadscha ^ ^ nöit!” Dschi het kheeben an backetu, hetsch dscha gstékht béi am stein un van unner am stein ischt gsortrut z’wasser un sua z’chinn un z’vie hen muan tringhien… Zu hets is gvürt, wider oabe, unz im grunn, unz in d’mattu ^ ^ woa ischt génh gsinh dischen brunne, un dschöi het zoa^ ^ nut dschéin backetu unz doa. A voart das dschi sén gsinh ingier hetsch mu gseit: “Nunh loanitich. Ich muss goan ^ amouf. Wa ganh trankéili!” Un het dschi gsétzt an bréivu von an tschucke: den tschucke das hentsch gseit, wiss nöit ^ ^ ol is existiri noch nunh, ol dschi hendschis… Dénghien ^ das hejin dschis nöit bdékht… Hets gmuntut an sétzi, wi ^ ^ dschöi hetti dscha gmachut! Un doa unner de stein ischt génh gsinh den brunne. Sua hentsch zéllt… Zu ischt gsinh a su das het troagen z’wasser in Zéngji [Su van in ^ Funtrunkieeru] un… Nunh hen dschis kiet vür l’aquédòt ^ un as was geit zam Steg! (…) Ündsch hentsch zéllt sua… D’lljibu hoaksch van in Funtrunkieeru! era gente povera, non tutti avevano una mucca, quelli erano già ricchi! E allora mandavano ‘sti bambini a pascolare su per il bosco e gli davano da mangiare un pezzo di pane duro e, un pezzo di pane duro e un pezzo di formaggio, magari quel formaggio stravecchio, salato come… Allora, una volta, questo pastorello era su sotto il Pirubek [è una roccia a forma di corno], su per lì, con le sue capre e, quando ha sentito la campanella della chiesa, ha detto: “È mezzogiorno! Allora mangiamo!” Ha mangiato e i capretti lì attorno a lui e, quando aveva mangiato, gli è venuta sete! Una sete insopportabile e allora si è messo a piangere, piangere perché… Si vede che la distanza sembra poca così, si vede che era calcolata anche allora… Si è messo a piangere e le caprette belavano lì attorno, o pecorelle che aveva. E allora, poi, ha sentito un rumore, ha alzato la testa e ha visto una signora, una bella signora che gli ha detto: “Perché piangi?” E gli ha spiegato: “Piango perché ho mangiato quel po’ che avevo ma adesso ho tanta sete e per qui non, non c’è acqua, non abbiamo trovato acqua da nessuna parte!” “Ah! Non ti preoccupare! Non ti preoccupare!” E aveva una bacchetta, ha toccato una pietra e da sotto quella pietra è uscita dell’acqua che si sono saziate le bestiole e lui… E poi lo ha accompagnato, alla sera, fin giù al piano, fino al prato, dove poi c’era sempre ‘sta sorgente, e lei trascinava la sua bacchetta lungo il pendio lì. Arrivata giù gli ha detto: “Adesso devo lasciarti. Io devo tornare su. Ma vai tranquillo!” E si è seduta su una pietra un attimo: quella pietra che dicevano, non so se esiste ancora adesso, o se l’hanno… Penso che non l’abbiano coperta… Che sembrava un sedile, come se lei avesse segnato il suo sedile! E lì sotto quella pietra c’è sempre stata quella sorgente. Raccontavano così … Che poi c’era un ruscello che alimentava là le case di Seingles [Ru de Fontaineclaire] e… Adesso invece l’hanno preso, per l’acquedotto e una parte va a Ponte! (…) A noi raccontavano così… La fata di Fontaineclaire! Chrischtentsch Mareji (*1937) Éischeme - Tschendriun, 1999 Maria Christillin Chrischtentsch (*1937) Issime - Champrion, 19992 Margitisch Nato ischt gsinh ouf doa im Zappil z’süjen d’geiss, un Jean [il fratello, rispondeva a chi gli domandava come mai Fortunato non tornasse] het gseit: “Na, na ischt nua antschloafe ouf in a schopf zan Burrunu, wénn z’het glljeivrut z’schloafe chints”. D’geiss séin arrivurut ^ un hen dschis nöit gsia... un ellji “Nato, Nato” hei Rumen, villuru, ellji z’is süje. Dé Rumen, doa sua, passurut da weg hets gsie an plljioaku blut, però müssurut: “Etwas geiss”, ischt nöit mu gcheehen in z’hopt. Zu ischt gcheehen nacht hen gseit: “Ben nunh”, ischt nöit (gsinh) wi nunh le pile, déi dinhi. Da muarge phend amum kannhe süjen un süjen, té Rumen het gseit “Ma nunh doa wo hen gsien dei plljioaku blut willi lugu”, zu hets gsien ën diresion sua doa wo séin gsinh vacksi allu wi antschrisnu, zu hets gsien ambri doa unna in d’réckeltini, doa wo’scht gsinh déi güllju blut praticament doa hets gchlöpft mit dam hopt. Il 24 marzo del 1941 all’età di 23 anni Fortunato Ronco Margitisch morì cadendo da un dirupo nei pressi del luogo detto Sappil, sui monti sopra il villaggio del Pra (superiore). Era salito negli almini (beni comunali) a recuperare le capre portate al pascolo. “Fortunato Ronco era su nei pressi di Sappil a cercare le capre, e Jean ha detto [il fratello, rispondeva a chi gli domandava come mai Fortunato non tornasse] “No, no si è solo addormentato su un balcone a Bourinnes, quando ha finito di dormire viene”. Le capre sono arrivate ma non l’hanno visto... e tutti “Fortunato, Fortunato” qui Romano, molti, tutti lo cercano. Allora Romano, là così, attraversata la strada ha visto una macchia di sangue, però pensa: “Qualche capra”, non gli è venuto in mente. Poi è venuta notte e hanno detto: “Bene ora”, non c’erano le pile come oggi. Al mattino presto di nuovo a cercare e cercare; poi Romano ha detto: “Ma ora dove ho visto quella macchia di sangue voglio vedere”, poi ha guarda- 2 Registrazione originale in töitschu, effettuata da Michele Musso nell’agosto del 1999. — 17 — A U G U S T A Un té zu séntsch mu gcheehen see [al fratello], zu hets grawut dan endre “Ischt héi, ischt héi”. Tra Rumen, Moartasch Adolfi, un as poar, villuru héi van Éischeme, henz ^ gleit von a léitru, hen dschis brunnhen ingier. to nella direzione dove c’erano delle olline come strappate, poi ha visto in giù la sotto nei ginepri, la dove c’era quella pozza di sangue, praticamente là aveva battuto con la testa. Poi sono venuti a dirgli [al fratello], hanno urlato agli altri “È qui, è qui”. Tra Romano, Adolfo Chamonal e alcuni, molti qui di Issime, l’hanno caricato su una barella, l’hanno portato giù.” Matilde Bastrenta Milder Uberlann, le 22 broahut 2004 Matilde Bastrenta (*1912) Intervistata a Gaby – Issime-Saint-Michel, 22 giugno 2004 An bof fu, ischt gsinh a vröin van méin bruder, ischt ^ gsinh du ‘14, ischt kannhe un hets d schi pheeben z’^ Greschunej, wa ischt génh gcheen ingier z’ünd sch in ^ Trentu Steg (…) Zu, disch boffu ischt kannhen süjen d’^ geiss un, dan oabe, wéilu ischt kannhen z’dschéim hous ^ un wéilu ischt gcheen z’ünd sch, antweegen méin atte ^ ischt gsinh dschéin gotte. Zu, an tag das ischt kannhe hüten d’geiss, ischt gsinh as söiri schnia, is gritte un hets ^ ^ ^ dschi tüat. Nuan das dschéini houslljöit, d’eju un dschéin ^ wetta, in Loomatto [kantunh z’Greschunej] woa dschi sén ^ gsinh, hen d schis khüert wüschpelljen. (…) Hentsch khüert wüschpelljen un séntsch kannhen ous un d’boffu ischt nöit gsinh. Dé d’eju, la “nonn..”, d’wetta ischt par^ turut un ischt gcheen z’ündsch in Trentu Steg um, is het kheissen Quinto, lugun ol z’mandji wieri gsinh doa. Un doa is nöit gsinh, antweegen z’mandji ischt gsinh gstuarbe. Un noch, darnoa ischt gcheen al “Moderno” [Alber^ go], woa dschi hen tanzut, süjen dar bruder wa is ischt nöit gsinh. Darnoa, dan tag drouf, ischt parturut a squòa^ drou lljöit un hendschis dén gvunnen tuats. Wa ischt as ^ verous dinh das hendschis khüert wüschpelljen, ischt ^ gsinh arrivurut z’dschéim hous süjen hilf. Ischt kannhen ^ wüschpelljen, wissischt, wi dschi sén d’boffi z’deene joa^ ru! Voilà, vür seen das les revenants cheen! Ündschi tuatu sén nöit tuat! Zu ischt gsinh as annes kuntji van d’énhgia. Ischt gsinh ^ an eju un dschéin su ischt gsinh gstuarbe das ischt noch ^ gsinh lljicks; dschöi ischt kannhen miejen un hetsch génh ^ ^ gfaurut dschéis chinn, dschi het nümmi muan leeben… ^ Dé hetsch gsia cheen zu dschéin énhil das het ra gseit: “Méin eju fauri nöit, antweegen allu di tropfa das di loascht vallen sén: lug! Ich hen d’vüss allu in as blut!” (…) ^ Mu muss nöit génh faurun vür di tuatu, mu mussdschi loan leeben! Mu muss leernen déi dinnhi, neh! “Allu di triani, méin eju, das di loascht vallen…” Hets kheen d’vüss allu in as blut! Un ragazzo, era amico di mio fratello, era del quattordici, e andava, e stava a Gressoney, ma veniva sempre giù da noi lì a Pont Trenta (…). Dopo, questo ragazzo andava a cercare le capre, e, la sera, delle volte rientrava a casa e delle volte veniva giù da noi, perché mio papà era suo padrino. Poi, un giorno, che è andato a pascolare le capre, era già un po’ di neve, è scivolato e è stato morto, è morto. Solo che i suoi famigliari, la mamma e sua sorella, a Loomatto [villaggio del comune di Gressoney-Saint-Jean] su dov’erano, l’hanno sentito fischiare. (…) Hanno sentito fischiare e sono andate fuori e il ragazzo non c’era. Allora la mamma, la “nonn” [nonna], la sorella è partita e è venuta a Pont Trenta da noi e, si chiamava Quinto, a vedere se il ragazzo era lì. E lì non c’era, perché il ragazzo era morto. E ancora, e poi dopo è venuta al Moderno [Albergo], che era un ballo, a cercare il fratello e non c’era. E, dopo, il giorno dopo, son partiti una squadra di persone e l’hanno poi trovato morto. Ma è un episodio che lui è, l’hanno sentito fischiare, era lui già arrivato alla casa a dare l’allarme. È andato a zufolare, sai, sai come sono i ragazzi a quell’età! Ecco, per dire che les revenants vengono! I nostri morti non sono morti! Poi c’era un’altra storia degli angioletti. C’era una mamma che aveva perso un bambino giovane; e allora andava a falciare l’erba e piangeva sempre il suo bambino, non poteva vivere… E allora ha visto arrivare il suo angioletto che le ha detto: “Mamma non piangere, perché tutte le gocce che tu lasci cadere sono: guarda! Io ho tutti i piedi insanguinati!” (…) Che non bisogna sempre piangere i morti, bisogna lasciarli vivere! Bisogna imparare quelle cose, neh! “Tutte le lacrime, mamma, che tu lasci cadere le…” Aveva tutti i piedi insanguinati! Pastorelli alla “Bataille des chèvres” di Tour d’Hereraz (g.c. Franco Restelli) — 18 — A U G U S T A La “questione walser” alla luce di recenti studi su alcune comunità presenti nella diocesi novarese BATTISTA BECCARIA n questo ultimo anno e mezzo sono stati editi nuovi studi sui Walser, segnatamente in area novarese. Dalla Storia di Rimella in Valsesia (estate 2004), opera collettiva a più mani coordinata da Augusto Vasina, docente emerito di Storia medioevale all’ateneo bolognese (1), a quella più recente di Macugnaga, ultima fatica monumentale (è il caso proprio di dirlo, tenendo conto delle oltre 1000 pagine complessive) dello storico dell’Ossola professor don Tullio Bertamini (2). La questione walser è balzata di nuovo alla ribalta proprio per questi nuovi apporti, che hanno messo in discussione non tanto opere precedentemente editate e di riconosciuto rigore scientifico, ma per una rinnovata impostazione data a questi studi recentissimi. Meno “celebrativa” forse, e in compenso più attenta alla storia minimale ed “événementielle”, come la definirebbero gli studiosi francesi della scuola delle “Annales”. Chi sono questi teutonicos (più raramente alamannos) dei documenti d’archivio, solo da una manciata di decenni di tempo assurti a “Walser” (forse sarebbe stato meglio un meno altisonante e comprensibile “vallesani”): sono i nuovi “civilizzatori delle Alpi”, come certa storiografia li ha dipinti, “fondatori di insediamenti toto coelo nuovi d’alta quota”, inventori ingegnosi di tecnologie per la sopravvivenza in climi proibitivi e al limite dell’umana capacità? O magari anche qualcosa di tutto questo, ma soprattutto degli “emigranti”, non si sa bene poi se emigranti volontari o forzati ad esserlo malgré eux. Insomma, senza voler essere dei dissacratori di “miti ben sedimentati” nella storiografia walser più accreditata, non potrebbero essere costoro l’equivalente odier- I 1 2 Alpeggio di “la Matta”, vallone di Niel (Gaby) AA.VV., Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes ville comune parochia”, a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004. Tullio Bertamini, Storia di Macugnaga, vol. I: (Esposizione storica); Storia di Macugnaga, vol. II: (“Appendice dei documenti”), Parrocchia di Macugnaga, Macugnaga-Verbania 2005. — 19 — A U G U S T A Interno della cappella di San Nicola al villaggio del Biolley (Issime, vallone di Tourrison) no dei nostri cosiddetti “extracomunitari” in cerca di una vita se non proprio migliore almeno meno grama e amara di quella delle loro terre d’origine? L’ipotesi era già stata espressa da più d’un autore nella Storia di Rimella e condivisa dallo stesso curatore e coordinatore del volume, Augusto Vasina, oltre che stimato accademico del Medioevo, walser rimellese indubitabilmente “doc”, essendo i Vasina già attestati a Rimella da documenti molto risalenti. Chi scrive, medievista con interessi più specifici per il Novarese e il V.C.O. (Verbano Cusio Ossola), e storico della Chiesa gaudenziana, si chiama volentieri fuori dal novero dei cosiddetti “storici dei Walser”, non essendo un esperto di tali questioni e avendo in passato rivolto i suoi interessi specifici altrove. Ciononostante, proprio in veste di storico della Chiesa novarese, ha avuto occasione di cimentarsi due o tre volte coi documenti dell’archivio vescovile su temi di “storia ecclesiastica walser”. Una prima volta a riguardo de Le origini della Comunità ecclesiale di Campello Monti e della sua chiesa (secoli XV-XVIII) (3). 3 4 5 6 Una seconda, a proposito della storia di Rimella Valsesia, con un saggio introduttivo su L'organizzazione ecclesiastica della Valle Sesia fino all'episcopato di Carlo Bascapè (4). Ed ex professo, sempre nella stessa opera, ma nella prospettiva più ampia di tutte le comunità walser comprese dentro i confini della diocesi novarese, in altro saggio riguardante Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615) (5). Inoltre, lo stesso autore, studiando l’imponente fenomeno stregonico in periodo controriformistico sulla catena alpina della Valsesia e, soprattutto, dell’Ossola, tratto alpestre di pertinenza della diocesi gaudenziana, trattando di paesi coinvolti nella “Grande Caccia alle streghe” d’Età moderna (in diocesi di Novara il culmine va posto fra il 1575 e il 1620 circa) viene spesso a incontrare comunità walser o comunità a queste contigue. E viene a scoprire, quasi con meraviglia, come l’immaginario collettivo che sottende la visione del mondo di queste streghe e di queste comunità sia perfettamente ravvisabile e rintracciabile nei miti walser raccolti per l’Ossola da Renzo Mortarotti (6). In alcuni saggi come Le streghe Battista Beccaria (s.v. Giovan Battista), Le origini della Comunità ecclesiale di Campello Monti e della sua chiesa (secoli XVXVIII), in “Campello e i Walser”. Atti del Settimo Convegno di Studi (7 agosto 1999), Walsergemeinschaft Kampel, Campello Monti 2000, pp. 31-64. Battista Beccaria, L'organizzazione ecclesiastica della Valle Sesia fino all'episcopato di Carlo Bascapè, in «Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes ville comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 103-119. Battista Beccaria, Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615), in «Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes ville comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 123-146. Renzo Mortarotti, Il mondo leggendario dei walser dell’Ossola, in “Novarien.” N. 9 (1978-1979), pp. 275-325. — 20 — A U G U S T A Rimella, Alpe Pianello. Croce all’entrata dell’alpeggio di Baceno (1609-1611) (7), o come Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento (8), pubblicato quest’ultimo nel secondo tomo della recente “Storia della provincia di Novara”, o ancora in Inquisizione episcopale e Inquisizione romano-domenicana di fronte alla stregoneria nella Novara postridentina (1570-1615). Un confronto e un giudizio storico, in fase di pubblicazione imminente sulla rivista di Storia della Chiesa novarese (9), appaiono qua e là squarci di vita reale di queste comunità, ai margini del consorzio civile della pianura (sprovvista, quest’ultima, di streghe e stregoni), che fanno capolino durante gli interrogatori, sia pur molto stereotipati, dei processi inquisitoriali sull’argomento. E allora appaiono alcuni di questi villaggi montani con le loro miserie, coi sospetti quotidiani fra vicini di casa, con le faide paesane tra famiglie, e balza all’occhio una mentalità ancora fondamentalmente magico-animistica nei confronti dei fenomeni della natura e dei meccanismi che regolano il corpo umano, mentalità indubitabilmente prescientifica, ma insieme si evidenziano una cultura e un immaginario collettivo pressoché “pagani” ibridatisi nel tempo con elementi cristiani rimasti in superficie e mai del tutto assimilati, e questo ancora a fine Cinquecento (10). Inizialmente, per tutto il Basso Medioevo e per tutta la prima metà del Cinquecento, la Curia e i Vicari generali della diocesi (che talvolta compiono Visite pastorali pretridentine) ignorano, o forse fingono di ignorare, l’esistenza, o quantomeno il problema, di queste comunità anòmale di lingua tedesca e, quando le pievi valsesiane e ossolane cominceranno a dissolversi in cappelle semiautonome o autonome con un proprio curato (in genere cosiddetto “mercenario” perché stipendiato dalla comunità con contratti a termine o “pro tempore”), non si curano di inviare loro stessi o autorizzare l’ingaggio da parte delle comunità walser di un prete di lingua teutonica, talché i vescovi che verranno dopo il Concilio di Trento rimarranno scandalizzati dal fatto che molti curati usino, per la confessione auricolare in confessionale, come interprete verso i fedeli (più spesso “le” fedeli) di lingua tedesca, un sagrestano bilingue. Solo nel periodo controriformistico, a partire dagli Anni ’80 del XVI secolo, i vescovi dimostrano una particolare attenzione per queste comunità a forte componente teutonica, ma soprattutto o esclusiva7 8 9 10 11 12 mente in funzione di un maggior controllo perché le nuove idee protestanti non penetrino al di qua delle Alpi, essendo quella gente di lingua tedesca in grado di capire discorsi, e fors’anche leggere libri, eretici o “infetti”. Ad Alagna un maestro, che leggeva ai suoi scolari libri di Zuinglio e di Lutero in aula, fu processato e insieme a lui furono coinvolti gli allievi medesimi (11). Un parroco di Formazza (Pomatten) fu processato per eresia, avendo contestato la confessione auricolare (12). I pochi eretici processati a Novara furono paradossalmente quasi tutti religiosi e preti, soprattutto fra i più colti e preparati del clero locale. Alcuni di costoro erano in cura d’anime sui confini nord della diocesi, a soli 20 chilometri dal Cantone di Berna o, come accadeva per un paio di parroci antigorini e formazzini (Montecrestese e Formazza) a diretto contatto con fedeli di lingua “todhesca” che per lavoro Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui monti d' Antigorio, in “Domina et Madonna. La figura femminile tra Ossola e lago Maggiore dall'antichità all'Ottocento”, Mergozzo 1997, pp. 111-193. Battista Beccaria, Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento, in "Una terra tra due fiumi. La provincia di Novara nella storia", vol II: L'età moderna, Novara 2003, pp. Battista Beccaria, Inquisizione episcopale e Inquisizione romano-domenicana di fronte alla stregoneria nella Novara postridentina (1570-1615). Un confronto e un giudizio storico, in fase di pubblicazione su “Novarien.” N. 34 (2005). Battista Beccaria, Credenze, superstizioni, ritualità nelle valli della Diocesi di Novara fino al XVI e XVII secolo, in Atti del Convegno «Donne di montagna, donne in montagna» - Varallo Sesia (Vc), Centro Congressi di Palazzo d'Adda (19-20 ottobre 2002), ora in "de Valle Sicida" N° 15 (2004). ASDN – Foro ecclesiastico; 2 – Libri e registri; 6 – Criminalia (1576-1583), 94r-95v. ASDN - Actorum Curiae, IV, 1, 52 (1576). L’ episodio è pure riportato in Tullio Bertamini, Luci su Croveo. Appunti storici, in “Oscellana” XXIII – 3 (1993), pp. 161-191. Interessante sapere che il curato di Formazza, don Stefano De Giuli, viene inquisito nel 1556 per le sue affermazioni chiaramente luterane soprattutto sulla Confessione auricolare. — 21 — A U G U S T A o emigrazione stagionale andavano avanti e indietro al di qua e al di là del crinale alpino (13). In valle Antigorio dei commercianti bacenesi in contatto per traffici di merci (vino e grano contro formaggi) con i cosiddetti “gatti” (termine per indicare i calvinisti svizzeri) furono processati dal tribunale dell’Inquisizione episcopale novarese (e torturati crudamente) per sospetta frequentazione di persone “infette” d’eresia tra il 1601 e il 1602 (14). Tutti coloro che in qualche modo erano in grado di capire e di farsi capire dai “todeschi” dei cantoni calvinisti svizzeri furono tenuti d’occhio in modo particolare. I vescovi di Novara istituirono “permessi di espatrio” per commercianti ed emigranti stagionali: veniva loro rilasciato un modulo-formulario che andava compilato da sacerdoti cattolici svizzeri e in cui si doveva attestare, all’atto del loro rientro in patria, che gli interessati avevano frequentato la chiesa cattolica, avevano ascoltato la messa domenicale, si erano accostati ai sacramenti e non avevano bazzicato troppo da presso calvinisti. Appena l’emigrato rientrava, doveva consegnare il modulo compilato al suo curato (15). Il Canton Vallese, in effetti, era rimasto cattolico, ma aperto alla predicazione calvinista. Il vescovo di Novara Carlo Bascapè scrisse anche delle lettere al suo collega vallesano, il vescovo di Sion Adriano di Riedmatten, per convincerlo ad espellere questi predicatori e a vigilare sulle pecorelle sia vallesane che novaresi in trasferta nel Vallese. Ma per gli accordi interni intercorsi tra cantoni svizzeri, di diversa confessione cristiana, la cosa non dovette o non poté avere seguito. Gli stessi “accordi commerciali” fra ossolani e abitanti dei vari cantoni confederati prevedevano reciproca ospitalità per le trasferte di rito al di qua e al di là delle Alpi, ma, mentre per gli svizzeri il problema non esisteva, per l’ossolano che si faceva ospitare da un “gatto” (un calvinista) c’era il rischio, al rientro in Formazza o Antigorio, di ritorsioni da parte dell’autorità inquisitoriale cattolica che lo poteva incarcerare su semplice delazione (16). Un esperto e ricercato formaggiaio di Croveo d’Antigorio, poi processato, torturato e messo sul palco per l’atto di abiura “rivestito con l’abitello” nel duomo di Novara, aveva candidamente confessato agli inquisitori novaresi che quand’era ad “Aslè” (in Svizzera) andava alla predica del Pastore per evitare la fustigazione, quand’era in “Crovo” d’Antigorio andava a messa, per evitare allo stesso modo denunce e incarcerazione, ma i due curati porzionari di Baceno, su delazione di anonimi, l’avevano “pizzicato” e fatto incarcerare dall’Inquisizione episcopale del presule Bascapè. Il poveretto protestava d’esser buon cristiano, dicendo che, quando era di là, gli pareva meglio esser cristiano a quel modo “de’ gatti”, ma ora, che era di qua, gli 13 14 15 16 17 18 pareva migliore “il modo vostro” (cioè degli inquisitori che lo stavano giudicando). Costui faceva parte di un gruppo composto sia da antigorini sia da walser che per lavoro si trasferivano con frequenza nei cantoni elvetici e poi tornavano in Ossola. Il suo imprigionamento provocò una serie di ulteriori arresti di abitanti di Croveo e Baceno che in luglio-agosto compivano fino a sei viaggi di andata e ritorno coi muli nei cantoni svizzeri attraverso l’Arbola e il San Giacomo (17). Sembrerebbe poi - ma la cosa andrebbe approfondita con una ricerca meno provvisoria e priva, per ora, di un numero sufficiente di riscontri - che mentre le donne walser (stanziali) conoscevano solo il dialetto teutonico del paese, la maggior parte degli uomini (emigranti stagionali) erano invece bilingui, se non addirittura poliglotti. La popolazione complessiva di queste proto-parrocchie montane in fieri dei secoli XV-XVI, oltre che bilingue risulta mista, italica e teutonica insieme. Emblematico il caso di Macugnaga, recentemente studiato e descritto dal Bertamini, dove non solo la popolazione è bilingue e mista, ma dove il decurionato locale (i “vip”, i maggiorenti, i grandi proprietari, cioè i possidenti di pascoli e di mandrie) sono di ceppo quasi esclusivamente italico e sono italofoni. D’altronde la cosa appare chiara anche da nostre incursioni su carte ecclesiastiche del periodo di episcopato del Bascapè (15931615) dove il presule riformatore postridentino, ritenendo “indegno” un parroco walser di Macugnaga, lo autorizza a confessare solo le persone di lingua teutonica incapaci di comprendere l’idioma italico (in genere le donne appunto) mentre, per la popolazione italica e per quella walser ma bilingue, esige che il confessore deputato per le confessioni pasquali sia il vicino curato di Vanzone d’Anzasca, una comunità parrocchiale indubitabilmente autoctona e italofona. Qualcosa di analogo succedeva nei confronti del parroco di Rimella che, ritenuto invece “ignorante” a riguardo dei casi di morale, doveva delegare a quello di Fobello, comunità italofona, la soluzione di certi “casi riservati” e quindi l’assoluzione di certi suoi parrocchiani walser (18). Anche dal poco che ci è capitato di riscontrare per la Valle Strona a proposito dei rapporti di Massiola con Campello Monti tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento si nota un forte scambio esogamico fra le due comunità. Essendo irriducibilmente rivali con quelli di Forno, i campellesi prediligevano le donne di Massiola (e presumiamo viceversa per i maschi massiolesi), soprattutto poi le vedove, talché un parroco di Massiola aveva imposto una tassa di mariage sulle vedove che lasciavano Massiola per Campello, facendo andare su tutte le furie il vescovo novarese (il cardinal Fernando Taverna) quando questi fu informato dell’abusivo balzello ecclesia- ASDN - Actorum Curiae, IV, 1, 76 (1569). Un altro curato ossolano, don Stefano de Quirico di Lomese, curato di Montecrestese in Valle Antigorio, negava la reale presenza del corpo di Cristo nell’Eucarestia. Costui era in stretto contatto coi curati formazzini e con suoi parrocchiani che si recavano periodicamente nei cantoni elvetici. ASDN – Foro ecclesiastico; 2 – Libri e registri; 5 – Libri Constitutorum in causis fidei, (1596-1603), foll. 121r-164v. Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Le streghe di Baceno (1609-1611)…, p. 143, N. 87 e p. 148, N. 98. Th. Deutscher, Carlo Bascapè and tridentine reform in the diocese of Novara (1593- 1615), University of Toronto, 1976. M. Crenna, I modi inquisitoriali nel Novarese, in “BSPN” LXXX - II (1989), pp. 455-491. L’episodio, da noi narrato ne Le streghe di Baceno, è qui raccontato con maggior dovizia di particolari. Battista Beccaria, Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615), in «Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes ville comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 123-146. — 22 — A U G U S T A Issime, affresco datato 1660 su parete esterna di una casa del villaggio di Rickurt inferiore. Il Cristo rappresentato è trionfante sul dolore. (L’affresco oggi è scomparso) stico introdotto a sua insaputa. Le numerose richieste di “dispensa matrimoniale per consanguineità in terzo grado di parentela” che venivano poi richieste dall’una e dall’altra parrocchia ci indicano che il “melange” etnico tra i due paesi era giunto a tal segno che non sarebbe oggi più possibile quantificare se ci fossero più abitanti di origini walser a Massiola o abitanti di origine massiolese a Campello (19). Ma tutte queste osservazioni sono riferibili a periodi molto tardi e casomai possono far pensare che una popolazione walser di etnia pura e non meticciata sia uno dei tanti miti che ancora si vanno perpetuando in àmbito di storiografia walser. Piuttosto, sotto le vesti questa volta di medievisti, abito che ci va senz’altro meno stretto, vorremmo porre alla riflessione degli studiosi di cose walser, un problema che forse è più specifico e importante di quelli sopra riferiti. Il problema del periodo delle origini del fenomeno migratorio walser da un versante all’altro della catena alpina e poi, all’interno di questo fenomeno, vorremmo soprattutto tentare di dare una spiegazione (che non è certamente l’unica e forse neppure la più importante) del perché, in àmbito novarese (ci limitiamo all’àmbito territoriale che conosciamo meglio), il secolo XIII segni un maximum di insediamenti walser in diocesi di Novara che vengono a sovrapporsi a comunità locali già preesistenti o, come vorrebbero alcuni, che arrivano a “fondarne” altre, soprattutto in Valle Sesia e comunque intorno al Monte Rosa (il monte Bosone in antico, termine italico al pari di alpe) e agli alti passi che collegano varie vallate poste intorno a questo mitico monte walser. Ci pare che siano stati fatti interessanti studi anche sui fattori climatici riguardanti i secoli immediatamente prima e dopo il Mille a riguardo delle vallate, dei ghiacciai, dei pendii, della vegetazione di quelle località che poi saranno toccate dal fenomeno migratorio walser. Pur non essendo noi dei climatologi, discuteremo anche di questo, nei limiti delle nostre poche e scarne conoscenze (Bertamini sarebbe incommensurabilmente più preparato su questi argomenti scientifici di chi scrive). In effetti crediamo che i fattori climatici siano sì molto importanti, ma non decisivi né determinanti per spiegare fenomeni migratori, soprattutto su lunghi o lunghissimi periodi. Abbiamo letto con vivo interesse un denso e dettagliato saggio della prof.ssa Augusta Vittoria Cerutti sulla storia del clima nel- 19 20 le zone del Rosa, pubblicato su questa stessa rivista nel 1977 (20). Se come ci sembra di aver capito (ma per uno storico è difficile seguire senza qualche fraintendimento il discorso di uno scienziato) attorno al 1000 il clima sarebbe stato favorevole anche alle alte quote e, per di più, le alte creste delle Alpi non avrebbero mai segnato in questo periodo confini tra entità politiche o Signorìe al di qua e al di là dei due versanti (condividiamo appieno quest’ultima annotazione), ci chiediamo perché mai le migrazioni verso, poniamo, il Novarese non siano già iniziate verso il Mille o subito dopo, ma invece tra la fine del XII secolo e soprattutto a partire dal XIII secolo, proseguendo poi nei secoli seguenti con continuità. Proprio prendendo spunto dall’opera di Bertamini su Macugnaga e analizzando meglio Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Massiola tra Cinque e Seicento. Note e documenti per una storia dei primi cinquant'anni della parrocchia di S. Maria di Massiola, Omegna 1994. Augusta Vittoria Cerutti, La storia del clima e delle genti del Monte Rosa, in “Augusta 1977”, pp. 2-16. — 23 — A U G U S T A alcune sue intuizioni geniali, ma mal espresse o non del tutto portate alle loro più logiche conseguenze, troviamo, esattamente nel periodo delle origini e del sorgere di Macugnaga (non fondata da Walser ma casomai originatasi da una curtis altomedioevale gestita da schiavi casati di etnia italica, come risulta chiaro dalla pergamena) nel corso del X secolo (21), una delle cause socio politiche che due secoli appresso porteranno alla discesa su quel versante di popolazioni vallesane. Il Bertamini è illuminante per il medievista che si voglia accostare a questo arduo e affascinante problema perché, al di là della sua narrazione storica, produce in un secondo volume di soli documenti (nel caso del periodo in questione pergamenacei) una tale quantità di testimonianze di prima mano che permettono al medievista stesso, non solo di giudicare della bontà o meno della narrazione bertaminiana, ma di operare collegamenti direttamente dalle pergamene editate per individuare fenomeni più vasti e da inquadrare in un milieu storico-politico che è in atto in quel momento (secoli XI-XII) in tutto il Novarese, fenomeno non altrettanto presente al di là delle Alpi. Si tratta di un aspetto particolare ma importante e fondamentale della politica messa in atto dai Comuni dell’area lombarda e piemontese, che è correlato da un lato con la perdita di potere e di giurisdizione piena (honor et districtus) dei membri più eminenti della classe feudale sui loro subalterni al di qua del crinale alpino, e dall’altro alla cessazione totale nei primissimi decenni del XIII secolo della schiavitù (o servitù della gleba, come alcuni amano definirla) nel territorio controllato dal Comune, nel caso specifico quello novarese. L’abate del monastero benedettino di Arona permuta nel 999 i suoi ricchi beni posti a Brebbia con la curtis “Vaccareccia” (il nome è già di per sé emblematico delle specificità economiche e di conduzione di questa holding curtense) e le varie alpi anzaschine poste sotto il Rosa, di proprietà della pieve lombarda e della sede arcivescovile milanese, tra cui l’alpe Macugnaga, che darà poi nome a tutto quel complesso di beni, ma solo in seguito di tempo e in conseguenza di una antropizzazione che si originerà dalla curtis medesima, all’atto della sua dissoluzione verso la metà dell’XI secolo. In quell’atto di permuta, insieme a pascoli, boschi, diritti di sfruttamento del pascolo, fiumi, riali (e rogge), ponti e quant’altro vengon compresi e computati in solido col resto dei beni come pertinentiae della curtis medesima dieci schiavi (servos et ancillas, famulos, familiam: sono tutti termini che si equivalgono e connotano lo “schiavo” dell’Alto Medioevo). Si trattava di una curtis i cui mansi (prati, pascoli, boschi, stalle, casere, 21 22 23 eventuali mulini, ecc.) erano inquadrati giuridicamente come mansi servili (altre tipologie, vedremo, potevano essere a quel tempo i mansi aldionali e ingenuili) e il complesso era tutto inizialmente indominicatum cioè composto unicamente di pars dominica a conduzione diretta (da parte del Monastero benedettino aronese) attraverso la manodopera degli schiavi e non invece di massaricium cioè di terreni a conduzione indiretta, ovvero attraverso contratti enfiteutici con liberi fittavoli o libellarii (22). Sappiamo che, soprattutto nei grandi latifondi ecclesiastici (a Novara, v.g., i Capitoli canonicali del Duomo, di San Gaudenzio, di San Giulio d’Orta e, in misura minore, di San Giuliano di Gozzano, oltre che le Abbazie di Arona e di Romagnano Sesia i quali - insieme ai Conti di Pombia e ad altri potentati laici, sono anche proprietari di grandi allevamenti di bestiame – sappiamo dunque che gli schiavi sono, ancora nell’XI-XII secolo, presenti massicciamente come forza – lavoro, sia pure affiancati, col procedere dei decenni, sempre più da liberi livellari o da coloni che sono insieme già piccoli proprietari (allòderi). Di più, mentre i laici hanno meno difficoltà ad affrancare gli schiavi o pro remedio animae o perché reputano più produttivo avere dei dipendenti liberi ma cum obsequio, che sono più incentivati ad apportare migliorìe e ad assumere iniziative interessanti anche per lo stesso proprietario, la Chiesa proibisce l’alienazione dei beni ecclesiastici e, se uno schiavo si può vendere, non lo si può però liberare perché sarebbe come regalarlo, cioè perderlo e quindi rendere un danno all’ente ecclesiastico medesimo. Gli ultimi schiavi novaresi che verranno affrancati nel 1214 sono gli schiavi di Cannero ed Oggebbio sul Lago Maggiore, di proprietà dei canonici della Cattedrale di Novara, ma non sono stati certamente né il vescovo né tantomeno i canonici ad affrancarli, bensì il Comune di Novara (23). L’affermarsi e il crescere del Comune - entità che è nata inizialmente all’ombra del vescovo e della Cattedrale - si sviluppa gradatamente sostituendosi man mano al vescovo stesso nella gestione del potere in città e poi, con la successiva politica di espansione fuori le mura, incorpora giurisdizioni all’interno dei vecchi confini dell’episcopato, inteso come area di influenza e di conquista coloniale della nuova entità comunale a danno degli antichi detentori del potere pubblicistico ormai frammentato e parcellizzato in tante Sigorìe. Conti, Signori, feudalità più in generale, devono sottomettersi al Comune che fa valere su tutti le sue leggi o Statuti. Viene abolita la schiavitù e vengono incentivate le libertà comunali nei borghifranchi dove i rustici, inurbandosi, si possono scrollare di dos- Tullio Bertamini, Storia di Macugnaga, vol. II: (“Appendice dei documenti”), Parrocchia di Macugnaga, Macugnaga-Verbania 2005, p. 9, documento del 22 giugno 999. Il documento pergamenaceo originale è conservato in A.S.T., Le carte del monastero dei Santi Felino e Graciniano di Arona, cartario non ancora editato. Abbiamo voluto controllare personalmente il documento in questione. Per tutti i problemi e le tipologie di curtes alto e basso medievali del Novarese si può vedere dello scrivente: B. Beccaria, La corte regia di Baraggiola tra la fine del X e il principio del XIII secolo, in “Un borgofranco novarese dalle origini al Medioevo”. Atti del convegno (7 maggio 1994), Borgomanero 1994, pp. 93-103. Non solo i laici, possessori di latifondi, ma soprattutto il clero più ricco e i maggiori Enti ecclesiastici mantennero, per tutto l’Alto Medioevo e per buona parte dell’XI secolo, la schiavitù ereditata dall'antichità romana. Per quest'ultimo secolo (l’XI) e relativamente al Medio Novarese cfr. BSSS, CLXXX-I, doc. VII, 1028, pp. 11-13. Nel 1028 il prete Anselmo acquista dai fratelli Edo e Rotruda alcuni fondi in Sizzano e insieme lo schiavo Adamo e la schiava Rigiza per 100 soldi (5 lire) in buoni denari d'argento (1.200 denari in totale); doc. XX, 1039, pp. 36-37. Il diacono Rimezo di San Giulio nel 1039 vende al suddiacono Uberto, oltre a case e beni che aveva acquistato a Pogno, Agrano e Omegna, anche due schiave, Maria e Richelda, — 24 — A U G U S T A so i restanti gravami feudali. In una tale temperie politica i Biandrate, i Da Castello, i Da Crusinallo, i canonici di San Giulio diventano semplicemente dei grandi proprietari di latifondo, di diritti esclusivi su fiumi e rogge (la forza motrice del tempo), di mulini, resighe e follae (l’industria pesante del Medioevo) e di grandi allevamenti di bestiame, ma senza più vere e piene giurisdizioni coercitive sui loro subalterni, che non sono più oramai loro sudditi, ma solamente loro dipendenti. Viceversa consorterie comitali come i Biandrate e i Da Castello (discendenti, entrambi questi rami, dai Conti di Pombia, legittimi detentori del potere fino almeno all’XI secolo su tutto il Novarese), che con matrimoni e compere avevano acquisito proprietà e giurisdizioni al di là delle Alpi, soprattutto nel Vallese, poterono esercitare in quell’àmbito, dove la civiltà comunale non si era ancora diffusa e imposta, lo jus hominescum sui loro soggetti, che quindi rimanevano sudditi a pieno titolo, e i medesimi Signori poterono valersi di un honor et districtus ancor integro, pienamente in vita e realmente applicabile nei loro feudi transalpini. Fu così che, non potendo più “distringere” (obbligare) gli ex sudditi novaresi, ma potendo esercitare l’honor et districtus sui loro homines vallesani, quei Signori utilizzarono nell’àmbito dei loro possessi novaresi proprio i sudditi vallesani anche al di qua del crinale alpino. Questi Walser vennero in pratica a sostituire i vecchi schiavi dell’Alto Medioevo, schiavi che, col passare del tempo, si erano sempre più stemperati verso una servitù della gleba maggiormente blanda, dove liberi e schiavi venivano a formare una classe quasi indifferenziata di semiliberi (o semischiavi), fino a poter raggiungere poi la completa libertà coll’affermarsi del Comune. Ma poiché, al di qua delle Alpi, dopo un certo periodo di residenza, anche questi sudditi vallesani avrebbero potuto affrancarsi totalmente alla stregua degli ex dipendenti novaresi, li attirarono con vantaggiosi contratti quasi di “pariage”: fu così che, nel pieno vigore dell’Età comunale - la quale cancellò anche il vivere secondo la legge longobarda, piuttosto che secondo quella salica o quella romana - omologando tutti a cittadini viventi sotto l’unico Statuto del Comune, iniziò una massiccia emigrazione di popolazioni walser dalle Alpi svizzere verso i versanti italiani, le quali vennero ad occupare i posti lasciati vacanti prima da sudditi schiavi e poi anche da quelli liberi, ma impiegati dai loro padroni e Signori su terre particolarmente ingrate. Uno studioso di prim’ordine dei Walser novaresi, come Paolo Crosa Lenz, sempre su Augusta del 1979 (24), in un lucido articolo sulle origini della comunità alamanna di Ornavasso, narra una leggenda illuminante che ten- 24 25 ta “miticamente” di spiegare l’arrivo di quella popolazione d’Oltralpe. Il paese di Ornavasso sarebbe stato fondato da sette famiglie fuggite dal Vallese per sottrarsi alle “angherie” di un feudatario. Tale mito cosa può rappresentare ed evocare altrimenti se non il ricordo ancestrale di una popolazione che aveva subìto, in un passato neppur poi lontano, le “anghariae”, cui erano soggetti schiavi e servi della gleba tra alto e basso Medioevo, da parte di un Signore (un Da Castello?) che esercitava lo jus hominescum (definito più comunemente ed esattamente nei documenti pergamenacei medioevali honor et districtus) su una popolazione a lui completamente subordinata mediante una sudditanza totale e incondizionata? Questi uomini (le sette famiglie), venendo al di qua delle Alpi sotto la giurisdizione del Comune, si erano così potute emancipare da un potere coercitivo quasi assoluto. Ricordiamo che anche in Francia la servitù della gleba fu in vigore fino al XIV secolo, mentre l’Italia dei liberi Comuni aveva già portato la libertà ai servi fin dal XII secolo (25)! Queste poche note, tratte perlopiù da nostri studi (si vedano le ricorrenti e preponderanti citazioni da nostre svariate ricerche, che nulla hanno avuto originariamente a che spartire direttamente con la storia dei Walser), non vogliono certo proporsi come la spiegazione delle origini del fenomeno walser sul versante italiano delle Alpi: intendono, invece, solo e soltanto offrire al lettore degli spunti di riflessione alternativi a un tipo di storiografia “mitica” e direi quasi “trionfalistica” che si è affermata fin qui a riguardo di questa popolazione. Il merito di queste nostre proposte di ulteriore, pacata e serena riflessione va anzitutto a Tullio Bertamini e alla nutritissima trascrizione di pergamene medioevali da lui approntata in numerose sue opere (che riguardano non soltanto i Walser), la qual trascrizione ci ha dato modo di farci un’idea “nostra” (fondata sul documento d’archivio) circa la querelle in corso tra esperti di questioni walser. E in secondo luogo al professor Augusto Vasina che, con la sua recente Storia di Rimella, ha permesso che si desse il “la” a queste voci un po’ fuori dal coro comune. Spero che il dibattito in corso dia un apporto ulteriore alla ricerca sin qui condotta da numerosi validissimi studiosi. Per quanto ci riguarda, vorremmo portare, nell’anno che verrà, un modesto contributo a questa bella rivista che ci ha voluto ospitare, con una ricerca presso gli archivi ecclesiastici della Valle d’Aosta, in primis quello vescovile, per verificare in sede di Storia della Chiesa se ci siano anche a Issime o a Gressoney fenomeni controriformistici particolari, che si riferiscano a tali comunità walser, del tipo di quelli riscontrati per la diocesi di Novara. madre e figlia; doc. XXVIII, 1071, pp. 48-49. L’ecclesiastico Giovanni vende a Magno, pure ecclesiastico, tutti i suoi beni di Ghemme e tutti i suoi schiavi, eccetto quattro di essi di cui si riserva la proprietà. I canonici della Cattedrale di Novara possedevano ancora schiavi al principio del secolo XIII nei villaggi di Cannero e Oggebbio, sul lago Maggiore, su cui avevano la Signorìa, esercitando l’honor et districtus anche su tutti gli altri abitanti liberi. Fu il Comune e non la Chiesa ad affrancare i servi dalla schiavitù. Nella zona interessata dai beni della “corte”, prima regia, poi comitale e, infine canonicale (del Capitolo San Giulio d’Orta) di Baraggiola (nel Medio Novarese), la presenza del borgofranco, longa manus del Comune di Novara, aiutò a spazzare via questi residui di feudalesimo arcaico già alla metà dell’XI secolo. Cfr. B. Beccaria (s.v. Giambattista), La corte ottoniana di Baraggiola di Borgomanero (secoli X-XIII). Dissoluzione dei mansi e delle terre vicane tra i secoli XII e XIII, in “Novarien.”, 17 (1987), pp. 69-106. Paolo Crosa Lenz, Elementi di storia e cultura Walser, in “Augusta 1979”, pp. 2-10, e specialmente p. 6. Gilbert Ouy, L’Humanisme et les mutations politiques et sociales en France aux XIVe et XVe siècles, in L’Humanisme français au début de la Renaissance, Colloque international de Tours (XIVe stage), Paris, Vrin, 1973, pp. 27-44. — 25 — A U G U S T A La cappella di Mühni JOLANDA STÉVENIN ita a 2008 metri è la più alta di Issime ed è particolarmente amata non solo dagli issimesi ma anche dai villeggianti. Essa è dedicata alla Madonna delle Nevi la cui festa cade il 5 agosto. Secondo la tradizione, i fratelli muratori Chouquer (anticamente Quera), di ritorno da Challand nel cuore dell’inverno, giunti in località Mühnes, scamparono miracolosamente ad una valanga e, in segno di gratitudine, fecero voto di edificare lassù una cappella da dedicare alla Madonna delle Nevi. S In proposito, un documento redatto l’11 settembre 1667 nella casa parrocchiale di Issime riporta quanto segue: 1-“Jean de Jacques Quera a bâti une chapelle sur la montagne Severeur d’Issime et requiert qu’elle soit bénite sous le vocable de Notre Dame aux Neiges, fête le 5 août de chaque année;il la dote de la somme annuelle, à perpétuité d’un quart de ducaton pour célébrer la messe et de deux florins et demi d’Aoste pour le dîner annuel au célébrant de la dite messe. Pour cela il hypothèque deux de ses pièces sises au dit lieu, appelées Loz Buyl et Loz Brelchz soit Loz Pison.(Source:A.P.I. Issime, Chapelles – no- taire Pierre Consol). Un secondo documento precisa meglio la volontà del testatore: 2-“Le Bul, sur la montagne Severeur d’Issime, 1669, 21 mai. Testament de Jean de Jacques Quera, constructeur et fondateur de la chapelle de Munes. Entre autres, il lègue a cette Chapelle, le revenu annuel, à perpétuité, d’un écu monnaie ayant cours à Aoste, pour la manutention et restauration de la dite chapelle, exclusivement. A cet effet, il hypothèque au profit de la chapelle, une quartanée d’une de ses pièces, ou s’érige la chapelle au dit lieu de Loz Bul” (Source:A.P.I. – notaire Jean Jacques Biolley). Pochi anni dopo la sua erezione la cappella di Mühnes è già oggetto di visita pastorale. Nel verbale del 14 agosto 1693 si legge: “…Plus la chapelle de Munes, à la montagne d’Issime, soubs le titre de Notre Dame des Neiges; ayant deux messes; bien bastie,sans parements. Interdite jusques à ce qu’elle soit garnie de tous les pare- La cappella di Mühni alla testata del Vallone di San Grato. (g.c. Beppe Busso Güstinhsch) — 26 — A U G U S T A tribution de 25 sols et le disner pour chaqu’une”. Il 24 maggio 1727, a proposito della cappella si legge: “…en bon estat quant à la batisse et les parements; y ayant l’obligation de deux messes, une le jour de la feste à la rétribution de 30 sols, ou bien 10 livres de beurre, outre le disné; et l’autre à la commodité du curé,à 20 sols de rétribution”( A.Cu.E. – C5 – vol 10). ECCO QUANTO RIPORTA IL: Livre de mémoire, 1785 1. Par contrat 11 septembre 1667, Pierre Consol notaire, messe en chant, avec laudes et vêpres, le jour 5 août, fête du Patron, payable par Jean Jacques de feu Pierre Chouquer, possesseur de la pièce léguée sise au Bul. 10 livres en poids de beurre, outre le dîner. 2. Une autre messe à basse voix, le jour de saint Pantaléon ou autre jour; payable par sieur Jacques de feu spectable Avocat Jean Pantaléon Linty; pour laquelle est légué neuf livres, en poids, de beurre, sans dîner, tous les ans, à perpétuité Legs de la chapelle de Mühnes Per disposizione testamentaria di alcune persone pie, la cappella può contare su diversi lasciti tra cui: Fontainemore, 1770, 7 janvier: 1 - Le testateur Jean-Joseph de feu Christophe Ronc, d’Issime, … lègue deux livres à la vénérable chapelle de Notre-Dame aux Neiges, … à être accompli et payé dans l’an de son décès. (Source: A.N.A. Fonds Donnas, Joseph Alby, notaire, vol. 1767-1770). Issime, 1778, 2 février: 2 - Marie-Magdeleine Cervier, femme de Joconde Bussoz, d’Issime, lègue … cent livres à la chapelle de Munes. (Source: ut supra vol. 1778-1779) La pala d’altare della cappella di Mühni ments” (A.Cu.E. Registre des visites pastorales, 16931696).” Issime, 1797, 27 novembre: 3 - Rente constituée par Jean Dominique de feu Dominique Gris, d’Issime, en faveur de la chapelle de Munes, de Notre Dame aux Neiges. Capital: £ 50,00 - Revenu annuel: £ 2,00 (Source: A.P.I. / Notaire Joseph Alby). La cappella viene dunque interdetta perché sprovvista di paramenti. Sette anni dopo, dal verbale del 14 maggio 1700, la cappella risulta: “…bien bastie, bien ornée avec tous ses parements, à la réserve du calice et de la pierre sacrée qui y manquent…” (R.Cu.E .Registre des visites pastorales, 1699-1712). Il 9 giugno 1703, durante la visita pastorale, si rileva ancora la mancanza della pierre sacrée. Dieci anni dopo, il 25 luglio 1713, esiste ancora lo stesso problema infatti il verbale recita: “…plus autre chapelle sur la montagne de Issime de Cevereul, au lieu appelé Les Munes,…assez proprement bastie, y manquent la pierre sacrée et encore le calice; y estant une messe fondée par Jean Quera, pour le jour de la feste; et une autre léguée par un Jaques Ronc, à la ré- 1 2 Nel corso degli anni, tutti i reverendi parroci di Issime hanno redatto la storia di ogni cappella con date, dotazioni, rendite e obblighi relativi. Ecco l’Historique del parroco Jean-Ange Roncoz1 del 13 gennaio 1786: Fondation, dotation, messe le 5 août, bénite en 1667. Fonds: £ 32-en bon état de bâtisse-Inventaire des meubles – Messe chantée, laudes et vêpres: 10 livres de poids de beurre annuellement à perpétuitéAutre messe à la S.Panthaléon, 27 juillet – rétribution 9 livres de beurre sans dîner, ou 7 livres de beurre avec le dîner. La ditte chapelle possède: Deux chasubles avec leurs étoles, leurs manipules, dont Ronco Jean-Ange de Joseph, de Jean-Ange, né à Issime-Saint-Jacques le 10 novembre 1738, prêtre le 28 mai 1768, curé d’Issime-Saint-Jacques à partir du 16 novembre 1784, archiprêtre en 1806, décédé à Issime le 10 février 1815. Freppa Jean-Germain, de Christophe, né à Issime-Saint-Jacques le 11 octobre 1812, prêtre le 17 décembre 1836, curé d’Issime-Saint-Jacques de 1843 à 1862, mort à Saint-Léger d’Aymavilles le 8 mars 1876. — 27 — A U G U S T A l’une presque neuve de satin et l’autre presque usée de laine. Une aube en mauvais état et hors d’usage; trois nappes d’autel, une en bon état et les deux autres déjà usées; un missel en bon état; deux devants d’autel … la pierre sacrée , un calice avec sa couppe et patène d’argent, dorée au dedans et le pied du calice en laiton de la valeur environ de trente livres – Quatre chandeliers de bois, avec un très petit crucifix de laiton; et les canons pour l’autel. En simple état; deux burettes d’étain; quatre petits flambeaux en cire blanche, pour l’usage de la messe; un autel garni d’un beau tableau en peintures fines, avec une petite statue de la Très Sainte Vierge. (…). 10 libbre di burro, senza pranzo Nel luglio 1847, il reverendo parroco d’Issime J.J. Freppa2 inoltra a Monsignor Vescovo una rispettosa domanda, premettendo quanto segue. • sulla montagna d’Issime denominata Münes si trova una cappella dedicata alla Madonna delle Nevi, distante tre leghe dalla chiesa parrocchiale; • il parroco è tenuto a celebrarvi ogni anno due messe di legato di cui una il 27 luglio con retribuzione di 7 libbre di burro e il pranzo; la seconda, con lodi e canti, e vespri, il 5 agosto con una retribuzione di 10 libbre di burro, senza pranzo. • il parroco precisa che, dopo aver percorso tre leghe di strada, e dopo aver celebrato la messa, si trova nell’impossibilità di far ritorno al presbiterio per il pranzo; dovendo pertanto approfittare della generosa ospitalità degli abitanti della montagna, si sente alquanto a disagio. • al fine di trovare una soluzione a questo problema, il parroco chiede a Monsignor Vescovo il permesso di prelevare dalla cassa della cappella la somma di F.2,50, affinché il sacrestano, o procuratore, possa preparare un piccolo pranzo per il parroco e i cantori che collaborano alle funzioni del culto. • Ed ecco la risposta del Vescovo di Aosta, Monsignor André Jourdain: “Vu la présente supplique, Nous authorisons le procureur de la chapelle en question, à délivrer chaque année deux livres et cinquanta centimes, le jour de Notre Dame aux Neiges, pour la fin suppliée. Aoste, le 17 juillet 1847”. Convenzione del 10 maggio 1867 Alla data suddetta, il Consiglio di Fabbrica d’Issime, da una parte, e lo scultore Guala Jean Baptiste de feu Jacques de la Mollia in Valsesia, dall’altra, siglano un accordo per dei lavori da effettuare alla cappella di Mühnes come segue: chandeliers à réparer, canons et statuettes, ainsi que celles de la chapelle de Saint Grat, pour £ 60,00. Con gli anni, risulta sempre più impegnativo ottemperare agli obblighi imposti dagli antichi legati per cui gli interessati ricorrono alla formula dell’affrancamento. Così ad esempio troviamo: “Issime, 1910, 3 et 4 décembre Chouquer Désiré de feu Florentin, propriétaire de la pièce sise à Bul, sur laquelle, par acte de 1667, est imposée 3 la messe de fondation annuelle et perpétuelle à dire dans la chapelle de Munes,moyennant le versement de la somme de £ 300,00, à la Fabrique d’Issime Saint Jacques, affranchit les obligations du legs susdit et rend la dite Fabrique responsable de l’acquittement de ce legs (Source: A.P.I. chapelles, mazzo XV)”: Ed ecco la risposta del Vescovo di Aosta: “Vu le recours qui précède, vu les raisons exposées, nous affranchissons le legs dont il s’agit, moyennant le versement de £ 300 à la Fabrique d’Issime (…). Aoste le 4 décembre 1910, Johannes Vincentius Episcopus”. N.B. Il signor Jacques Consol, avendo acquistato la baita sulla quale gravava il legato ha sborsato la somma convenuta di £ 300,00. Il reverendo parroco Grat Vesan,3 nel suo Cahier des Notices sur divers legs de la paroisse d’Issime Saint Jacques, a proposito della cappella di Mühnes riporta: une messe annuelle et perpétuelle le 5 août, en chant, avec les laudes et les vêpres. Le curé perçoit, pour la rétribution, dix livres de beurre, en poids, avec le dîner (…) autrefois: une autre messe, le jour de saint Panthaléon, payable par les messieurs Linty; neuf livres de beurre, sans dîner, ou sept livres, avec le dîner. Aujourd’hui: cette dernière messe, legs Linty, fut affranchie en septembre 1894, par monsieur Christillin, chevalier, et le docteur Goyet Jean, au nom de son épouse Hortense Christillin. Monsieur le docteur Goyet débourse £ 50 et monsieur le chevalier Louis donna gracieusement £ 100, vû que le legs n’était pas affecté, sur la portion du bien qu’il avait acheté. (…) Actuellement, autant que faire se peut, l’on célèbre toutes les deux messes, le même jour, le 5 août. Quand il n’y a qu’un prêtre, la messe du legs Linty on la célèbre le lendemain. (…) La chapelle est à trois heures bonnes distante de l’église. N.B. Tutti i dati d’archivio qui riportati mi sono stati gentilmente forniti, a suo tempo, dal compianto prof. Orfeo Zanolli perché ne facessi un uso appropriato. La cappella di Mühnes è a pianta rettangolare con la facciata imbiancata a calce e tetto avanzato per proteggerla dalle intemperie. All’interno troviamo un piccolo altare ornato da un polittico del XVIII secolo. Nei sei riquadri del polittico sono raffigurati: San Giuseppe e Gesù Bambino, San Giovanni Battista, la Madonna col Bambino, San Giacomo il Maggiore, San Proietto e San Grato. Nel 1981 l’edificio è stato egregiamente restaurato. La cappella di Mühnes, così bella nella sua accogliente semplicità, è una preziosa testimonianza di fede, di religiosità popolare, di coraggio, di spirito di sacrificio, di lealtà alla parola data, di tutti quei nobili ideali che per tanti secoli hanno sorretto la vita dei nostri antenati e che dobbiamo conservare quale preziosa eredità. Vésan Grat Joseph Célestin, né à Torgnon le 29 janvier 1870, prêtre le 19 mai 1894, curé d’Issime le 29 octobre 1908, décédé en 1946 à l’âge de 76 ans. — 28 — A U G U S T A A Lady’s Tour round Monte Rosa…1 Viaggiatori, turisti e primi alberghi nella valle del Lys FRANCESCO DAL NEGRO ra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo iniziò sulle Alpi l’arrivo di forestieri, dapprima quasi esploratori poi veri e propri turisti, che visitavano le valli alpine divenute improvvisamente di moda grazie alla nuova visione illuministica della natura e rese popolari dai versi di Rousseau e di von Haller. E questi nuovi ospiti delle Alpi avrebbero percorso gli stessi passi e gli stessi sentieri che da secoli venivano attraversati e percorsi, non certo per diletto, dai montanari, dai pellegrini e dagli emigranti. Iniziava, all’inizio dell’800, quella grande rivoluzione sociale e culturale che nel giro di pochi decenni avrebbe trasformato (nel bene e nel male) l’ambiente alpino e l’economia delle popolazioni locali. Per quanto riguarda le valli ai piedi del Monte Rosa, queste erano tutte abbastanza facilmente collegate le une alle altre da valichi e sentieri che, perifericamente al massiccio e mantenendosi al disotto dei 3000 metri di quota, permettevano di compiere un itinerario quasi circolare che da Zermatt conduceva a Saas, a Macugnaga ed Alagna, quindi a Gressoney, Fiery e Breuil, per poi ritornare al punto di partenza. Era l’itinerario che compì il de Saussure nel 1789, lasciandoci nelle sue note delle prime interessanti informazioni sulle possibilità di alloggio nelle valli attraversate: “capitando di giungere sul far della notte in certi villaggi isolati non si trovava nemmeno l’ombra di locanda, ed occorreva bussare alla porta di una baita”2. I primi turisti (o touristi come meglio venivano indicati allora) seguivano itinerari abbastanza ben definiti, e gli inglesi soprattutto, ma anche americani, tedeschi e svizzeri che compivano il tour del Monte Rosa (erano ancora una minoranza quelli che salivano sulle vette) percorrevano praticamente sempre lo stesso itinerario, partendo preferibilmente da Zermatt o Saas, che raggiungevano più facilmente arrivando da nord. Necessariamente facevano tappa negli stessi luoghi, che poi erano i poveri villaggi alla testata delle valli, e durante la stessa stagione estiva T 1 2 (che spesso si riduceva a poche settimane) i piccoli gruppi si incontravano, si lasciavano per poi ricongiungersi, lungo lo stesso itinerario, e guardati anche con un po’ di sospetto dai nativi, trovavano alloggio in qualche casa privata, in qualche primitiva locanda, ma il più delle volte dal parroco. Nella prima metà dell’800 questa presenza di forestieri andò aumentando: la conquista delle grandi vette e l’incipiente notorietà di alcune località venivano riportate dai grandi giornali stranieri, la ferrovia si avvicinava alle Alpi rendendole più accessibili, ed anche il tenore di vita di molta gente, soprattutto nei paesi dell’Europa centrale ed in Inghilterra , migliorava di anno in anno. Tutti questi fattori contribuirono a far sì che sempre più persone considerassero le Alpi la meta più ambita per le vacanze. Più turisti e più denaro misero in moto, anche nelle località più “chiuse”, il fenomeno alberghiero, trovando quasi sempre in loco persone più “aperte”, dove lo spirito imprenditoriale si univa ad un’apertura mentale fatta di accoglienza e curiosità verso l’ospite. Nella valle del Lys, a Gressoney, uno dei primi alberghi fu la Pensione De La Pierre, nella frazione Predeloasch. La pensione era gestita da Pierre De La Pierre3, rinomata guida alCartolina pubblicitaria dell’Albergo Mont-Ner y cfr. Cols H.W., A Lady’s Tour round Monte Rosa; with visits to the Italian valleys of Anzasca, Mastellone, Camasco, Sesia, Lys, Challant, Aosta e Cogne. London, 1860. cfr. de Saussure H.B., Voyages dans les Alpes, Genève, 1786 (in copia anastatica, Bologna, 1970) — 29 — A U G U S T A pina, amico del reverendo King che seguì in tutto il suo itinerario nelle Alpi Pennine nel 18554. Non si sa con esattezza quando iniziò la sua attività la Pensione De La Pierre, ma diverse fonti fanno risalire la data al 18505. La Pensione De La Pierre fu a lungo considerato il miglior albergo di GressoneySaint-Jean, per la calda accoglienza dei proprietari (non scorbutici come altri colleghi piemontesi…6) e per il suo confort: questo era il termine con cui veniva indicato un buon albergo, e presupponeva, a seconda dell’epoca, una certa dotazione di servizi, ma anchesottintesa-l’accoglienza gentile e non servile del proprietario. La Pensione De La Pierre risulta in una guida del 19067 già dotata di bagni, luce elettrica, garage: tutte dotazioni all’avanguardia per quel tempo! A Gressoney nella seconda metà dell’800 gli ospiti d’altra parte erano sempre più numerosi, ed Gressoney-Saint-Jean, Hôtel e pensione De La Pierre anche famosi: nel 1889 iniziò a sog(inizio XX sec.) (Foto V. Curta) giornare a Gressoney la regina Margherita di Savoia, appassionata alpinista, che frequenterà la località fino al 1923, anno della sua morte. Al seguito della Sovrana giungevano a Gressoney dignitari di Corte, alti funzionari, esponenti della nobiltà, e tra i tanti anche il poeta Goisuè Carducci, che si diceva riservatamente innamorato della Regina. La presenza di Margherita di Savoia diede notorietà e slancio a Gressoney, che ancora tra le due guerre era considerata tra le prime località di soggiorno alpino italiane. Ma già prima era stata naturale la trasformazione delle vecchie locande in confortevoli alberghi. A GressoneySaint-Jean nel 1861 venne costruito da Sebastiano Linty, per 30 anni sindaco di Gressoney, l’Hotel du Mont Rose, sulle rovine della casa di sua proprietà distrutta da un incendio. L’albergo, più piccolo rispetto ad altri, si rivolgeva ad una clientela più semplice, ai Gressoney-Saint-Jean, Hotel Pension Thedy soggiorni per famiglie, mantenendo (Foto V. Sella anteriore al 1890) sempre il suo stile di albergo alpino con una accogliente sala rivestita in legno e una piccola biblioteca alpina con carte e panorami a nate di brutto tempo ed anche per offrire una documentacura del C.A.I. di Biella8. La presenza di una piccola bizione sulla valle e sulle montagne della zona. blioteca per altro non era prerogativa dell’Hotel du Monte Sempre a Gressoney-Saint-Jean, un membro della famiglia Ros: quasi tutti gli alberghi delle Alpi ne possedevano una, Busca, Romualdo, costruì nel 1887 un nuovo albergo che per rendere più piacevole il soggiorno dei clienti nelle giorbattezzò Hotel Lyskamm. In anni in cui il turismo era or3 4 5 6 7 8 In realtà il vero nome di Pierre De La Pierre era Peter Zumstein; i turisti svizzeri e tedeschi sapevano da altri amici passati in precedenza, di arrivare in un albergo dove si parlava in tedesco. cfr. King.S.W., The Italian Valleys of the Pennine Alps: a Tour through all the romantic and lessfrequented “Vals” of Northern Piedmont, from the Tarentaise to the Gries, London, 1859. cfr. Maiocco A., Ville e dimore a Gressoney tra Ottocento e Novecento, Gressoney, 2001. cfr. Cole H.W. opera citata. cfr. Coggiola C., Nella valle del Lys. Cenni pratici pel villeggiante, Milano, 1906. cfr. Maiocco A., opera citata. — 30 — A U G U S T A (g.c. F. Dal Negro) mai affermato, Romualdo Busca concepì il suo albergo come una casa di prim’ordine, con gli spazi e le dotazioni che allora erano considerate indispensabili da una clientela esigente. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale l’albergo raggiunse il suo massimo splendore, e fu necessario costruire una dépendance, che ospitava anche l’Ufficio Diligenze. Pochi anni dopo (1895) Nicola Netscher inaugurava nella frazione Miravalle, in posizione isolata ed elevata, l’Hotel Miravalle, che al tempo era per la sua posizione, per la sua dimensione e per il servizio che vi veniva offerto, il più importante albergo della valle. La gestione dell’albergo, alla morte del Netscher passò alla sorella, vedova di P.F. Curtaz, già gestore dell’Hotel du Mont Rose, successivamente (1934) a Luigi Busca e Luisa Peretto, che al tempo gestivano il Lyskamm, e in precedenza i due alberghi Moderno e Regina di Gaby. A Gressoney-La-Trinité, sul luogo della vecchia Cantine des Alpes, la famiglia Thedy verso il 1880 aprì l’Hôtel Pension Thedy. Una prima testimonianza dell’albergo è una vecchia fotografia scattata da Vittorio Sella nel 1886 dove alle spalle dei coniugi Thedy si vede il semplice edificio di pietra. Verso il 1910 il vecchio Carlo Thedy cedette la gestione dell’albergo (già ampliato) ai fratelli Giuseppe, Bartolomeo e Luigi Busca, originari del villaggio di Cesnola di Settimo Vittone, dove il padre Giovanni Busca gestiva la stazione di posta con cambio dei cavalli denominata La Corona grossa. I tre figli di Giovanni che si erano formati nella gestione alberghiera, decisero poi di investire ed impegnarsi in tale attività nella valle del Lys. I tre fratelli Busca si unirono in matrimonio con le sorelle Peretto, anche loro originarie di Cesnola le quali insieme ad altre sorelle iniziarono a Gressoney-la-Trinité una attività commerciale complementare a quella alberghiera; aprirono dapprima un’osteria con rivendita di sali e tabacchi, quindi un magazzino per rivendita di derrate alimentari e vino, destinate soprattutto alla fornitura agli alberghi. Nel 1916 i Busca acquistarono l’albergo Thedy, la cui gestione rimase a Giuseppe e Bartolomeo, mentre, come abbiamo visto sopra, Luigi si fermò a Gaby dove gestì dapprima l’albergo Moderno, poi il Regina. 9 10 L’albergo Thedy in mano ai Busca subì numerose e successive trasformazioni ed ampliamenti; nel 1921 i Busca costruirono dietro al fabbricato originario una ampia dépendance. Acquistarono dal barone Peck-Peccoz un altro fabbricato, cosiddetto di servizio, che in parte venne adibito ad autorimessa, mentre negli anni 1930-32 di fianco e direttamente collegato al fabbricato ottocentesco venne eretto l’imponente stabile Busca. Il nuovo edificio, adibito ad Hotel di prima categoria, era composto da quattro piani di camere per un totale di 60 (mentre il Thedy originario ne aveva 30); fu da allora che l’albergo prese il nome di Grand Hotel Busca-Thedy che da subito seppe attirare una clientela selezionata proveniente da tutta Italia e non solo9. Oltre a Gressoney e Gaby anche Issime, più a valle, risentì dell’espansione turistica di fine secolo, e nel 1892 Louis Gustave Christillin ramo dei Pintsche, di una cospicua famiglia del luogo e sindaco del paese, costruì nei pressi del villaggio di Tunterentsch (già Varalljatzi) un edificio di quattro piani che destinò ad albergo di lusso dotato di ben 90 stanze, saloni di soggiorno ed un ampio giardino. L’albergo battezzato Hôtel Mont-Nery, non fu mai gestito direttamente dalla famiglia Christillin, ma fu affidato in epoche successive al signor Louis Balla, poi negli anni 30 al signor Giuliano Zoli (originario di San Remo) che già gestiva un albergo a Saint-Vincent, quindi nel 1943 venduto a Tancredi De Coll un imprenditore torinese10. L’albergo Mont-Nery, così come il Thedy ed il Miravalle di Gressoney, fin dal 1912 era dotato di una fonte privata di “acqua minerale” che sgorgava nel vallone laterale di San Grato presso il villaggio del Buart o di Santa Margherita, fonte che forniva acqua corrente all’albergo, e dava anche lustro allo stesso, che poteva reclamizzare gli effetti benefici delle acque stesse. La presenza di una fonte “termale”, nel senso più ampio della parola, era considerato spesso un fattore determinante nella scelta di una vacanza sulle Alpi, indipendentemente da finalità terapeutiche, ma insieme al clima balsamico ed al panorama riposante l’“acqua termale” era vista spesso come un quasi miracoloso presidio forse più psichico che fisico… Ancora oggi nei pressi di quello che era l’albergo MontNery una targa ricorda i pregi della fonte Santa Margherita, ma forse andrebbero ricordati anche l’accoglienza ed il relax offerti da quello che era uno dei primi alberghi della valle del Lys. Purtroppo la sua trasformazione avvenuta in tempi più recenti in condominio (come di tanti altri alberghi nelle valli italiane, senza prevedere altri usi più consoni e favorevoli alle comunità locali) è quasi il simbolo e la testimonianza della fine di un tipo di turismo alpino, sopravissuto a stento alla crisi della prima guerra mondiale e radicalmente mutato nel secondo dopoguerra. Sono mutate le esigenze e soprattutto la cultura del turismo, e troppi fattori sociali ed economici, che qui non è il caso di enumerare, hanno contribuito al cambiamento di abitudini nell’uso della vacanza. Resta il rammarico di vedere troppi alberghi trasformati in condomini, così come in tanti alberghi sopravvissuti è triste dover inutilmente e melanconicamente cercare il vecchio scaffale della biblioteca con le guide del CAI, sostituito dal megaschermo TV perennemente e ossessivamente acceso. Informazioni personali fornite dalla famiglia Busca, Gressoney-La-Trinité. Informazioni personali fornite dalle signore Maria Mosca e Bruna Stévenin ved. Busso, Issime; e dal Dr. Umberto De Coll, Torino. — 31 — A U G U S T A La Valle dell’Alleigne, a Champorcher Un SIC (sito importanza comunitaria) da tutelare e da valorizzare FAUSTA BAUDIN - MASSIMILIANO SQUINABOL a valle dell’Alleigne (più comunemente nota come Valle della Legna) è stata da qualche anno inserita dalla Comunità europea, dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione Valle d’Aosta tra i siti di importanza comunitaria, per la straordinaria ricchezza e varietà della flora. Questa eccezionale varietà è dovuta alle sue “particolarità geologiche e climatiche che giustificano l’interesse suscitato in alcuni fra i maggiori botanici che hanno esplorato la Valle d’Aosta. Dal punto di vista geologico il solco della valle insiste sulla linea di contatto fra il complesso piemontese dei calcescisti con pietre verdi e il complesso degli gneiss minuti della zona Sesia Lanzo”1. Gli autori dell’interessante articolo da cui sono state tratte queste righe, i tre botanici Maurizio Bovio, Franco Fenaroli e Pietro Rosset, han- L UN no reperito, durante un’escursione effettuata il 13 luglio 1986, che ricalcava i percorsi effettuati da altri illustri botanici molti anni prima (L. Vaccari tra il 1901 e il 1904 e H. Guyot nel 1924 ), nel solo ristretto spazio del col Santanel, alla testata della valle, una sessantina di specie vegetali e ne hanno reperite moltissime altre lungo tutta la zona esplorata. Tra le specie citate ve ne sono alcune molto rare, come la Minuartia lanceolata (unica stazione valdostana nota di un endemismo delle Alpi occidentali) la Cortusa matthioli (in Italia presente solo in pochissime località alpine) la Campanula excisa, la Saxifraga purpurea, la Limnea borealis (relitto glaciale). Ma la valle dell’Alleigne presenta anche altri aspetti di grande interesse dal punto di vista dei segni della presenza umana nel corso dei secoli. PO’ DI STORIA L’ALLEVAMENTO Gli alpeggi che costituiscono la valle propriamente detta dell’Alleigne – Monpey, Raverette, Ourti, Vercoche, Sant’Antonio, Chavana, Peroisa, Chenessy – insieme ai vicini alpeggi di Trome, Borion e Volseri (sulla destra orografica del torrente Alleigne), sono conosciuti e frequentati non solo dai contadini locali ma anche da pastori del- Il pianoro di Sant’Antonio 1 Bovio M., Fenaroli F., Rosset P., L’esplorazione botanica del vallone della Legna (valle di Champorcher) e l’attuale stato di conoscenza della sua flora, in Revue valdôtaine d’histoire naturelle . n 41, 1987, pp. 39-68. — 32 — A U G U S T A la piana canavesana fin dal Medio Evo, quando per accedervi essi dovevano pagare una sorta di “affitto” al conte di Savoia ed ai Pont-Saint-Martin, signori della valle di Champorcher. Fin da allora greggi di pecore e mandrie di vacche da latte trascorrevano l’estate su questi pregiati pascoli, permettendo la produzione di eccellenti formaggi. Molte abitazioni rurali, con le annesse stalle e cantine per la stagionatura dei formaggi esistono ancora, altri sono crollati o stanno rapidamente deteriorandosi. In alcune località si possono scorgere tracce di rus, le antiche canalizzazioni dell’acqua per l’irrigazione. LA METALLURGIA DEL FERRO E IL CARBONE DI LEGNA. Nel Seicento e Settecento a Vercoche si estraeva il ferro che veniva poi fuso nel forno di Ourty, di cui oggi si intravedono ancora i resti. Pare che qui siano state fuse alcune parti strutturali in ferro della chiesa parrocchiale, rifatta nel 1728. Per far funzionare questo forno (detto "alla bergamasca") e in seguito la fonderia di Pontboset, era necessario disporre di grandi quantità di carbone, ottenuto tramite la trasformazione di diverse essenze legnose su appositi spiazzi, ancora visibili in molti luoghi. Alcuni resti del forno di Ourty, con l’annesso incavo scavato per lavare il minerale dalle incrostazioni di terra, si possono ancora individuare, sebbene ormai quasi ricoperti dalla vegetazione. LA STRADA E IL COLLEGAMENTO CON LA VALSOANA. Su questa magnifica mulattiera, e su quelle dei vicini valloni di Dondena e Laris, passavano fin da tempi ancor più remoti, oltre a pastori transumanti, carbonai, boscaioli, minatori, commercianti ambulanti, stagnini e ramai itineranti che provenivano o che andavano verso la vicina Valsoana in Piemonte e in genere tutti coloro che dovevano raggiungere le valli del Piemonte occidentale attraversando i nostri colli. LA RELIGIOSITÀ POPOLARE Anche qui come in ogni paese alpino, la religiosità popolare ha lasciato molte tracce: nel villaggio di Outre-Lève, all’imbocco della vallata, i visitatori sono subito accolti dalla graziosa cappella affrescata con le immagini della Vergine, attorniata dai santi Nicola, patrono di Champorcher (disegnato con una tinozza con tre bambini), Rocco, protettore contro la peste e le malattie contagiose (sempre raffigurato con una piaga sulla gamba e un cane al fianco), Grato, vescovo e patrono della diocesi, ed Antonio, protettore degli animali (rappresentato con un bastone a TAU, in compagnia di un porcellino). Numerosi sono i piloni votivi o “tsapèlén” che si incontrano lungo il cammino. Quello più in alto, situato all’imbocco del pianoro di Sant’Antonio, ospitava una bellissima statua del Santo, risalente al XV secolo, oggi conservata nel museo d’arte sacra nella chiesa parrocchiale. Al suo posto, c’è una copia dell’originale, realizzata dallo scultore Lucio Duc. Altri “cappellini” lungo la mulattiera erano dedicati alla Madonna Nera d’Oropa, cristianizzazione della Terra Madre, e da sempre oggetto di intensa devozione. Anche oggi questa valle, ancora sostanzialmente intatta nelle sue caratteristiche ambientali, è, proprio per questo, meta di numerosissimi escursionisti che, soprattutto tra maggio e ottobre, la visitano apprezzandone, oltre ai fiori, i paesaggi di rara bellezza e la tranquillità che la pervade ancora, la ricchezza di acque e cascate, la varietà degli ambienti (dal bosco di conifere, alla prateria di alta montagna, agli ambienti rocciosi, ai laghi), la presenza di una fauna ancora assai ricca, la pescosità dei laghi e dei torrenti. IL FUTURO DELLA VALLE DELL’ALLEIGNE Per questa valle stupenda si aprono possibilità diverse a seconda delle scelte che si compiranno nelle Amministrazioni pubbliche. UNO SVILUPPO SOSTENIBILE E DUREVOLE Una possibilità di sviluppo, che mira a mantenere questa grande risorsa ambientale in modo da trasformarla anche in risorsa economica, consiste nel valorizzarla in senso naturalistico, lasciandola intatta e limitandosi a ristrutturare, salvaguardandone le caratteristiche architettoniche tradizionali, le baite e le stalle esistenti, conservando la possibilità di far monticare, come è sempre stato, gli animali (bovini da latte e caprini, essenzialmente) durante la stagione estiva, puntando su prodotti tradizionali di qualità e biologici. Il territorio agricolo dovrà essere sfruttato in modo corretto, non limitandosi al solo pascolo disordinato e intensivo dei manzi, pena l’impoverimento del suolo per l’eccessivo calpestio e sfruttamento del manto erboso. Sempre in ambito agricolo, bisogna riconoscere che alcuni lavori svolti in questi anni da alcuni proprietari di terreni e case a Ourty e Vercoche, tra cui la costruzione di una monorotaia che collega i due alpeggi, la realizzazione di un impianto di irrigazione particolarmente ben integrato nel paesaggio e l’effettuazione di uno spietramento, fatto finalmente con attenzione, mano leggera e criterio, sono un buon segno di un possibile sviluppo sostenibile della zona. Si può pensare anche alla produzione di prodotti di nicchia come miele, erbe officinali, piccoli frutti, la cui coltivazione è anche incoraggiata da apposite misure di sostegno da parte della Regione Valle d’Aosta. A quest’attività agro-pastorale possono poi affiancarsene altre, destinate all’accoglienza, al ristoro e all’accompagnamento di turisti nelle numerose escursioni possibili anche nei valloni vicini (eventualmente con l’aiuto di animali da soma per il trasporto dei bagagli, come in altri luoghi si sta già sperimentando con successo). Queste opportunità saranno tanto più reali quanto più l’intero comune e, ancor meglio, l’intera valle di Champorcher punterà su un turismo "dolce", indirizzato a quella fetta sempre crescente di utenti che apprezzano gli aspetti naturali e tradizionali della montagna. In questo senso si sta predisponendo un piano di gestione del SIC, finanziato da fondi co- — 33 — A U G U S T A Cerastium latifolium munitari Leader +, ed esteso anche ai valloni vicini di Pontboset, finalizzato alla valorizzazione sostenibile di questa splendida zona, che potrebbe diventare un atout formidabile dal punto di vista turistico. Una scelta di grande respiro (e sicuramente di grande ritorno anche economico per i paesi interessati) che può verosimilmente conseguire da questo studio potrebbe essere per esempio l’ampliamento del Parco del Mont-Avic fino a comprendere sia la valle dell’Alleigne sia gli splendidi valloni della Manda e di Brenve, a Ponboset: si creerebbe così un unico grande parco che inizierebbe da Champorcher, in corrispondenza dell’attuale limite del Parco del Mont Avic, proseguirebbe in quota fino a Champdepraz, all’alta valle di Clavalité a Fénis, a Cogne (Parco nazionale del Gran Paradiso) per raggiungere infine il parco francese della Vanoise e, a sud, questi valloni spettacolari, confinanti con territori di comuni piemontesi che stanno già anch’essi valutando ipotesi analoghe. UNO SVILUPPO DEVASTANTE Un’altra ipotesi di sfruttamento di questa valle, di cui da qualche mese si parla, è molto pericolosa e potrebbe provocare danni irreversibili alla natura. Si tratta della pos- sibile realizzazione di una centrale idroelettrica, con annessa pista di servizio lungo l’intero percorso della condotta fino all’opera di captazione a Ourty. È un intervento improponibile per la fragilità del sito, e che distruggerebbe inevitabilmente buona parte di questa vera e grande risorsa: infatti con le opere di cantiere (movimento terra e grandi sbancamenti di vaste aree rocciose, sottrazione di acqua) si rischierebbe di cancellare l’habitat di alcune specie floristiche che fanno di questa valle un gioiello naturalistico, si distruggerebbe la splendida mulattiera, unanimamente giudicata di notevole valore storico e paesaggistico, e si innescherebbero fenomeni di instabilità idrogeologica. Gli autori dell’articolo citato all’inizio di questo scritto auspicavano, in conclusione del loro lavoro, una ricerca sistematica tesa ad approfondire gli aspetti botanici, e più in generale naturalistici della zona, nonché la conservazione della valle nella sua integrità. Questa è una considerazione largamente condivisa da noi e dai moltissimi appassionati di montagna che, sempre più numerosi, l’apprezzano; la speranza che coltiviamo è che anche le istituzioni pubbliche agiscano per preservarla e valorizzarla in modo durevole, respingendo scelte devastanti e irreversibili. — 34 — A U G U S T A L’abbigliamento della borghesia issimese nel secolo XIX TIZIANA FRAGNO cambiamenti sociali morali e ideologici della Rivoluzione francese hanno lasciato un profondo segno nell’Europa ottocentesca e i segni di questi mutamenti e nuova concezione di vita si riflettono anche nell’abbigliamento. Ora la moda non guarda più all’aristocrazia ma alla borghesia, nuova detentrice del potere. Il modello aristocratico frivolo e colorato, fino ad allora oggetto di aspirazione e di imitazione da parte delle classi subalterne, viene soppiantato da un nuovo modello che non elimina le differenze sociali, ma trova nuovi elementi distintivi quali la cura del particolare, il taglio e la pulizia dell’abito. Sono questi i nuovi segni di discriminazione sociale in quanto i sarti sono ancora un privilegio che pochi si possono permettere, per tanto i meno ricchi rimangono legati agli abiti più tradizionali, dai tagli meno sofisticati e dai tessuti meno pregiati, inoltre fattore ancora più essenziale di differenziazione sociale è quello della pulizia, è proprio essa che mette in evidenza l’importanza di possedere un ampio guardaroba per cambiarsi sovente d’abito ed essere così sempre lindi. È sicuramente una distinzione importante l’abbondanza degli abiti e la velocità con cui i più agiati si disfano dei loro indumenti: i ceti più umili si vestono con l’essenziale, tramandandosi gli abiti da madre a figlia, la dote accompagna la sposa da una ge- I nerazione all’altra; la “dissipazione” del denaro nelle vesti e negli ornamenti è una dimostrazione di ricchezza, privilegio di pochi, e chi può permetterselo orgogliosamente l’ostenta. Anche in piccole comunità come quella di Issime i segni di questo nuovo modo di pensare e di essere dell’uomo e della società sono presenti e sono visibili analizzando i ritratti dei borghesi locali realizzati da artisti come Victor Carrel, Lorenzo Avondo, Johan Franz Curtaz, o da pittori anonimi. Attraverso questa breve analisi si può intravedere come le comunità siano più legate alla condizioni di classe che all’identificazione di appartenenza ad un comunità e i borghesi locali prendano a modello la borghesia aostana, simile nel modo di vestire a quella parigina o londinese. Il ritratto di Jean-Lin Christillin1, sindaco di Issime, ritratto nel 1833, all’età di 46 anni, da Lorenzo Avondo ne è un esempio. La figura di Jean-Lin Christillin appare molto sobria e manifesta tutta la sua forza morale nella redingote nera dal collo alto, con i risvolti ampi e dalle maniche piuttosto aderenti che si allargano all’altezza dell’ascella, permettendo così una certa libertà di movimento. La borghesia, nei primi anni dell’Ottocento, fa della funzionalità dell’abito, in precedenza caratteristica tipica solo dei ceti più poveri e popolari, un valore: essa diventa un segno di prestigio. L’emulazione delle classi inferiori di quelle superiori non è dunque l’unico modo di interagire tra i due gruppi sociali: esiste anche il fenomeno inverso, cioè la penetrazione di elementi popolari nel vestire colto, non bisogna infatti dimenticare che il mondo borghese è un mondo produttivo e tutto il suo abbigliamento richiama la serietà del mondo del lavoro. I toni cupi della redingote, caratteristica della nuova moda prediletta dalla borghesia parigina e londinese, e la presenza nel ritratto dei simboli del proprio ruolo, la lettera dell’intendenza di Aosta e il calamaio con la penna, esprimono appieno questa nuova concezione etica dell’operosità. Appena visibile sotto la redingote l’immancabile gilet, ormai elemento essenziale della moda maschile. Ad esso infatti la moda ottocentesca ha affidato il compito di enfatizzare il busto maschile, nuovo simbolo di virilità. Il nuovo taglio del gilet indossato dai borghesi è aderente, modellato ai fianchi, corto e con il dorso in tessuto meno pregiato. Il sindaco di Issime ne indossa uno di colore carta da zucchero, in contrasto cromatico con la redingote, come vuole la moda parigina degli anni Trenta. Il candore della camicia dal collo rigido a fascia, con le punte visibili rivolte verso l’alto, ai lati della mascella, e dal delicato polsino, è ineccepibile. Il collo, reso rigido con 1 Jean-Lin Christillin — 35 — Jean-Lin Christillin, nato a Issime ne 1785 e morto nel 1853, apparteneva alla famiglia “Leu’sch Matte”. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart, 1992. A U G U S T A delle fodere interne, è allacciato dietro il collo con ganci o spille. Tuttavia a determinare l’eleganza e l’importanza del sindaco è un altro elemento: la cravatta. La cravatta e il modo di annodarla sono il nuovo emblema dell’eleganza maschile e del buon gusto tanto che, alla fine degli anni Venti del secolo, uscirono due trattati fondamentali, uno in Inghilterra e uno in Francia2, sull’arte di annodare la cravatta. Rigorosamente bianca per il giorno e nera per la sera fino agli anni Trenta, successivamente, per influenza degli inglesi, viene accettata e indossata dalla borghesia e dai burocrati la cravatta nera anche di giorno. Jean-Lin Christillin, contrasta il candore del suo alto collo proprio con una cravatta di seta nera “solitaire”, annodata a fiocco, secondo quelli che sono i dettami di una moda sovrannazionale, più legata alla condizione di classe che all’identificazione di appartenenza ad un comunità. I suoi capelli, con la discriminatura a lato, sono spazzolati e leggermente rigonfi sulle orecchie, diventano tutt’uno con i folti basettoni. Sicuramente, il sindaco per essere effigiato avrà scelto i suoi abiti migliori e nessun dettaglio sarà stato trascurato o lasciato al caso. L’emulazione della moda d’oltralpe di un borghese di una comunità come Issime non deve stupire in quanto è una ca- Jean Christillin Louis Christillin 2 3 4 Nel 1927 Honoré de Balzac pubblica “L’art de mettre la cravatte enseigné en seize leçons” e, un anno dopo, in Inghilterra, il volume di H. Le Blanc “L’arte di annodare la cravatta” incontra un notevole successo. Louis Christillin nacque a Issime nel 1776 e morì ad Aosta nel 1859, si dedicò alla difesa del particolarismo valdostano scrivendo un trattato sulla difesa del rito gallicano in Valle d’Aosta. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart, 1992. Jean Christillin figlio di Jean Christillin morì nel 1874 dopo aver contratto una malatia mentre si occupava di assistere dei malati ad Entrèves. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart, 1992. ratteristica comune a tutta la borghesia valdostana, piuttosto quello che stupisce è la velocità con cui questi elementi sono accettati rispetto al passato, quando le mode necessitavano di tempi più lunghi per essere acquisite. Se si confronta il ritratto di Jean-Lin Christillin con quello di Louis Christillin3 dipinto tra il 1800 e 1825 da un artista anonimo, ci si rende conto di come la moda incominci a cambiare nel giro di pochi decenni. Louis Christillin, indossa ancora una marsina dal collo alto e spalle rigide realizzata secondo i dettami settecenteschi, sebbene il colore sia già quello cupo prediletto dalla emergente borghesia. Il collo alto della camicia bianca è ingentilita da una candida cravatta in pizzo. I pizzi, ornamenti superflui, saranno ben presto abbandonati dalla più sobria moda maschile ottocentesca. La distanza nell’abbigliamento sembra essere ancora maggiore tra Louis Christillin e suo figlio Jean Christillin4, ritratto tra il 1860 e il 1870 da Johan J. Franz Curtaz. Il medico, ritratto all’età di cinquantasei anni, quindi non più giovanissimo, indossa una giacca con risvolto dai toni scuri e un gilet, probabilmente in broccato, color bronzo, ingentilito da delicati arabeschi. L’ampio scollo del gilet lascia vedere il candore della semplice camicia impreziosita da una spilla romboidale. Al collo, abbassato e quasi invisibile, è annodata la cravatta di seta, anch’essa di bronzo. Particolare interessante è il copricapo. Il medico indossa un fez rosso in omaggio alla Grecia, frivolezza questa molto in voga alla fine dell’Ottocento. Jean Christillin manifesta ancora un certo gusto, seppur ridimensionato rispetto al secolo passato, per il gioiello e, oltre alla spilla in oro lavorato, porta all’indice un anello e l’immancabile orologio da tasca. L’orologio da tasca solitamente in argento, in nichel e per alcuni in oro, agganciato ad una pesante e, a volte, elaborata catena fissata all’asola del gilet con una stanghetta, diventerà il gioiello per anto- — 36 — A U G U S T A Johann Blaise Aimé Linty (anno 1863) della famiglia z’Avokatsch nomasia dell’uomo ottocentesco, nessuno si farà ritrarre senza di esso. Così, anche il notaio Johann Blaise Aimé Linty (*1809 ✝1882) che si fa ritrarre prima da Johann J. Franz Curta (1863) e successivamente da Victor Carrel (1870) ostenta in entrambi i quadri una catena d’oro al gilet. Nei due ritratti il notaio indossa abiti, se non uguali, simili. I taglio della redingote nera è come quello con cui si è fatto raffigurare il sindaco Jean-Lin Christillin, collo alto con i risvolti ampi, maniche aderenti che si allargano all’altezza dell’ascella. Affini appaiono anche la camicia dal collo rigido a fascia con le punte rivolte verso l’alto e la cravatta di seta nera. In apparenza sembrerebbe che dagli anni Trenta agli anni Sessanta la moda non sia cambiata o, se è cambiata, la borghesia locale non l’abbia seguita. In realtà il nuovo dettame della moda è la predilezione per i gilet nero non più in contrasto con la redingote, proprio come indossa Johann Blaise Aimé Linty. Tuttavia il fatto che si faccia ritrarre con abiti simili a distanza di anni chiarisce la complessità dell’analisi dell’abbigliamento come fenomeno sociale. La spiegazione di questa scelta può essere vista nel fatto che ormai lo stato sociale di una persona e la sua appartenenza sono codificati da canoni vestimentari ben precisi, soprattutto per la borghesia, tanto che l’esistenza di questi dettami hanno portato gli studiosi a parlare di “uniforme” borghese5. Altro aspetto da non sottovalutare in questa disanima è la difficoltà che le persone hanno invecchiando di accettare le nuove mode, infatti è con l’avanzare dell’età che si è più ancorati 5 6 alla tradizione e non si ha più particolare interesse per le nuove fogge e le novità della moda. Ciò appare evidente in questo caso se si confronta il ritratto di Johann Blaise del 1870, dipinto da Carrel, con quello coevo del nipote JeanBaptiste Louis Albert Linty6, sempre realizzato da Carrel. Quest’ultimo ha sostituito la redingote con una più comoda giacca nera lasciata aperta sull’immancabile gilet dalla tinta scura in broccato a piccoli fiori. La camicia bianca ha il collo ripiegato, non più alto, chiuso da un ampio “solitaire” in seta scura. Anche il taglio dei capelli è differente: Jean-Baptiste ha abbandonato l’acconciatura e i folti basettoni del fratello, prediligendo i capelli all’Umbertina, cioè corti alla tempia e alla nuca, un poco più lunghi sulla fronte. Questa pettinatura deve il suo nome al re Umberto poiché è così che egli è solito acconciare i propri capelli e, sempre come il re, il giovane notaio predilige i baffi. Questa tendenza dei più giovani ad assimilare più facilmente le novità è visibile anche nel ritratto della moglie di Jean-Baptiste, Anne-Marie Ronco. La moglie del notaio indossa un abito scuro dalle spalle discendenti e dalla ampie maniche chiuse ai polsi. Il corpetto dell’abito è nascosto dall’ampio foulard in seta disegnata usato raddoppiato, dalle punte incrociate sul davanti e fermate in vita. Questo modo di indossare il fazzoletto diventa, a partire dal Settecento, tipico delle popolane che in questo modo si riparano dal freddo viste le ampie scollature del tempo e per secoli l’uso di questo capo rimarrà duraturo e costante anche se più come elemento decorativo che funzionale. Sul delicato pizzo che circonda il viso troneggia un vistoso gioiello. Si tratta di un nastro di velluto nero bordato chiuso davanti con un fermaglio centrale a forma di cuore in oro, dal quale pende un altro nastro, sempre in velluto nero che sostiene una croce polilobata in oro, si tratta di una croce definita alla “Jeannette”. Nonostante l’apparenza essa non doveva essere pesante in quanto generalmente realizzate con Cfr. G. Buttazzi, A. Mottols Molfino, L’uniforme borghese, De Agostini, Novara, 1991. Jean-Baptiste Louis Albert Linty, nato nel 1837 e deceduto nel 1886, eserciterà la professione di notaio come era tradizione. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart, 1992. — 37 — Jean-Baptiste Louis Albert Linty della famiglia z’Avokatsch A U G U S T A sottili placche di metallo stampate e sagomate mediante percussione, vuote all’interno oppure realizzate a stampo. Quasi sempre si tratta di oggetti realizzati in rame ricoperti con oro fine, di stagno o di leghe simili all’oro. Raramente si hanno nelle collezioni di gioielli popolari monili realizzati in argento e, se lo sono, generalmente sono riservate alle ragazze, alle non maritate, tuttavia questa tendenza sembra non toccare la Valle d’Aosta. Si può supporre però che la croce “a la Jeannette”, ispiratasi ai gioielli di battesimo degli ugonotti, di derivazione francese, fosse un dono. Quasi sempre le croci entravano a far parte del patrimonio familiare attraverso questa usanza, se non erano un dono del futuro marito erano il dono della madre o della madrina, perciò non si vendevano quasi mai. Esse rappresentavano un segno di distinzione per chi le indossava, era la testimonianza di un certo benessere, una garanzia di dote e di una certa dignità di vita. Per quanto riguarda l’acconciatura le borghesi non possono comunque permettersi le elaborate acconciature delle dame e le loro pettinature sono più semplici, così i capelli sono raccolti. L’acconciatura di Anne-Marie ha una discriminatura centrale, i capelli sono raccolti in chignon leggermente più basso sulla nuca, così da ottenere una linea leggermente più rigonfia sui fianchi e sono racchiusi in un foulard di seta leggermente arretrato e annodato dietro la nuca. Sebbene vi siano degli elementi comuni tra il suo modo di vestire e quello delle più anziane Marie-Françoise Alby, moglie di Johann-Blaise Aimé Linty e Marie-Magdalaine Christillin vedova Ronco (madre di Anne Marie Ronco) ritratte nello stesso periodo (1870) da Victor Carrel, alcune differenze simboleggiano l’acquisizioni di nuove mode. L’abito scuro dalle spalle discendenti e dalla ampie maniche chiuse ai polsi è comune a tutti i ritratti, tuttavia le due donne presentano un elemento differente, ritenuto superfluo dalla più giovane, due ampi grembiuli con pettorina, in seta blu per Marie-Françoise Alby, nero per Marie-Magdalaine Christillin. Così il foulard utilizzato per coprire lo scollo del- Marie-Françoise Alby della famiglia Griffjisch l’abito e usato raddoppiato dalle punte incrociate è nascosto sotto il grembiule. Non deve stupire che le anziane signore considerino il grembiule uno dei loro capi più preziosi, tanto da scegliere di essere effigiate con esso: il grembiule, che per generazioni ha avuto un ruolo puramente funzionale, ridiventa parte del guardaroba di una signora, anche se non considerato un indumento di gran moda esso è ritenuto conveniente e adatto per i lavori di cucito o di ricamo. Marie-Magdalaine Christillin vedova Ronco della famiglia Tunterentsch Anne-Marie Ronco — 38 — A U G U S T A Maisons à colonnes CLAUDINE REMACLE uel que soit son sujet d’étude, le chercheur valdôtain qui fréquente les Archives des Notaires d’Aoste rencontre dans les minutaires des XVIIe et XVIIIe siècles, au détour des feuillets jaunis, les noms des familles d’Issime et de Gaby. La spécialisation artisanale des Issimiens les conduisait dans l’ensemble du Duché d’Aoste, en Savoie, en Dauphiné et en Suisse. En ce qui concerne notre vallée, on les rencontre aussi bien dans les actes notariés déposés à Morgex et à Aoste qu’à Châtillon1. Ces maîtresmaçons passaient, d’une part, des contrats pour organiser leur travail (prixfait, convention, capitulation, obligé, quittance) et, d’autre part, pour gérer leur vie (testament, contrat de mariage, achat, vente, échange). En outre, ils étaient souvent pris comme témoins par des personnes de l’endroit où ils migraient durant la bonne saison. Il est difficile, dans l’état actuel des recherches, de dire pourquoi certaines constructions font l’objet de convention passée devant notaire plutôt que d’autres. Aux XVIIe et XVIIIe siècles, on peut aussi bien trouver un texte qui décrit le futur chantier d’un minuscule moulin couvert de planches que celui d’une grande maison en pierre à trois ou quatre étages, équipée de nombreuses commodités et portant une charpente à ferme soutenue par des piliers de formes variées. Les textes sont rédigés en français, souvent teintés de franco-provençal. Les colonnes rondes qui sont l’objet de cet article portent dans les textes anciens le nom de « piles ». En général, elles étaient mises en œuvre pour donner plus d’extension aux espaces couverts autour des bâtiments et pour circuler à l’abri des intempéries. Ces colonnes soutenaient les poutres de mélèze de la charpente, mais aussi celles de support des planchers et parfois les sablières hautes et basses des séchoirs en bois et des chambres à provisions. L’ajout de piles, en töitschu d’pillunha, accompagnait souvent la réfection de la charpente et de la couverture en lauzes des édifices. On posait alors de grandes fermes à arbalétriers visibles en façade principale. Les corps de bâtiment étaient toujours en retrait par rapport à ces éléments ajoutés. Avec une simplicité parfois désarmante, les artisans constructeurs, les maîtres-maçons, bâtissaient, modifiaient et ajoutaient des annexes en respectant les lois logiques de la stabilité. C’est dans les vallées situées au sud-ouest de la région que l’on rencontre, aujourd’hui encore, le plus de maisons rurales anciennes à colonnes. Il est probable que l’érection de l’Ola, ferme seigneuriale du château d’Introd, avec ses grosses colonnes en maçonnerie de plus d’un mètre de Q 1 Zinnesili. Maison composée de trois corps de bâtiment. Au centre, l’annexe à colonne abrite les escaliers extérieurs et un balcon Décor de 1660 C’est évidemment sous la « Tappe de Donnas » que se trouve le plus grand nombre d’actes concernant les Issimiens puisque leur territoire dépendait de ce bureau d’insinuation. — 39 — A U G U S T A Maison des notaires Ansermin à Valpelline diamètre, a pendant des siècles impressionné les bâtisseurs. L’Ola est construite en deux phases : un bâtiment principal ancien datant du XIVe siècle, reconstruit avec ajout de l’aile nord, datant du XVe siècle. Les grosses poutres prises dans les colonnes et supportant les structures en bois ont été abattues au cours de l’automne/hiver 1458/1459. La charpente de « l’aile » ajoutée a été terminée à la même époque que la charpente du corps principal, mais les datations des prélèvements s’échelonnent de 1421/1422 à 1459/14602. Dans les environs de la ferme des seigneurs d’Introd, plusieurs maisons comportent des colonnes, à Introd d’abord, mais aussi dans les villages et hameaux de Rhêmes, d’Arvier, ainsi qu’en Tarentaise de l’autre côté des montagnes. Sporadiquement, on en rencontre dans la Vallée d’Aoste tout entière. Elles signalent alors le prestige des propriétaires d’autrefois qui ont voulu affirmer leur statut social par la construction de leur maison. Souvent, ces personnages avaient regroupé un 2 3 4 5 6 7 8 patrimoine foncier important après une période de crise. On sait par exemple que, après la peste de 1630, plusieurs maçons originaires d’Issime travaillent dans la région d’Introd et d’Arvier et qu’ils étaient spécialisés dans la réalisation de colonnes et de pilastres en pierre. Les archives des notaires nous ont fait connaître leur nom : en 16473, « Maistre Jaques de Jaques Choquer4 de Cime » travaille à Liverogne; il traite également avec « Jean de Christan Christillie et Christophle de Louys Touscoz de Simaz »5. Aux Combes d’Introd, les maçons « Mathieu et Christan de Jean Christillie » concordent un prix-fait le 3 décembre 16516 pour «fere une pille à pierre du costé du levant ...,… plus du costé du solleil couchant dudit domicille seront tenus fere une pille de pierre ». À Planaval et à La Crête, vers 1655, on rencontre « Jacques Linthe et Mathieu Freppaz de la parroisse de Simaz »7. En 16588, « Jean Christillie de la paroisse d’Yssimaz » refait, rétablit et restaure de neuf un toit au village des Combes. Je pourrais continuer sur Laboratoire Romand de Dendrochronologie de Moudon-CH (LRD). Ces sondages ont été effectués pour le compte de la Surintendance des biens culturels en 2001 pour connaître la date de construction de bâtiments importants ou particuliers. ANA. AO 473, notaire Germain Chantellex., le 28 juin 1647. On rencontre plusieurs fois ce personnage dans le registre et son nom est orthographié de différentes façons : Soquier, Schoquer, Choque. ANA. AO475, 20/7/1651. ANA. AO475. ANA. AO 479, notaire Chantellex, 18 avril 1657. ANA AO 480, 18 juin 1658. — 40 — A U G U S T A ma lancée et citer d’autres noms : Ronc, Busso, Alby, Albert, Stévenin, Labaz, etc. Les hommes de loi (juges, châtelains, notaires) et les hommes de pouvoir sont parmi les personnages qui modifient leur maison en plaçant aux angles, bien visibles, une ou plusieurs piles : les notaires Ansermin à la Tour de Valpelline, le notaire Frutaz à Valleil de Torgnon, les notaires Albert à l’amont de Gaby ou encore le plus riche propriétaire foncier de la paroisse d’Oyace, Jean-Antoine Petey, au Berioz et au Closé. La plupart de ces colonnes sont du XVIIIe et du XIXe siècle, mais, comme les textes l’ont montré, il en reste de plus anciennes. Les trois colonnes englobées dans les maçonneries de la maison Buillet-Bruil de la Ville d’Introd (Musée de l’alimentation) sont de 1683 environ, celles que l’on aperçoit dans les murs de la maison Gérad-Dayné à Cogne sont probablement de 1670. Partout, les pierres mise en œuvre étaient revêtues d’un enduit à la chaux pour faire ressortir davantage les colonnes par le jeu d’ombre et de lumière et donner du relief à la façade grâce à cet élément architectural évocateur de style. Tout comme la réalisation des voûtes d’arêtes dans les cuisines, la colonne signale la présence de notables locaux, de personnages de relief que l’on retrouve dans les archives : cottets ou registres cadastraux. Avec un peu de chance, l’emplacement même du bâtiment se croise avec les données des livres terriers de l’Ancien Régime. ➤ À Issime, par exemple, les maisons qui ont conservé des colonnes de prestige sont rares. À ma connaissance, il en existe encore deux de valeur. La première se trouve à Zinnesili, Cerisoles dans les textes anciens. Elle fait partie d’une maison évolutive contre laquelle, vers 1660, un propriétaire de renom a sans doute ajouté une annexe voûtée servant de maison focale. Il a fait, en outre, décorer de graffitis les encadrements des fenêtres des pièces d’habitation et a fait construire une colonne à l’angle sud-ouest qui soutient une structure en bois. Il s’agit probablement du « Sieur Egrège Jean Biolley, notaire, filz de Jacques » et de son frère Mathieu, qui possèdent, d’après le cadastre de 16459, une grande parcelle de onze quartanées et vingt six perches: « une piece de pre et vaccole, Tiers dessoubz lieudit Cerisolle, confinant au commun du Balmaz, le fleuve du Les, Phillibert de Jean Jacques d’Alby Linte en deux divers endroitz ». Le notaire Jean Biolley est actif à Issime de 1645 à 1670. Le « Noble Spectable Jacques feu le Sieur Jean Jacques » cède la maison au « Sire Philibert à feu Jean Cervier » avant 170310. En 1772, la maison appartient à « Alby Jean Jacques et Jean Pantaléon feu Jean Jacques ». Les domiciles sont de 365,3 toises avec le terrain alentour, à l’ouest se trouve le Lys ; à l’est et au sud, les frères Christille. En 1914, la maison est indivise entre les familles Freppaz et Stévenin. La poutre faîtière d’une seconde annexe frontale datant de 1843, porte les initiales des Freppaz “iG 9 10 11 Les pièces de bois de la ferme ont été datées par dendrochronologie de 1620 à 1628 (LRD01/R5238) F”. La moitié nord du bâtiment appartient en 1914 à “Freppaz Silvano fu Serafino proprietario, e Freppaz Anna fu Giacomo vedova Freppaz, usufruttuaria”. La moitié Sud qui n’évolue pas depuis le XVIIe siècle appartient alors à Stevenin Giovanni Girolamo fu Giovanni Pietro. ➤ Une autre maison à colonnes mérite encore plus d’attention. Tout le monde la connaît parce que, grâce à sa situation exceptionnelle, elle domine le Vallon de SaintGrat et se trouve aujourd’hui au point d’arrivée de la nouvelle route. Pour l’instant, on sait peu de choses de ses constructeurs. Il faudrait en effet mener une recherche très pointue dans les archives et les efforts porteraient-ils, peut-être, leurs fruits. La difficulté réside dans le fait que la construction date environ de la terrible peste de 1630. Les registres du début du XVIIe siècle sont souvent incomplets ou ont disparus. Aux archives des notaires d’Aoste, je n’ai trouvé aucun minutaire de cette période. Sur le bâtiment lui-même, une première date, incisée sur la poutre de la cheminée à l’étage, est sûre: 1627. Il s’agit de travaux de reprises d’œuvre d’un édifice beaucoup plus ancien dont il ne reste qu’un grenier en bois de type archaïque, datant probablement de la période des défrichements et du peuplement même du vallon au Moyen Âge. En 164511, quatre frères sont propriétaires du bâtiment, avec leur mère, dont on ignore, hélas, le nom : « Jean, Mathieu, Pierre et Antoine, filz de Christan Quera et Magdelaine, leur mère ». Le fait que Magdelaine soit citée indique probablement que le patrimoine de Chröiz provient de sa propre famille paternelle et non de celle des Quera. Trois frères sur quatre sont absents. Ils travaillent sans Fo.128 et 129. ANA. DO070. Notaire Jean Jacques Alby, 16 mai 1703. ACI. Cadastre de 1645, F°882. — 41 — A U G U S T A Chröiz. L’avancée de la toiture, soutenue par les colonnes, protège la basse-cour doute ailleurs comme maçons. Ils possèdent entre autre, près de la chapelle, « une pièce de pré et champ de trois sesteurs aux pertinences de La Croix appellé le pré de Jaques et Pirdilquin ». Mais, en fait, leurs propriétés à La Croix sont très étendues, ce qui semble indiquer que leurs biens proviennent d’un parent décédé important : « deux quartannées deux tiers en champ à La Bin ;... trois quartannées et demy en pré et champ à La Fontaine » ; une autre quartannée appelée « Champlong » ; une autre encore « La Roze ». En 1772, il est probable que la parcelle comprenant la maison12, de 192 toises y compris un champ et un pâturage, confine à la chapelle du couchant et appartienne à un certain « Quera Christophe feu Pierre », mais cela devrait être vérifié dans les archives communales, car ce possesseur possède une cote foncière très basse. En 1914, tout comme aujourd’hui, la maison est indivise: on trouve Storto Giacomo Valentino fu Giacomo Gabriele à l’aval, héritier des Quera par sa mère Marie-Christine13 et dit en töitschu Keerisch et Linty Giovanni Maria fu Giovanni Luigi à l’amont. L’histoire de la propriété du bâtiment est très intéressante, car il s’agit d’un exemple d’enracinement d’une souche familiale, les Quera, pendant plus de trois siècles. La date incisée sur la poutre maîtresse semble être 1633, mais plusieurs personnes y voient 165314. Les sondages dendrochronologiques montrent que les 12 13 14 arbres abattus pour la construction de la charpente ont été prélevés dans les bois entre l’hiver 1619-20 et 1628. La faiblesse évidente de la ferme à arbalétriers, posée sur les deux colonnes, a exigé des travaux de renforcement dix ans plus tard. On a ajouté un pilier carré central en pierre de taille et des étais en bois. La pièce sous la ferme date de 1637-38. Actuellement, l’état de la couverture est alarmant. Les maçonneries des façades sont soignées, particulièrement celles qui entourent le viret - l’escalier en colimaçon – situé au sud-est. Ce viret est lui aussi un élément architectural qui démontre le statut social élevé du fondateur du bâtiment à colonnes. La maison a été adaptée pour deux familles - deux étables, deux piellji, deux höischer, un seul grand fenil - , mais on ignore à quelle période exactement, car les données historiques sont vraiment trop distantes l’une de l’autre. Il faut souligner pour conclure que, dans l’état actuel de la recherche, cet édifice qui est, incontestablement, d’un type très rare en Vallée d’Aoste, n’a, en apparence, pas d’histoire. Cette absence d’informations donne une touche de mystère à la maison et ne lui ôte en rien sa valeur comme important témoignage du passé, profondément lié au peuplement du vallon de Saint-Grat, mais aussi à la vie sociale de la communauté du Tiers de la montagne d’Issime au XVIIe siècle. AHR. Cadastre sarde: n. 1043. Renseignements sur la famille Querra et Storto, fournis par Michele Musso. A. BARGHINI, Territorio, architettura, gruppi etnici nella media Valle del Lys: il caso di Issime e Gaby, in Rivista Augusta 1998, p. 6. — 42 — A U G U S T A As chnechtji zélltni dschéin ieste summer z’alpu Un pastorello vi racconta la sua prima estate in alpeggio DON UGO BUSSO Schützersch Dschoantsch Hirtjini séin déi boffiltini das goan z’alpu mit üriun houslljöit. Wa a voart vil hirtjini séin gsinh chnechtjini unner meischter, un das ischt nöit gsinh z’selb dinh, Wén ich bin gsinh ich auch as chnechtji in Türrudschu,doa dar béi, hendschi pheeben zwian gséllji das séin gsinh z’alpu mi üriun oalten pappa un ich, al vért das ich hendschi gsia, wol das. ich hen khee lljib meischtara. hennich gmüssurut unner mich: wi hübsch wén ich méchti sinh ich auch z’alpu mit méini houslljöit. Pastorelli sono quei ragazzini che salgono negli alpeggi con i loro familiari. Ma un tempo molti pastorelli erano in servizio sotto padrone e ciò era ben diverso. Quando sono stato anch’io un pastorello in servizio a Tourrison, lì vicino, stavano due miei amici che si trovavano nell’alpeggio con il loro nonno ed io, ogni volta che li vedevo, anche se avevo dei bravi padroni, pensavo tra me: come sarebbe bollo se potessi anch’io stare in un alpeggio con i miei familiari. Du, den summer van villje 60 joar kannhe, hennich kheen élv joar un dar pappa un d’mamma hemmi kheen gmertut chnechtji z’alpu van Sen Bernoard unz z’Sen Michiel. Ich bin gsinh dackuard antweegen das hemmer gén gvallen d’chü wa ich hen noch nji khen pruavut was wilt seen goan awek vam hous. Allora, in quell’estate di quasi 60 anni fa, io avevo undici anni ed il papà e la mamma mi avevano contrattato come piccolo garzone in montagna dal giorno di san Bernardo (15 giugno) a San Michele (29 settembre). Io ero d’accordo perché mi sono sempre piaciute le mucche ma non avevo ancora mai provato che cosa vuol dire lasciare la casa. Ischt sua das den Sen Bernoard van z’joar 1947 hendschmer ghannut méin rüksackh un vür d’iestu voart hennich gloan ich auch méis nescht in d’Kruasi um passrun d’Lljeisu im z’Endrusteg un goan ouf duch a halbu das ischtmer noch gsinh vrüefti. Ischt gsinnh mümmer dar meichter das h e m m e r zeihut da weg van in d’Lasiti, im Bioulei un dé ouf, an hüeje staf fal zu dam andre vür mia dén an stunn weg, unz im Krechtaz, uab da Vasir un z’Léjunh un unner di Tschannavellji. Doa hennich gvoan a méin ieste summer z’alpu das ich bin drum z’ni zéllje. È così che il giorno di San Bernardo dell’anno 1947 mi hanno preparato il sacco da montagna e per la prima volta ho lasciato anch’io il mio nido di Crose per passare il Lys al ponte di Seingles, per risalire per un vallone che mi era sconosciuto. Così, con il mio padrone che mi mostrava la strada, sono passato ai Lasiti e poi al Bioley per arrivare, dopo più di un’ora di cammino al Krechtaz sopra il Vasir ed il Lèjunh e sotto Tschannavellje. Lì ho iniziato la mia prima estate in alpeggio che vi sto raccontando. L’alpe Krechtaz e, sullo sfondo, il Mont Nery (m. 1436) ed il Col Chasten del vallone di Borrine. Una staccionata impedisce l’acceso sul tetto alle capre. — 43 — A U G U S T A Im Krechtaz séiwer blljibben noch a wuchu wa zu hewer mussu voaren in Türrudschu. Wa voare het wéllje seen lieren d’goavunu: béttucha un patti, alli da mennedsche, z’chübbji, d’schüsselin um melhie,d’chéssini um richte, un unzana d’garbunju mit da hénnju un as taski dri d’chatzu.. Nuan d’geiss un d’chü mit üriun chöttini um da halz séin kannhen mi üriun tschapti. Das weerch hewer mussun tun seksch vért: dröi um voaren unz in d’hüéischtun alpu, un dröi um cheemen amingier D’éltrugu hen troa d’schwierschtu léddini un wir chnechtjini hen mussu machun vill rüddini zam tag. Ich bsinnimich nuan das wéilu hennich mussun goa mit dam hopt in as chéssi un um gsian da weg as soiri mia den im spitz dar zuaklu, hennich mussun bürren tan un tan z’chéssi antweegen da weg, in déi stotzen gumbu, ich gsinh z’merteil, an staffal zu dam andre. Al Krechtaz siamo rimasti una settimana ma poi abbiamo dovuto transumare a Tourrison. Ma transumare voleva dire svuotare la baita:coperte e vestiti e tutti gli utensili da cucina, la zangola i secchi per mungere, i grandi recipienti di rame per colare il latte, il cestone con le galline ed anche un sacchetto con il gatto. Soltanto le capre e le mucche con la loro catena attorno al collo andavano con le loro gambe. Quel lavoro dovevamo farlo sei volte: tre per transumare fino all’alpeggio più alto e tre per ridiscendere. Gli adulti portavano i carichi più pesanti e noi garzoni dovevano fare parecchi viaggi al giorno. Io mi ricordo soltanto che ogni tanto dovevo andare con la testa dentro un recipiente di rame e per vedere la strada un po’ oltre la punta degli zoccoli, dovevo alzare ogni tanto il recipiente, perché la strada in quel ripido vallone era quasi sempre una scalinata dopo l’altra. L’alpe Türrudschu (m. 1636) e, sollo sfondo il vallone di San Grato .Wén mu zélt noch d’léddini um troan ouf d’spéis un ingier dan anghe un da chiesch, un um troan da witt, so mieder müssuru was léddini séin passrut ubber da rück van d’éltrugu un van wir junnhi in déi gumbu wua ischt nöit gsinh noch as nuas noch an üeschil. Krat a voart zar wuchu, im sunnatag da muarge, in d’hüéischtun alpi séin gcheemen z’vuss van Böjulu étlljig fümmili mit gruass chuarba loaden awek den guten anghe van ündsch alpi, gén hübschi gelwi un das ischt gschmolzen im mun. Se si contano pure i carichi per portare su le vivande e giù il burro ed il formaggio e per trasportare la legna, potete immaginare quanti carichi passavano sulle spalle degli adulti e di noi giovani in quel vallone dove non c’era né un mulo né un asino. Soltanto una volta alla settimana, la domenica mattina, negli alpeggi più alti arrivavano a piedi da Biella alcune donne con delle grandi ceste a portar via quel buon burro dei nostri alpeggi, sempre bello giallo e che si scioglieva in bocca. — 44 — A U G U S T A In Türrudschu séiwer blljibben dröi wuchi. Doa ischtmu blljibbe wol. D’goavunu ischt gsinh hübschi un gruassi un da wit ischt gsinh béi. Mümmer hen gholfe dam oalte meischter, zwei endri chnechtjini das hen kheen zwei ol dröi joar mia dén ich. Eis ischt gsinh van Kwarrusu un z’andra van Eischeme wit ich. Mi dem van Kwarrusu hewer nöit muan schwétzen töitschu wa nuan piemunteis. A Tourrison siamo stati tre settimane. Lì si stava bene. La baita era bella e grande e la legna si trovava nelle vicinanze. Con me, aiutavano l’anziano padrone, due altri pastorelli che avevano due o tre anni più di me. Uno era di Carema e l’altro di Issime come me. Con quello di Carema non potevamo parlare töitschu ma solo piemontese Z’éltragschta ündscher andru ischt aschuan gsinh guts z’mieje un sua za hoeju un zan oamudu is gcheemen z’grünn um helfen da meischtere. Dé, z’alpu hewer noch mussun tun auch dschéis weerch. Wa z’merteil méis weerch ischt gsinh das z’hüten, z’machun d’pulentu z’mittag un d’chuchi z’nacht un z’melhien mia dén as totzet geiss. D’geissumilch gmischliti mi dar gnéidlutu milch het keen ous vérousig alpuchiedscha. Il più grande di noi tre era già capace di falciare e così al tempo del primo e secondo fieno scendeva al piano per aiutare i padroni. Allora, all’alpeggio dovevamo fare anche il suo lavoro. Abitualmente però il mio lavoro consisteva nel pascolare, nel fare la polenta per pranzo e la minestra per cena e di mungere oltre una dozzina di capre. Dal latte di capra mescolato con il latte di mucca scremato si ottenevano speciali tome di montagna. Krat noa mittag, wénn war hen nöit kheen anner z’tun heewer groddut mit lljick holze chü das war hen gmachut séntsch hüte mit jöipi das war hen bekschut mi ündschem mésserllji um darnoa dschu lécke rinnhe mi dschu chlöpfen eina kuntra d’andra. Het gwunnen déja das ischt nöit kannhen z’undran ouf. Darrum hewer gmachut, va vür, chü mi d’huarni wol breitu um das dschi tétti nöit goan z’undran ouf z’vill tel, wa eina méiru das het kheen d’huarni in dar luft het génh gwunne. Ischt sua das auch méin gséllji hendschi keen an acht das mit huarni sua hendsch kheen tschebbur dschi wélpen. Sitter hewer gmachut chü mi da huarnu in dar luft wi déju van d’geiss un unzana gchröizutu in an muadu das dschi séin nümmi blljibben gwalptu un sua hewer nümmi muan lécken rinnhen ündsch lljick reini. Solo dopo pranzo, se non avevamo altro da fare giocavamo con piccole mucche di legno che facevamo durante il pascolo con rami di rododendro che intagliavamo con il nostro coltellino per poi metterle in battaglia, lanciandole una contro l’altra. Vinceva quella che, nello scontro, non rimaneva rovesciata. A tale scopo facevamo prima della mucche con le corna ben larghe perché non si capovolgessero troppo facilmente ma una delle mie che aveva invece le corna alzate vinceva sempre. È così che anche i miei amici si sono accorti che con le corna rialzate rischiavano di meno di capovolgersi. Da allora intagliavamo delle mucche con le corna innalzate come quelle delle capre e persino incrociate, al punto che non rimanevano più capovolte per niente e così non abbiamo più potuto mettere a combattere le nostre piccole regine. Ich bsinnimi auch das wén war séin gsinh ellji im bétt dar oalt meischter hennündsch bettut vür un sua het toan auch méin sielegen küssinh Dschoddifji, dan summer drouf, wén ich bin gsinh z’alpu middim im Chröiz. Wiss nöit ol dischen schienen brouch gannhi noch vürsich höit zam tag ol das z’alpu bettun nuami d’hirta das cheemen vam Marock. Mi ricordo pure che al momento in cui ci trovavamo tutti a letto, l’anziano padrone iniziava la preghiera della sera e così faceva anche il mio cugino Giuseppe, buon’anima, l’estate successiva, quando ero in alpeggio con lui al Chröiz. Non so se questa bella abitudine va ancora avanti al giorno d’oggi o se nei nostri alpeggi pregano soltanto più i garzoni che vengono dal Marocco. D’gruaschtu vuacht das ich hen kheeben in Türrudschu isch gsinh an oabe das z’het gwettrut wi mi gitzun tschapti un dan éise stekje van dar blljitzker ischt passrut van an lierch zam andre mi dondiriti das hen toan z’vrüchte, un ich, séntsch das d’endri hen gmolhe hen mussun goan süjen zwian swach tschirki (rucki) van dar Pischu das hen nji poaschtut im troppe mit dan andre un das ich hen génh mussun goan süjen im woald, unzana in den büesche oabe wénn ich hetti muan n’en schikhjen zu a hunn, wa war hen njanka kheen den. La paura più grande che ho provato a Tourrison è stata una sera che pioveva, come gambe di capretto (come si dice da noi) e la sbarra infuocata del fulmine passava da un larice all’altro con rombi di tuono che facevano spavento, ed io, mentre gli altri mungevano, ho dovuto andare a cercare due vacche ribelli di Fontainemore che non pascolavano mai insieme alle altre e che dovevo andare a cercare anche in quella sera minacciosa quando avrei potuto mandare loro dietro il cane pastore, ma non avevamo neppure quello. Van in Türrudschu séiwer gvoarit ouf i Leiet, as alpikji uab Kredemí. Doa séiwer blljibben nuan a wuchu. Doa béi, dar meischter het ghannut, ellji joar, da witt das ischt gsinh z’troan hüajur, unz in d’ Krecht wua ischt nümmi bauma un wua, wi mu seet van ündsch hüejun alpi, d’chü mian nji essen d’weidu mit dan vir tschapti ouf im woase. Da Tourrison abbiamo transumato a Leiet, un piccolo alpeggio sopra Kredemí. Lì siamo rimasti soltanto una settimana. Lì vicino il padrone preparava ogni anno la legna che doveva essere poi trasportata più in alto, fino al Krecht dove non c’erano più piante e dove, come si dice dei nostri alpeggi più alti, le mucche non possono mai brucare l’erba con le quattro zampe sulla zolla. — 45 — A U G U S T A Il caretteristico paravalanghe dell’alpe Kredemì (m. 1768) Testimonianza di fede e di operosa previdenza In d’Krecht das ischt villjen z’vurku wua mu disendurut vidder Pickuvoal, séiwer blljibben dröi wuchi, unz noa Mittemaugschte. Doa z’ schwiar weerch, noa ellji d’endri, ischt gsinh vür wir chnechta das all toaga hewer mussun goan ambri, krat kessen z’ambéisse unz villjen in Kredemí um goan gian an spoaltjian witt van eim um nen troan ouf in d’Krecht an stunn stechige weg hüejur. Bsinnimich Al Krecht che si trova quasi al colle da dove si scende su Piedicavallo, siamo rimasti tre settimane, fin dopo Ferragosto. Lì il lavoro più pesante, dopo tutti gli altri, era quello che toccava a noi garzoni, di scendere tutti i giorni, subito dopo aver mangiato pranzo, fin quasi a Kredemí per andare a prendere un pezzo di tronco ciascuno, per portarlo su al Krecht che si trovava più in alto dopo un’ora di ripida strada. L’alpe Lejet (m. 1935) ( = laghetto: visibile quasi asciutto alla sinistra) — 46 — A U G U S T A noch nunh van d’ hitz un d’liertschunu ubber da halz das ich hen gschpürt unner déi gchnüftu léddini. Nuan im sunnatag hewer nöit mussun tun das weerch un sua, noa mittag séiwer gcheemen ingier unz i Lei Kier wua ischt gsinh z’alpu an schien gruass fammullju mi vill boffi un töchtirlljini junnhi wit wir. Middene hewer groddut um den schienen loutere sia das nöit um nöit heist Lei Kier (Lago chiaro). Mi ricordo ancora adesso il caldo e la resina sul collo che sentivo sotto quei carichi nodosi. Soltanto la domenica non dovevamo fare quel lavoro e così, dopo pranzo scendevamo fino a Lei Kier dove teneva l’alpeggio una bella e grande famiglia con tanti ragazzi e ragazzine della nostra età. Con loro giocavamo attorno a quel bel lago limpido che, non per niente, si chiama Lago Chiaro. Van di toaga passrutu in d’Krecht bsinnimich van Mittemaugschtage. Den tag hets gwettrut stoarch un wir séin gsinh z’hüten z’uabruscht d’roaji. Ich hemmich gscheermut unner an balmu, nass un vroschtlljigs wa hen gmüssurut das z’mittag hettewer kheen as ümmis verous antweegen das ischt gcheemen z’alpu, den tag, auch d’meischteri das het kheen gchochut an hénnju. Un sua, noa hen gleit i d’chü hewer nündsch muan ar weermen mit a schien gut napfutu woarm brüji. Dei giorni passati al Krecht mi ricordo il giorno di Ferragosto. Quel giorno pioveva forte e noi ci trovavamo a pascolare in cima alle radure più alte. Io mi sono riparato sotto una balma, bagnato e intirizzito ma pensavo che a mezzogiorno avremmo mangiato un pranzo speciale perché, per quel giorno, era salita all’alpeggio la padrona che aveva cucinato una gallina. E così, dopo aver fatto rientrare le mucche, abbiamo potuto scaldarci con una bella scodella di brodo caldo. Leikier ( m. 2090) (= alpe del lago chiaro: vi si specchiano due ochette vanitose) An leid bsinni van déi toaga in d’Krecht ischt van d’nechtini das ich hen nöit muan ptun d’auge antweegen z’vroschtsch. D’nacht, méin gséllji as söiri éltrugur dén ich, séntsch schloafe, oan dschi geen an acht, hentsch dschi kwunnhen in di déchini un ich bin blljibben antakhts un im vroscht. Wéilu hennich gschrowe dam oalte meischter das het gschloafe hinner as gwénnuts koarllji. Dar oaltu het wol keen an rawutu wa déi hen sicher nöit khüart un ich bin blljibben, wéilu unz da muarge, z’luasen dar winn un d’rietzu luft bloasen in ter d’blatti. Un brutto ricordo di quei giorni al Krecht è quello delle notti in cui non potevo chiudere gli occhi a causa del freddo. Di notte, i miei amici, un po’ più adulti di me, mentre dormivano, senza neppure accorgersi, si avvoltolavano dentro le coperte ed io rimanevo scoperto e al freddo. Ogni tanto chiamavo l’anziano padrone che dormiva in un angolo riparato da pareti di legno. Lui faceva ben dei richiami ma quelli non sentivano di certo ed io rimanevo, a volte fino al mattino, ad ascoltare il vento e l’aria rigida che soffiavano tra le ardesie. Wa in alle summer dan büeschten tag ischt gsinh den das hetti sollu sinh da hübschte. Ischt mer bschit das an tag hendsch mich gloan cheemen zam hous grützen d’mam- Ma, per tutta l’estate, il giorno più triste è stato quello che avrebbe dovuto essere il più bello. Mi è capitato che mi hanno lasciato venire a casa per salutare la mamma, la sorel- — 47 — A U G U S T A L’alpe Krecht (m. 2253) a poca distanza dal Colle del Lupo che apre su Piedicavallo ma ,d’wetta un z’brüderllji das het kheen zwei joar, wa wénn ich bin arrivurut zam hous di tür ischt wol gsinh artoani un ich hen sübbit muan laufen i wa an vrüaft vrauwa hemmich aréchturut un hemmi nöit wélljen loan i. Was ischt gsinh bschit? Méini séin gsinh ouf z’beerg im Prassevinh, un in d’Kruasi, vür d’iestu voart, hendsch kheen varzüaft, oan das ich hettis gwists, zwia choambri da hierulljöite das hemmich nöit piént un das hemmich nöit vill antfannhe wol. Un sua hennich mussun goan am ouf z’Alpu mit an gruass growi. la ed il fratellino che aveva due anni ma quando sono arrivato a casa la porta era aperta ed io sono corso dentro ma una donna forestiera mi ha fermato e non voleva lasciarmi entrare. Che cosa era capitato?I miei erano su al mayen di Prassevin, e a Crose avevano affittato, senza che io lo sapessi, due camere a dei villeggianti che non mi conoscevano e che non mi hanno accolto molto bene. E così ho dovuto risalire all’alpeggio con un grande rammarico. Henni geeren zéllt dischi dinnhi um das mu wissi as söiri mia wi da lebtag in ündsch alpi ischt génh hérti wa das dar ischt gsinh vill mia 60 joar kannhe. Wa willni auch seen das méin zwia summara passrutu chnechtji z’alpu unner meischtara hemmer toan z’antschtoa vill dinnhi das séin nöit in d’büjini un hemmer zeihut leebe, grech noch mia dén was ich hen gleernit in d’schul. Sitter hennimich gwénnt z’nöit mit kheen z’vill tell un z’nji vargesse das in d’weelt ischt génh antwiar das schtrekhut mia dén wir. Vi ho raccontato volentieri queste cose perché si conosca un po’ di più come la vita dei nostri alpeggi sia sempre dura, ma lo è stato molto di più 60 anni fa. Ma vi voglio anche dire che le mie due estati passate come piccolo garzone in servizio sotto padrone negli alpeggi mi hanno fatto capire molte cose che non si trovano sui libri e mi hanno insegnato a vivere, forse ancora di più di ciò che ho imparato a scuola. Da allora mi sono abituato a non lamentarmi troppo facilmente e a non dimenticare mai che nel mondo c’è sempre qualcuno che tribola più di noi. — 48 — A U G U S T A Il teschio prelevato dall’ossario del cimitero Un racconto di Campello Monti1 VITTORIO BALESTRONI L e veglie serali, andà a fà vègia, erano possibili solamente durante il periodo autunno/inverno, quando i lavori dei campi e della fienagione erano cessati. Le superstizioni condizionavano la vita e quindi il tema della paura e del coraggio di fronte all’ignoto erano sempre al centro dell’attenzione, delle sfide e delle scommesse. Mentre nel periodo invernale ogni sera si andava a casa di qualche vicino, una sera da me una sera da te…, nel periodo dell’alpeggio le occasione erano più rare. La distanza tra gli alpeggi e la difficoltà di percorrere il sentiero, al solo lume delle lanterne, riduceva le occasioni a poche volte nei tre mesi passati all’alpe. LA TESTA ‘D MÖRT ANT L’USARI D’autün e d’invern quand al besti eru ‘nla stala dal vachi,a gent as trueva un po’ a ca ‘d vun e un po’ a ca ‘d l’aut, par fa gni l’ura d’nde durmì, cuntevu stori ‘dla puira e dal curac. Quand ieru su ‘n l’alp (20 Giugn - 20 Satembar) l’era nuta pusibil parchè la gent duveivu buurà (meta la grema ‘n la pinàgia) e mungiar al vachi, regulè al lac e paragè la ceina. Intant a gneva nöc, e andè ‘n lìalp pusè visin cum la lanterna l’era nuta còmut. Una seira, a l’alp dan Cama, a chi gheiva püsè curac gan dic : “ti gai curac da ‘ndè a Campèl, ‘ntal cimiteri dal Gaby, ‘ndè in l’usari a to su na testa ad mört e purtela an l’alp?”. L’om par fa vogar ch’l’era curagius la toc su la civera e sa ‘nvià ‘n giù. An l’usari la auzà al cuerc, la tirà su la testa ad mört e la mutùa ‘n la civera. A l’alp tüc eru curiùs da vògar s’ l’era andà giù par dabòn o se al gheiva mo la lengua lunga. Fora dal cimiteri, l’om sa ’nvià pare la stra pusè curta, dan ciuma la tera a l’Ãr. Peina pasà l’ultima cà dal pais,a la civera a la vegn püsè greva; al va avanti ma rivà a l’Ãr al fa una pòsa e ‘l varda’nla civera. Al post d’la testa ad mört ghè dint un om an pei ch‘ag dis seri : “tei facla grosa, ma ti sei furtunà chi suma parent, sinò a ‘st’ura ti crapeivi ‘dla puira”. “Fa ‘l brau, turna purtem ‘indrè ‘ndùa ti mai toc su e fa più si robi ‘nlò”. ‘Ntant cl’andeva ‘ngiù la civera la gneva pùsè ligèra e quan clè rivà davànt al cimiteri an la civera gheiva pù m’la testa cume prüma. L’om la mesa turna ‘n l’usari e la dic un Au Maria ad pentiment. Una sera, all’Alpe Cama, al più coraggioso venne fatta questa proposta : avresti il coraggio di scendere a Campello, entrare nel cimitero del Gaby, andare nell’ossario e prelevare un teschio e portarlo all’alpe? Per farsi vedere coraggioso l’uomo accettò, prese il gerlo, la civera, e si incamminò. All’ossario alzò il coperchio e prelevò un teschio riponendolo nella civera. All’alpe, intanto, tutti erano curiosi di constatare se l’uomo avesse veramente del coraggio o solo la lingua lunga. Uscito dal cimitero del Gaby, l’uomo prende la strada più corta, quella che passa dalla casa in cima del paese e sale all’alpe Orlo (dan ciuma la tera e l’Ör). Appena oltrepassata l’ultima casa di Campello (‘n ciuma la tera), il gerlo, la civera, diventa sempre più pesante. Possibile, pensa, che un teschio possa essere così pesante (leva gnu ‘na carga)? Prosegue, ma giunto all’alpe Orlo, a l’Ör, non ne po’ più. Posa il gerlo su un sasso per riprendere fiato e dà un’occhiata al teschio. Invece del teschio nel gerlo c’è una persona in piedi, che guardandolo dice, con tono di rimprovero: “Tu sei stato fortunato perché la testa prelevata è quella di un tuo parente, perché se non era di un tuo parente tu saresti morto di paura”. “Fa il bravo, riportami indietro, riportami dove mi hai preso, e che sia finita lì. E non fare mai più queste cose”. Ritornando verso il cimitero, man mano che scendeva il peso diminuiva finché all’ingresso del cimitero non rimase che il solo teschio che ripose con cura al suo posto, recitando una preghiera di pentimento. CONSIDERAZIONI: Mi ricordo, dice Vittorio, che al Fredo dal Vaud (Alfredo Guglielminetti) mi prendeva per la schiena, alzava il coperchio dell’ossario e faceva finta di cacciarmi dentro. Io vedevo tutti quei teschi che mi “guardavano” e strillavo come un tacchino dalla paura. Mia mamma, Tensi Erminia, diceva al Fredo: “guarda che gli fai venire il …mal brut…”. Rimella, Alpe Pianello prima della bocchetta (passo) per Campello. Si notano sul pascolo i mucchi di letame per la concimazione dello stesso. 1 Estratto da una registrazione fatta a Campello Monti il 7 agosto 2002. — 49 — A U G U S T A Gressoney-La-Trinité: Osservatorio Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.) WILLY MONTERIN e precipitazioni nevose nella stagione invernale 2004/2005 sono state inferiori rispetto all’inverno precedente e la temperatura media estiva è stata leggermente superiore a quella dell’anno precedente di conseguenza si è avuto un maggior regresso delle fronti glaciali del Monte Rosa e in particolare quella del Lys. Nelle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni, degli anni 20042005, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e le variazioni frontali dei principali ghiacciai del Monte Rosa nella Valle di Gressoney e in quella di Alagna Valsesia. L TEMPERATURE MEDIE in °C all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) - 2004-2005 Gennaio -4,4 -3,2 Maggio 6,1 8,3 Settembre 11,0 Febbraio -2,0 -6,2 Giugno 12,0 12,4 Ottobre 5,6 Marzo -1,7 -0,2 Luglio 11,9 13,6 Novembre 0,8 Aprile 1,9 2,6 Agosto 12,8 11,9 Dicembre -2,5 MEDIE ANNUALI 4,2 10,0 6,0 -0,1 -4,6 4,2 PRECIPITAZIONI in mm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m1850 s.l.m.) - 2004-2005 Gennaio 103,6 45,7 Maggio 115,9 77,9 Settembre 15,4 Febbraio 75,3 10,2 Giugno 27,1 89,9 Ottobre 126,6 Marzo 18,0 37,2 Luglio 95,9 71,9 Novembre 169,2 Aprile 151,9 136,6 Agosto 138,5 133,1 Dicembre 38,1 TOTALI ANNUALI 1075,5 80,0 77,2 10,7 23,9 794,3 PRECIPITAZIONI NEVOSE in cm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola ( m 1850 s.l.m.) - 2004-2005 Ottobre 33 5 Gennaio 111 64 Aprile 204 Novembre 154 89 Febbraio 89 18 Maggio 54 Dicembre 118 64 Marzo 26 10 TOTALI 789 131 0 381 PRECIPITAZIONI NEVOSE in cm. alla Stazione Pluviometrica ENEL del Lago Gabiet (m 2340 s.l.m.) - 2004-2005 Ottobre 30 20 Gennaio 81 30 Aprile 215 201 Novembre 237 98 Febbraio 108 18 Maggio 79 18 Dicembre 73 98 Marzo 24 43 TOTALI 847 526 Altezza massima del manto nevoso: D’Ejola (m 1850 s.l.m.) 08/04/2004: 17/04/2005: cm 160 cm 85 Gabiet (m 2340 s.l.m.) 10/04/2004: 17/04/2005: cm 238 cm 120 Variazioni annuali delle fronti glaciali dei Ghiacciai del Lys, di Indren e del Piode (valori in metri). Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355) Ghiacciaio di Indren (quota della fronte m 3089) Ghiacciaio del Piode (quota della fronte m 2460) 2004 2005 -18,0 -1,0 -2,0 -34,0 -3,0 -3,0 — 50 — A U G U S T A Ghiacciaio d’Sudren - Settembre 2005 (foto Willy Monterin) “ALPI-ALPS, dal MONTE BIANCO al ROSA alle DOLOMITI” Franco Restelli e Teresio Valsesia ‘In un libro l’incanto delle Alpi’, le più belle immagini dal Monte Bianco al Rosa alle Dolomiti: così è stata definita l’ultima opera di Franco Restelli e Teresio Valsesia. Il libro pubblicato da Macchione, offre più di duecento fotografie a colori di Franco Restelli, e testi bilingue (italiano-inglese) di Teresio Valsesia. C’è la bellezza delle “cime di ghiaccio”, delle rocce, delle arrampicate, del lavoro dell’uomo, del paesaggio alpino nelle sue più variegate espressioni. Un volume che oscilla tra natura e cultura, tra l’uomo e il suo ambiente di vita, in un delicato equilibrio che costituisce l’anima delle Alpi. — 51 — A U G U S T A D’Gròsso Albezò Alpenzu Grande EUGENIO SQUINDO ròsso Albezò in dialetto titsch o Alpenzu Grande in italiano o Arbenson nel vecchio Catasto ed in piemontese, si trova in territorio di Gressoney-St-Jean a metri 1779 d’altezza. D’Gròssò Albezò colpisce per la sua particolare posizione, infatti, è posto su un massiccio sperone roccioso in posizione dominante da dove lo sguardo si rivolge a nord verso il Monte Rosa, a est agli alpeggi di Tschampenò e di Ebiolò, a sud la piana di St-Jean fino Bieltschòcke. Tale frazione è senza dubbio uno dei più caratteristici villaggi della Valle del Lys ed il grande fotografo René Williem, che nello scorso secolo riprese le immagini dell’intera Valle d’Aosta, lo definisce: “Il villaggio più bello di tutta la Valle d’Aosta”. I due Comuni di Gressoney ed il locale Walser Kulturzentrum si stanno interessando per rendere l’intera frazione un museo permanente; il Comune di Gressoney-StJean, con il concorso finanziario della Regione, ha già acquistato le due case più tipiche. La frazione conserva infatti antiche case costruite in pietra e legno, i tipici stadel montati sui funghi, il forno, la fontana e la cappella. Gròssò Albezò è uno dei primi insediamenti delle popolazioni walser. Il più antico documento che parla di questo promontorio risale al 1249 quando “l’alpeggio Alpenzu” apparteneva al conto Goffredo di Challant, che lo concesse in affitto per sette anni a Umberto di Biandrate, signore di molte terre in Valsesia. Il Conte di Challant teneva allora in feudo molte terre nell’alta Valle del Lys per conto del monastero vallesano di Saint Maurice D’Agaune. La frazione divenne poi un insediamento permanente delle popolazioni walser con l’affitto ereditario. Di questo antichissimo insediamento non vi è rimasta traccia, le case hanno subito trasformazioni, quelle attuali risalgono al XVII secolo. Si riscontrano nella frazione le tipiche case del XVII secolo, in pietra e legno, adibite per il ricovero degli animali, dell’uomo, del fieno e granaglie, e gli stadel, riservati alla conservazione dei cereali, essi pure in legno ed isolati dal terreno con pilastri sormontati da un disco liscio in pietra. La più antica porta sulla trave di colmo l’incisione dell’anno 1668. Le case erano costruite con grossi tronchi scortecciati, si notano ancora le case costruite con tronchi squadrati solo con l’ascia. Ad Albezò vi è l’unica casa in tutta la Valle del Lys dove il fumo non si scarica sul tetto ma sul lato del muro con feritoie a forma di fungo. La frazione è circondata da pascoli, prati, e un tempo da campi di segale, orzo, avena e patate. La popolazione di Albezò si dedicava alla lavorazione dei campi, alla raccolta del fieno, al pascolo estivo nei sovrastanti alpeggi di Mòntél, Lòosche e Pénte, alla lavorazione del latte, all’allevamento del bestiame. Successivamente, quando il clima divenne più freddo e si G Gròssò Albezò en titsch, Alpenzu grande en italienesch, Arbenson nach dem oalte kadaschter, éscht em gebiet von Greschòney St. Jean òf 1779 meter. Gròssò Albezò éscht enneme schéne òrt òf òm felse wòa gsémò z’ganz land, em nord de gletscher, nach est Tschampenò òn Ebielò, sud d’äbené bés z’Bieltschòcke. Das dòrf éscht oane zwifal eis von de schénschte òrte vòm Lys tal, de fotograf René Williem voa hät fotografiert z’ganz Aosta tal, bschtémt Albezò z’schénscht dòrf vòn éndscher Region. De zwei gmeine von Greschòney òn z’walser Kulturzentrum ^ tiensché enteressiere òm das z’ganz dòrf schéeme es ecomuseo. D’Gmein vòn St. Jean, mét der hélfe vòn der Region, hät kauft zwei tipésche stadla. Z’dòrf tud ufhoalte oalt fettrésche ^ hi scher bute mét holz òn stei, stadla mét der musblattò, de bachhofe, de trog òn de tschappòlò. D’Gròssò Albezò éscht es òrt voa heindsché éngstellt d’érschtò walser éwonra. D’oaltschtò schréft woa redòt vòn déschem dòrf éscht vòm 1249, due de graf Gotfred vòn Challant hät verzieft z’dòrf ver sébbe joar dem Umberto di Biandrate. Duezòmoal de graf vòn Challant éscht gsid herr vòn wéll òrte em Lys tal. Z’dòrf éscht cheemet bevonts z’ganz joar mettem erbschafte zueft. ^ Weismò wenég vòn de oaltò zitte, d’hischer sin verändrete ^ kanget, d’iezegò hi scher sin alle vòn XVII. joarhòndert. ^ Gsémò em dòrf d’hischer bute mit stei òn holz ver de tiere, ver d’litte, ver z’hei òn z’chòre, òn d’stoadla ver ufhoalte psònders z’chòre, ou d’stoadla sin bute me holz òn isòlierte vòm bode mét es mandie òn en musblattò. Z’oaltsch hus hät òf ^ der férscht de datòm 1668. D’hischer sin bute mét gròse en^ trennòte stamme, gsémò noch d’hischer bute mét stamme gschnétteté mét dem biel. Of Albezò éscht z’einzég hus en der ganzò valleschò voa de rouch tuet ni usgoa von enneme tach chemmé aber òf der sittò. Z’dòrf éscht gsid òmréngòtz vòn weide, matte, achra met roché, géerschtò, habre òn héerfia. D’éwonra vòn Albezò hein g’wéerchòt d’achra, g’heiòt, g’hietet em sòmmer òf de alpe, Mòntél, Loasche òn Pénte, g’chéschòt òn ufzochet z’fée. Spétòr, ven z’klima éscht choalter, d’éwonra vòn Albezò, wie schier d’ganzò greschòneiera, sin usgwandret en der Schwiz òn en Titschland. Valentin Curta en gim buech “Gressoney einst und jetztz” schribt das em 1630, usgnomme, Orsiò òn Albezò, éscht gsid en gròse pescht. Tiemò séege das z’soalz sigge kanget usteilz met es leffelte wéll blòss en gwésse Bonda hät noch kät es bétzié, veròm désche ma éscht gsid sotte liebe heingmò gseid “Goldman”, in Perletoa d’familiò Bonda éscht usgstòrbet. Nach dem oalte kadaschter, em dòrf, em 1772 sin gsid vierze wonònge: vòn Bondaz Jean Joseph feu Pierre; vòn Marty D’ — 52 — A U G U S T A entrò nel periodo denominato “la piccola glaciazione”, gli abitanti di Albezò, come quasi tutti i gressonari, emigrarono in Svizzera e in Germania. Curta Valentino nel suo libro “Gressoney einst und jetztz” scrive: “Nel 1630, tranne a Orsia e ad Albezò, c’è stata una grande peste. Si racconta che ad Albezò il sale sia stato distribuito tra gli abitanti con un cucchiaio, in quanto solamente un certo Bonda ne aveva ancora un po’. Siccome questo F. Bonda fu così buono lo soprannominarono Goldmann (uomo d’oro). La famiglia si è estinta a Perletoa nella casa di Goldmann (Goldmannsch Haus)”. Da un riscontro con il Catasto terreni e fabbricati di Gressoney-St-Jean del 1772 risulta che in tale data i fabbricati nella frazione erano 14 appartenenti a: Bondaz Jean Joseph feu Pierre; Marty Jean Joseph Antoine feu Gille; Marty Jean Joseph feu Valentin; Marty Jean Joseph feu Antoine; Marty Joseph Antoine feu Jean Jacques; Menabreaz Jean Joseph feu Joseph; les hoirs de Jean Joseph Menabreaz; Wall (Woale) Jean Valentin feu Jean Joseph. Risulta anche censita la Cappella ricostruita nel 1863 per volontà del reverendo Guillome Zimmermann e dedicata a Santa Margherita. È censito un forno intestato a “Particulier de Arbenson” È censito un mulino intestato a Mer François. In quel periodo vivevano stabilmente ad Albezò 8 famiglie. Era nativo di Albezò Anton Zimmermann che, dopo aver frequentato un corso di mastro birraio nella Baviera, fondò ad Aosta nel 1837 la birreria Zimmermann, e divenne un ricco industriale. Jean Joseph Antoine feu Gille; vòn Marty Jean Joseph feu Valentin; vòn Marty Jean Joseph feu Antoine; vòn Marty Joseph Antoine feu Jean Jacques; vòn Menabreaz Jean Joseph feu Joseph; vòn les hoirs de Jean Joseph Menabreaz; vòn Wall (Woale) Jean Valentin feu Jean Joseph. Escht éngschrébné de tschappòlò bute vòm hér Guillome Zimmerman. Escht éngschrébné de dòrf bachhofe. D’miele vòn Mer François. In déer zit sin z’ganz joar gwont of Albezò acht familie. Of Albezò éscht bòret Anton Zimmerman voa, nach der brauerschud von Baiern hät gréndet z’Augschtal em 1837 d’brauerei Zimmerman òn éscht kéemet e riche gscheftsma. Le prime case di Alpenzu e la cappella di santa Margherita, viste dalla sottostante mulattiera (Foto Guido Cavalli) — 53 — A U G U S T A IN MEMORIAM Lina Busso * 1913 - 2005 SARANNO “PAROLE” DA RICORDARE l 20 settembre del 2005 si è spenta Lina, nacque a Spaichingen in Germania nel 1913, dove la famiglia si era trasferita da Issime e dove il padre svolgeva il lavoro di muratore, come molti issimesi a quei tempi. Con lo scoppio della prima Guerra mondiale l’intera famiglia dovette tornare definitivamente al paese d’origine. A nove anni, nel 1922, andò in servizio come pastorella all’alpeggio di Scheiti alle dipendenza di Christille Germain; l’alpeggio comprendeva la parte della famiglia Christille e quella della famiglia Linty conosciuti come Rowersch con una mandria di 7-8 vacche. Il suo compito era pascolare, portare letame sui pascoli e sui prati, e raccogliere legna. Al mattino, dice Lina “Come colazione c’era caffè e latte e un po’ di pane, e se ne volevi ancora aggiungevi della polenta fredda”. Nel 1923 Lina passò a servizio presso la famiglia dei Pinhsch, Jon di Settimo Vittone (Piemonte), i quali conducevano un mayen al Bühl (della famiglia Goyet) e la montagna di Höischer (di proprietà della famiglia Freppa del Gaby), guadagnò in quell’anno 60 lire per la stagione estiva. Negli anni ’20 del ‘900 prendeva per giornata di lavoro 3 lire, in seguito 5. Dal marzo 1937 al giugno 1972 lavorò a ser vizio presso la famiglia Goyet ai Preit, Giovanni e Vittoria Freppaz che possedevano 7-8 bestie; lavorò nei mayen (beerga) di Bech e Benikoadi, dove saliva in primavera, e in autunno, con il bestiame per consumare il fieno ritirato nei fienili, per coltivare i campi di patate e segale e dove in luglio aiutava nella fienagione, così come nei schelbiti (per la raccolta del fieno selvatico). Lina svolse un lavoro che le permise di conoscere a fondo il territorio issimese, la sua gente e la sua cultura. Abitò al villaggio dei Preit e ultimamente im Duarf. Lina è stata fonte preziosa, irripetibile e insostituibile per ricerche linguistiche e non solo, fonte per la rivista Augusta e molte pubblicazioni, fonte per ricercatori impegnati per lo più in ambito universitario: ricerche con- I centrate sulla toponomastica, sul lessico, sulla tradizione alimentare, sulla storia socio-economica degli alpeggi, su proverbi, espressioni e filastrocche. Col tempo si è preferito far scaturire l'espressione degli argomenti dalla sequenza naturale della conversazione piuttosto che obbligare Lina alla rigida alternanza dei turni di domanda e risposta. Dai testi di queste ultime interviste, trascritte e analizzate dal punto di vista socio-linguistico, alcuni ricercatori hanno pubblicato saggi ora diventati testi obbligatori nei programmi d’esame di Linguistica e Socio-linguistica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e all’Università del Piemonte orientale. Famoso, conosciuto e studiato da tantissimi studenti e docenti è un capitolo di testo universitario “Quattro lingue una sola conversazione: un invito per il caffè ad Issime”. L’invito era in casa di Lina im Duarf ad Issime. Lina è “salita in cattedra”, possiamo tranquillamente affermare! Wol vergelzgott Gotta Lina, anzi “Cocca Lina” come tutti ti conoscevano e chiamavano. Nell’anno 2005 sono mancati tre fratelli Busso, Felice, Clara e Lina. Nella foto da sinistra a destra Clara Busso, Maria Ronco ved. Goyet “Gotta Méji”e Lina Busso. Sono stati quattro issimesi che il paese ha stimato e rimpiange, anche per il cospicuo aiuto dato all’Associazione Augusta — 54 — A U G U S T A Don Giovanni Christille * 23 aprile 1924 - 5 marzo 2006 La comunità walser non può non ricordare con ammirazione e rimpianto don Giovanni Christille, canonico onorario della Cattedrale di Aosta, originario di Issime, dove riposa nella tomba di famiglia, i Pöitzersch di Kruasi. Fin da giovane prete, il Vescovo gli aveva affidato gli incarichi più delicati e di grande responsabilità: dalla formazione degli alunni del Seminario diocesano aspiranti al sacerdozio, all’Azione Cattolica, alla direzione del settimanale cattolico in tempi di vivave e non facile partecipazione alle vicende politiche e alle problematiche ecclesiali degli anni successivi alla guerra e poi di quelli della grande riforma dell’ulti- mo Concilio della chiesa cattolica. Fu pure parroco di Saint-Pierre (Aosta), cappellano dell’Ospedale regionale e missionario in Cameroum (Africa) dove ha speso le sue ultime risorse spirituali, fisiche ed economiche per la promozione umana e spirituale di quelle popolazioni. La rivista “Augusta” che apprezzava e che leggeva con viva partecipazione, lo affida alla memoria della sua comunità walser che ha onorato con intemerata testimonianza di vita e con intelligente ed appassionato impegno perché “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che sof frono, siano pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (Cost. “Gaudium et Spes” del Concilio Vat. II). Simone Ronco * 1988 - 2005 Dar blljitzker tüat an junhen alper van Eischeme Il fulmine uccide un giovane alpigiano di Issime Z’ganz lann un ellji déi das hen piént un gschétzt Pétéretsch Simone un dschéin fammullju séin blljibben gstarriti wén dschi séin gcheemen a wissu, im sunnatag z’nacht van da summer Kannhe, das dar blljizker het tüat im streich Simone, as junhs un roatschigs mandji sibbenzejierigs, séntsch das z’het gleit ous in d’Mattu dschéin mentschi un dschéini chalber. Né Perfino il cielo piangeva quando siamo venuti a guardarti per l’ultima volta, i minuti sono diventati ore e le ore giorni. . . . avrei voluto che ti rialzassi da quel letto di morte ma ciò non avvenne e le lacrime mi solcarono il viso, quella giovane vita spezzata da un evento crudele. Eri innocente e ingenuo eri gentile e premuroso eri mio amico e hai lasciato un vuoto nel cuore di tutti noi che mai e poi mai potremo riempire. Quel giorno non solo io ma tutti abbiamo perso una persona veramente speciale ci manchi e sempre ci mancherai un amico L’intero paese e tutti quelli che hanno conosciuto e stimato Simone Ronco e la sua famiglia sono rimasti esterrefatti, quando sono venuti a sapere, una domenica sera di questa estate, che il fulmine aveva ucciso sul colpo Simone, un giovane e promettente ragazzo di 17 anni mentre portava al pascolo, all’alpe d’Mattu i suoi manzi e i suoi vitelli. — 55 — La chevrette vagabonde Sur la colline désolée Une chevrette inconsolée Regarde la vôute étoilée Qui va s’éteindre lentement, Randis que la mantille rose De l’aube fraîche à peine éclose Bientôt sur les glaciers se pose Dans un immense embrasement. Et déjà la douce chevrette Derrière le berger s’apprête A rejoindre la tendre herbette Dans les sous-bois pleins de fraîcheur, Et parmi les grandes fougères, Sur le beau tapis de bruyère, Au milieu des senteurs légères Biquette écoutera son coeur. Et le cœur de la jolie folle Lui parle des tendres corolles Dont le parfum divin s’envole Dans le frisson du vent d’été, Il lui parle des sources claires Qui sortent du lac solitaire Et voilà que la téméraire Désire avoir sa liberté… Tratto da “ La chevrette vagabonde”, in “Murmures de la Doire” di Edmond Trentaz — 56 —