2006 completo - Associazione Augusta

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2006 completo - Associazione Augusta
N. 38
Sommaire
Augusta
2006
UGO BUSSO, MICHELE MUSSO, BARBARA RONCO
Dan tor dar geissu
Il turno delle capre
Revue éditée una tantum par l’Association Augusta
d’Issime sous le patronage de
l’Assessorat régional à l’Instruction et à la Culture
2
JOLANDA STÉVENIN
Au temps où l’on élevait des chèvres
Aperçu sur l’économie pastorale jusqu’en 1950
14
LUCIENNE FALETTO LANDI
A propos de chèvres…
15
PAOLA CIPRIANO
Kuntjini van Eischeme
Racconti Issimesi
16
BATTISTA BECCARIA
La “questione walser” alla luce di recenti studi
su alcune comunità presenti nella diocesi novarese
19
COMITÉ DE RÉDACTION
JOLANDA STÉVENIN
La cappella di Mühni
26
Président
Lucienne Faletto Landi
FRANCESCO DAL NEGRO
A Lady’s Tour round Monte Rosa…
Viaggiatori, turisti e primi alberghi nella valle del Lys
29
FAUSTA BAUDIN - MASSIMILIANO SQUINABOL
La Valle dell’Alleigne, a Champorcher
Un SIC (sito importanza comunitaria) da tutelare
e da valorizzare
32
Membres
M. L’Abbé Ugo Busso
Michele Musso
Imelda Ronco
TIZIANA FRAGNO
L’abbigliamento della borghesia issimese nel secolo XIX 35
Rivista disponibile online
www.augustaissime.it
[email protected]
Photo de couverture
Villaggio del Chröiz, vallone di San Grato.
Casa detta “delle colonne”, inizio secolo XVII.
Foto di Ugo Busso.
La photo de la quatrième de couverture,
Vallone di Tourrison “Pian de l’Omo” salendo verso l’alpeggio del
Krecht. Giovane pastorella anno 2004.
Foto di Alessandro Bolla
Autres photos:
CLAUDINE REMACLE
Maisons à colonnes
39
DON UGO BUSSO
As chnechtji zélltni dschéin ieste summer z’alpu
Un pastorello vi racconta la sua prima estate in alpeggio
43
VITTORIO BALESTRONI
Il teschio prelevato dall’ossario del cimitero
Un racconto di Campello Monti
49
WILLY MONTERIN
Gressoney-La-Trinité:
Osservatorio Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.) 50
Franco Restelli, Ugo Busso, Edmondo Ronco,
Willi Monterin, Michele Musso, Massimiliano
Squinabol, Beppe Busso, Claudine Remacle.
Tous droits réservés pour ce qui concerne les articles
et les photos.
Le Comité de rédaction laisse aux auteurs la responsabilité
de leurs articles.
Imprimerie Valdôtaine Aoste
0165 / 239559
— 1 —
EUGENIO SQUINDO
D’Gròsso Albezò
Alpenzu Grande
52
IN MEMORIAM
Lina Busso: saranno “parole” da ricordare
54
Don Giovanni Christille
55
Simone Ronco
55
Dar blljitzker tüat an junhen alper van Eischeme
Il fulmine uccide un giovane alpigiano di Issime
55
La chevrette vagabonde
56
A U G U S T A
Dan tor dar geissu
Il turno delle capre
UGO BUSSO - MICHELE MUSSO - BARBARA RONCO
Le capre sono animali produttivi e di poche necessità e rispetto ai bovini, a parità di foraggio,
producono una maggior quantità di latte. Possono essere nutrite con minor spesa e lavoro,
richiedono una minor qualità e una maggior
varietà di foraggi, e utilizzano pascoli marginali scarsamente produttivi e diversamente utilizzabili.
Quasi tutte le famiglie possedevano un paio di capre, ed il
metodo di allevamento si affidava per lo più alla risorsa
collettiva che andava dall’uso dei terreni marginali solitamente comunali ‘almini’, alla conduzione al pascolo; ma
anche dalla condivisione, nella stagione morta, di terreni
privati.
Questi terreni cosidetti non produttivi, sono zone solitamente scoscese lungo le pendici dei monti, con arbusti e
pietrame, là dove l’uomo stesso non si avventura, ed appartengono generalmente al Comune che concedeva il diritto di usufruirne tassando ogni capo condotto.
I terreni comunali sono separati dagli appezzamenti privati da recinzioni, da mulattiere, da terrazzamenti, o,
come è il caso di quelli sopra il villaggio di Champriond o
del Rickard, da lunghi muri in pietra. Servivano come pa-
L
scoli collettivi anche per bovini (quando facilmente accessibili), sia in autunno sia in primavera, ma anche in
estate per quegli animali che rimanevano al piano. Un
tempo ai contadini più poveri era data priorità nell’uso di
questi terreni.
Da dicembre, quando si scendeva definitivamente al piano per trascorrervi l’inverno, ciascun villaggio formava la
sua mandria ‘troppe’ di capre per condurla al pascolo comune, una volta al giorno. Ogni proprietario ‘particulier’
era tenuto ad impegnarsi nella custodia della mandria, a
turno ‘dan tor dar geissu’. Il turno prevedeva un’equa divisione del lavoro impegnando ogni famiglia a garantire
un numero di giornate lavorative pari al numero di capi
posseduti ed avviati al pascolo comune.
Ogni villaggio aveva diritto su una determinata porzione di
territorio comunale, generalmente: Seingles superiore, sulla zona detta Fei, e come per Pioani, Seingles inf., Varellji, su tutta la zona verso Pirubeck; Tunterentsch, sui territori sopra Fontaineclaire; Champriond, sui beni comunali sopra la frazione; Pra, sui beni comunali sopra la frazione, nelle zone dette Sappil e Écki; Réivu (Riva), Kruasi (Crose), Rollji (Rollie), Rickurt, sul territorio a confine
Nella foto z’Loeisch Emelleji
e Clotildi (Linty) al mayen
del Tschachtelljer. Fidèle
Marie (*1850†1928) e Geneviève Christine (*1853
†1932) Christellje. Insieme
ad un’altra sorella Marie
Christine (*1862 †1937)
detta “La bionda”, aprirono
il primo negozio di alimentari ad Issime. La famiglia
Christellje condusse per 29
stagioni estive (dal 1860 al
1888) l’alpeggio costituito
^
dai tramudi di Höischer,
Tannu, Reich, della casera
presso la ‘Grand Pierre’ di
Mühni e Rollumattu nel vallone di San Grato, e possedeva i mayen di Tschachtelljer, bruciati il 25 marzo
1945 dalle milizie a ser vizio delle forze tedesche
dopo aver avvistato dei giovani issimesi che vi si erano
rifugiati. Marie Christine
diede avvio allo scambio,
con la vicina Piedicavallo
(Valle d’Andorno), fra i prodotti d’alpeggio e pasta, riso, farina e vasellame provenienti, attraverso il biellese, dalla pianura piemontese. Aprirono così il
primo negozio di alimentari con annessa osteria ad Issime.
— 2 —
A U G U S T A
con Rollie superiore sopra il Fei, verso Bel Krecht krüpp,
lungo la mulattiera per il vallone di San Grato “Birriuku” e
nella zona detta d’Wasseri; Duarf generalmente sui beni comunali sopra i villaggi di Grand Champ e Cugna.
Gli animali erano fatti uscire se il suolo “era terreno”, cioè
se non era ricoperto di neve, e richiamati verso sera per
servir loro un fagotto di fogliame (foglie di frassino, acero, raccolte in autunno sfogliando gli alberi) e fieno. Il turno durava generalmente fino alla tarda primavera, da aprile in poi si pascolava anche lungo i corsi d’acqua dove
spunta la prima tenera erba. In estate chi non conduceva
un alpeggio dava in affitto gli animali, e, solitamente, teneva una capra ‘zugeiss’ al piano per garantire le necessità
alimentari della famiglia. La capra seguiva la propria padrona, quando la famiglia si trasferiva nei mayens per lavorare i campi di segale e patate e per raccogliere il fieno,
e ancora quando le donne si recavano nelle praterie di
montagna ‘schelbiti’ a raccogliere l’erba selvatica. Tutti avevano bisogno del fieno che nasce spontaneo, non solo le
famiglie più povere, per completare il quantitativo necessario per la morta stagione. In estate, inoltre, avendo una
capra al piano, si poteva mandare in alpeggio tutte le vacche possedute ed economizzare così per l’inverno il foraggio raccolto. Tutto questo non è da sottovalutare, perché consentiva di mantenere uno o forse due capi di bestiame in più durante l’inverno.
In un sistema integrato di economia alpina, ad Issime per
lo meno, in linea generale, il latte vaccino era destinato alla
produzione di formaggio “tome” e burro, soprattutto quello estivo d’alpeggio, per il mercato esterno, molto attivo
verso il Piemonte, mentre il latte di capra era per il consumo interno. Mantenere le capre voleva dire avere, dalla tarda primavera, dopo la nascita dei capretti, fino ad autunno
inoltrato, del latte per i fabbisogni alimentari della famiglia
(per la colazione e per preparare la minestra) ed economizzare così sul latte vaccino destinato alla produzione casearia, qualcuno ha affermato: “Si usava il latte di capra per
consumare meno burro, per condire la minestra”.
Chi possedeva un certo numero di capre utilizzava il latte
per allevare un vitello da macellare in autunno o/e per mescolare al latte vaccino, soprattutto quando quest’ultimo
scarseggiava dopo il periodo estivo, per produrre dei ‘formaggini’ (tomette).
DI ZUGEISS, DI TROPPUNGEISS
LA CAPRA DI CASA, LE CAPRE D’ALPEGGIO
Wier nöit het muan pheen a chu het pheeben an geiss, sua
um heen génh an tropf milch zam hous. D’geiss ischt
gsünni, mit dar geissumilch het mu gnorrut d’chinn, wénn
het gwénkht d’milch dar eju, vür d’chleinu chinn d’geissumilch ischt vill béssur dén d’chünumilch, du ischt nöit
gsinh in ün^dschi lénner an andren ousganh.
Di zugeiss ischt blljibben zam hous, un di troppungeiss
^
sén kannhen z’alpu. D’geiss ischt fürbi, dschi
passrut nji
z’vuadruscht wa van uabna, lljibur gitsch eim ambri aber
^
dan krüpp; ischt auch schülljigi, dschi
esst nümmi z’bruat
wénn mu het drab kiet a muntschutu.
Turrun, sit a schupputu joar léckentsch auch turrun
d’geiss, um lugun wélla séji d’reinu (bataille des chèvres).
^
Pheffun, d’geiss wénn dschi
gsit etwas stüeren, a wislu ol
^
a murmunu, leitsch dschich
an pheffun um averturun
d’andru.
^
Spéiten, d’geiss tut spéiten wénn dschi
areit meerw geemiri ol umréifi lauber.
Hantsch Imelda
Chi non poteva permettersi di mantenere una mucca teneva una capra, per avere sempre un po’ di latte in casa. La
capra è sana, con il latte di capra si allevavano i bambini,
se per qualche motivo mancava il latte della mamma, ma
per i neonati il latte di capra è molto più adatto del latte di
mucca, non vi erano altre soluzioni a quei tempi.
In estate una capra la si teneva sempre per i bisogni della
famiglia, ma chi ne aveva di più le mandava all’alpeggio.
La capra è furba, non passa sul bordo del precipizio ma a
monte, piuttosto fa’ precipitare chi sta sul bordo; è pure schifiltosa, non mangia più il pane da cui è stato preso un morso.
Combattere delle capre, da diversi anni si fa pure la battaglia delle capre, a livello regionale, per eleggere la regina.
Rumore di allarme della capra, se vede muovere qualcosa
come una donnola, una marmotta, ecc. la capra fa un rumore caratteristico per avvisare le altre.
La capra vomita facilmente quando le capita di mangiare
veratro fresco oppure del fogliame immaturo.
L’allevamento caprino, secondo gli studi di economia di
montagna, ebbe grande sviluppo a partire dal tardo XVIII
secolo e inizio XIX secolo. Per quanto riguarda Issime sappiamo, dal censimento del bestiame della Reale delegazione sabauda del 1782, che, su una popolazione di 1413
persone (era compreso anche Gaby), vi erano 754 bovini
e 951 tra capre e pecore, mentre all’inizio del XX secolo,
su una popolazione di 800 unità circa, le capre monticate
nel vallone di San Grato erano 300 (dagli studi del sacerdote agronomo Monsignor Capra), mentre a metà degli
anni ’60 del secolo scorso, su una popolazione di poco
meno di 400 individui, se ne contavano solo più una ventina ad Issime e una trentina a Niel, dove, un tempo, se ne
contavano 150 più o meno (Raveau. Grenoble, Institut de
Géographie Alpine, 1968).
Sappiamo, dalla testimonianza del messo comunale ‘garde champêtre / tschampi’ di allora, B. Linty che nel 1961
un’ordinanza impedì ai proprietari di condurre le capre
nei beni comunali per i danni che queste vi arrecavano,
anche alle nuove piantine messe a dimora. Il fatto può essere interpretato, non tanto come causa di abbandono dell’allevamento caprino, ma come indizio di diminuita importanza di quest’ultimo nel contesto economico-sociale
della comunità anche in relazione al concomitante incremento dell’allevamento bovino e alla relativa attività casearia sempre più rivolta alla nuova risorsa offerta dalla
Regione Valle d’Aosta, la Fontina.
L’allevamento caprino ad Issime, per lo meno per il XX secolo, in parallelo alla crescente importanza dell’allevamento bovino, più dispendioso in termini di impegno, è
stato una forma estensiva di zootecnia integrata che garantiva un carico di lavoro inferiore con una buona resa
produttiva, anche in relazione alla ‘risorsa territorio’ presente nel paese.
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A U G U S T A
D’GEISS: DA RÉICHTNUNH DAR OARMU
LE CAPRE: LA RICCHEZZA DEI POVERI
A voart z’Eischeme villjen ellji hen pheeben geiss unzana
déi das hen nöit kheen khés gut. D’oustaga un da summer
hendsch dschu kiat zu wénn dschi séin gsortrut weerhun
ol wénn dschi séin kannhe chroutun in d’almini. Wénn
war hen kheen glljéivrut d’schul, hüten d’geiss ischt gsinh z’weerch van d’junhschtu.
Dar brouch séiwer kannhen geere villuru zseeme. Wéilu
hewer unzana kumbunurut z’machun chüjini. Eis het troagen z’meelu, as annes eier, ol zücker, ol üali ol d’fannu ol
d’lümmiti. Witt hewer gvunnen z’phieri. Vür d’milch
hewer nuan kheen z’melhien an geiss.
Witten schien gséltschaft, z’hüten d’geiss ouf tur d’Wasseri. Nuan a voart hennich kiat as söiri d’lounu. Ischt
gsinh wénn dschi hemmi gschikcht hüten d’geiss unzana dan tag das dar bischuft ischt nündsch gcheemen prismun.
Un da winter?. Da winter séindsch blljibben im goade.
D’hérbscht, vür d’geiss hemmu gschneiten ol abiotturut
éscha un ahiri um nen geen i z’laub da winter. Wa wénn
z’ischt nöit gsinh vill schnia un nöit z’vill choalt hemmudschu gleit ous auch da winter.
Ouf tur la Kosta hentsch dschi gleit d’ackuart z’machun
dan tor dar geissu. All muargana, krat das ischt gsinh zu
d’sunnu eini un d’endri a bitor séin kannhe leesen zseeme d’geiss alluru um dschu vüren ouf tur d’almini wua
dschi hen génh gvunnen, unzana da winter etwas z’esse.
Wiar het kheen an einig geiss ischt kannhen an einig voart un wiar het kheen zwianu ol dröiu ischt kannhen zwurru ol dröischtu. Van in d’Réivu un za Rollju ellji déi tringjiltini hen gvüllt hurtigi auch d’choaltu un d’churzun toaga
z’wintersch. Unz héi allz wol.
Z’wuschta ischt wéilu pschit wénn an geiss ischt blljibben
varschtakhti. Wua mu hetschu gvürt un wua dschi séin
kannhe süjen vaksi ol bérrini ol halma ol z’roudschurun
grempjini, séin gsinh üerter z’merteil wiltu mit schürfi,
gruass krüppa, ol éischig schlljüchtini. Sua ischt pschit
mia dén a voart das an geiss ischt gschprunnhen abber
as véddji wua dschi ischt blljibben varschtakhti antweegen van unna ischt grech gsinh an schürfu un unnan ouf
hetsch nümmi mua sprinnhe.
Ischt sua das wénn dan oabe eina het gwénkht hendsch
mussun goan zwei ol dröi mit lanterni un seili um dscha
antvéddju um nöit dscha loan doa alli d’nacht im vroscht.
Mu het auch mussun ne heen zacht antweegen déi moanada, unz d’oustaga, séindsch gsinh pruntu un varlljiren
auch as gitzi wierti gsinh an gruasse schoade.
Nunh um heen as söiri milch zam hous hemmu nümmi
manhal z’pheen an geiss. Mu het tellur z’dscha chaufen
all toaga wa andem ellji, unzana d’oarzada röimen da wert
van déi milch das tut sövvil wol da chinne un ellji wir hen
mua wacksen wol, auch antwegen das ündschi hen kheen
zwian geiss im goade. Auch das ischt gsinh an reichntunh
vür d’oarmu.
Schützersch Dschoantsch Ugo
Una volta ad Issime tenevano quasi tutti delle capre, persino quelli che non avevano nessun terreno. In primavera e
d’estate se le portavano dietro quando uscivano per lavorare o quando andavano a falcettare sui terreni comunali.
Quando avevamo finito la scuola, pascolare le capre era il
lavoro dei più giovani. Abitualmente andavamo volentieri
in tanti insieme. Qualche volta combinavamo persino di cucinarci delle frittelle. Uno portava la farina, un altro delle
uova, o dello zucchero o dell’olio, o la padella o i fiammiferi. Della legna ne trovavamo dappertutto. Per il latte, bastava mungere una capra.
Che bella compagnia a pascolare le capre su in località
d’Wasseri1. Solo una volta mi sono un po’ arrabbiato. È
stato quando mi hanno mandato a pascolare le capre persino il giorno in cui il vescovo era venuto a darci la cresima.
E d’inverno? D’inverno stavano nella stalla. D’autunno per
le capre si tagliavano rami dai frassini e dagli aceri o li si
sfogliavano per dare loro le foglie d’inverno. Ma se non c’era troppa neve e non faceva troppo freddo si facevano uscire anche d’inverno.
Su per la Costa, si sono messi d’accordo di fare un turno delle capre. Tutte le mattine, appena spuntato il sole gli uni e
gli altri a turno andavamo a raccogliere insieme le capre
di tutti per condurle su per i territori comunali dove trovavano sempre, anche d’inverno, qualche cosa da mangiare.
Chi aveva una sola capra andava una sola volta, e chi ne
aveva due o tre andava due o tre volte. Dalla Riva a Rollie
tutti quei campanelli mettevano allegria anche alle giornate
più fredde e più corte d’inverno.
Il peggio succedeva ogni tanto quando una capra rimaneva bloccata. Dove le si conduceva e dove andavano alla
ricerca di erba olina o fili d’erba o bacche o per rosicchiare
dei rametti, erano posti piuttosto selvaggi con strapiombi,
grossi cucuzzoli o torrentelli ghiacciati. Così è capitato più
di una volta che una capra fosse saltata giù da una cengia per rimanere intrappolata perché di sotto c’era forse
uno strapiombo e da sotto in su non riusciva più a fare il
salto.
Capitava allora che, se la sera una mancava, dovevano
andare in due o tre con lanterne e corde per liberarla e
non lasciarla lì di notte al freddo. Si doveva anche averne riguardo perché in quei mesi fino in primavera erano
pregne e perdere anche un capretto sarebbe stato un grosso danno.
Adesso per avere un po’ di latte non occorre più tenere una
capra. È più facile andarlo a comperare tutti i giorni ma
intanto tutti quanti, anche i dottori elogiano le qualità di
quel latte che fa così bene ai bambini e tutti noi abbiamo
potuto crescere bene anche perché i nostri familiari avevano due capre in casa. Anche quella era una ricchezza per
i poveri.
Ugo Busso
1
Con il termine d’Wasseri si identifica quella conca di deiezione alluvionale che risale verso il vallone di San Grato. Il Gründjischbach, denominazione che ritroviamo nelle carte altimetriche tratte dall’IGM, per gli Issimesi viene identificato con d’Wasser o d’Wasseri, ossia le acque intendendo quella zona in cui confluiscono alcuni rivi e ruscelli, il ruscello proveniente dalla
zona di Bühl, il torrente Margherita e altri minori.
— 4 —
A U G U S T A
SCHÜTZERSCH-DSCHOANTSCH
ELENA, LIXANDRISCH VITUARI
U LAURA
Éischeme – Kruasi, lljicke moanut 2006
ELENA BUSSO SCHÜTZERSCH-DSCHOANTSCH
(*1930), VITTORIA (*1921) E LAURA (*1928)
BUSSO LIXANDRISCH
Issime – Crose, febbraio 2006
^
Elena: War sén dschu
kannhen leesen allu zseeme un té
séwer kannhen ouf in d’almini wa bsinnimich génh un té
^
zu hewenen glugut zu va wéit un dan oabe séiwudschu
kannhen leesen zu.
Laura: War hen génh glugut mit dam velspigal ol mu
^
dschu
hetti gsia, ischt gsinh doa a l’Enfer…
Elena: Bsinnimich van aus schwachs Bianki, das ischt
gsinh as schwachs, kannhen ouf, ich wiss nöit ol is het
^
dscha
kheen mümmer, in d’leidi hets mer beitut…
Laura: Hets der glotzit…
Elena: …génh mer beitut in d’leidi, bsinnimich doa unner
Bel krechtsch krüpp, ischt kannhen doa dür, aswi doa dür,
bin kannhen dür un allu d’geiss mer zu un Bianki doa in
d’leidi un woa ischt gsinh as weegji um passrun doa hets
mer beitut! Un génh, neh! Ich hen génh mussun gian a schnetz wa hen gvrücht drab un nöit mu kannhen darbéi.
Vittoria: Ecco, dé ischt déi voart doa auch ouf in Valbounu mir hets mer wélljen geen.
Elena: Bélla dir, mir hets génh beitut, génh loan passrun…
Laura: Doa ischt auch gsinh in d’leidi? Oh, doa ischt nöit
sövvil hübsch.
Vittoria: Na, ben, war sén nöit gsinh dür z’vuadruscht,
séwer gsinh dangher.
Laura: Ja, d’accord, wa hettis der wol auch keen ambri
doa tur d’schlucht wértischt kannhen ambri.
Elena: Woa hets gsian as söiri leid das dou hescht mussun passrun hets der beitut.
Vittoria: Schwétz, witten karrunju, ischt gsinh an pettele, neh, is het kheen as lénhs hoar.
^
Elena: Ah, bsinnamadscha
noch déi wéissun geiss.
^
Vittoria: Wa strano das L. bsinndschi
nöit… A rasunh dou
hescht nöit kheen z’goan, ich bin kannhen vill vérti lee^
sen zu d’geiss, ja, dschu
kannhen gian da muarge un té zu
^
^
dschu gvürt ouf un té zu war sén dschu
kannhen gian.
^
Elena: Chaque geiss het kheen dschéin tringju aschuan,
^
doa sua, antschtannen allu wéllu dschi
sén gsinh.
^
* Hescht dschu pient ous tur di tringju.
Elena: Jia, ous tur di tringji.
^
^
Laura: Zu wénn dschi
sén arrivurut heddudschu
mussun
^
troan woa dschi…
Vittoria: Ah, ben, chacun… darnoa séntsch kannhen…
Elena: Wir hen kheen Kruasi un Rollji, neh?
Vittoria: Na, wa ischt nöit gsinh auch d’Réivu?
Elena: Meroakul auch Méji, Pöizersch.
Vittoria: Ja ambri Rose, dunghmich is séggi gsinh auch.
Elena: Jia, war hen kheen déi zien ol vüafzen geiss…
Vittoria: Jia, jia antweegen war hen kheen zwienu, dröiu
chaque…
Laura: Doa S. het nöit kheen d’geiss. J. het nji kheen
khén geiss.
^
Elena: Ah, dschiendri
hentsch nji kheebe?
^
Vittoria: Na, ich bsinntimich nji das dschi
hetti kheen d’geiss.
Elena: Eh, unner allz hewer kheeben déi zien, vüefzen
geiss. Wénn ischt franh gsinh leid leid, wa z’merteil ich
bsinnimich génh das ouf tur déi almini ischt génh gsinh
ieber, ouf tur Eeru, un…
Elena: Le abbiamo radunate tutte e poi le abbiamo portate su nei beni comunali ma mi ricordo sempre che le sorvegliavamo da lontano, e alla sera andavamo a raccoglierle.
Laura: Guardavamo sempre con il cannocchiale per localizzarle, era lì a l’Enfer…
Elena: Mi ricordo della vostra dispettosa capra Bianki,
quella era proprio dispettosa, andata su, non so se ce l’avesse con me, nei posti più scoscesi mi aspettava…
Laura: Si appostava…
Elena: Sempre mi aspettava nei posti pericolosi, mi ricordo lì sotto il cocuzzolo di Bel Krecht, andava di là non so
come, sono andata io pure e tutte le capre mi seguivano e
Bianki lì nel dirupo, dove c’era un passaggio lì mi aspettava! E sempre, neh! Io dovevo sempre munirmi di un bastone ma avevo paura di lei e non le andavo vicino.
Vittoria: Ecco allora è quella volta su a Valbona, anche a
me voleva dare delle cornate.
Elena: Ah, persino a te, mi aspettava sempre al varco, mi
lasciava sempre passare…
Laura: Anche lì era in un posto pericoloso? Oh, là non è
tanto bello.
Vittoria: No, non eravamo sul bordo, eravamo in qua.
Laura: Sì, d’accordo, ma se ti avesse buttata giù dal canalone saresti precipitata.
Elena: Dove vedeva un po’ brutto e tu dovevi passare ti
aspettava.
Vittoria: Ma dimmi un po’ che carogna, aveva il pelo lungo e irsuto.
Elena: Ah, me la ricordo ancora quella capra bianca.
Vittoria: Ma strano che L. non si ricordi, si vede che tu non
dovevi andare, io sono andata diverse volte a radunarle di
mattina, portarle al pascolo e alla sera andare a riprenderle.
Elena: Ogni capra aveva la sua campanella e già dal suono le riconoscevi.
* Le riconoscevi dalla campanella.
Elena: Sì, dal suono della campanella.
Laura: Poi quando ritornavate dovevate portarle a casa
loro.
Vittoria: Ah, sì, ciascuno… dopo andavano…
Elena: Noi avevamo Crose e Rollie, neh?
Vittoria: No, ma non c’era anche la Riva?
Elena: Forse anche Maria, Christille.
Vittoria: Sì, giù R. mi sembra pure ci fosse.
Elena: Sì, avevamo dalle dieci alle quindici capre…
Vittoria: Sì, sì, perché ne avevamo due o tre ciascuno…
Laura: I C. non avevano le capre. G. non ha mai avuto nessuna capra.
Elena: Ah, loro non ne hanno avute?
Vittoria: No, io non ricordo avessero avuto capre.
Elena: Eh, in totale avevamo dalle dieci alle quindici capre. Quando faceva proprio brutto tempo ma di solito ricordo che su per quei beni comunali non c’era quasi mai
neve, su per Eeru, e…
* Perché lì andavate anche in inverno.
Elena: Era in inverno che si faceva quel lavoro lì.
* In primavera no?
— 5 —
A U G U S T A
*.Antweegen doa sédder kannhen auch da winter.
Elena: Ischt gsinh da winter z’tun das weerch doa.
* D’oustaga na?
^
Elena: Na, d’oustaga chacun, wénn dschi
hen dén gvoan
^
a an gitzunurun hewudschu
pheeben zam hous.
^
Vittoria: Eh, darnoa hewudschu
pheeben zam hous, wissischt, antweegen a la fin mérze, oaberllje hentsch gvoan
a an gitzunurun.
^
Elena: Dé hewudschu
pheeben zam hous.
* Seeschtmer amum vam wéissen bockh?
Vittoria: Doa, an tag hewer khüert lachen un schwétzen
ambri im goade, wir sén gsinh uabna, chinn, doa im piellje, un a mumanh darnoa khüerewer, gsiewer d’geiss ambri tur…, zwia manna mit d’geiss ambri tur d’matti, ingier
doa d’mattu vuarna ingier, un hewer gseit dar mammu
^
^
^
^
“Dschi
hennündsch
gstollen ündsch
geiss, dschi
^
trianündsch awek ünz Bianki!” Un té zu d’mamma het
^
gseit “Na, na dschi
triends nuan unz in d’Kruasi”, a rasunh
^
^
dschöi ischt gsinh avertiriti, wissischt, “Dschi
^
brinnhandscha
amum”. Un dé séntsch gcheen ingier in
^
d’Kruasi, woa dscha
heji troan i, etwa im piellje ol ganh
wissu woa.
Laura: Woa ischt gsinh z’hofzit.
^
Vittoria: Ja, ja wa dschi
hen kheen gmachut z’hofzit etwa
doa in ürriun piellje, wiss nöit ol séntsch gsinh dür im Prospersch piellje?
Elena: Wier het gmachut z’hofzit doa, d’muma M.?
Laura: Dar éttru M..
Elena: Dar éttru M. un d’muma M. un dar éttru J. un
d’muma
Elena: Dé da wéissen bockh hettintsch nuanh troan dar
muma M., nöit T.?
^
Vittoria: Ja, T., T. hentsch dscha
troagen, antweegen T.
ischt etwa wol gsinh is auch z’hofzit, wénn ischt gsinh
^
dschéin
wetta…
^
Elena: Ah, ischt nöit wénn hets dschi
gmannut is …
^
Vittoria: Na, wénn het dschi
gmannut muma M., antwee^
gen das dschöi
ischt gsinh junnhur dén T., un dé hentsch
nen troagen a T. da wéissen bockh; un dé hejis gseit “Hetteder sollun goan süjen an bockh nöit a wéiss geiss”, das
doa bsinnimich das hentsch zéllt…
Elena: Ischt gsinh z’nen vinnen da wéissen bockh…
Vittoria: Eh già! Ischt gsinh z’nen vinnen a wéissen
bockh, du a rasunh, hentsch kheen gwisst das ischt gsinh
^
^
disch
wéiss geiss dé séntsch dscha
kannhen gian.
Vittoria: Ah ja, d’geiss? Jia, jia, ich bin parturut van in
d’Réivu, ich bsinnimich van Rose auch das het kheeben…
ja z’merteil ischt gsinh Rose das ischt kannhen zu dan
geisse.
Elena: Zwienu hewer génh kheeben, zwienu ol dröiu…
Vittoria: Ja, zwienu?
Elena: Zwienu sicher…
* Un dé wier das het kheen dröi geiss ischt kannhen dröi
toaga?
Vittoria: Ischt kannhen dröi toaga…
Elena: Wier het kheen zwienu zwien toaga, wier eina an
tag, hescht gmachut alli dan tor zu hescht widergriffe.
Vittoria: Zu hentsch widergriffe, jia, séwer kannhen in
d’Réivu, séwer kannhen gian d’geiss van Rose un té séwer
gcheemen in d’Kruasi, doa ischt gsinh auch Josué das het
^
auch kheeben un Schützersch Dschoantsch,
un té zu séwer
^
kannhen za Rollju doa zam éttre Jean un té ündschu
un té
Maju.
Elena: No, in primavera, ognuno, quando iniziavano a
fare il capretto le tenevamo a casa.
Vittoria: Eh sì, dopo le tenevamo a casa, sai, perché alla
fine di marzo, aprile iniziavano a fare il capretto.
Elena: Allora le tenevamo a casa.
* Mi racconti di nuovo del caprone bianco?
Vittoria: Lì, un giorno abbiamo sentito ridere e parlare nella stalla, noi eravamo sopra, eravamo bambini, lì nel soggiorno, e un momento dopo sentiamo, vediamo la capra
bianca giù per… due uomini con la capra giù per i prati,
il prato lì davanti, e abbiamo detto alla mamma “Ci hanno rubato la capra bianca, ci portano via la nostra Bianki!”
Poi la mamma ha risposto “No, no, la portano solo fino a
Crose”, si vede che lei era stata avvisata, sai, “Ce la riportano di nuovo”. Sono quindi scesi a Crose, dove l’abbiano
portata non so, forse nel soggiorno o chissà dove.
Laura: Dov’era la festa di nozze.
Vittoria: Sì, sì, avevano fatto la festa nel loro soggiorno,
penso, oppure non so, nel soggiorno di Prospero.
Elena: Chi ha fatto la festa lì, la zia M.?
Laura: Lo zio E.
Elena: Lo zio E. e la zia M. e lo zio E. e M. Allora il caprone bianco l’avrebbero portato solo alla zia M., non a C.?
Vittoria: Sì, a C. era destinato, perché C. pure era a nozze,
se c’era sua sorella…
Elena: Ah, non era quando si è sposata lei…
Vittoria: No, era quando si è sposata la zia M., lei era più
giovane di C., e così lo hanno portato a C. il caprone bianco; allora lei avrebbe detto “Dovevate andare a cercare un
caprone, non una capra bianca”, quello mi ricordo che raccontavano…
Elena: Bisognava trovarlo il caprone bianco…
Vittoria: Eh già, bisognava trovarlo un caprone bianco, si
vede che sapevano che c’era questa capra bianca, così sono
andati a prenderla.
Vittoria: Ah sì, le capre? Sì, sì, io sono partita dalla Riva,
mi ricordo di Rose, anche lei aveva… sì, generalmente era
Rose che seguiva le capre.
Elena: Due le abbiamo sempre avute, due o tre…
Vittoria: Sì, due?
Elena: Due sicuramente…
* E chi aveva tre capre le portava per tre giorni?
Vittoria: Andava tre giorni…
Elena: Chi ne aveva due, due giorni, chi una un giorno,
facevi tutto il giro e poi ricominciavi.
Vittoria: Poi si ricominciava, sì, andavamo alla Riva a
prendere la capra di Rosi, poi salivamo a Crose, lì c’era
Giuseppe che ne aveva pure, i Busso, poi a Rollie dallo zio
Giovanni, poi le nostre e quelle dei Ronco.
Laura: C. e P., quando erano lì a Rollie, non avevano…
Elena: Non mi ricordo.
Vittoria: No, C. e P. non mi ricordo avessero avuto le capre, penso non avessero neanche le mucche; io ricordo soltanto che quando è nato S. e C. lo allattava, e Domenico
aveva tanto male agli occhi, è andato da C. a farsi mungere negli occhi. Era la medicina, una volta c’era quella medicina lì. E così facevamo il giro e tornavamo su nei beni
comunali, portavamo su le capre e poi le sorvegliavamo tutto il giorno, sai…
* Stavate tutto il giorno con le capre?
Vittoria: No, non eravamo su, neh, tornavamo indietro,
non rimanevamo su con le capre, risalivamo alla sera
ma di giorno le guardavamo da lontano, che direzione
— 6 —
A U G U S T A
Laura: C. un P., du das séntsch gsinh doa za Rollju, hentsch nöit kheen…
Elena: Bsinnimich nöit…
^
Vittoria: Na, C. un P. bsinnimich nöit das dschi
hetti
^
kheen d’geiss, dschi
hen njanka… in dar iesti hentsch
njanka kheen d’chü, ich dénghien njanka das hettintsch
kheeben chü; ich bsinnimich nuan das wénn ischt gwuarte S. das C. het mu keen z’sougen un Domenico het kheen
vill wia an d’auge, ischt kannhen dür z’C., ischt mu
kannhen tun z’melhjen in d’auge. Ischt gsinh remmedi, a
voart ischt gsinh déi remmedi doa. Un dé hewer gmachut
dan tor un séwer kannhen amouf in d’almini, hewer gvürt
ouf d’geiss ouf in d’almini, un té zu hewenen glugut zu allen tag, wissischt…
* Sédder gsinh allen tag mit dan geisse?
Vittoria: Na, war sén nöit gsinh ouf, neh, war sén gcheen
hinner, war sén nöit blljibben ouf mit dan geisse, séwer
kannhen amouf dan oabe, ma tagsch hewenen glugut zu,
^
glugut woa dschi
wérti kannhen un té zu darnoa séwer
kannhen un éttlig vérti séntsch anzana gcheemen antweegen wénn hettesch nen keen soalz, as söiri, hentsch gwisst das hentsch areit z’soalz so dé séntsch gcheemen, an^
zana vill vérti, un süscht séwudschu
kannhen gian woa
^
^
^
dschi sén gsinh; hewudschu gvürt, chacun het dschu
troa^
gen amum woa z’dschu het kiet un té dé hewer kheen glljéivrut sua dan tor, ischt kannhen glljéivriti sua là, chacun
ischt kannhen sövvil geiss das hets kheeben, ischt
^
^
kannhen dschu
vüren awek un dschu
wider kannhen gian
dan oabe.
* Un chaque joar hedder töischut wier het gvoagen a
dan tor?
Vittoria: Ah ben, das doa bsinnimich nöit, dénghien nöit,
war sén etwa kannhen sua… wier das het wélljen voan a
ischt mogoara kannhen.
* Sén gsinh d’boffi comunque, ol di töchtiri…
Vittoria: Ja, ja, ich auch bin kannhen vill vérti, Honere
ischt kannhen, bsinnimich auch ischt kannhen méin mamma anzana, mogoara das wir sén grech kannhen in d’schul. Wénn di hescht gwisst das hescht kheen den tor
^
heschti mussun aréndschurun,
wissischt, chacun het mussun müssurun wier goan un dé séwer kannhen sua wi is
het kaputurut, wier das het kheen zéit un wier das het
muan goan, déi toaga doa hescht mussun goan, ja mussun, wénn hescht kheen gvoan a dan tor bischt kannhen
süscht hetti mussun goan as annes.
Elena: Mogoara ischt gsinh da schnia mia in d’matti z’goan dür doa zan uabre Rollji, zu ouf in d’almini ischt nöit
gsinh schnia, anfor das hetti franh gschnout, bsinnimich
nöit das hetti sövvil gschnout.
Laura: Doa z’guvver dür unz zam gruasse stein, doa he^
scht dschu
gloan un darnoa séntsch kannhen; van doa dür
ischt gsinh woase…
Elena: Hentsch gvunnen z’essen…
Laura: Però as zéitji hescht nümmi muan loan goan d’^
geiss antweegen dschi
hen kheeben allz gleit déi baumjini…
^
Elena: Vür das in d’Birriuku hescht dschu
nöit muan
lécken, ischt auch gsinh allz baumjini.
Vittoria: Invece dür doa wider dan gruasse stein, d’Ronhtschiti…[dopo Bel Krecht Krüpp per andare a Eeru,
più percisamente sotto Eeru].
Elena: Ouf wider Eeru…
Vittoria: Ouf wider Eeru, in d’Eeru vétt…
Gaby, Issime-Saint-Michel,
pastorelli nei pressi dell’alpe Tresinot
verso il colle della Vecchia (inizio XX sec.)
(g.c. Archivio Baccoli)
prendevano e poi andavamo e certe volte tornavano anche da sole, perché se davi loro del sale, un pochino, sapevano che avrebbero avuto il sale, e venivano anche sovente, altrimenti le andavamo a prendere dove erano, le
riportavamo a ciascun padrone e così avevamo finito il
turno, finiva così, ognuno in proporzione alle capre che
aveva le portava al pascolo e andava a riprenderle alla
sera.
* E ogni anno cambiavate il turno?
Vittoria: Ah bene, quello non lo ricordo, non penso, andavamo così, chi voleva magari andava.
* Erano comunque i ragazzi, o le ragazze…
Vittoria: Sì, sì, anch’io sono andata tante volte, Onore è
andato, ricordo pure che è persino andata mia mamma, forse noi eravamo a scuola. Se sapevi di avere il turno ti dovevi arrangiare, sai, ognuno doveva pensare a chi dovesse
andare e così come capitava, andava chi aveva tempo e poteva andarci, quando avevi iniziato il turno dovevi andarci altrimenti avrebbe dovuto andarci un altro al tuo posto.
Elena: Magari nei prati c’era ancora la neve, attraversando Rollie di sopra, ma su era quasi sempre libero, salvo
proprio nevicasse, non ricordo avesse nevicato tanto.
— 7 —
A U G U S T A
Laura: Bsinnimich nuan van in Eeru…
Vittoria: Ah na! Bel Krechtsch krüpp, zu ischt gsinh d’Ronhtschiti, zu ischt gsinh…
Elena: Eeben Bel Krechtsch krüpp, das eebensch dür het
kheissen d’Ronhtschiti?
Vittoria: D’Ronhtschiti hets kheissen un té zu ischt gsinh
d’Schwoarzun Blatti…
Elena: Jia das ischt aschuan gsinh gchierts dür…
Vittoria: …gchierts dür va hindarna, zu ischt gsinh d’Eeru vétt un té zu ischt gsinh dangher héi sua…
Elena: Riundu vatt? Na, ouf in den krüpp, Bel krechtsch
krüpp, ouf doa wi hets kheisse? Munt de l’enfer!
Vittoria: Munt de l’enfer, ja ischt wol doa das ich hen wélljen seen…
Laura: Ischt doa das war sén gsinh kannhen chroutun
ich un dou un G.?
Vittoria: Jia, jia, Munt de l’enfer…
Elena: Un z’Albezei!
Vittoria: Z’Albezei! Giost, bròavou! Ischt mer nöit gcheen
da noame.
Laura: A voart, an tag, V. het gseit “Ouf doa ischt noch a
^
schiene joa wa da muarge müssüwünündsch
bürren za
2
vünve un goan ouf. Jia, jia, bürt pro [piemontese] za vünve wa wénn war sén arrivurut ouf ischt aschuan gsinh dri
V. un wiss nöit wéllz ischt gsinh z’andra middumu.
Vittoria: Un déi andru voart doa das war sén kannhen ich
un P., séwer gsinh gcheemen dan oabe dangher van ouf
zar Balmu un hewer gseit “Dou, doa sua ischt noch…”
Laura: Ecco, ecco war sén gcheemen zar Balmu, muare
da muarge unner dröi, hets gseit, machun a schienz léddillji van eim ellji dröi…
Vittoria: …un té zu ischt gsinh dri E., muma M. un S.,
aschuan ellji dröi doa; wénn war sén arrivurut doa vom Bel
^
Krechtsch krüpp, dschiendri
sén gsinh ouf doa sua gchierti, un doa in Bel Krechtsch krüpp hewer khüert a hunn wuppu un hen gseit “Ecco, war sén bélla gschossni”, ischt gsinh
de schwoarze hunn das het kheen E., un hewer gseit a P.
^
“Nunh chierewünündsch
amum hinner”, séwer kannhen
chieren dangher héi wider z’Albezei un té gcheemen ouf tur
^
Munt de l’enfer, hewenündsch
zuagen ouf doa un, ben,
hewer noch gmachut a stul léddini, ouf doa von déi séitu
doa ischt nöit kannhen khémentsch, antweegen doa ischt
tscheb, tscheb z’goan ouf, ja nöit sövvil z’goan ouf wi cheemen ingier mit a léddi, antweegen doa hescht mussun wissun wi di heschti kheen z’chieren, ol di hejischt kheen z’^
chieren va sua un hewenündsch
gmachut a stul léddini,
hewes gchroutut, hewes gloan dérren un té zu hennich
gseit a P. “Nunh chroutewer, ich machemer a léddi” un té
binnich gcheemen ingier, ich hen kheen Lucia lljicks, hen
mussun cheen ingier geen z’souge antweegen wir hen
^
kheen gmüssurut nündsch
machun a léddi van eim un té
^
cheemen un um nöit das hettintsch muan ündsch
goan gien
awek da joa P. ischt blljibben ouf doa, ischt blljibben doa z’chroutun un ich hemmer gmachut d’léddi un bin gcheemen ingier geen z’sougen dam chinn z’mittag; hennich kiet
z’ambéisse un hennich troagen ouf a P. sua hewer noch gchroutut alle noamittag ich un P. un té zu séwer noch kannhen
^
ouf as poar toaga drouf, basta hewenündsch
gmachut ouf
franh a schiene houfe léddini dors hoei.
2
Laura: Passata la pietraia lì al grosso masso le lasciavi e
andavano da sole, da lì in poi c’era il suolo erboso.
Elena: Trovavano da mangiare…
Laura: Però c’è stato un periodo in cui non potevi lasciarle andare perché avevano piantato degli alberelli…
Elena: Per questo motivo anche alla Birriaca non le potevi far pascolare, là pure c’erano gli alberi nuovi.
Vittoria: Invece di là verso il grosso masso, a Ronhtschiti
…[dopo Bel Krecht Krüpp per andare a Eeru, più percisamente sotto Eeru].
Elena: Su verso Eeru…
Vittoria: Su verso Eeru, nelle cengie di Eeru…
Laura: Ricordo solo di Eeru…
Vittoria: Oh, no! Il cocuzzolo di Bel Krecht, poi c’era
Ronhtschiti, poi c’era…
Elena: In piano dal cocuzzolo di Bel Krecht si chiamava
Ronhtschiti?
Vittoria: Ronhtschiti si chiamava, poi c’era Schwoarzun
Blatti…
Elena: Sì, quello era già rivolto di là…
Vittoria: ...rivolto dietro, poi c’erano le cengie di Eeru, poi
c’era di qua…
Elena: Riunduvatt? No, su quel cocuzzolo di Bel Krecht,
su lì come si chiamava? Munt de l’enfer.
Vittoria: Munt de l’enfer, è ben lì che volevo dire…
Laura: È lì che eravamo andate a falciare io, te e G.?
Vittoria: Sì, sì, Munt de l’enfer.
Elena: E Albezei!
Vittoria: Albezei! Giusto, brava! Non mi veniva il nome.
Laura: Un giorno V. disse “Su là c’è ancora un bel pezzetto
da falciare, ma alla mattina dobbiamo alzarci alle cinque”,
sì, sì, ci siamo ben alzate alle cinque ma quando siamo arrivate su c’era già T.V. e non so più chi con lei.
Vittoria: E quell’altra volta che siamo andate io e P., alla
sera eravamo partite da Balmu e abbiamo detto “Di lì c’è
ancora…”
Laura: Ecco, ecco, venivamo da Balmu, domani mattina
in tre, disse, fare un bel fascio ciascuna tutte e tre…
Vittoria: …poi vi erano là E., la zia Md. e S., già tutte e
tre lì… quando siamo arrivate lì sul cocuzzolo di Bel Krecht loro erano su là e ci voltavano le spalle e lì sul cocuzzolo di Bel Krecht abbiamo sentito abbaiare un cane e io dissi “Ecco, siamo belle che fritte”, era il cane nero che aveva
E., e abbiamo detto a P. “Adesso ritorniamo indietro” e ci
siamo dirette poi verso Albezei e salite a Munt de l’enfer,
ci siamo trascinate su di là e abbiamo ancora falciato tanti fasci, da quella parte non saliva nessuno perché lì è molto difficoltoso salire, ma ancora di più scendere con un carico perché dovevi sapere come girarti, di qua o di là, e ci
siamo fatte tanti fasci, l’abbiamo falciato e lasciato seccare
e poi ho detto a P. “Adesso falciamo, io mi preparo un carico”, poi sono scesa, avevo Lucia piccola e l’allattavo al seno,
perché noi avevamo pensato di prepararci il fascio e tornare, non pensavamo di trovare altra gente. P. è rimasta là a
falciare e io mi sono preparata il fascio e sono scesa ad allattare la bimba a mezzogiorno; ho poi preso il pranzo e l’ho
portato a P. così abbiamo ancora falciato tutto il pomeriggio io e P., siamo poi risalite dopo qualche giorno, basta, ci
siamo così preparate un bel mucchio di fasci di fieno secco.
“pro” in piemontese è un avverbio che di per sé vale “basta, a sufficienza, basta così”, ma ha un uso molto comune con valore rafforzativo di certo che ...., sicuramente, sì che...
— 8 —
A U G U S T A
VITORSCH MARÉJI
Éischeme – z’undra Proa, le 23 mérze 2006
MARIA STÉVENIN (*1917)
Issime – Pra, il 23 marzo 2006
Maréji: Antweegen war hen génh ghüt in d’almini déi
geiss, wissischt, un té darnoa wénn ischt gcheen la fore^
stale, dschi
hen kheen manhal z’machun l’impiantasion,
allz ouf hinner d’ketschi, un darnoa hewer mussun lést
lécken awek d’geiss, antweegen wénn goantsch nell’impiantasion, doa krat kheen gsétzt ellji d’baumjini, doa woa
^
ischt gsinh as söiri hialts, wissischt, sua as poar dschen^
nechtri un etwas duarna, wa noch dschi hen kheen wéiti
^
^
z’hüten, disch
geiss, dschi
hen kheen wéiti z’essen, wissischt, chieren um dabbiri tur d’almini, un wértensch mer
kannhen in d’bauma hetti kiet la mülta, hettensch mer kessen d’geiss bélla leebunu.
* Wa wénn?
^
^
Maréji: Hettudschu
mussun varchaufen, eh, hettuwudschu
^
varchauft, was willischt doa tun, hennündsch grout déi
^
geiss worom sén gsinh sövvil lljiaub geiss, dschi
hen kheen
génh a vloame wi…, un génh kheen d’milch unz, villje unz
za Winnachte.
* Ah, unz za Winnachte, da summer un za Winnachte.
Maréji: Unz za Winnachte, van d’oustaga das hen gitzunurut unz za Winnachte hewer génh noch kheen z’melhjen, nöit franh dé grosses quantité wa… un déi mil^
ch ischt gsinh guti, is het keen gut chiedscha
das ischt
gsinh wi funtunu un an guten gut, dri d’geissumilch darmit mit dar chünumilch, hewer gmischlut, dou, gmischliti, wa is het keen an gute veisste chiesch, ischt gsinh wi
essen funtunu, krat glliéich, guti…
War hen kheen secksch zücki, allu oan huarni, antweegen
déju sén lljiaubu un d’milch gutu, dén déju za huarnu, déju
za huarnu wéilu spürrentsch as söiri dan gut stoarhi in d’^
^
^
milch, mussischt dscha
wélljen, wir, ündsch
hettawa dscha
^
njanka kheen manhal z’dscha wélljen, wénn z’is gsinh as
söiri réifi, nöit sübit apeina gitzunurut, na! Wa a voart dür
da summer ischt gsinh milch wi wérti gsinh chünumilch.
* Un da summer un za Winnachte d’milch ischt vür
d’chalber auch?
Maréji: Darnoa hentsch pheeben as chalb d’oustaga
wénn d’chü hen gchalburut, wénn ischt gsinh as stirlji ol
dinnhi sua, was ischt nöit gsinh um norrun, wéilu hewer
gnorrut, darnoa sén gsinh deeru z’lécken awek un wissischt wol da lebtag van .. dei pòvri contadin wi z’ischt gsinh,
génh asparren um heen etwas, un malgré das ischt nöit
gsinh sövvil solda, du ischt nöit gsinh wi nunh, das alli
d’weeld het solda. D’oaltu lljöit, bsinnimich du, wénn wir
hen grürt, das binnich noch gsinh zam hous, binnich nöit
gsinh gmannuts, ischt noch gsinh méin pappa.
Dan tor, dan tor hentsch génh gmachut… z’meischta das
ischt kannhen ischt génh gsinh méin ma, wir hen kheen
seckschu darwil…, un sua is het kiet auch déi van d’na^
chpiri, doa van im kantunh, wissischt! Dschi
hen ellji
kheen an geiss d’uppugu lljöit a voart eina ol zwienu hentsch ellji kiet, doa ischt gsinh Clotilde, d’mamma van Maria ambri doa unna, un té ischt gsinh Vindualasch [Stéve^
nin originari di Niel, Gaby], dschi
hen auch kheen zwienu, Vindualasch. Un té ischt gsinh doa woa is het kiet da
housunh, grüscht d’ketschi, doa hinner déja van Romanin, doa sua ischt gsinh an oalta, auch das ischt gsinh gmanniti wa is het kheen as töchtirllji un té ischt mu gstuarbe
wénn is het kheen sibben, acht joar. A la fin dar ma [della famiglia Trenta] ischt gstuarbe un té ischt blljibben
Maria: Perché pascolavamo nei beni comunali, quelle capre, sai .. e poi quando è venuta la guardia forestale avevano bisogno di fare delle piantagioni, tutta la zona dietro
alle case e dopo abbiamo dovuto disfarci delle capre, perché
se andavano nelle piantagioni, lì appena piantati tutti gli
alberelli, lì dove il suolo era un po’ liscio, sai .. qualche ginestra e qualche rovo, ma avevano ancora spazio per pascolare queste capre, avevano ancora posto per mangiare,
sai .. vagando per i beni comunali, se fossero andate nella
piantagione avrei preso la multa, mi avrebbero mangiato
le capre belle vive.
*Ma quando?
Maria: Le abbiamo dovute vendere, eh! Le abbiamo vendute, cosa vuoi fare. Ci è dispiaciuto, perché quelle capre
erano molto buone da latte. Avevano sempre delle belle
mammelle come …e sempre fatto del latte quasi fino a Natale.
* Ah fino a Natale, in estate e fino a Natale.
Maria: Fino a Natale. Dalla primavera quando hanno fatto il capretto, fino a Natale avevamo sempre ancora da
mungere. Non delle grosse quantità ma .. E quel latte era
buono, dava dei buoni formaggi che erano come fontina, e
un gusto squisito, mescolando il latte di capra con quello
vaccino, abbiamo mescolato, di .. mescolato dava un ottimo
grasso formaggio, era come mangiare fontina, ugualmente
buono. Avevamo sei capre senza corna, perché quelle sono
molto lattifere e il latte è ottimo, più di quelle con le corna,
il cui latte è spesso un po’ forte, dovresti farlo bollire. Noi
non avevamo neache bisogno di farlo bollire, quando era un
po’ maturo, non subito dopo aver partorito il capretto, no!
Ma in estate era come latte vaccino.
* E in estate e a Natale il latte era anche per i vitelli?
Maria: Dopo tenevano un vitello in primavera, quando le
mucche partorivano. Se era un torello … che non era per
allevare. Certe volte si allevava, poi ce n’erano di quelli
da vendere e … Sai ben la vita dei poveri contadini com’era, sempre risparmiare per avere qualcosa; e malgrado ciò
non vi erano tanti soldi. Allora non era come adesso che
tutti hanno dei soldi. Gli anziani mi ricordo allora, quando noi facevamo il burro, io ero ancora a casa, non ero ancora sposata, c’era ancora il mio papà … [vi era l’usanza
di regalare un po’ di latticello, con una noce di burro fresco].
Il turno, il turno lo facevano sempre .. il più che andava era
sempre mio marito. Noi ne avevamo sei quindi .. Così lui
prendeva anche quelle dei vicini, lì del villaggio, sai .. Avevano tutti una capra, povera gente allora, una o due ce l’avevano tutti. Lì c’era Clotilde la mamma di Maria lì sotto,
e poi c’era Vinduala [Stévenin originari di Niel, Gaby], ne
avevano anche due, i Vinduala. Poi c’era quella lì dove ha
preso la casa, aggiustato l’abitazione . lì dietro a quella di
Romani-n, lì c’era un’anziana donna, anche lei era sposata ma aveva una bambina che è morta quando aveva setto
o otto anni. Alla fine il marito [della famiglia dei Trenta]
è morto ed è rimasta sola, era una zia di Christillin Vitale
[Chrischta].
* Le mettevano tutte insieme le capre.
Maria: E allora prendevamo le capre degli uni e degli altri. Di solito ci andava Romano, quando era inverno che
non c’era tanto lavoro, le accompagnava fin lassù, vedi là
— 9 —
A U G U S T A
Issime,
il mayen
di Bourinnes
nel vallone
omonimo.
Anno 1908
(g.c. E. Pomati)
auch einigi, ischt
gsinh a muma van
Chrischtentsch Vital
[Chrischta]3.
* Hentsch gleit allu
zseeme d’geiss?
Maréji: Dé darnoa
hewer ellji kiet d’geiss van eini un
van d’endri, den tor
ischt kannhen, z’merteil ischt génh
kannhen Rumen, wénn ischt gsinh da winter das ischt nöit
^
gsinh sövvil weerch, hets dschu
akumpunjurut ouf doa,
gsischt doa woa ischt allu déi bantschi…
* Ja, Heerdugun Écku.
Maréji: Heerdugun Écku, doa ischt as eebenz krüppji woa
^
z’uabruscht sén gsinh d’almini, mu het dschu
génh gvürt
ouf doa un doa hentsch kiet da weg un séntsch gfillurut
ouf, ouf tur Zappil, ouf tur da Lénnhe Vatt un ouf tur d’Écki
un d’uabrun Écki un allz ouf doa, séntsch mu kannhen
süjen z’essen. Wénn z’ischt gsinh ieber, wénn ischt gsinh
da schnia hescht nöit mua wa wénn ischt gsinh ieber sént^
sch génh kannhen ouf, dschu
akumpunjurut unz doa un
doa séntsch kannhen un té dan oabe wénn ischt gsinh
l’òoura [patois di Gaby], méin mamma het génh ghannut,
war hen génh gmachut laub, allu d’éscha, un is ischt nöit
gsinh sövvil gruass wi dou wa… ischt gsinh più o meno
wit ich, là, wa ischt gsinh leebini z’streeben ouf tur déi bauma, wi is wérti … ah ..uno scoiattolo…ouf tur all déi grampi, trommut an grampe un troan ambri un ich hen abiotturut unna un génh gmachut houfi laub, troagen in di dilli, war hen génh kheen z’scheermen phieri, galataz, un
^
d’oaltun ketschi wissischt wol wi dschi
sén, ischt dé nöit
gsinh vür le luxe, sén gsinh mia vür widerzin le nécessaire vür z’via, wénn het mu wéilu kaputurut z’zéit das het
gmennussurut génh griffen déi veschla, gmachut déi veschla un troagen in di dilli, anche nöit sövvil dors, un té
kannhen lécken ouf tur déi galataza ischt gsinh allz… un
té arüscht, tan un tan, wénn ischt gsinh hübsch
^
^
séwudschu
kannhen arüschen un hewu dschu
gleit im
stul… Lebtaga das mu het gmachut, méis chinn!
^
* Un mit dar milch hescht gmachut chiedscha.
Maréji: Mit dar milch wénn ischt gsinh réifi, d’oustaga là,
wénn ischt gsinh d’gitzini dé éttlljigi henwer varchauft, war
3
dove ci sono tutte quelle cengie.
* Sì, Heerdugun Écku.
Maria: Heerdugun Écku, lì c’è un cocuzzolo pianeggiante, dove in cima ci sono i beni comunali. Le si portava sempre fin lassù e lì prendevano il sentiero e su per
Sappil, su per Lénnhe Vatt, e su per Écki e Écki di sopra.
E su di là andavano a cercarsi da mangiare, quando il
terreno era libero dalla neve. Quando c’era la neve non
potevi, ma quando questa non c’era andavano sempre su.
Le accompagnavamo fino lì e poi andavano da sole, e alla
sera quando era ora, la mia mamma preparava sempre,
facevamo sempre delle fascine di foglie, tutti i frassini, e
lei non era grande come te, ma .. Era più o meno come
me, ma era svelta ad arrampicarsi sugli alberi come fosse .. ah .. uno scoiattolo .. su per tutti quei rami, tagliato
un ramo e buttato giù. Ed io toglievo le fronde e preparavamo sempre dei mucchi di foglie, portate nel fienile, avevamo dei ripari dappertutto, solaio e sai ben le vecchie
case come sono, non erano di lusso, ma per ritirare il necessario per il bestiame. Se capitava che il tempo era minaccioso, preso in fretta quei fasci, fatto quei fasci e portato nel fienile, anche se non era tanto secco, e messi su
per quelle soffitte. E poi andavamo ogni tanto a rivoltarle per farle prendere aria, scuoterle ogni tanto finchè
asciutte le ammucchiavamo. Delle vitacce facevamo, caro
mio!
* E con il latte facevate il formaggio.
Maria: Con il latte quando era maturo, in primavera.
Quando c’erano i capretti, alcuni li abbiamo venduti, ne
abbiamo tenuto solo uno per noi, avevamo ancora … Non
c’erano ancora dei frigoriferi e congelatori, non sapevamo dove conservare. Quando macellavamo un capretto,
ne prendevamo un pezzo ciascuno, lì i miei fratelli del ma-
Nel villaggio di Champriond negli anni ’50 le famiglie possedevano: Munuku Rumen 8 capi, Chrischtentsch Maria 2 capi, Vindualasch 1 capo, Chrischtentsch Vitale 2 capi.
— 10 —
A U G U S T A
hen krat pheeben eis vür ündsch, hewer noch kheen… a
rasunh du ischt nöit gsinh dei frigo un dei cungelator, war
hen nöit gwisst woa lécken, wénn di hescht gmétzkut eis
war hen kiet a stükhjilti van eim, doa méin brudara van dar
ma un Vituari, hennich noch troan as stükhjilti dar mam^
mu das dschi
het gmachut un fricandò mit dar puluntu,
ischt gsinh guts, gitzuvleisch. War hen nöit kheen dei cun^
gelator, war hen pheeben sua as söiri vür ündsch,
war hen
4
kheen an balmu dür in Zéngjiltini , dür im woald, war hen
kheen wi as hous, an balmu doa bieri, dür tur da woald,
doa in Zéngjiltini, doa béi dan bach ouf…un doa ischt gsinh
wi an balmu, ich hen gleit dri trüchni, vür goan gia vür da
summer wénn mu het kheen manhal, wénn war hen nöit
kheen wéiti gnug dangher héi, wissischt, woa war
^
^
hennündsch
pheeben, wissischt wol woa war hennündsch
^
pheeben, woa dschi hen grüscht nunh…
rito e Vittoria. Ne ho por tato ancora un pezzetto alla
mamma, che lo faceva in umido con la polenta. Era buona la carne di capretto, non avevamo i congelatori, ne tenevamo così un po’ per noi, avevamo una grotta di là a
Zéngjiltini, di là nel bosco, avevamo una specie di cucina, una grotta lì vicino al torrente [dove conservavano la
carne].
C’era una grotta, io vi mettevo le foglie secche, per andarle a prendere in estate quando ne avevo bisogno, non
avevamo abbastanza posto di qua, sai … dove abitavamo, sai ben dove abitavamo, dove hannno ristrutturato
adesso.
HANTSCH IMELDA
Éischeme – Bennetsch, lljicke moanut 2006
IMELDA RONCO HANTSCH (*1935)
Issime – Bennetsch, febbraio 2006
Im Duarf du, déi zéiti hemmu nöit gvunnen z’chaufen milch in d’büttiji un hettumu auch nöit kheen d’solda um
^
dscha
chaufen sua z’merteil hentsch kheen an zugeiss, un
déi geiss um nöit goan varlljiren allz das zéit séntsch
^
kannhen an tag eis an tag z’andra dschu
hüten, z’merteil
d’geitala, d’boffi ol töchtirlljini… un an boffu het gseit ar
gotta das het kheen nöit lannhuscht varluaren dar ma, hets
mu gseit: “Léck a as tringhjilti deer geiss, déja tumer zar^
goan, ich vinnandscha
nümmi, muss génh goan süjen, is
geit nöit mit dan andre, ischt as hessigs, as schwachs” un
^
disch
gotta seemu: “Ja wa ich hen z’trounen, man nöit
lécken a di tringhiu dar geiss” un d’boffu: “Trounen mascht dou, d’geiss het nöit manhal z’trounen wa léckmer a
^
as tringhjilti der geiss süscht ich goandscha
nümmi hüten”
un sua hets mussun lécken a as tringhjilti dar geiss wénn
^
wol dschi
het kheen z’trounen antweegen déi geiss doa,
nöit sövvil gwannu eina mit dan andre, sén nöit kannhen
zseeme ol ischt génh zargannhe aswoar un sua voilà, doa,
un wénn d’sunnu ischt arrivurut séntsch kannhen ouf tur
d’almini mit dem schuppitji geiss das sén gsinh…
In Capoluogo, a quei tempi, non si trovava il latte nei negozi, e neanche avevano i soldi per acquistarlo, così quasi tutti avevano una capra e per risparmiare tempo andavano a turno a portarle al pascolo tutte assieme, di solito erano gli adolescenti, ragazzi o ragazze. Uno di questi ragazzi disse un giorno ad una signora rimasta vedova da poco: “Metti una campanella a quella capra, essa
se ne va e non la trovo più, devo sempre andarla a cercare, non va assieme alle altre, è dispettosa, è cattiva” e
la signora: “Sì, ma io porto il lutto, non posso mettere la
campanella alla capra”. E il ragazzo: “Il lutto lo puoi portare tu, la capra non ne ha bisogno, ma mettile la campanella altrimenti io non la porto più al pascolo”. Così la
signora dovette mettere la campanella alla capra anche
se portava il lutto, poiché quelle capre lì, non troppo abituate a stare insieme, se ne andavano per conto loro.
Ecco, quando giungeva il sole salivano ai beni comunali
col gruppetto di capre.
Z'NOTTRISCH BRUNO
Éischeme – Duarf, mérze 2006
BRUNO LINTY Z'NOTTRISCH (*1937)
Issime – Capoluogo, marzo 2006
* Wénn d’willeschmer etwas zélljen…
Bruno: Va ben, ich bsinnimich das, nel ’61, z’létscht joar
das ischt gsinh la tassa bestiame, da winter ischt mu passrut ter allu d’ketschi un hentsch kunsunjurut vüvvil chü
^
dschi
heji kheen, vüvvil geiss un allz un ischt gsinh zwurru zam joar, da summer, het mu khier t um d’alpi; ich
bsinnimich das ischt gsinh le 12 septembre un binnich
amoddurut da muarge phend va héi, binnich kannhen
z’Valniro, exactement za Jatziunu, ischt gsinh Benjamen,
eis van dar Pischu das ischt gsinh z’alpu doa, darnoa hen-
* Se mi vuoi raccontare qualcosa…
Bruno: Va bene, io mi ricordo che, nel ’61, l’ultimo anno
in cui vigeva la tassa bestiame, in inverno si passava per
tutte le case per controllare il numero di bovine che la famiglia possedeva, quante capre, ecc., questo si faceva anche in estate, quindi due volte all’anno. In estate si passava per gli alpeggi; mi ricordo che era il 12 settembre e
sono partito di buon mattino, da qui sono andato a Valniro, a Jatzjini esattamente, là vi era Beniamino, un signore di Fontainemore che era lì all’alpeggio, poi ho at-
4
“di Zéngjiltini” sono dei terrazzamenti sopra il prato detto Varrinnhi prima del villaggio di Zuino, dopo il torrente Pennenbach. Nella balma, Zam Goade - così chiamata anche se non utilizzata come stalla - si ritiravano in autunno le foglie raccolte
nel bosco che servivano poi come lettiera per le vacche, le si ritiravano durante l’inverno. La balma si trova aldilà del Pennenbach dopo il villaggio di Tschendriun sopra i terrazzamenti detti Zéngjiltini. All’interno della balma si trova, lungo una parete, un buco simile all’imboccatura di un forno, al suo interno fa molto freddo, Maria poneva della carne di capra per spezzatino che si conservava per almeno un mese, un mese e mezzo.
— 11 —
A U G U S T A
nich trevursurut dür, binnich kannhen in Tschachtulljustein, doa ischt gsinh z’alpu eis van Dunnaz, zu binnich
kannhe in Stuale ischt gsinh z’alpu eis van zar Pischu, Pariassa, darnoa binnich kannhe ouf in d’Mühnu ischt
gsinh zwei van Uberlann, Jean Stévenin un Mario Stévenin noch, darnoa binnich gcheen ingier in d’Pioani, in d’Pioanu, ischt gsinh Mimmo Lazier das het kheen Flavia
- z’hüten - im oarm, das het nuan kheen zwia moanada,
antweegen Flavia ischt gsinh gwuarte juillet, un doa in
d’Pioanu ischt auch gsinh eis van Uberlann das het kheisse Robert Jaccond un hets mer kunsunjurut d’chü un allz
was is het kheen auch is, zu hennich trevursurut dür,
binnich kannhen in Prassavinh, passrut dür Preschtevenuart un arrivurut in Prassavinh un binnich kannhen dür
in Méttelti hennich gvunnen Pétératsch Jodéfji, zu binnich kannhe ouf in d’Vlüekhji hennich gvunne, ischt gsinh
dar éttru Luéi, Angelo Mar tinetti, ischt gsinh eis van
Kwarrusu, un darnoa hennich gchiert um ellji d’endri
das sén gsinh in Sen Kroasch Gumbu, ingier un ingier.
* Un dé dou bischt kannhen markurun vüvvil chü hentsch kheeben un bischt kannhen gian d’solda auch?
Bruno: Vüvvil chü hentsch kheen, vüvvil… na, d’solda
ischt arrivurut la tassa un séntsch kannhen zalle, dénghien, all’esattoria.
* Ah, dou hescht nöit kiet d’solda, bischt nuan kannhen
schréiben vüvvil…
^
Bruno: Na, eh! Antweegen ündschi
sén gsinh zar Stubbu
z’alpu du un té da muarge drouf bsinnimich binnich
kannhen dür in Valbounu, das ischt gsinh a fümmala, Chincheré van dar Pischu, het kheen vünv chü un zu binnich
gcheen ingier in commune amum z’weerch; un darnoa, le
^
16 septembre, binnich kannhen in Türrudschun
gumbu…
* Auch doa bischt kannhen machun dan tor vür…
Bruno: Doa hennich gmachut dan tor, z’selb dinh, binnich kannhen in Krédémi ischt gsinh Stoffultsch Vital un
dar Früttir, in d’Pioani ischt gsinh César un Flavio, Flavio
ischt gsinh as boffilti het kheen zie joar, un ouf in Lei Nir
ischt gsinh Attilio Stevenin, Attilio d’la Moulineira hentsch mu gseit, un d’eju, d’eju ischt gsinh aschuan oalti.
^
* Dé ischt gsinh van Uberlann dische
héi.
^
Bruno: Jia, jia, dischi héi sén gsinh van Uberlann un séntsch noch gsinh dambor du, noch gsinh ouf in Lei Nir du,
ischt gsinh le 16 septembre, un darnoa d’endri joari drouf
^
hentsch dscha
kheen bürt, ischt nümmi gsinh.
* Un dé dan tor dar geissu sén kannhen machun d’geitala ol…
^
Bruno: Ah, dan tor dar geissu das dschi
hen gmachut héi
im Duarf, doa an bitz ellji.
* Sén gsinh plutot d’chinn ol an bitz ellji…
Bruno: Ah, ja, d’boffi z’merteil, ja d’junhu z’merteil,
d’junhi eh. Jia, héi im Duarf bsinnimich ischt gsinh dan
tor van d’geiss un wir sén gsinh doa zam Preite, Philip du
^
hets dschi
pheen z’Tunterentsch, aschuan ellji kheen an
troppe van eim, chacun ischt kannhen pour son conte…
* Was ischt gsinh das, d’oustaga ol…
Bruno: Bélla da winter wénn ischt gsinh hübsch, das
^
^
hentsch dschu
gleit ous da muarge, hentsch dschu
gvürt
^
ouf un dan oabe séntsch dschu kannhen gia, héi ischt
gsinh sibnu ol achtu, héi im Duarf, hentsch nuan kheen
^
eina grech antwier het kheen zwienu dé hentsch dschu
gleit zsee un séntsch nuan kannhen eis.
* Un dou bischt nöit kannhe.
Bruno: Na, wir sén gsinh ambri doa, wir hen kheen
traversato e sono andato a Tschachtulljustein, là c’era
un malgaro di Donnas, sono poi andato a Stuale e là vi
era un altro di Fontainemore, Pariassa, ho proseguito
poi per Mühnu, là ho trovato due di Gaby, Jean Stevenin
e Mario Stevenin ancora, sono sceso poi a Pioani, a Pioanu, là c’era Mimmo Lazier a pascolare, che aveva in
braccio la figlia Flavia di due mesi, poiché Flavia era
nata a luglio e lì a Pioanu c’era pure uno di Gaby, che si
chiamava Rober t Jaccond, che mi ha dichiarato il numero di bovine e tutto ciò che aveva, pure lui. Ho attraversato poi per andare a Prassavin passando per Preschtevenuart ed ho proseguito per Méttelti dove ho trovato Giuseppe Ronco, sono poi salito a Vlüekhji dove ho
trovato lo zio Luigi e Angelo Martinetti, che era di Carema, poi scendendo sono passato a trovare tutti gli altri
del vallone di San Grato.
* E allora tu sei andato in giro a segnare quante mucche
avevano e sei andato a prendere i soldi anche?
Bruno: Quante mucche, sì, quante… no, i soldi arrivava
la tassa a casa e andavano a pagare penso all’esattoria.
* Ah, tu non hai ritirato i soldi, sei andato solamente a segnare quante…
Bruno: No eh! Perché i nostri erano a Stubbu in alpeggio
a quel tempo, e la mattina seguente, mi ricordo, sono andato a Valbona, là vi era una certa Chincheré di Fontainemore, aveva cinque mucche, poi sono tornato al lavoro
in municipio. Il 16 settembre, sono andato nel vallone di
Tourrison…
* Anche lì sei andato a fare il giro per…
Bruno: Lì ho fatto la stessa cosa, sono andato a Krédémi,
là vi erano Vitale Consol e Giuseppe, a Pioani c’erano Cesare e Flavio, Flavio era un ragazzino, aveva dieci anni, e
su a Lei Nir c’era Attilio Stévenin [nipote di quell’Edoardo
Stévenin che all’inizio del ‘900, a Lei Nir e a Tourrison,
subì lo strano fenomeno delle ‘pietre che volavano’], Attilio
della Moulineira gli dicevano, e la madre, la madre era già
anziana.
* Allora era di Gaby costui.
Bruno: Sì, sì, erano di Gaby ed erano ancora lassù allora,
erano ancora su a Lei Nir, era il 16 settembre, e poi negli
anni successivi l’avevano tolta, non c’era più.
* E allora il turno delle capre lo facevano i ragazzini oppure…
Bruno: Ah, il turno delle capre che facevano qui in Capoluogo, là un po’ tutti.
* Erano piuttosto i bambini o un po’ tutti…
Bruno: Ah sì, i ragazzi di solito, i giovani di solito, i giovani eh. Sì, qui in Capoluogo, mi ricordo, c’era il turno per
pascolare le capre, noi eravamo lì ai Preit, Filippo allora
abitava a Tontinel, già ne avevamo un gruppetto ciascuno,
ognuno andava per conto suo…
* Cos’era quello, in primavera o…
Bruno: Anche in inverno, quando faceva bel tempo, le mettevano fuori alla mattina, le portavano su e alla sera andavano a riprenderle, qui ve n’erano sette o otto , qui in Capoluogo, ne avevano solo una per famiglia, forse qualcuno
ne aveva due così le mettevano assieme e uno solo le portava al pascolo.
* E tu non sei andato.
Bruno: No, noi eravamo laggiù, ne avevamo tante, dodici o quindici.
* Bisognava mettere insieme quelle che…
Bruno: Sì, ma noi laggiù…, qui in Capoluogo e forse alla
— 12 —
A U G U S T A
(g.c. Archivio Boccoli)
aschuan villuru, zwélvu ol vüefzunu.
*. Wérti gsinh z’lécken zseeme deeru das…
Bruno: Ja, wa ambri doa wir…, héi im Duarf, in d’Künju
grech hentsch kheen dan tor. Antweegen héi ischt gsinh
doa Tas^ sunu das het kheen d’geiss, bsinnimich, Chrisch^
tellje, J., doa, dar Dréisger, Dréisger hets dschi
pheen woa
nunh ischt la farmacie doa, doa ischt gsinh dan goade,
bsinnimich noch, un té ouf un ouf, Kamillet, z’Kuckersch
un, ja, bsinnimich nümmi recht allz, là…
* Un a voart hentsch kheen d’geiss worom? Vür…
^
Bruno: Vür heen d’milch da summer, auch, dschi
hen ellji kheen d’geiss vür da summer.
* Ischt gsinh vür intégrér d’chü.
Bruno: Eh, vür intégrér d’chü, wier het kheen chinn, d’geissumilch ischt l’idéal vür d’chinn, hentsch génh gseit,
noch nunh khüermu seen.
* Dou wissischt nöit wi hentsch déssidurut z’machun dan
tor, ischt gsinh, all moanada hentsch töischut…
Bruno: Wa dénghien nöit, dénghien das, wiss nöit, ischt
gsinh an tag van eim, wier het kheen glljiéivrut het amum
voan a z’iesta, etwa; ja, das ischt nuan gsinh da winter un
^
d’oustaga antweegen zu da summer chacun… wénn dschi
hen ghoeiut, d’geiss hentsch nen kiet zu in d’matti, ischt
nöit gsinh z’ganz joar dan tor, na, na. Ischt gsinh da win^
ter, hentsch dschu
gleit ouf tur d’almini, da muarge hent^
^
sch dschu gvürt ouf, zu séntsch dschu
kannhen süjen,
^
séntsch dschu kannhen gian; dénghien an tag van eim,
wier het kheen zwienu ischt grech kannhen zwien toaga,
dénghien is heji funktiunurut sua.
Cugna facevano i turni. Perché qui, mi ricordo, là i Ronc
aveva le capre, i Christille, G., Adolfo Trenta, abitava dove
adesso c’è la farmacia, lì c’era la stalla, mi ricordo ancora,
e poi su, Nicco Giovanni, i Bastrenta e non mi ricordo più
bene tutto.
* E una volta avevano le capre perché? Per…
Bruno: Per avere il latte in estate, anche, avevano tutti la
capra per l’estate.
* Era per integrare la produzione bovina?
Bruno: Eh, per integrare, chi aveva bambini, il latte di capra è l’ideale per i bambini, dicevano, ancora adesso si sente dire.
* Tu non sai come funzionava il turno, cambiavano tutti i
mesi?
Bruno: Ma, non penso, credo che, non so, andavano un
giorno ciascuno, chi aveva finito ricominciava per primo,
probabilmente; sì, quello era solo in inverno e primavera
perché poi in estate ognuno… quando facevano i fieni la capra li seguiva nei prati, non era tutto l’anno il turno, no,
no. Era in inverno, le portavano su nei beni comunali, la
mattina su e la sera le andavano a riprendere, a cercarle;
penso un giorno ciascuno, chi ne aveva due avrà fatto due
giorni, penso abbia funzionato così.
— 13 —
A U G U S T A
Au temps où l’on élevait des chèvres
Aperçu sur l’économie pastorale jusqu’en 1950
par JOLANDA STÉVENIN
ans notre village montagneux, il
n’y avait ménage qui n’eût au
moins une chèvre, pour s’assurer le lait du printemps à l’automne.
Les chèvres du pays formaient un troupeau
que, aux premières heures du jour, un jeune
berger, choisi à tour de rôle parmi les enfants
du milieu, conduisait paître sur la montagne.
Cette besogne s’appelait en patois lou tór.
Chaque matin les ruelles retentissaient d’un
cri prolongé: buttì fou-ou-r! ; ce qui signifiait
faites-les sortir. A ce cri la ménagère se pressait vers l’étable, tandis que sa chèvre impatiente bêlait et tirait sur sa chaîne.
Allant de maison en maison le troupeau
s’agrandissait et, tout en faisant une gentille
musique de clochettes, se dirigeait vers les
gazons fleuris, entrecoupés de rocailles et
d’arbustes épineux de la montagne.
Il n’était pas facile de se faire obéir de ces
bêtes, agiles et capricieuses, qui s’échelonnaient dans les prairies et bondissaient d’un rocher à
l’autre, comme des chamois.
Il fallait une bonne expérience pour maîtriser le troupeau
et le pourchasser jusqu’à une certaine hauteur qui, pour
nous à Kiamourséyra, s’appelait la péira dou djòl. De cet
endroit, les chèvres, d’elles-mêmes, montaient brouter les
fleurs parfumées et les jeunes pousses dont elles se régalaient.
Epuisé par ses efforts, le petit berger s’arrêtait quelques
instants, le temps de manger une bouchée de pain et fromage, avant de redescendre.
Vers six heures du soir, le berger repartait chercher les
chèvres, pour les ramener aux ménagères à temps pour
faire la soupe au lait.
La rentrée du troupeau constituait un véritable spectacle
aux yeux des touristes qui, à la tombée de la nuit, flânaient
dans les rues du village.
Chaque chèvre avait son nom et son caractère à elle.
Il y en avait toujours une qui devenait la reine du troupeau
et c’était elle qui décidait s’il fallait monter davantage, s’arrêter ou revenir sur ses pas. Les jeunes pâtres redoutaient
surtout Fiourina,la chèvre de grand-mère Piéréina, à cause des coups de cornes qu’elle donnait à tort et à travers,
sans trop d’égards. Pourtant sa maîtresse prétendait que
Fiourina n’était pas méchante du tout, car elle ne faisait
que se défendre des gens embêtants.
La plus rusée était sans doute Jolibois, la chèvre de mère
Marie. Le soir, à la rentrée, elle ne manquait jamais de faire un tour dans la cuisine de sa patronne. De son museau,
elle soulevait le couvercle du coffre à provisions, pour
D
Issime: capre al pascolo sul Monte Crabun
(inizio XX secolo) (g.c. Archivio Baccoli)
prendre sa ration quotidienne de farine, de son et de pain
sec, puis elle courait à la salière manger une poignée de
sel et, pour finir son self-service, elle buvait quelques gorgées d’eau au seau de cuivre. Tout cela se passait en
moins de temps qu’il fallait à mère Marie pour crier la
salóppa (la sale bête!).
Le fait est que Jolibois connaissait par coeur tous les coins
de la maison, ainsi que l’habitude de sa maîtresse d’oublier toujours les portes ouvertes.
Mais les chèvres étaient toutes des coquines: faire des
farces ça les amusait.
Un jour, la chèvre de commère Marie Gaspard crut pouvoir se jouer de monsieur le curé.
Elle franchit le portail de l’église qui restait ouvert les
jours d’été, et avança décidée jusqu’à la table sainte pour
croquer les bouquets de fleurs, sans se soucier du pot brisé et des cris malheureux de la bonne soeur qui assistait
impuissante à un tel ravage.
Et maintenant que tout troupeau a disparu, d’autres musiques ont remplacé celle des clochettes de jadis. Des
boîtes en carton ont substitué le lait savoureux de nos
chèvres. Les jeunes arbres n’ont plus à craindre les
bouches gourmandes qui croquaient leurs bourgeons:
s’ils étouffent c’est par la pollution. (…)
(Tiré de RIEN QUE LE SOUVENIR, Musumeci Editeur,
1988 Jolanda Stévenin)
— 14 —
A U G U S T A
A propos de chèvres…
par LUCIENNE FALETTO LANDI
ne enquête sérieuse a été menée à Issime et
au Gaby sur l’élevage des chèvres jusqu’à
quelques années après la dernière guerre
mondiale dont les résultats sont publiés dans
ce numéro de notre revue.
Moi je ne puis parler que de mes souvenirs personnels du
début novembre 1942 à la fin mai 1946.
Chassés de France par une … odeur de guerre et,
quelques années plus tard, chassés de Turin par les
bombes qui avaient ravagé le bâtiment où nous habitions,
maman s’était rappelée de ce tiers de maison qu’elle possédait à Issime et que personne n’avait plus habitée depuis seize ans. Nous nous y étions donc installés et, contre
une monnaie d’or que l’on nommait «marengo» , nous
nous étions procuré une chèvre que nous avions appelée
Camoussi, car elle ressemblait bien à un chamois.
Quand on parlait d’une fille pas trop maline, on avait l’habitude de dire «elle est bête comme une chèvre!»
Il n’est rien de moins exact, car les chèvres ne sont pas si
bêtes que ça! Je vais de suite vous en donner un exemple :
Mon père, qui gagnait notre pain quotidien en faisant des
monuments pour le cimetière, avait trouvé des blocs erratiques le long du torrent Tourresoun et il les dégrossissait sur place avant de venir faire le travail plus fin dans
la cour devant la maison.
Quand il partait le matin vers le torrent, il prenait quelques
croûtes de polenta à la poche, en offrait quelques-unes à Camoussi qui en raffolait et ne manquait pas de le suivre. Terminé la polenta elle se gavait de feuilles de noisetiers (son
lait sentait bon la noisette!) et rentrait à la maison avec papa.
Naturellement, elle s’éloignait un peu de lui et, souvent , il
ne la voyait même plus. Alors, parfois, il s’arrêtait pour se
rouler une cigarette. Camoussi n’entendant plus le tic-tic
du marteau sur le ciseau vidia, arrivait de suite en bêlant
comme pour lui demander si c’était déjà l’heure de rentrer.
Papa disait : Il ne lui manque que la parole à cette bête!
Et elle nous avait été tellement utile avec son abondante
production de lait par jour (elle était même arrivée, au
grand étonnement de tout le village, à nous donner deux
litres de lait par traite). Maman en faisait de bons petits
fromages et elle en tirait parfois même un peu de beurre.
Et que dire des bonnes soupes qui formaient notre repas
du soir. Maman faisait cuire dans une casserole moitié
eau, moitié lait, y ajoutait des pommes de terre et des oignons (souvent remplacés par des poireaux qui étaient un
produit de notre jardin et qu’elle conservait à la cave dans
une bassine avec du sable pris au Lys), écrasait le tout sur
l’écumoire avec une fourchette et ajoutait une poignée de
riz et des nouilles brisées (quand elle avait pu se procurer
un peu de farine pour les faire; découpées et mises à sécher sur le dossier d’une chaise recouvert d’un linge
blanc, elles duraient bien quelques jours).
U
Quand j’avais filé de la laine pour un bonhomme de Lillianes qui me payait avec des châtaignes blanches, la soupe était un vrai régal. Et le lait de Camoussi m’avait aussi
servi de fortifiant, car j’étais à l’époque une longue gamine maigre… Une femme de Seingles avait dit à maman :
Elle a un peu de chlorose ta fille, il faut lui donner un fortifiant! Et alors, le contremaître de la centrale de l’Ilssa, le
bon Spera, qui était marié à Carema, avait assuré qu’il aurait fourni le nécessaire le lundi en rentrant de chez lui.
Il était arrivé avec un petit pot de miel et une bouteile de
vin de Carema, m’avait fait mettre dans un bol une cuillerée de miel, deux cuillerées de vin et m’avait envoyée traire la chèvre dessus.
C’était bon, j’en ai joui pendant une dizaine de jours et.. j’ai
vite repris des couleurs !
Lorsque Camoussi avait mis bas un cabri né-mort, maman
avait pris sa première lactation pour en faire … des savonettes. L’on m’avait fait cadeau d’une toute petite bouteille
de parfum nommé « Cuoio bulgaro » et nous l’avions
ajouté à la préparation. Je m’en ètais même servi comme
d’un shampoing pour laver mes longs cheveux : chose
que toutes les filles du hameau n’avait pas manqué de faire le 22 juillet, jour de Sainte Marie-Madeleine, que l’on
considère chez nous la protectrice de la chevelure et qui
assure une belle poussée si l’on coupe la pointe de nos
cheveux le jour de sa fête. Nous n’avions pas d’appareil
pour le séchage, mais ce jour-là le soleil avait fait l’affaire.
De la terrine cassée que ma voisine m’avait enseigné à
ajuster en la faisant cuire dans du lait de chèvre j’ai déjà eu
l’occasion de parler l’an dernier dans cette même revue :
c’est quand même une chose à rappeler car la terrine existe encore au Grand-Praz, six décennies après sa rupture:
dernièrement un filet plus sombre y est apparu, mais elle
peut encore être utilisée. Après cette période à Issime, où
nous avions Camoussi, une chienne nommée Méda, un
chat répondant au nom de Mistigri, et nombre de poules
et de lapins, sans nom ceux-ci, je n’ai plus frayé de près des
animaux, mais je garde un souvenir ému de ceux que j’ai
nommés car ils ont été pour moi, oserais-je dire, des amis.
Si je m’attarde encore un peu à rappeler la période de la
guerre, je vois une dame vêtue d’un manteau de fourrure
d’opossum (qu’elle appelait son «cache misère»), chaussée de sabots (il fallait bien sauvegarder ses escarpins!) se
promenant vers la chapelle de Saint-Valentin avec une
chèvre attachée à une corde, la faisant brouter un peu partout et s’arrêtant parfois pour fumer une cigarette….Je pense que chaque Issimien frisant au moins la cinquantaine
aura reconnu Madame Fifi, l’épouse du docteur Renato
Christillin et, s’il est un peu plus âgé, il se souviendra qu’un
jour, à une personne qui venait lui offrir du lait mais qui le
lui avait refusé quelque temps avant, elle avait répondu :
«Je m’en fiche de votre lait, j’ai acheté une chèvre!».
— 15 —
A U G U S T A
Kuntjini van Eischeme1
Racconti Issimesi
PAOLA CIPRIANO
Stuarte Jeangji un Ronhsch Clémentine
Éischeme - Ribulu, le 16 ocktobre 2003
Giovanni Storto Stuarte (*1928)
e Clementina Ronco Ronhsch (*1930)
Intervistati a Issime - Ribulu, 16 ottobre 2003
^
Jeangji: Dschi
sén kannhen ouf vür miejen…Wissischt?
Unner dan groat in Valniro. (…) Unner dan groat in Valniro un hentsch kiet d’chinn un gschloafen dambor. Hentsch
wélljen schloafen dambor vür nöit cheen ingier ellji moal…
^
Un hentsch dschi
gleit doa unner an balmu un hentsch gleit
hoei nidder vür muan schloafe, un zar mitternacht hentsch
^
mussun laufen awek… Antweegen dschi
hen khüert, gian
^
d’chinn un goan wéitur, dschi
wandlun, wa a schiene stukh,
neh, cheen ingier in d’undrun Écki [vatt vür goan hüten d’^
geiss uab Proa z’Éischeme], dschi
hen nöit muan schloafen antweegen hentsch khüert lljöiten da rebbik alli d’nacht… Un hentsch gseit das sén gsinh le masche [hoakschi].
^
Clémentine: Seeg, un Ida hetter nöit zéllt wénn dschi
ischt
gsinh dambor mit Victoire? (…) Das hentsch kheeben…
^
^
Jeangji: Wa dschiendri
hen dschi
nöit kheen gwandlut.
^
Wa dschi
hen khüert alli d’nacht d’geiss das…
Clémentine: Das sén kannhen dür un da.
^
Jeangji: Dschi
sén nöit gsinh poaslljugu wissischt?
^
Clémentine: Dschöi
het kheen zwienu, nunh Victoire het
^
ru kheen noch mia noch.. Dschi
het mer génh zéllt, là, déja.
^
Un hetsch gseit das dschi heji gmachut an drolege veers,
wissischt? Sén nöit gsinh poaslljugu un séntsch kannhen
^
dür un da, wa auch dschiendri
hen nöit gschloafe.
Jeangji: Un hejintsch nöit gschloafen alli d’nacht hentsch
gseit!
^
Clémentine: Dschiendri
hen nöit khüert d’rebbika. Nuan
d’geiss hen khüert, wissischt?
Jeangji: Sén génh gsinh ouf doa, ouf ol ab, unner dan groat
in Valniro. Antweegen doa ischt an balmu, an gruass bal^
mu woa dschi
hen gleit dri z’hoei (…) un té ischt auch Bal^
ma sour Tera, dschi
seen mu, das wérti an balmu unner
heert. Un seets das, ich bin nji kannhen ambri, doa geischt
^
ambri unna un hescht gsia, hescht noch gsia woa dschi
hen
kheen troan awek dan brunz volli goldini marginh.
Giovanni: Sono andati su per falciare, sai .. Sotto il monte di c Valnéira. (…) Sotto il monte di Valnéira e si sono
presi su i bambini e hanno dormito lassù. Volevano dormire lassù per non venire giù tutte le sere … E si sono messi lì
sotto una balma, e hanno messo del fieno sotto per dormire
e a mezzanotte hanno dovuto scappare… Perché sentivano,
prendere i bambini e andare in un altro posto, spostarsi, ma
un bel pezzo, nèh, venire giù agli Écki di sotto [cengia adibita al pascolo per capre nei monti sopra il villaggio del Pra
ad Issime], perché non potevano dormire perché sentivano
suonare tutta la, tutta la notte il violino … E dicevano che
erano le masche [streghe].
Clementina: Di’, e Ida non ti ha mica raccontato quando
era lassù con Vittoria? (…) Che avevano …
Giovanni: Ma loro non si erano spostate. Ma hanno sentito tutta la notte le capre che …
Clementina: Che andavano in qua e in là.
Giovanni: Non erano tranquille, sai!
Clementina: Lei ne aveva due, adesso Vittoria ne aveva
ancora di più.. Mi raccontava sempre, via, quella lì. E dice
che hanno fatto un verso proprio fuori dal normale, sai! Non
erano tranquille e viaggiavano sempre in qua e in là, ma
anche loro non, non dormivano.
Giovanni: E non han dormito tutta la notte han detto!
Clementina: Loro non sentivano i violini. Li sentivano solo
le capre, sai!
Giovanni: Erano sempre su lì, più o meno, sotto il monte
di Valnéira. Perché lì c’è una grotta, c’è una grossa balma
dove mettevano dentro il fieno (…) e poi c’è anche Balma
sour Tera, la chiamano, sarebbe balma sotto terra. E dice
che, io non sono mai andato giù, che lì vai giù sotto e si vedeva, si vedeva ancora dove avevano portato via il brunz
[paiolo] pieno di marenghi d’oro.
A fümmala van Éischeme, le 17 broahut 2004
Una donna di Issime
Intervistata il 17 giugno 2004
Funtrunkieeru …Wir hen génh kheen khüert, ich,
amanka, hen génh khüert zélljen sua: sén gsinh d’hirtjini
^
^
^
das hen ghüt, dschi
hen dschi
pheeben in disch
kantunhi
[Tunterentsch, Preit]; un, da muarge, hentsch kheen dén
Fontaineclaire… Noi avevamo sempre sentito, io, almeno,
ho sempre sentito raccontare così: che c’erano i pastorelli che
pascolavano, abitavano in queste frazioni [Tunterentsch,
Preit]; e, al mattino, avevano poi quattro o cinque caprette,
1
I testi in italiano sono estratti dalla Tesi di Laurea di Paola Cipriano, Un luogo di incontro alpino. Progetto e immaginario folkrorico in una valle valdostana, Politecnico di Torino – Facoltà di Architettura, anno accademico 2003/2004, relatori: Prof.
Ing. Giacomo Donato e Prof. Alberto Borghini. Le traduzione in töitschu dei testi è di Barbara Ronco.
— 16 —
A U G U S T A
vir ol vünv geiss, sén gsinh oarmi lljöit, nöit ellji hen kheen
d’chü, déi sén aschuan gsinh réich! Dé hentsch gschükht
^
dischi
chinn hüten ouf tur da woald un hentsch nen kheen
z’essen a stukh hérts bruat un, a stukh hérts bruat un a
stukh chiesch, grech unza desch oalte chiesch, gsoalzni
^
wi… Dé, a voart, dische
hirt ischt gsinh ouf tur dan Pirubeck [ischt an tschucke mit a furmu van as huare], ouf doa
^
bieri, mit dschéin
geiss un, wénn is het khüert dar chilhun
klocku, hets gseit: “Is ischt mittag! Dé essentsch!” Dé hets
kesse un d’geiss doa béi mu un, wénn is het kheen kesse,
ischt mu gcheen dan dust! An dust z’töivulsch un dé hets
^
dschi
gleit a faurun, faurun antweegen… ischt etwa das
sua het nöit gmuntut wéit, muss sinh das ischt gsinh zoalts
^
auch du… Hets dschi
gleit a faurun un d’geiss hen
greekut doa béi, ol lammjini das sén gsinh. Un dé, darnoa,
hets khüert a veers, hets bürt z’hopt un hets gsian a fümmala, a schie fümmala das het mu gseit: “Worom faurischt?” Is het ra gseit: “Ich faurun antweegen hen kessen
das bissitji das ich hen kheen un nunh hen an gruassen
dust un hibbiri ischt nöit wasser, war hen nöit gvunnen
^
^
wasser khém uart!” “Ah! Giedadscha
nöit! Giedadscha
^
^
nöit!” Dschi het kheeben an backetu, hetsch dscha
gstékht béi am stein un van unner am stein ischt gsortrut
z’wasser un sua z’chinn un z’vie hen muan tringhien… Zu
hets is gvürt, wider oabe, unz im grunn, unz in d’mattu
^
^
woa ischt génh gsinh dischen
brunne, un dschöi
het zoa^
^
nut dschéin backetu unz doa. A voart das dschi sén gsinh
ingier hetsch mu gseit: “Nunh loanitich. Ich muss goan
^
amouf. Wa ganh trankéili!” Un het dschi
gsétzt an bréivu
von an tschucke: den tschucke das hentsch gseit, wiss nöit
^
^
ol is existiri noch nunh, ol dschi
hendschis…
Dénghien
^
das hejin dschis nöit bdékht… Hets gmuntut an sétzi, wi
^
^
dschöi
hetti dscha
gmachut! Un doa unner de stein ischt
génh gsinh den brunne. Sua hentsch zéllt… Zu ischt
gsinh a su das het troagen z’wasser in Zéngji [Su van in
^
Funtrunkieeru] un… Nunh hen dschis
kiet vür l’aquédòt
^
un as was geit zam Steg! (…) Ündsch
hentsch zéllt sua…
D’lljibu hoaksch van in Funtrunkieeru!
era gente povera, non tutti avevano una mucca, quelli erano già ricchi! E allora mandavano ‘sti bambini a pascolare
su per il bosco e gli davano da mangiare un pezzo di pane
duro e, un pezzo di pane duro e un pezzo di formaggio, magari quel formaggio stravecchio, salato come… Allora, una
volta, questo pastorello era su sotto il Pirubek [è una roccia
a forma di corno], su per lì, con le sue capre e, quando ha
sentito la campanella della chiesa, ha detto: “È mezzogiorno! Allora mangiamo!” Ha mangiato e i capretti lì attorno
a lui e, quando aveva mangiato, gli è venuta sete! Una sete
insopportabile e allora si è messo a piangere, piangere perché… Si vede che la distanza sembra poca così, si vede che
era calcolata anche allora… Si è messo a piangere e le caprette belavano lì attorno, o pecorelle che aveva. E allora,
poi, ha sentito un rumore, ha alzato la testa e ha visto una
signora, una bella signora che gli ha detto: “Perché piangi?”
E gli ha spiegato: “Piango perché ho mangiato quel po’ che
avevo ma adesso ho tanta sete e per qui non, non c’è acqua,
non abbiamo trovato acqua da nessuna parte!” “Ah! Non ti
preoccupare! Non ti preoccupare!” E aveva una bacchetta,
ha toccato una pietra e da sotto quella pietra è uscita dell’acqua che si sono saziate le bestiole e lui… E poi lo ha accompagnato, alla sera, fin giù al piano, fino al prato, dove
poi c’era sempre ‘sta sorgente, e lei trascinava la sua bacchetta lungo il pendio lì. Arrivata giù gli ha detto: “Adesso
devo lasciarti. Io devo tornare su. Ma vai tranquillo!” E si
è seduta su una pietra un attimo: quella pietra che dicevano, non so se esiste ancora adesso, o se l’hanno… Penso che
non l’abbiano coperta… Che sembrava un sedile, come se lei
avesse segnato il suo sedile! E lì sotto quella pietra c’è sempre stata quella sorgente. Raccontavano così … Che poi c’era un ruscello che alimentava là le case di Seingles [Ru de
Fontaineclaire] e… Adesso invece l’hanno preso, per l’acquedotto e una parte va a Ponte! (…) A noi raccontavano
così… La fata di Fontaineclaire!
Chrischtentsch Mareji (*1937)
Éischeme - Tschendriun, 1999
Maria Christillin Chrischtentsch (*1937)
Issime - Champrion, 19992
Margitisch Nato ischt gsinh ouf doa im Zappil z’süjen
d’geiss, un Jean [il fratello, rispondeva a chi gli domandava come mai Fortunato non tornasse] het gseit: “Na, na
ischt nua antschloafe ouf in a schopf zan Burrunu, wénn
z’het glljeivrut z’schloafe chints”. D’geiss séin arrivurut
^
un hen dschis
nöit gsia... un ellji “Nato, Nato” hei Rumen,
villuru, ellji z’is süje. Dé Rumen, doa sua, passurut da weg
hets gsie an plljioaku blut, però müssurut: “Etwas geiss”,
ischt nöit mu gcheehen in z’hopt. Zu ischt gcheehen nacht
hen gseit: “Ben nunh”, ischt nöit (gsinh) wi nunh le pile,
déi dinhi.
Da muarge phend amum kannhe süjen un süjen, té Rumen het gseit “Ma nunh doa wo hen gsien dei plljioaku
blut willi lugu”, zu hets gsien ën diresion sua doa wo séin
gsinh vacksi allu wi antschrisnu, zu hets gsien ambri doa
unna in d’réckeltini, doa wo’scht gsinh déi güllju blut praticament doa hets gchlöpft mit dam hopt.
Il 24 marzo del 1941 all’età di 23 anni Fortunato Ronco
Margitisch morì cadendo da un dirupo nei pressi del luogo
detto Sappil, sui monti sopra il villaggio del Pra (superiore). Era salito negli almini (beni comunali) a recuperare
le capre portate al pascolo.
“Fortunato Ronco era su nei pressi di Sappil a cercare le capre, e Jean ha detto [il fratello, rispondeva a chi gli domandava come mai Fortunato non tornasse] “No, no si è solo addormentato su un balcone a Bourinnes, quando ha finito di
dormire viene”. Le capre sono arrivate ma non l’hanno visto...
e tutti “Fortunato, Fortunato” qui Romano, molti, tutti lo cercano. Allora Romano, là così, attraversata la strada ha visto
una macchia di sangue, però pensa: “Qualche capra”, non gli
è venuto in mente. Poi è venuta notte e hanno detto: “Bene
ora”, non c’erano le pile come oggi. Al mattino presto di nuovo a cercare e cercare; poi Romano ha detto: “Ma ora dove ho
visto quella macchia di sangue voglio vedere”, poi ha guarda-
2
Registrazione originale in töitschu, effettuata da Michele Musso nell’agosto del 1999.
— 17 —
A U G U S T A
Un té zu séntsch mu gcheehen see [al fratello], zu hets
grawut dan endre “Ischt héi, ischt héi”. Tra Rumen, Moartasch Adolfi, un as poar, villuru héi van Éischeme, henz
^
gleit von a léitru, hen dschis
brunnhen ingier.
to nella direzione dove c’erano delle olline come strappate, poi
ha visto in giù la sotto nei ginepri, la dove c’era quella pozza
di sangue, praticamente là aveva battuto con la testa. Poi sono
venuti a dirgli [al fratello], hanno urlato agli altri “È qui, è
qui”. Tra Romano, Adolfo Chamonal e alcuni, molti qui di Issime, l’hanno caricato su una barella, l’hanno portato giù.”
Matilde Bastrenta Milder
Uberlann, le 22 broahut 2004
Matilde Bastrenta (*1912)
Intervistata a Gaby – Issime-Saint-Michel,
22 giugno 2004
An bof fu, ischt gsinh a vröin van méin bruder, ischt
^
gsinh du ‘14, ischt kannhe un hets d schi
pheeben z’^
Greschunej, wa ischt génh gcheen ingier z’ünd sch
in
^
Trentu Steg (…) Zu, disch boffu ischt kannhen süjen d’^
geiss un, dan oabe, wéilu ischt kannhen z’dschéim
hous
^
un wéilu ischt gcheen z’ünd sch,
antweegen méin atte
^
ischt gsinh dschéin
gotte. Zu, an tag das ischt kannhe
hüten d’geiss, ischt gsinh as söiri schnia, is gritte un hets
^
^
^
dschi
tüat. Nuan das dschéini
houslljöit, d’eju un dschéin
^
wetta, in Loomatto [kantunh z’Greschunej] woa dschi sén
^
gsinh, hen d schis
khüert wüschpelljen. (…) Hentsch
khüert wüschpelljen un séntsch kannhen ous un d’boffu ischt nöit gsinh. Dé d’eju, la “nonn..”, d’wetta ischt par^
turut un ischt gcheen z’ündsch
in Trentu Steg um, is het
kheissen Quinto, lugun ol z’mandji wieri gsinh doa. Un
doa is nöit gsinh, antweegen z’mandji ischt gsinh gstuarbe. Un noch, darnoa ischt gcheen al “Moderno” [Alber^
go], woa dschi
hen tanzut, süjen dar bruder wa is ischt
nöit gsinh. Darnoa, dan tag drouf, ischt parturut a squòa^
drou lljöit un hendschis
dén gvunnen tuats. Wa ischt as
^
verous dinh das hendschis
khüert wüschpelljen, ischt
^
gsinh arrivurut z’dschéim
hous süjen hilf. Ischt kannhen
^
wüschpelljen, wissischt, wi dschi
sén d’boffi z’deene joa^
ru! Voilà, vür seen das les revenants cheen! Ündschi
tuatu sén nöit tuat!
Zu ischt gsinh as annes kuntji van d’énhgia. Ischt gsinh
^
an eju un dschéin
su ischt gsinh gstuarbe das ischt noch
^
gsinh lljicks; dschöi
ischt kannhen miejen un hetsch génh
^
^
gfaurut dschéis
chinn, dschi
het nümmi muan leeben…
^
Dé hetsch gsia cheen zu dschéin
énhil das het ra gseit:
“Méin eju fauri nöit, antweegen allu di tropfa das di loascht vallen sén: lug! Ich hen d’vüss allu in as blut!” (…)
^
Mu muss nöit génh faurun vür di tuatu, mu mussdschi
loan leeben! Mu muss leernen déi dinnhi, neh! “Allu di
triani, méin eju, das di loascht vallen…” Hets kheen d’vüss
allu in as blut!
Un ragazzo, era amico di mio fratello, era del quattordici,
e andava, e stava a Gressoney, ma veniva sempre giù da noi
lì a Pont Trenta (…). Dopo, questo ragazzo andava a cercare le capre, e, la sera, delle volte rientrava a casa e delle
volte veniva giù da noi, perché mio papà era suo padrino.
Poi, un giorno, che è andato a pascolare le capre, era già
un po’ di neve, è scivolato e è stato morto, è morto. Solo che
i suoi famigliari, la mamma e sua sorella, a Loomatto [villaggio del comune di Gressoney-Saint-Jean] su dov’erano,
l’hanno sentito fischiare. (…) Hanno sentito fischiare e sono
andate fuori e il ragazzo non c’era. Allora la mamma, la
“nonn” [nonna], la sorella è partita e è venuta a Pont Trenta da noi e, si chiamava Quinto, a vedere se il ragazzo era
lì. E lì non c’era, perché il ragazzo era morto. E ancora, e
poi dopo è venuta al Moderno [Albergo], che era un ballo,
a cercare il fratello e non c’era. E, dopo, il giorno dopo, son
partiti una squadra di persone e l’hanno poi trovato morto. Ma è un episodio che lui è, l’hanno sentito fischiare, era
lui già arrivato alla casa a dare l’allarme. È andato a zufolare, sai, sai come sono i ragazzi a quell’età! Ecco, per dire
che les revenants vengono! I nostri morti non sono morti!
Poi c’era un’altra storia degli angioletti. C’era una mamma
che aveva perso un bambino giovane; e allora andava a falciare l’erba e piangeva sempre il suo bambino, non poteva vivere… E allora ha visto arrivare il suo angioletto che le ha detto: “Mamma non piangere, perché tutte le gocce che tu lasci cadere sono: guarda! Io ho tutti i piedi insanguinati!” (…) Che
non bisogna sempre piangere i morti, bisogna lasciarli vivere!
Bisogna imparare quelle cose, neh! “Tutte le lacrime, mamma, che tu lasci cadere le…” Aveva tutti i piedi insanguinati!
Pastorelli alla “Bataille des chèvres”
di Tour d’Hereraz (g.c. Franco Restelli)
— 18 —
A U G U S T A
La “questione walser” alla luce
di recenti studi su alcune comunità
presenti nella diocesi novarese
BATTISTA BECCARIA
n questo ultimo anno e
mezzo sono stati editi nuovi studi sui Walser, segnatamente in area novarese.
Dalla Storia di Rimella in
Valsesia (estate 2004), opera collettiva
a più mani coordinata da Augusto Vasina, docente emerito di Storia medioevale all’ateneo bolognese (1), a
quella più recente di Macugnaga, ultima fatica monumentale (è il caso proprio di dirlo, tenendo conto delle oltre
1000 pagine complessive) dello storico
dell’Ossola professor don Tullio Bertamini (2). La questione walser è balzata di nuovo alla ribalta proprio per
questi nuovi apporti, che hanno messo
in discussione non tanto opere precedentemente editate e di riconosciuto rigore scientifico, ma per una rinnovata
impostazione data a questi studi recentissimi. Meno “celebrativa” forse, e
in compenso più attenta alla storia minimale ed “événementielle”, come la
definirebbero gli studiosi francesi della scuola delle “Annales”. Chi sono
questi teutonicos (più raramente alamannos) dei documenti d’archivio, solo
da una manciata di decenni di tempo
assurti a “Walser” (forse sarebbe stato
meglio un meno altisonante e comprensibile “vallesani”): sono i nuovi “civilizzatori delle Alpi”, come certa storiografia li ha dipinti, “fondatori di insediamenti toto coelo nuovi d’alta quota”, inventori ingegnosi di tecnologie
per la sopravvivenza in climi proibitivi
e al limite dell’umana capacità? O magari anche qualcosa di tutto questo,
ma soprattutto degli “emigranti”, non
si sa bene poi se emigranti volontari o
forzati ad esserlo malgré eux. Insomma,
senza voler essere dei dissacratori di
“miti ben sedimentati” nella storiografia walser più accreditata, non potrebbero essere costoro l’equivalente odier-
I
1
2
Alpeggio di “la Matta”, vallone di Niel (Gaby)
AA.VV., Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes ville comune parochia”, a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004.
Tullio Bertamini, Storia di Macugnaga, vol. I: (Esposizione storica); Storia di Macugnaga, vol. II: (“Appendice dei documenti”), Parrocchia di Macugnaga, Macugnaga-Verbania 2005.
— 19 —
A U G U S T A
Interno della
cappella di
San Nicola
al villaggio
del Biolley
(Issime,
vallone
di Tourrison)
no dei nostri cosiddetti “extracomunitari” in cerca di una
vita se non proprio migliore almeno meno grama e amara di quella delle loro terre d’origine? L’ipotesi era già stata espressa da più d’un autore nella Storia di Rimella e
condivisa dallo stesso curatore e coordinatore del volume,
Augusto Vasina, oltre che stimato accademico del Medioevo, walser rimellese indubitabilmente “doc”, essendo
i Vasina già attestati a Rimella da documenti molto risalenti.
Chi scrive, medievista con interessi più specifici per il Novarese e il V.C.O. (Verbano Cusio Ossola), e storico della
Chiesa gaudenziana, si chiama volentieri fuori dal novero
dei cosiddetti “storici dei Walser”, non essendo un esperto di tali questioni e avendo in passato rivolto i suoi interessi specifici altrove. Ciononostante, proprio in veste di
storico della Chiesa novarese, ha avuto occasione di cimentarsi due o tre volte coi documenti dell’archivio vescovile su temi di “storia ecclesiastica walser”. Una prima
volta a riguardo de Le origini della Comunità ecclesiale di
Campello Monti e della sua chiesa (secoli XV-XVIII) (3).
3
4
5
6
Una seconda, a proposito della storia di Rimella Valsesia,
con un saggio introduttivo su L'organizzazione ecclesiastica della Valle Sesia fino all'episcopato di Carlo Bascapè (4).
Ed ex professo, sempre nella stessa opera, ma nella prospettiva più ampia di tutte le comunità walser comprese
dentro i confini della diocesi novarese, in altro saggio riguardante Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615) (5). Inoltre, lo stesso autore, studiando
l’imponente fenomeno stregonico in periodo controriformistico sulla catena alpina della Valsesia e, soprattutto, dell’Ossola, tratto alpestre di pertinenza della diocesi gaudenziana, trattando di paesi coinvolti nella “Grande Caccia alle streghe” d’Età moderna (in diocesi di Novara il culmine va posto fra il 1575 e il 1620 circa) viene spesso a incontrare comunità walser o comunità a queste contigue.
E viene a scoprire, quasi con meraviglia, come l’immaginario collettivo che sottende la visione del mondo di queste streghe e di queste comunità sia perfettamente ravvisabile e rintracciabile nei miti walser raccolti per l’Ossola
da Renzo Mortarotti (6). In alcuni saggi come Le streghe
Battista Beccaria (s.v. Giovan Battista), Le origini della Comunità ecclesiale di Campello Monti e della sua chiesa (secoli XVXVIII), in “Campello e i Walser”. Atti del Settimo Convegno di Studi (7 agosto 1999), Walsergemeinschaft Kampel, Campello
Monti 2000, pp. 31-64.
Battista Beccaria, L'organizzazione ecclesiastica della Valle Sesia fino all'episcopato di Carlo Bascapè, in «Storia di Rimella
in Valsesia. “Alpes ville comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 103-119.
Battista Beccaria, Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615), in «Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes
ville comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 123-146.
Renzo Mortarotti, Il mondo leggendario dei walser dell’Ossola, in “Novarien.” N. 9 (1978-1979), pp. 275-325.
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Rimella, Alpe Pianello.
Croce all’entrata dell’alpeggio
di Baceno (1609-1611) (7), o come Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento (8), pubblicato quest’ultimo nel secondo tomo della recente “Storia della provincia di Novara”, o ancora in Inquisizione episcopale e Inquisizione romano-domenicana di fronte alla stregoneria
nella Novara postridentina (1570-1615). Un confronto e
un giudizio storico, in fase di pubblicazione imminente sulla rivista di Storia della Chiesa novarese (9), appaiono qua
e là squarci di vita reale di queste comunità, ai margini del
consorzio civile della pianura (sprovvista, quest’ultima, di
streghe e stregoni), che fanno capolino durante gli interrogatori, sia pur molto stereotipati, dei processi inquisitoriali sull’argomento. E allora appaiono alcuni di questi
villaggi montani con le loro miserie, coi sospetti quotidiani fra vicini di casa, con le faide paesane tra famiglie, e balza all’occhio una mentalità ancora fondamentalmente magico-animistica nei confronti dei fenomeni della natura e
dei meccanismi che regolano il corpo umano, mentalità
indubitabilmente prescientifica, ma insieme si evidenziano una cultura e un immaginario collettivo pressoché “pagani” ibridatisi nel tempo con elementi cristiani rimasti in
superficie e mai del tutto assimilati, e questo ancora a fine
Cinquecento (10).
Inizialmente, per tutto il Basso Medioevo e per tutta la prima metà del Cinquecento, la Curia e i Vicari generali della diocesi (che talvolta compiono Visite pastorali pretridentine) ignorano, o forse fingono di ignorare, l’esistenza, o quantomeno il problema, di queste comunità anòmale di lingua tedesca e, quando le pievi valsesiane e ossolane cominceranno a dissolversi in cappelle semiautonome o autonome con un proprio curato (in genere cosiddetto “mercenario” perché stipendiato dalla comunità
con contratti a termine o “pro tempore”), non si curano di
inviare loro stessi o autorizzare l’ingaggio da parte delle
comunità walser di un prete di lingua teutonica, talché i
vescovi che verranno dopo il Concilio di Trento rimarranno scandalizzati dal fatto che molti curati usino, per la
confessione auricolare in confessionale, come interprete
verso i fedeli (più spesso “le” fedeli) di lingua tedesca, un
sagrestano bilingue. Solo nel periodo controriformistico,
a partire dagli Anni ’80 del XVI secolo, i vescovi dimostrano una particolare attenzione per queste comunità a
forte componente teutonica, ma soprattutto o esclusiva7
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mente in funzione di un maggior controllo perché le nuove idee protestanti non penetrino al di qua delle Alpi, essendo quella gente di lingua tedesca in grado di capire discorsi, e fors’anche leggere libri, eretici o “infetti”. Ad Alagna un maestro, che leggeva ai suoi scolari libri di Zuinglio e di Lutero in aula, fu processato e insieme a lui furono coinvolti gli allievi medesimi (11). Un parroco di
Formazza (Pomatten) fu processato per eresia, avendo
contestato la confessione auricolare (12). I pochi eretici
processati a Novara furono paradossalmente quasi tutti
religiosi e preti, soprattutto fra i più colti e preparati del
clero locale. Alcuni di costoro erano in cura d’anime sui
confini nord della diocesi, a soli 20 chilometri dal Cantone di Berna o, come accadeva per un paio di parroci antigorini e formazzini (Montecrestese e Formazza) a diretto contatto con fedeli di lingua “todhesca” che per lavoro
Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui monti d' Antigorio, in “Domina et Madonna. La figura femminile tra Ossola e lago Maggiore dall'antichità all'Ottocento”, Mergozzo 1997, pp. 111-193.
Battista Beccaria, Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento, in "Una terra tra due fiumi. La provincia di Novara nella storia", vol II: L'età moderna, Novara 2003, pp.
Battista Beccaria, Inquisizione episcopale e Inquisizione romano-domenicana di fronte alla stregoneria nella Novara postridentina (1570-1615). Un confronto e un giudizio storico, in fase di pubblicazione su “Novarien.” N. 34 (2005).
Battista Beccaria, Credenze, superstizioni, ritualità nelle valli della Diocesi di Novara fino al XVI e XVII secolo, in Atti del
Convegno «Donne di montagna, donne in montagna» - Varallo Sesia (Vc), Centro Congressi di Palazzo d'Adda (19-20 ottobre 2002), ora in "de Valle Sicida" N° 15 (2004).
ASDN – Foro ecclesiastico; 2 – Libri e registri; 6 – Criminalia (1576-1583), 94r-95v.
ASDN - Actorum Curiae, IV, 1, 52 (1576). L’ episodio è pure riportato in Tullio Bertamini, Luci su Croveo. Appunti storici,
in “Oscellana” XXIII – 3 (1993), pp. 161-191. Interessante sapere che il curato di Formazza, don Stefano De Giuli, viene inquisito nel 1556 per le sue affermazioni chiaramente luterane soprattutto sulla Confessione auricolare.
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o emigrazione stagionale andavano avanti e indietro al di
qua e al di là del crinale alpino (13). In valle Antigorio dei
commercianti bacenesi in contatto per traffici di merci
(vino e grano contro formaggi) con i cosiddetti “gatti” (termine per indicare i calvinisti svizzeri) furono processati
dal tribunale dell’Inquisizione episcopale novarese (e torturati crudamente) per sospetta frequentazione di persone “infette” d’eresia tra il 1601 e il 1602 (14).
Tutti coloro che in qualche modo erano in grado di capire e di farsi capire dai “todeschi” dei cantoni calvinisti svizzeri furono tenuti d’occhio in modo particolare. I vescovi
di Novara istituirono “permessi di espatrio” per commercianti ed emigranti stagionali: veniva loro rilasciato un modulo-formulario che andava compilato da sacerdoti cattolici svizzeri e in cui si doveva attestare, all’atto del loro rientro in patria, che gli interessati avevano frequentato la
chiesa cattolica, avevano ascoltato la messa domenicale,
si erano accostati ai sacramenti e non avevano bazzicato
troppo da presso calvinisti. Appena l’emigrato rientrava,
doveva consegnare il modulo compilato al suo curato
(15). Il Canton Vallese, in effetti, era rimasto cattolico, ma
aperto alla predicazione calvinista. Il vescovo di Novara
Carlo Bascapè scrisse anche delle lettere al suo collega
vallesano, il vescovo di Sion Adriano di Riedmatten, per
convincerlo ad espellere questi predicatori e a vigilare sulle pecorelle sia vallesane che novaresi in trasferta nel Vallese. Ma per gli accordi interni intercorsi tra cantoni svizzeri, di diversa confessione cristiana, la cosa non dovette
o non poté avere seguito. Gli stessi “accordi commerciali” fra ossolani e abitanti dei vari cantoni confederati prevedevano reciproca ospitalità per le trasferte di rito al di
qua e al di là delle Alpi, ma, mentre per gli svizzeri il problema non esisteva, per l’ossolano che si faceva ospitare
da un “gatto” (un calvinista) c’era il rischio, al rientro in
Formazza o Antigorio, di ritorsioni da parte dell’autorità
inquisitoriale cattolica che lo poteva incarcerare su semplice delazione (16).
Un esperto e ricercato formaggiaio di Croveo d’Antigorio,
poi processato, torturato e messo sul palco per l’atto di
abiura “rivestito con l’abitello” nel duomo di Novara, aveva candidamente confessato agli inquisitori novaresi che
quand’era ad “Aslè” (in Svizzera) andava alla predica del
Pastore per evitare la fustigazione, quand’era in “Crovo”
d’Antigorio andava a messa, per evitare allo stesso modo
denunce e incarcerazione, ma i due curati porzionari di
Baceno, su delazione di anonimi, l’avevano “pizzicato” e
fatto incarcerare dall’Inquisizione episcopale del presule
Bascapè. Il poveretto protestava d’esser buon cristiano, dicendo che, quando era di là, gli pareva meglio esser cristiano a quel modo “de’ gatti”, ma ora, che era di qua, gli
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pareva migliore “il modo vostro” (cioè degli inquisitori che
lo stavano giudicando). Costui faceva parte di un gruppo
composto sia da antigorini sia da walser che per lavoro si
trasferivano con frequenza nei cantoni elvetici e poi tornavano in Ossola. Il suo imprigionamento provocò una serie di ulteriori arresti di abitanti di Croveo e Baceno che
in luglio-agosto compivano fino a sei viaggi di andata e ritorno coi muli nei cantoni svizzeri attraverso l’Arbola e il
San Giacomo (17).
Sembrerebbe poi - ma la cosa andrebbe approfondita con
una ricerca meno provvisoria e priva, per ora, di un numero
sufficiente di riscontri - che mentre le donne walser (stanziali) conoscevano solo il dialetto teutonico del paese, la
maggior parte degli uomini (emigranti stagionali) erano
invece bilingui, se non addirittura poliglotti. La popolazione complessiva di queste proto-parrocchie montane in fieri dei secoli XV-XVI, oltre che bilingue risulta mista, italica e teutonica insieme. Emblematico il caso di Macugnaga, recentemente studiato e descritto dal Bertamini, dove
non solo la popolazione è bilingue e mista, ma dove il decurionato locale (i “vip”, i maggiorenti, i grandi proprietari, cioè i possidenti di pascoli e di mandrie) sono di ceppo
quasi esclusivamente italico e sono italofoni. D’altronde la
cosa appare chiara anche da nostre incursioni su carte ecclesiastiche del periodo di episcopato del Bascapè (15931615) dove il presule riformatore postridentino, ritenendo
“indegno” un parroco walser di Macugnaga, lo autorizza a
confessare solo le persone di lingua teutonica incapaci di
comprendere l’idioma italico (in genere le donne appunto)
mentre, per la popolazione italica e per quella walser ma
bilingue, esige che il confessore deputato per le confessioni pasquali sia il vicino curato di Vanzone d’Anzasca, una
comunità parrocchiale indubitabilmente autoctona e italofona. Qualcosa di analogo succedeva nei confronti del
parroco di Rimella che, ritenuto invece “ignorante” a riguardo dei casi di morale, doveva delegare a quello di Fobello, comunità italofona, la soluzione di certi “casi riservati” e quindi l’assoluzione di certi suoi parrocchiani walser (18). Anche dal poco che ci è capitato di riscontrare
per la Valle Strona a proposito dei rapporti di Massiola con
Campello Monti tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento si nota un forte scambio esogamico fra
le due comunità. Essendo irriducibilmente rivali con quelli di Forno, i campellesi prediligevano le donne di Massiola (e presumiamo viceversa per i maschi massiolesi), soprattutto poi le vedove, talché un parroco di Massiola aveva imposto una tassa di mariage sulle vedove che lasciavano Massiola per Campello, facendo andare su tutte le furie il vescovo novarese (il cardinal Fernando Taverna)
quando questi fu informato dell’abusivo balzello ecclesia-
ASDN - Actorum Curiae, IV, 1, 76 (1569). Un altro curato ossolano, don Stefano de Quirico di Lomese, curato di Montecrestese in Valle Antigorio, negava la reale presenza del corpo di Cristo nell’Eucarestia. Costui era in stretto contatto coi curati formazzini e con suoi parrocchiani che si recavano periodicamente nei cantoni elvetici.
ASDN – Foro ecclesiastico; 2 – Libri e registri; 5 – Libri Constitutorum in causis fidei, (1596-1603), foll. 121r-164v.
Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Le streghe di Baceno (1609-1611)…, p. 143, N. 87 e p. 148, N. 98.
Th. Deutscher, Carlo Bascapè and tridentine reform in the diocese of Novara (1593- 1615), University of Toronto, 1976.
M. Crenna, I modi inquisitoriali nel Novarese, in “BSPN” LXXX - II (1989), pp. 455-491. L’episodio, da noi narrato ne Le streghe di Baceno, è qui raccontato con maggior dovizia di particolari.
Battista Beccaria, Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615), in «Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes
ville comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 123-146.
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Issime, affresco datato 1660
su parete esterna di una casa
del villaggio di Rickurt inferiore.
Il Cristo rappresentato è trionfante
sul dolore. (L’affresco oggi è scomparso)
stico introdotto a sua insaputa. Le numerose richieste di “dispensa matrimoniale per consanguineità in terzo grado di parentela” che venivano poi richieste dall’una e dall’altra parrocchia ci
indicano che il “melange” etnico tra i due paesi
era giunto a tal segno che non sarebbe oggi più
possibile quantificare se ci fossero più abitanti di
origini walser a Massiola o abitanti di origine massiolese a Campello (19). Ma tutte queste osservazioni sono riferibili a periodi molto tardi e casomai possono far pensare che una popolazione
walser di etnia pura e non meticciata sia uno dei
tanti miti che ancora si vanno perpetuando in àmbito di storiografia walser.
Piuttosto, sotto le vesti questa volta di medievisti, abito che ci va senz’altro meno stretto, vorremmo porre alla riflessione degli studiosi di
cose walser, un problema che forse è più specifico e importante di quelli sopra riferiti. Il problema del periodo delle origini del fenomeno migratorio walser da un versante all’altro della catena alpina e poi, all’interno di questo fenomeno,
vorremmo soprattutto tentare di dare una spiegazione (che non è certamente l’unica e forse
neppure la più importante) del perché, in àmbito novarese (ci limitiamo all’àmbito territoriale
che conosciamo meglio), il secolo XIII segni un
maximum di insediamenti walser in diocesi di
Novara che vengono a sovrapporsi a comunità locali già preesistenti o, come vorrebbero alcuni,
che arrivano a “fondarne” altre, soprattutto in
Valle Sesia e comunque intorno al Monte Rosa
(il monte Bosone in antico, termine italico al pari
di alpe) e agli alti passi che collegano varie vallate poste intorno a questo mitico monte walser. Ci pare
che siano stati fatti interessanti studi anche sui fattori climatici riguardanti i secoli immediatamente prima e dopo
il Mille a riguardo delle vallate, dei ghiacciai, dei pendii,
della vegetazione di quelle località che poi saranno toccate dal fenomeno migratorio walser. Pur non essendo noi
dei climatologi, discuteremo anche di questo, nei limiti
delle nostre poche e scarne conoscenze (Bertamini sarebbe incommensurabilmente più preparato su questi argomenti scientifici di chi scrive). In effetti crediamo che i
fattori climatici siano sì molto importanti, ma non decisivi né determinanti per spiegare fenomeni migratori, soprattutto su lunghi o lunghissimi periodi. Abbiamo letto
con vivo interesse un denso e dettagliato saggio della
prof.ssa Augusta Vittoria Cerutti sulla storia del clima nel-
19
20
le zone del Rosa, pubblicato su questa stessa rivista nel
1977 (20).
Se come ci sembra di aver capito (ma per uno storico è difficile seguire senza qualche fraintendimento il discorso di
uno scienziato) attorno al 1000 il clima sarebbe stato favorevole anche alle alte quote e, per di più, le alte creste
delle Alpi non avrebbero mai segnato in questo periodo
confini tra entità politiche o Signorìe al di qua e al di là dei
due versanti (condividiamo appieno quest’ultima annotazione), ci chiediamo perché mai le migrazioni verso, poniamo, il Novarese non siano già iniziate verso il Mille o
subito dopo, ma invece tra la fine del XII secolo e soprattutto a partire dal XIII secolo, proseguendo poi nei secoli
seguenti con continuità. Proprio prendendo spunto dall’opera di Bertamini su Macugnaga e analizzando meglio
Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Massiola tra Cinque e Seicento. Note e documenti per una storia dei primi cinquant'anni
della parrocchia di S. Maria di Massiola, Omegna 1994.
Augusta Vittoria Cerutti, La storia del clima e delle genti del Monte Rosa, in “Augusta 1977”, pp. 2-16.
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alcune sue intuizioni geniali, ma mal espresse o non del
tutto portate alle loro più logiche conseguenze, troviamo,
esattamente nel periodo delle origini e del sorgere di Macugnaga (non fondata da Walser ma casomai originatasi
da una curtis altomedioevale gestita da schiavi casati di etnia italica, come risulta chiaro dalla pergamena) nel corso del X secolo (21), una delle cause socio politiche che
due secoli appresso porteranno alla discesa su quel versante di popolazioni vallesane. Il Bertamini è illuminante
per il medievista che si voglia accostare a questo arduo e
affascinante problema perché, al di là della sua narrazione storica, produce in un secondo volume di soli documenti (nel caso del periodo in questione pergamenacei)
una tale quantità di testimonianze di prima mano che permettono al medievista stesso, non solo di giudicare della
bontà o meno della narrazione bertaminiana, ma di operare collegamenti direttamente dalle pergamene editate
per individuare fenomeni più vasti e da inquadrare in un
milieu storico-politico che è in atto in quel momento (secoli XI-XII) in tutto il Novarese, fenomeno non altrettanto
presente al di là delle Alpi. Si tratta di un aspetto particolare ma importante e fondamentale della politica messa in
atto dai Comuni dell’area lombarda e piemontese, che è
correlato da un lato con la perdita di potere e di giurisdizione piena (honor et districtus) dei membri più eminenti
della classe feudale sui loro subalterni al di qua del crinale alpino, e dall’altro alla cessazione totale nei primissimi
decenni del XIII secolo della schiavitù (o servitù della gleba, come alcuni amano definirla) nel territorio controllato dal Comune, nel caso specifico quello novarese.
L’abate del monastero benedettino di Arona permuta nel
999 i suoi ricchi beni posti a Brebbia con la curtis “Vaccareccia” (il nome è già di per sé emblematico delle specificità economiche e di conduzione di questa holding curtense) e le varie alpi anzaschine poste sotto il Rosa, di proprietà della pieve lombarda e della sede arcivescovile milanese, tra cui l’alpe Macugnaga, che darà poi nome a tutto quel complesso di beni, ma solo in seguito di tempo e
in conseguenza di una antropizzazione che si originerà dalla curtis medesima, all’atto della sua dissoluzione verso la
metà dell’XI secolo. In quell’atto di permuta, insieme a pascoli, boschi, diritti di sfruttamento del pascolo, fiumi, riali (e rogge), ponti e quant’altro vengon compresi e computati in solido col resto dei beni come pertinentiae della
curtis medesima dieci schiavi (servos et ancillas, famulos,
familiam: sono tutti termini che si equivalgono e connotano lo “schiavo” dell’Alto Medioevo). Si trattava di una
curtis i cui mansi (prati, pascoli, boschi, stalle, casere,
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eventuali mulini, ecc.) erano inquadrati giuridicamente
come mansi servili (altre tipologie, vedremo, potevano essere a quel tempo i mansi aldionali e ingenuili) e il complesso era tutto inizialmente indominicatum cioè composto unicamente di pars dominica a conduzione diretta (da
parte del Monastero benedettino aronese) attraverso la
manodopera degli schiavi e non invece di massaricium
cioè di terreni a conduzione indiretta, ovvero attraverso
contratti enfiteutici con liberi fittavoli o libellarii (22). Sappiamo che, soprattutto nei grandi latifondi ecclesiastici (a
Novara, v.g., i Capitoli canonicali del Duomo, di San Gaudenzio, di San Giulio d’Orta e, in misura minore, di San
Giuliano di Gozzano, oltre che le Abbazie di Arona e di Romagnano Sesia i quali - insieme ai Conti di Pombia e ad altri potentati laici, sono anche proprietari di grandi allevamenti di bestiame – sappiamo dunque che gli schiavi sono,
ancora nell’XI-XII secolo, presenti massicciamente come
forza – lavoro, sia pure affiancati, col procedere dei decenni, sempre più da liberi livellari o da coloni che sono
insieme già piccoli proprietari (allòderi).
Di più, mentre i laici hanno meno difficoltà ad affrancare
gli schiavi o pro remedio animae o perché reputano più
produttivo avere dei dipendenti liberi ma cum obsequio,
che sono più incentivati ad apportare migliorìe e ad assumere iniziative interessanti anche per lo stesso proprietario, la Chiesa proibisce l’alienazione dei beni ecclesiastici
e, se uno schiavo si può vendere, non lo si può però liberare perché sarebbe come regalarlo, cioè perderlo e quindi rendere un danno all’ente ecclesiastico medesimo. Gli
ultimi schiavi novaresi che verranno affrancati nel 1214
sono gli schiavi di Cannero ed Oggebbio sul Lago Maggiore, di proprietà dei canonici della Cattedrale di Novara, ma non sono stati certamente né il vescovo né tantomeno i canonici ad affrancarli, bensì il Comune di Novara (23). L’affermarsi e il crescere del Comune - entità che
è nata inizialmente all’ombra del vescovo e della Cattedrale - si sviluppa gradatamente sostituendosi man mano
al vescovo stesso nella gestione del potere in città e poi,
con la successiva politica di espansione fuori le mura, incorpora giurisdizioni all’interno dei vecchi confini dell’episcopato, inteso come area di influenza e di conquista coloniale della nuova entità comunale a danno degli antichi
detentori del potere pubblicistico ormai frammentato e
parcellizzato in tante Sigorìe. Conti, Signori, feudalità più
in generale, devono sottomettersi al Comune che fa valere su tutti le sue leggi o Statuti. Viene abolita la schiavitù
e vengono incentivate le libertà comunali nei borghifranchi dove i rustici, inurbandosi, si possono scrollare di dos-
Tullio Bertamini, Storia di Macugnaga, vol. II: (“Appendice dei documenti”), Parrocchia di Macugnaga, Macugnaga-Verbania 2005, p. 9, documento del 22 giugno 999. Il documento pergamenaceo originale è conservato in A.S.T., Le carte del monastero dei Santi Felino e Graciniano di Arona, cartario non ancora editato. Abbiamo voluto controllare personalmente il documento in questione.
Per tutti i problemi e le tipologie di curtes alto e basso medievali del Novarese si può vedere dello scrivente: B. Beccaria,
La corte regia di Baraggiola tra la fine del X e il principio del XIII secolo, in “Un borgofranco novarese dalle origini al Medioevo”. Atti del convegno (7 maggio 1994), Borgomanero 1994, pp. 93-103.
Non solo i laici, possessori di latifondi, ma soprattutto il clero più ricco e i maggiori Enti ecclesiastici mantennero, per tutto
l’Alto Medioevo e per buona parte dell’XI secolo, la schiavitù ereditata dall'antichità romana. Per quest'ultimo secolo (l’XI)
e relativamente al Medio Novarese cfr. BSSS, CLXXX-I, doc. VII, 1028, pp. 11-13. Nel 1028 il prete Anselmo acquista dai
fratelli Edo e Rotruda alcuni fondi in Sizzano e insieme lo schiavo Adamo e la schiava Rigiza per 100 soldi (5 lire) in buoni
denari d'argento (1.200 denari in totale); doc. XX, 1039, pp. 36-37. Il diacono Rimezo di San Giulio nel 1039 vende al suddiacono Uberto, oltre a case e beni che aveva acquistato a Pogno, Agrano e Omegna, anche due schiave, Maria e Richelda,
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so i restanti gravami feudali. In una tale temperie politica
i Biandrate, i Da Castello, i Da Crusinallo, i canonici di San
Giulio diventano semplicemente dei grandi proprietari di
latifondo, di diritti esclusivi su fiumi e rogge (la forza motrice del tempo), di mulini, resighe e follae (l’industria pesante del Medioevo) e di grandi allevamenti di bestiame,
ma senza più vere e piene giurisdizioni coercitive sui loro
subalterni, che non sono più oramai loro sudditi, ma solamente loro dipendenti. Viceversa consorterie comitali
come i Biandrate e i Da Castello (discendenti, entrambi
questi rami, dai Conti di Pombia, legittimi detentori del
potere fino almeno all’XI secolo su tutto il Novarese), che
con matrimoni e compere avevano acquisito proprietà e
giurisdizioni al di là delle Alpi, soprattutto nel Vallese, poterono esercitare in quell’àmbito, dove la civiltà comunale non si era ancora diffusa e imposta, lo jus hominescum
sui loro soggetti, che quindi rimanevano sudditi a pieno
titolo, e i medesimi Signori poterono valersi di un honor
et districtus ancor integro, pienamente in vita e realmente
applicabile nei loro feudi transalpini. Fu così che, non potendo più “distringere” (obbligare) gli ex sudditi novaresi, ma potendo esercitare l’honor et districtus sui loro homines vallesani, quei Signori utilizzarono nell’àmbito dei
loro possessi novaresi proprio i sudditi vallesani anche al
di qua del crinale alpino. Questi Walser vennero in pratica a sostituire i vecchi schiavi dell’Alto Medioevo, schiavi
che, col passare del tempo, si erano sempre più stemperati verso una servitù della gleba maggiormente blanda,
dove liberi e schiavi venivano a formare una classe quasi
indifferenziata di semiliberi (o semischiavi), fino a poter
raggiungere poi la completa libertà coll’affermarsi del Comune. Ma poiché, al di qua delle Alpi, dopo un certo periodo di residenza, anche questi sudditi vallesani avrebbero potuto affrancarsi totalmente alla stregua degli ex dipendenti novaresi, li attirarono con vantaggiosi contratti
quasi di “pariage”: fu così che, nel pieno vigore dell’Età comunale - la quale cancellò anche il vivere secondo la legge longobarda, piuttosto che secondo quella salica o quella romana - omologando tutti a cittadini viventi sotto l’unico Statuto del Comune, iniziò una massiccia emigrazione di popolazioni walser dalle Alpi svizzere verso i versanti
italiani, le quali vennero ad occupare i posti lasciati vacanti
prima da sudditi schiavi e poi anche da quelli liberi, ma
impiegati dai loro padroni e Signori su terre particolarmente ingrate.
Uno studioso di prim’ordine dei Walser novaresi, come
Paolo Crosa Lenz, sempre su Augusta del 1979 (24), in
un lucido articolo sulle origini della comunità alamanna
di Ornavasso, narra una leggenda illuminante che ten-
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ta “miticamente” di spiegare l’arrivo di quella popolazione d’Oltralpe. Il paese di Ornavasso sarebbe stato fondato da sette famiglie fuggite dal Vallese per sottrarsi alle
“angherie” di un feudatario. Tale mito cosa può rappresentare ed evocare altrimenti se non il ricordo ancestrale
di una popolazione che aveva subìto, in un passato neppur
poi lontano, le “anghariae”, cui erano soggetti schiavi e
servi della gleba tra alto e basso Medioevo, da parte di un
Signore (un Da Castello?) che esercitava lo jus hominescum (definito più comunemente ed esattamente nei documenti pergamenacei medioevali honor et districtus) su
una popolazione a lui completamente subordinata mediante una sudditanza totale e incondizionata? Questi uomini (le sette famiglie), venendo al di qua delle Alpi sotto
la giurisdizione del Comune, si erano così potute emancipare da un potere coercitivo quasi assoluto. Ricordiamo
che anche in Francia la servitù della gleba fu in vigore fino
al XIV secolo, mentre l’Italia dei liberi Comuni aveva già
portato la libertà ai servi fin dal XII secolo (25)! Queste
poche note, tratte perlopiù da nostri studi (si vedano le ricorrenti e preponderanti citazioni da nostre svariate ricerche, che nulla hanno avuto originariamente a che spartire direttamente con la storia dei Walser), non vogliono
certo proporsi come la spiegazione delle origini del fenomeno walser sul versante italiano delle Alpi: intendono, invece, solo e soltanto offrire al lettore degli spunti di riflessione alternativi a un tipo di storiografia “mitica” e direi quasi “trionfalistica” che si è affermata fin qui a riguardo di questa popolazione. Il merito di queste nostre
proposte di ulteriore, pacata e serena riflessione va anzitutto a Tullio Bertamini e alla nutritissima trascrizione di
pergamene medioevali da lui approntata in numerose sue
opere (che riguardano non soltanto i Walser), la qual trascrizione ci ha dato modo di farci un’idea “nostra” (fondata sul documento d’archivio) circa la querelle in corso
tra esperti di questioni walser. E in secondo luogo al professor Augusto Vasina che, con la sua recente Storia di Rimella, ha permesso che si desse il “la” a queste voci un po’
fuori dal coro comune. Spero che il dibattito in corso dia
un apporto ulteriore alla ricerca sin qui condotta da numerosi validissimi studiosi. Per quanto ci riguarda, vorremmo portare, nell’anno che verrà, un modesto contributo a questa bella rivista che ci ha voluto ospitare, con
una ricerca presso gli archivi ecclesiastici della Valle d’Aosta, in primis quello vescovile, per verificare in sede di Storia della Chiesa se ci siano anche a Issime o a Gressoney
fenomeni controriformistici particolari, che si riferiscano
a tali comunità walser, del tipo di quelli riscontrati per la
diocesi di Novara.
madre e figlia; doc. XXVIII, 1071, pp. 48-49. L’ecclesiastico Giovanni vende a Magno, pure ecclesiastico, tutti i suoi beni di
Ghemme e tutti i suoi schiavi, eccetto quattro di essi di cui si riserva la proprietà. I canonici della Cattedrale di Novara possedevano ancora schiavi al principio del secolo XIII nei villaggi di Cannero e Oggebbio, sul lago Maggiore, su cui avevano
la Signorìa, esercitando l’honor et districtus anche su tutti gli altri abitanti liberi. Fu il Comune e non la Chiesa ad affrancare
i servi dalla schiavitù. Nella zona interessata dai beni della “corte”, prima regia, poi comitale e, infine canonicale (del Capitolo San Giulio d’Orta) di Baraggiola (nel Medio Novarese), la presenza del borgofranco, longa manus del Comune di Novara, aiutò a spazzare via questi residui di feudalesimo arcaico già alla metà dell’XI secolo. Cfr. B. Beccaria (s.v. Giambattista), La corte ottoniana di Baraggiola di Borgomanero (secoli X-XIII). Dissoluzione dei mansi e delle terre vicane tra i
secoli XII e XIII, in “Novarien.”, 17 (1987), pp. 69-106.
Paolo Crosa Lenz, Elementi di storia e cultura Walser, in “Augusta 1979”, pp. 2-10, e specialmente p. 6.
Gilbert Ouy, L’Humanisme et les mutations politiques et sociales en France aux XIVe et XVe siècles, in L’Humanisme français
au début de la Renaissance, Colloque international de Tours (XIVe stage), Paris, Vrin, 1973, pp. 27-44.
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A U G U S T A
La cappella di Mühni
JOLANDA STÉVENIN
ita a 2008 metri è la più alta di Issime ed è
particolarmente amata non solo dagli issimesi ma anche dai villeggianti. Essa è dedicata alla Madonna delle Nevi la cui festa
cade il 5 agosto. Secondo la tradizione, i fratelli muratori Chouquer (anticamente Quera), di ritorno
da Challand nel cuore dell’inverno, giunti in località Mühnes, scamparono miracolosamente ad una valanga e, in segno di gratitudine, fecero voto di edificare lassù una cappella da dedicare alla Madonna delle Nevi.
S
In proposito, un documento redatto l’11 settembre 1667
nella casa parrocchiale di Issime riporta quanto segue:
1-“Jean de Jacques Quera a bâti une chapelle sur la montagne Severeur d’Issime et requiert qu’elle soit bénite sous
le vocable de Notre Dame aux Neiges, fête le 5 août de
chaque année;il la dote de la somme annuelle, à perpétuité d’un quart de ducaton pour célébrer la messe et de
deux florins et demi d’Aoste pour le dîner annuel au célébrant de la dite messe. Pour cela il hypothèque deux de
ses pièces sises au dit lieu, appelées Loz Buyl et Loz Brelchz soit Loz Pison.(Source:A.P.I. Issime, Chapelles – no-
taire Pierre Consol).
Un secondo documento precisa meglio la volontà del testatore:
2-“Le Bul, sur la montagne Severeur d’Issime, 1669, 21
mai. Testament de Jean de Jacques Quera, constructeur
et fondateur de la chapelle de Munes.
Entre autres, il lègue a cette Chapelle, le revenu annuel,
à perpétuité, d’un écu monnaie ayant cours à Aoste, pour
la manutention et restauration de la dite chapelle, exclusivement.
A cet effet, il hypothèque au profit de la chapelle, une quartanée d’une de ses pièces, ou s’érige la chapelle au dit lieu
de Loz Bul” (Source:A.P.I. – notaire Jean Jacques Biolley).
Pochi anni dopo la sua erezione la cappella di Mühnes è
già oggetto di visita pastorale. Nel verbale del 14 agosto
1693 si legge:
“…Plus la chapelle de Munes, à la montagne d’Issime,
soubs le titre de Notre Dame des Neiges; ayant deux messes; bien bastie,sans parements.
Interdite jusques à ce qu’elle soit garnie de tous les pare-
La cappella di Mühni alla testata del Vallone di San Grato. (g.c. Beppe Busso Güstinhsch)
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A U G U S T A
tribution de 25 sols et le disner pour chaqu’une”.
Il 24 maggio 1727, a proposito della cappella si legge:
“…en bon estat quant à la batisse et les parements; y
ayant l’obligation de deux messes, une le jour de la feste
à la rétribution de 30 sols, ou bien 10 livres de beurre,
outre le disné; et l’autre à la commodité du curé,à 20 sols
de rétribution”( A.Cu.E. – C5 – vol 10).
ECCO QUANTO RIPORTA IL:
Livre de mémoire, 1785
1. Par contrat 11 septembre 1667, Pierre Consol notaire,
messe en chant, avec laudes et vêpres, le jour 5 août,
fête du Patron, payable par Jean Jacques de feu Pierre
Chouquer, possesseur de la pièce léguée sise au Bul.
10 livres en poids de beurre, outre le dîner.
2. Une autre messe à basse voix, le jour de saint Pantaléon ou autre jour; payable par sieur Jacques de feu
spectable Avocat Jean Pantaléon Linty; pour laquelle
est légué neuf livres, en poids, de beurre, sans dîner,
tous les ans, à perpétuité
Legs de la chapelle de Mühnes
Per disposizione testamentaria di alcune persone pie, la
cappella può contare su diversi lasciti tra cui:
Fontainemore, 1770, 7 janvier:
1 - Le testateur Jean-Joseph de feu Christophe Ronc, d’Issime, … lègue deux livres à la vénérable chapelle de Notre-Dame aux Neiges, … à être accompli et payé dans l’an
de son décès. (Source: A.N.A. Fonds Donnas, Joseph Alby,
notaire, vol. 1767-1770).
Issime, 1778, 2 février:
2 - Marie-Magdeleine Cervier, femme de Joconde Bussoz,
d’Issime, lègue … cent livres à la chapelle de Munes.
(Source: ut supra vol. 1778-1779)
La pala d’altare della cappella di Mühni
ments” (A.Cu.E. Registre des visites pastorales, 16931696).”
Issime, 1797, 27 novembre:
3 - Rente constituée par Jean Dominique de feu Dominique Gris, d’Issime, en faveur de la chapelle de Munes, de
Notre Dame aux Neiges.
Capital: £ 50,00 - Revenu annuel: £ 2,00 (Source: A.P.I.
/ Notaire Joseph Alby).
La cappella viene dunque interdetta perché sprovvista di
paramenti.
Sette anni dopo, dal verbale del 14 maggio 1700, la cappella risulta:
“…bien bastie, bien ornée avec tous ses parements, à la
réserve du calice et de la pierre sacrée qui y manquent…”
(R.Cu.E .Registre des visites pastorales, 1699-1712).
Il 9 giugno 1703, durante la visita pastorale, si rileva ancora la mancanza della pierre sacrée.
Dieci anni dopo, il 25 luglio 1713, esiste ancora lo stesso
problema infatti il verbale recita:
“…plus autre chapelle sur la montagne de Issime de Cevereul, au lieu appelé Les Munes,…assez proprement bastie, y manquent la pierre sacrée et encore le calice; y
estant une messe fondée par Jean Quera, pour le jour de
la feste; et une autre léguée par un Jaques Ronc, à la ré-
1
2
Nel corso degli anni, tutti i reverendi parroci di Issime
hanno redatto la storia di ogni cappella con date, dotazioni, rendite e obblighi relativi.
Ecco l’Historique del parroco Jean-Ange Roncoz1 del 13
gennaio 1786:
Fondation, dotation, messe le 5 août, bénite en 1667.
Fonds: £ 32-en bon état de bâtisse-Inventaire des meubles
– Messe chantée, laudes et vêpres: 10 livres de poids de
beurre annuellement à perpétuitéAutre messe à la S.Panthaléon, 27 juillet – rétribution 9 livres de beurre sans dîner, ou 7 livres de beurre avec le dîner.
La ditte chapelle possède:
Deux chasubles avec leurs étoles, leurs manipules, dont
Ronco Jean-Ange de Joseph, de Jean-Ange, né à Issime-Saint-Jacques le 10 novembre 1738, prêtre le 28 mai 1768, curé d’Issime-Saint-Jacques à partir du 16 novembre 1784, archiprêtre en 1806, décédé à Issime le 10 février 1815.
Freppa Jean-Germain, de Christophe, né à Issime-Saint-Jacques le 11 octobre 1812, prêtre le 17 décembre 1836, curé d’Issime-Saint-Jacques de 1843 à 1862, mort à Saint-Léger d’Aymavilles le 8 mars 1876.
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A U G U S T A
l’une presque neuve de satin et l’autre presque usée de laine. Une aube en mauvais état et hors d’usage; trois nappes d’autel, une en bon état et les deux autres déjà usées;
un missel en bon état; deux devants d’autel … la pierre
sacrée , un calice avec sa couppe et patène d’argent, dorée
au dedans et le pied du calice en laiton de la valeur environ de trente livres –
Quatre chandeliers de bois, avec un très petit crucifix de
laiton; et les canons pour l’autel. En simple état; deux burettes d’étain; quatre petits flambeaux en cire blanche,
pour l’usage de la messe; un autel garni d’un beau tableau en peintures fines, avec une petite statue de la Très
Sainte Vierge. (…).
10 libbre di burro, senza pranzo
Nel luglio 1847, il reverendo parroco d’Issime J.J. Freppa2
inoltra a Monsignor Vescovo una rispettosa domanda, premettendo quanto segue.
• sulla montagna d’Issime denominata Münes si trova
una cappella dedicata alla Madonna delle Nevi, distante tre leghe dalla chiesa parrocchiale;
• il parroco è tenuto a celebrarvi ogni anno due messe
di legato di cui una il 27 luglio con retribuzione di 7 libbre di burro e il pranzo; la seconda, con lodi e canti, e
vespri, il 5 agosto con una retribuzione di 10 libbre di
burro, senza pranzo.
• il parroco precisa che, dopo aver percorso tre leghe di
strada, e dopo aver celebrato la messa, si trova nell’impossibilità di far ritorno al presbiterio per il pranzo; dovendo pertanto approfittare della generosa ospitalità degli abitanti della montagna, si sente alquanto a disagio.
• al fine di trovare una soluzione a questo problema, il
parroco chiede a Monsignor Vescovo il permesso di
prelevare dalla cassa della cappella la somma di F.2,50,
affinché il sacrestano, o procuratore, possa preparare
un piccolo pranzo per il parroco e i cantori che collaborano alle funzioni del culto.
• Ed ecco la risposta del Vescovo di Aosta, Monsignor
André Jourdain:
“Vu la présente supplique, Nous authorisons le procureur
de la chapelle en question, à délivrer chaque année deux
livres et cinquanta centimes, le jour de Notre Dame aux
Neiges, pour la fin suppliée.
Aoste, le 17 juillet 1847”.
Convenzione del 10 maggio 1867
Alla data suddetta, il Consiglio di Fabbrica d’Issime, da
una parte, e lo scultore Guala Jean Baptiste de feu Jacques
de la Mollia in Valsesia, dall’altra, siglano un accordo per
dei lavori da effettuare alla cappella di Mühnes come
segue:
chandeliers à réparer, canons et statuettes, ainsi que celles de la chapelle de Saint Grat, pour £ 60,00.
Con gli anni, risulta sempre più impegnativo ottemperare
agli obblighi imposti dagli antichi legati per cui gli interessati ricorrono alla formula dell’affrancamento.
Così ad esempio troviamo:
“Issime, 1910, 3 et 4 décembre
Chouquer Désiré de feu Florentin, propriétaire de la pièce sise à Bul, sur laquelle, par acte de 1667, est imposée
3
la messe de fondation annuelle et perpétuelle à dire dans
la chapelle de Munes,moyennant le versement de la somme de £ 300,00, à la Fabrique d’Issime Saint Jacques, affranchit les obligations du legs susdit et rend la dite Fabrique responsable de l’acquittement de ce legs (Source:
A.P.I. chapelles, mazzo XV)”:
Ed ecco la risposta del Vescovo di Aosta:
“Vu le recours qui précède, vu les raisons exposées, nous
affranchissons le legs dont il s’agit, moyennant le versement de £ 300 à la Fabrique d’Issime (…).
Aoste le 4 décembre 1910, Johannes Vincentius Episcopus”.
N.B. Il signor Jacques Consol, avendo acquistato la baita sulla quale gravava il legato ha sborsato la somma
convenuta di £ 300,00.
Il reverendo parroco Grat Vesan,3 nel suo Cahier des Notices sur divers legs de la paroisse d’Issime Saint Jacques, a proposito della cappella di Mühnes riporta:
une messe annuelle et perpétuelle le 5 août, en chant,
avec les laudes et les vêpres. Le curé perçoit, pour la rétribution, dix livres de beurre, en poids, avec le dîner (…)
autrefois: une autre messe, le jour de saint Panthaléon,
payable par les messieurs Linty; neuf livres de beurre, sans
dîner, ou sept livres, avec le dîner.
Aujourd’hui: cette dernière messe, legs Linty, fut affranchie en septembre 1894, par monsieur Christillin, chevalier, et le docteur Goyet Jean, au nom de son épouse
Hortense Christillin. Monsieur le docteur Goyet débourse £ 50 et monsieur le chevalier Louis donna gracieusement £ 100, vû que le legs n’était pas affecté, sur la portion du bien qu’il avait acheté.
(…)
Actuellement, autant que faire se peut, l’on célèbre toutes
les deux messes, le même jour, le 5 août. Quand il n’y a
qu’un prêtre, la messe du legs Linty on la célèbre le lendemain.
(…)
La chapelle est à trois heures bonnes distante de l’église.
N.B. Tutti i dati d’archivio qui riportati mi sono stati gentilmente forniti, a suo tempo, dal compianto prof. Orfeo
Zanolli perché ne facessi un uso appropriato.
La cappella di Mühnes è a pianta rettangolare con la facciata imbiancata a calce e tetto avanzato per proteggerla
dalle intemperie. All’interno troviamo un piccolo altare ornato da un polittico del XVIII secolo. Nei sei riquadri del
polittico sono raffigurati: San Giuseppe e Gesù Bambino,
San Giovanni Battista, la Madonna col Bambino, San Giacomo il Maggiore, San Proietto e San Grato.
Nel 1981 l’edificio è stato egregiamente restaurato.
La cappella di Mühnes, così bella nella sua accogliente
semplicità, è una preziosa testimonianza di fede, di religiosità popolare, di coraggio, di spirito di sacrificio, di
lealtà alla parola data, di tutti quei nobili ideali che per tanti secoli hanno sorretto la vita dei nostri antenati e che
dobbiamo conservare quale preziosa eredità.
Vésan Grat Joseph Célestin, né à Torgnon le 29 janvier 1870, prêtre le 19 mai 1894, curé d’Issime le 29 octobre 1908, décédé
en 1946 à l’âge de 76 ans.
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A U G U S T A
A Lady’s Tour round Monte Rosa…1
Viaggiatori, turisti e primi
alberghi nella valle del Lys
FRANCESCO DAL NEGRO
ra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo iniziò sulle Alpi l’arrivo di forestieri, dapprima
quasi esploratori poi veri e propri turisti, che
visitavano le valli alpine divenute improvvisamente di moda grazie alla nuova visione illuministica della natura e rese popolari dai versi di Rousseau
e di von Haller. E questi nuovi ospiti delle Alpi avrebbero
percorso gli stessi passi e gli stessi sentieri che da secoli
venivano attraversati e percorsi, non certo per diletto, dai
montanari, dai pellegrini e dagli emigranti. Iniziava, all’inizio dell’800, quella grande rivoluzione sociale e culturale che nel giro di pochi decenni avrebbe trasformato (nel
bene e nel male) l’ambiente alpino e l’economia delle popolazioni locali.
Per quanto riguarda le valli ai piedi del Monte Rosa, queste erano tutte abbastanza facilmente collegate le une alle
altre da valichi e sentieri che, perifericamente al massiccio
e mantenendosi al disotto dei 3000 metri di quota, permettevano di compiere un itinerario quasi circolare che da
Zermatt conduceva a Saas, a Macugnaga ed Alagna, quindi a Gressoney, Fiery e Breuil, per poi ritornare al punto
di partenza. Era l’itinerario che compì il de Saussure nel
1789, lasciandoci nelle sue note delle prime interessanti
informazioni sulle possibilità di
alloggio nelle valli attraversate:
“capitando di giungere sul far della notte in certi villaggi isolati
non si trovava nemmeno l’ombra
di locanda, ed occorreva bussare
alla porta di una baita”2.
I primi turisti (o touristi come
meglio venivano indicati allora)
seguivano itinerari abbastanza
ben definiti, e gli inglesi soprattutto, ma anche americani, tedeschi e svizzeri che compivano il
tour del Monte Rosa (erano ancora una minoranza quelli che
salivano sulle vette) percorrevano praticamente sempre lo stesso itinerario, partendo preferibilmente da Zermatt o Saas, che
raggiungevano più facilmente arrivando da nord. Necessariamente facevano tappa negli stessi luoghi, che poi erano i poveri
villaggi alla testata delle valli, e
durante la stessa stagione estiva
T
1
2
(che spesso si riduceva a poche settimane) i piccoli gruppi
si incontravano, si lasciavano per poi ricongiungersi, lungo
lo stesso itinerario, e guardati anche con un po’ di sospetto
dai nativi, trovavano alloggio in qualche casa privata, in qualche primitiva locanda, ma il più delle volte dal parroco.
Nella prima metà dell’800 questa presenza di forestieri
andò aumentando: la conquista delle grandi vette e l’incipiente notorietà di alcune località venivano riportate dai
grandi giornali stranieri, la ferrovia si avvicinava alle Alpi
rendendole più accessibili, ed anche il tenore di vita di
molta gente, soprattutto nei paesi dell’Europa centrale ed
in Inghilterra , migliorava di anno in anno. Tutti questi fattori contribuirono a far sì che sempre più persone considerassero le Alpi la meta più ambita per le vacanze.
Più turisti e più denaro misero in moto, anche nelle località più “chiuse”, il fenomeno alberghiero, trovando quasi
sempre in loco persone più “aperte”, dove lo spirito imprenditoriale si univa ad un’apertura mentale fatta di accoglienza e curiosità verso l’ospite.
Nella valle del Lys, a Gressoney, uno dei primi alberghi fu
la Pensione De La Pierre, nella frazione Predeloasch. La pensione era gestita da Pierre De La Pierre3, rinomata guida alCartolina pubblicitaria dell’Albergo Mont-Ner y
cfr. Cols H.W., A Lady’s Tour round Monte Rosa; with visits to the Italian valleys of Anzasca, Mastellone, Camasco, Sesia, Lys,
Challant, Aosta e Cogne. London, 1860.
cfr. de Saussure H.B., Voyages dans les Alpes, Genève, 1786 (in copia anastatica, Bologna, 1970)
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A U G U S T A
pina, amico del reverendo King che seguì in tutto il suo itinerario nelle Alpi
Pennine nel 18554. Non si sa con esattezza quando iniziò la sua attività la
Pensione De La Pierre, ma diverse fonti fanno risalire la data al 18505. La Pensione De La Pierre fu a lungo considerato il miglior albergo di GressoneySaint-Jean, per la calda accoglienza dei
proprietari (non scorbutici come altri
colleghi piemontesi…6) e per il suo
confort: questo era il termine con cui
veniva indicato un buon albergo, e presupponeva, a seconda dell’epoca, una
certa dotazione di servizi, ma anchesottintesa-l’accoglienza gentile e non
servile del proprietario. La Pensione De
La Pierre risulta in una guida del 19067
già dotata di bagni, luce elettrica, garage: tutte dotazioni all’avanguardia
per quel tempo! A Gressoney nella seconda metà dell’800 gli ospiti d’altra
parte erano sempre più numerosi, ed
Gressoney-Saint-Jean, Hôtel e pensione De La Pierre
anche famosi: nel 1889 iniziò a sog(inizio XX sec.) (Foto V. Curta)
giornare a Gressoney la regina Margherita di Savoia, appassionata alpinista, che frequenterà la località fino al
1923, anno della sua morte. Al seguito
della Sovrana giungevano a Gressoney
dignitari di Corte, alti funzionari, esponenti della nobiltà, e tra i tanti anche il
poeta Goisuè Carducci, che si diceva
riservatamente innamorato della Regina. La presenza di Margherita di Savoia diede notorietà e slancio a Gressoney, che ancora tra le due guerre era
considerata tra le prime località di soggiorno alpino italiane.
Ma già prima era stata naturale la trasformazione delle vecchie locande in
confortevoli alberghi. A GressoneySaint-Jean nel 1861 venne costruito da
Sebastiano Linty, per 30 anni sindaco
di Gressoney, l’Hotel du Mont Rose,
sulle rovine della casa di sua proprietà
distrutta da un incendio. L’albergo,
più piccolo rispetto ad altri, si rivolgeva ad una clientela più semplice, ai
Gressoney-Saint-Jean, Hotel Pension Thedy
soggiorni per famiglie, mantenendo
(Foto V. Sella anteriore al 1890)
sempre il suo stile di albergo alpino
con una accogliente sala rivestita in legno e una piccola biblioteca alpina con carte e panorami a
nate di brutto tempo ed anche per offrire una documentacura del C.A.I. di Biella8. La presenza di una piccola bizione sulla valle e sulle montagne della zona.
blioteca per altro non era prerogativa dell’Hotel du Monte
Sempre a Gressoney-Saint-Jean, un membro della famiglia
Ros: quasi tutti gli alberghi delle Alpi ne possedevano una,
Busca, Romualdo, costruì nel 1887 un nuovo albergo che
per rendere più piacevole il soggiorno dei clienti nelle giorbattezzò Hotel Lyskamm. In anni in cui il turismo era or3
4
5
6
7
8
In realtà il vero nome di Pierre De La Pierre era Peter Zumstein; i turisti svizzeri e tedeschi sapevano da altri amici passati
in precedenza, di arrivare in un albergo dove si parlava in tedesco.
cfr. King.S.W., The Italian Valleys of the Pennine Alps: a Tour through all the romantic and lessfrequented “Vals” of Northern
Piedmont, from the Tarentaise to the Gries, London, 1859.
cfr. Maiocco A., Ville e dimore a Gressoney tra Ottocento e Novecento, Gressoney, 2001.
cfr. Cole H.W. opera citata.
cfr. Coggiola C., Nella valle del Lys. Cenni pratici pel villeggiante, Milano, 1906.
cfr. Maiocco A., opera citata.
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A U G U S T A
(g.c. F. Dal Negro)
mai affermato, Romualdo Busca concepì il suo albergo
come una casa di prim’ordine, con gli spazi e le dotazioni
che allora erano considerate indispensabili da una clientela esigente. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale l’albergo raggiunse il suo massimo splendore, e fu
necessario costruire una dépendance, che ospitava anche
l’Ufficio Diligenze. Pochi anni dopo (1895) Nicola Netscher inaugurava nella frazione Miravalle, in posizione isolata ed elevata, l’Hotel Miravalle, che al tempo era per la
sua posizione, per la sua dimensione e per il servizio che
vi veniva offerto, il più importante albergo della valle. La
gestione dell’albergo, alla morte del Netscher passò alla
sorella, vedova di P.F. Curtaz, già gestore dell’Hotel du
Mont Rose, successivamente (1934) a Luigi Busca e Luisa
Peretto, che al tempo gestivano il Lyskamm, e in precedenza i due alberghi Moderno e Regina di Gaby.
A Gressoney-La-Trinité, sul luogo della vecchia Cantine
des Alpes, la famiglia Thedy verso il 1880 aprì l’Hôtel Pension Thedy. Una prima testimonianza dell’albergo è una
vecchia fotografia scattata da Vittorio Sella nel 1886 dove
alle spalle dei coniugi Thedy si vede il semplice edificio di
pietra. Verso il 1910 il vecchio Carlo Thedy cedette la gestione dell’albergo (già ampliato) ai fratelli Giuseppe, Bartolomeo e Luigi Busca, originari del villaggio di Cesnola
di Settimo Vittone, dove il padre Giovanni Busca gestiva
la stazione di posta con cambio dei cavalli denominata La
Corona grossa. I tre figli di Giovanni che si erano formati
nella gestione alberghiera, decisero poi di investire ed impegnarsi in tale attività nella valle del Lys. I tre fratelli Busca si unirono in matrimonio con le sorelle Peretto, anche
loro originarie di Cesnola le quali insieme ad altre sorelle
iniziarono a Gressoney-la-Trinité una attività commerciale complementare a quella alberghiera; aprirono dapprima un’osteria con rivendita di sali e tabacchi, quindi un
magazzino per rivendita di derrate alimentari e vino, destinate soprattutto alla fornitura agli alberghi.
Nel 1916 i Busca acquistarono l’albergo Thedy, la cui gestione rimase a Giuseppe e Bartolomeo, mentre, come abbiamo visto sopra, Luigi si fermò a Gaby dove gestì dapprima l’albergo Moderno, poi il Regina.
9
10
L’albergo Thedy in mano ai Busca subì numerose e successive trasformazioni ed ampliamenti; nel 1921 i Busca
costruirono dietro al fabbricato originario una ampia dépendance. Acquistarono dal barone Peck-Peccoz un altro
fabbricato, cosiddetto di servizio, che in parte venne adibito ad autorimessa, mentre negli anni 1930-32 di fianco e
direttamente collegato al fabbricato ottocentesco venne
eretto l’imponente stabile Busca. Il nuovo edificio, adibito
ad Hotel di prima categoria, era composto da quattro piani di camere per un totale di 60 (mentre il Thedy originario ne aveva 30); fu da allora che l’albergo prese il nome di
Grand Hotel Busca-Thedy che da subito seppe attirare una
clientela selezionata proveniente da tutta Italia e non solo9.
Oltre a Gressoney e Gaby anche Issime, più a valle, risentì
dell’espansione turistica di fine secolo, e nel 1892 Louis
Gustave Christillin ramo dei Pintsche, di una cospicua famiglia del luogo e sindaco del paese, costruì nei pressi del
villaggio di Tunterentsch (già Varalljatzi) un edificio di
quattro piani che destinò ad albergo di lusso dotato di ben
90 stanze, saloni di soggiorno ed un ampio giardino. L’albergo battezzato Hôtel Mont-Nery, non fu mai gestito direttamente dalla famiglia Christillin, ma fu affidato in epoche successive al signor Louis Balla, poi negli anni 30 al
signor Giuliano Zoli (originario di San Remo) che già gestiva un albergo a Saint-Vincent, quindi nel 1943 venduto
a Tancredi De Coll un imprenditore torinese10.
L’albergo Mont-Nery, così come il Thedy ed il Miravalle di
Gressoney, fin dal 1912 era dotato di una fonte privata di
“acqua minerale” che sgorgava nel vallone laterale di San
Grato presso il villaggio del Buart o di Santa Margherita,
fonte che forniva acqua corrente all’albergo, e dava anche
lustro allo stesso, che poteva reclamizzare gli effetti benefici delle acque stesse.
La presenza di una fonte “termale”, nel senso più ampio
della parola, era considerato spesso un fattore determinante nella scelta di una vacanza sulle Alpi, indipendentemente da finalità terapeutiche, ma insieme al clima balsamico ed al panorama riposante l’“acqua termale” era vista
spesso come un quasi miracoloso presidio forse più psichico che fisico…
Ancora oggi nei pressi di quello che era l’albergo MontNery una targa ricorda i pregi della fonte Santa Margherita, ma forse andrebbero ricordati anche l’accoglienza ed
il relax offerti da quello che era uno dei primi alberghi della valle del Lys. Purtroppo la sua trasformazione avvenuta in tempi più recenti in condominio (come di tanti altri
alberghi nelle valli italiane, senza prevedere altri usi più
consoni e favorevoli alle comunità locali) è quasi il simbolo e la testimonianza della fine di un tipo di turismo alpino, sopravissuto a stento alla crisi della prima guerra
mondiale e radicalmente mutato nel secondo dopoguerra. Sono mutate le esigenze e soprattutto la cultura del turismo, e troppi fattori sociali ed economici, che qui non è
il caso di enumerare, hanno contribuito al cambiamento
di abitudini nell’uso della vacanza. Resta il rammarico di
vedere troppi alberghi trasformati in condomini, così
come in tanti alberghi sopravvissuti è triste dover inutilmente e melanconicamente cercare il vecchio scaffale della biblioteca con le guide del CAI, sostituito dal megaschermo TV perennemente e ossessivamente acceso.
Informazioni personali fornite dalla famiglia Busca, Gressoney-La-Trinité.
Informazioni personali fornite dalle signore Maria Mosca e Bruna Stévenin ved. Busso, Issime; e dal Dr. Umberto De Coll,
Torino.
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A U G U S T A
La Valle dell’Alleigne, a Champorcher
Un SIC (sito importanza comunitaria) da tutelare e da valorizzare
FAUSTA BAUDIN - MASSIMILIANO SQUINABOL
a valle dell’Alleigne (più comunemente nota
come Valle della Legna) è stata da qualche
anno inserita dalla Comunità europea, dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione Valle
d’Aosta tra i siti di importanza comunitaria, per
la straordinaria ricchezza e varietà della flora. Questa eccezionale varietà è dovuta alle sue “particolarità geologiche e climatiche che giustificano l’interesse suscitato in
alcuni fra i maggiori botanici che hanno esplorato la Valle d’Aosta. Dal punto di vista geologico il solco della valle
insiste sulla linea di contatto fra il complesso piemontese
dei calcescisti con pietre verdi e il complesso degli gneiss
minuti della zona Sesia Lanzo”1. Gli autori dell’interessante
articolo da cui sono state tratte queste righe, i tre botanici Maurizio Bovio, Franco Fenaroli e Pietro Rosset, han-
L
UN
no reperito, durante un’escursione effettuata il 13 luglio
1986, che ricalcava i percorsi effettuati da altri illustri botanici molti anni prima (L. Vaccari tra il 1901 e il 1904 e H.
Guyot nel 1924 ), nel solo ristretto spazio del col Santanel,
alla testata della valle, una sessantina di specie vegetali e
ne hanno reperite moltissime altre lungo tutta la zona
esplorata. Tra le specie citate ve ne sono alcune molto
rare, come la Minuartia lanceolata (unica stazione valdostana nota di un endemismo delle Alpi occidentali) la Cortusa matthioli (in Italia presente solo in pochissime località alpine) la Campanula excisa, la Saxifraga purpurea, la
Limnea borealis (relitto glaciale).
Ma la valle dell’Alleigne presenta anche altri aspetti di
grande interesse dal punto di vista dei segni della presenza umana nel corso dei secoli.
PO’ DI STORIA
L’ALLEVAMENTO
Gli alpeggi che costituiscono la valle propriamente detta
dell’Alleigne – Monpey, Raverette, Ourti, Vercoche,
Sant’Antonio, Chavana, Peroisa, Chenessy – insieme ai vicini alpeggi di Trome, Borion e Volseri (sulla destra orografica del torrente Alleigne), sono conosciuti e frequentati non solo dai contadini locali ma anche da pastori del-
Il pianoro di Sant’Antonio
1
Bovio M., Fenaroli F., Rosset P., L’esplorazione botanica del vallone della Legna (valle di Champorcher) e l’attuale stato di conoscenza della sua flora, in Revue valdôtaine d’histoire naturelle . n 41, 1987, pp. 39-68.
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A U G U S T A
la piana canavesana fin dal Medio Evo, quando per accedervi essi dovevano pagare una sorta di “affitto” al conte
di Savoia ed ai Pont-Saint-Martin, signori della valle di
Champorcher. Fin da allora greggi di pecore e mandrie di
vacche da latte trascorrevano l’estate su questi pregiati pascoli, permettendo la produzione di eccellenti formaggi.
Molte abitazioni rurali, con le annesse stalle e cantine per
la stagionatura dei formaggi esistono ancora, altri sono
crollati o stanno rapidamente deteriorandosi. In alcune località si possono scorgere tracce di rus, le antiche canalizzazioni dell’acqua per l’irrigazione.
LA METALLURGIA DEL FERRO
E IL CARBONE DI LEGNA.
Nel Seicento e Settecento a Vercoche si estraeva il ferro
che veniva poi fuso nel forno di Ourty, di cui oggi si intravedono ancora i resti. Pare che qui siano state fuse alcune parti strutturali in ferro della chiesa parrocchiale, rifatta nel 1728. Per far funzionare questo forno (detto "alla
bergamasca") e in seguito la fonderia di Pontboset, era necessario disporre di grandi quantità di carbone, ottenuto
tramite la trasformazione di diverse essenze legnose su
appositi spiazzi, ancora visibili in molti luoghi. Alcuni resti del forno di Ourty, con l’annesso incavo scavato per lavare il minerale dalle incrostazioni di terra, si possono ancora individuare, sebbene ormai quasi ricoperti dalla vegetazione.
LA STRADA E IL COLLEGAMENTO
CON LA VALSOANA.
Su questa magnifica mulattiera, e su quelle dei vicini valloni di Dondena e Laris, passavano fin da tempi ancor più
remoti, oltre a pastori transumanti, carbonai, boscaioli, minatori, commercianti ambulanti, stagnini e ramai itineranti
che provenivano o che andavano verso la vicina Valsoana
in Piemonte e in genere tutti coloro che dovevano raggiungere le valli del Piemonte occidentale attraversando
i nostri colli.
LA RELIGIOSITÀ POPOLARE
Anche qui come in ogni paese alpino, la religiosità popolare ha lasciato molte tracce: nel villaggio di Outre-Lève,
all’imbocco della vallata, i visitatori sono subito accolti dalla graziosa cappella affrescata con le immagini della Vergine, attorniata dai santi Nicola, patrono di Champorcher
(disegnato con una tinozza con tre bambini), Rocco, protettore contro la peste e le malattie contagiose (sempre
raffigurato con una piaga sulla gamba e un cane al fianco),
Grato, vescovo e patrono della diocesi, ed Antonio, protettore degli animali (rappresentato con un bastone a
TAU, in compagnia di un porcellino). Numerosi sono i piloni votivi o “tsapèlén” che si incontrano lungo il cammino. Quello più in alto, situato all’imbocco del pianoro di
Sant’Antonio, ospitava una bellissima statua del Santo, risalente al XV secolo, oggi conservata nel museo d’arte sacra nella chiesa parrocchiale. Al suo posto, c’è una copia
dell’originale, realizzata dallo scultore Lucio Duc. Altri
“cappellini” lungo la mulattiera erano dedicati alla Madonna Nera d’Oropa, cristianizzazione della Terra Madre,
e da sempre oggetto di intensa devozione.
Anche oggi questa valle, ancora sostanzialmente intatta
nelle sue caratteristiche ambientali, è, proprio per questo,
meta di numerosissimi escursionisti che, soprattutto tra
maggio e ottobre, la visitano apprezzandone, oltre ai fiori,
i paesaggi di rara bellezza e la tranquillità che la pervade
ancora, la ricchezza di acque e cascate, la varietà degli ambienti (dal bosco di conifere, alla prateria di alta montagna, agli ambienti rocciosi, ai laghi), la presenza di una
fauna ancora assai ricca, la pescosità dei laghi e dei torrenti.
IL FUTURO DELLA VALLE DELL’ALLEIGNE
Per questa valle stupenda si aprono possibilità diverse a
seconda delle scelte che si compiranno nelle Amministrazioni pubbliche.
UNO SVILUPPO SOSTENIBILE E DUREVOLE
Una possibilità di sviluppo, che mira a mantenere questa
grande risorsa ambientale in modo da trasformarla anche
in risorsa economica, consiste nel valorizzarla in senso naturalistico, lasciandola intatta e limitandosi a ristrutturare, salvaguardandone le caratteristiche architettoniche tradizionali, le baite e le stalle esistenti, conservando la possibilità di far monticare, come è sempre stato, gli animali
(bovini da latte e caprini, essenzialmente) durante la stagione estiva, puntando su prodotti tradizionali di qualità e
biologici. Il territorio agricolo dovrà essere sfruttato in
modo corretto, non limitandosi al solo pascolo disordinato e intensivo dei manzi, pena l’impoverimento del suolo
per l’eccessivo calpestio e sfruttamento del manto erboso. Sempre in ambito agricolo, bisogna riconoscere che
alcuni lavori svolti in questi anni da alcuni proprietari di
terreni e case a Ourty e Vercoche, tra cui la costruzione
di una monorotaia che collega i due alpeggi, la realizzazione di un impianto di irrigazione particolarmente ben
integrato nel paesaggio e l’effettuazione di uno spietramento, fatto finalmente con attenzione, mano leggera e
criterio, sono un buon segno di un possibile sviluppo sostenibile della zona.
Si può pensare anche alla produzione di prodotti di nicchia come miele, erbe officinali, piccoli frutti, la cui coltivazione è anche incoraggiata da apposite misure di sostegno da parte della Regione Valle d’Aosta.
A quest’attività agro-pastorale possono poi affiancarsene
altre, destinate all’accoglienza, al ristoro e all’accompagnamento di turisti nelle numerose escursioni possibili anche nei valloni vicini (eventualmente con l’aiuto di animali da soma per il trasporto dei bagagli, come in altri luoghi
si sta già sperimentando con successo). Queste opportunità saranno tanto più reali quanto più l’intero comune e,
ancor meglio, l’intera valle di Champorcher punterà su un
turismo "dolce", indirizzato a quella fetta sempre crescente di utenti che apprezzano gli aspetti naturali e tradizionali della montagna. In questo senso si sta predisponendo un piano di gestione del SIC, finanziato da fondi co-
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A U G U S T A
Cerastium latifolium
munitari Leader +, ed esteso anche ai valloni vicini di Pontboset, finalizzato alla valorizzazione sostenibile di questa
splendida zona, che potrebbe diventare un atout formidabile dal punto di vista turistico. Una scelta di grande respiro (e sicuramente di grande ritorno anche economico
per i paesi interessati) che può verosimilmente conseguire da questo studio potrebbe essere per esempio l’ampliamento del Parco del Mont-Avic fino a comprendere sia
la valle dell’Alleigne sia gli splendidi valloni della Manda
e di Brenve, a Ponboset: si creerebbe così un unico grande parco che inizierebbe da Champorcher, in corrispondenza dell’attuale limite del Parco del Mont Avic, proseguirebbe in quota fino a Champdepraz, all’alta valle di Clavalité a Fénis, a Cogne (Parco nazionale del Gran Paradiso) per raggiungere infine il parco francese della Vanoise
e, a sud, questi valloni spettacolari, confinanti con territori di comuni piemontesi che stanno già anch’essi valutando ipotesi analoghe.
UNO SVILUPPO DEVASTANTE
Un’altra ipotesi di sfruttamento di questa valle, di cui da
qualche mese si parla, è molto pericolosa e potrebbe provocare danni irreversibili alla natura. Si tratta della pos-
sibile realizzazione di una centrale idroelettrica, con annessa pista di servizio lungo l’intero percorso della condotta fino all’opera di captazione a Ourty. È un intervento improponibile per la fragilità del sito, e che distruggerebbe inevitabilmente buona parte di questa vera e grande risorsa: infatti con le opere di cantiere (movimento terra e grandi sbancamenti di vaste aree rocciose, sottrazione di acqua) si rischierebbe di cancellare l’habitat di
alcune specie floristiche che fanno di questa valle un
gioiello naturalistico, si distruggerebbe la splendida mulattiera, unanimamente giudicata di notevole valore storico e paesaggistico, e si innescherebbero fenomeni di instabilità idrogeologica.
Gli autori dell’articolo citato all’inizio di questo scritto auspicavano, in conclusione del loro lavoro, una ricerca sistematica tesa ad approfondire gli aspetti botanici, e più
in generale naturalistici della zona, nonché la conservazione della valle nella sua integrità. Questa è una considerazione largamente condivisa da noi e dai moltissimi appassionati di montagna che, sempre più numerosi, l’apprezzano; la speranza che coltiviamo è che anche le istituzioni pubbliche agiscano per preservarla e valorizzarla
in modo durevole, respingendo scelte devastanti e irreversibili.
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A U G U S T A
L’abbigliamento della borghesia
issimese nel secolo XIX
TIZIANA FRAGNO
cambiamenti sociali morali e ideologici della
Rivoluzione francese hanno lasciato un
profondo segno nell’Europa ottocentesca e i
segni di questi mutamenti e nuova concezione di vita si riflettono anche nell’abbigliamento. Ora la moda non guarda più all’aristocrazia ma alla
borghesia, nuova detentrice del potere. Il modello aristocratico frivolo e colorato, fino ad allora oggetto di aspirazione e di imitazione da parte delle classi subalterne,
viene soppiantato da un nuovo modello che non elimina
le differenze sociali, ma trova nuovi elementi distintivi
quali la cura del particolare, il taglio e la pulizia dell’abito. Sono questi i nuovi segni di discriminazione sociale in
quanto i sarti sono ancora un privilegio che pochi si possono permettere, per tanto i meno ricchi rimangono legati agli abiti più tradizionali, dai tagli meno sofisticati e
dai tessuti meno pregiati, inoltre fattore ancora più essenziale di differenziazione sociale è quello della pulizia,
è proprio essa che mette in evidenza l’importanza di possedere un ampio guardaroba per cambiarsi sovente d’abito ed essere così sempre lindi. È sicuramente una distinzione importante l’abbondanza degli abiti e la velocità
con cui i più agiati si disfano dei loro indumenti: i ceti più
umili si vestono con l’essenziale, tramandandosi gli abiti
da madre a figlia, la dote accompagna la sposa da una ge-
I
nerazione all’altra; la “dissipazione” del denaro nelle vesti e negli ornamenti è una dimostrazione di ricchezza,
privilegio di pochi, e chi può permetterselo orgogliosamente l’ostenta.
Anche in piccole comunità come quella di Issime i segni di
questo nuovo modo di pensare e di essere dell’uomo e della società sono presenti e sono visibili analizzando i ritratti
dei borghesi locali realizzati da artisti come Victor Carrel,
Lorenzo Avondo, Johan Franz Curtaz, o da pittori anonimi.
Attraverso questa breve analisi si può intravedere come le
comunità siano più legate alla condizioni di classe che all’identificazione di appartenenza ad un comunità e i borghesi locali prendano a modello la borghesia aostana, simile
nel modo di vestire a quella parigina o londinese. Il ritratto
di Jean-Lin Christillin1, sindaco di Issime, ritratto nel 1833,
all’età di 46 anni, da Lorenzo Avondo ne è un esempio. La
figura di Jean-Lin Christillin appare molto sobria e manifesta tutta la sua forza morale nella redingote nera dal collo
alto, con i risvolti ampi e dalle maniche piuttosto aderenti
che si allargano all’altezza dell’ascella, permettendo così
una certa libertà di movimento. La borghesia, nei primi anni
dell’Ottocento, fa della funzionalità dell’abito, in precedenza caratteristica tipica solo dei ceti più poveri e popolari, un
valore: essa diventa un segno di prestigio.
L’emulazione delle classi inferiori di quelle superiori non
è dunque l’unico modo di interagire tra i due gruppi sociali: esiste anche il fenomeno inverso, cioè la penetrazione di elementi popolari nel vestire colto, non bisogna infatti dimenticare che il mondo borghese è un mondo produttivo e tutto il suo abbigliamento richiama la serietà del
mondo del lavoro. I toni cupi della redingote, caratteristica della nuova moda prediletta dalla borghesia parigina e
londinese, e la presenza nel ritratto dei simboli del proprio
ruolo, la lettera dell’intendenza di Aosta e il calamaio con
la penna, esprimono appieno questa nuova concezione etica dell’operosità. Appena visibile sotto la redingote l’immancabile gilet, ormai elemento essenziale della moda maschile. Ad esso infatti la moda ottocentesca ha affidato il
compito di enfatizzare il busto maschile, nuovo simbolo di
virilità. Il nuovo taglio del gilet indossato dai borghesi è
aderente, modellato ai fianchi, corto e con il dorso in tessuto meno pregiato. Il sindaco di Issime ne indossa uno
di colore carta da zucchero, in contrasto cromatico con la
redingote, come vuole la moda parigina degli anni Trenta. Il candore della camicia dal collo rigido a fascia, con le
punte visibili rivolte verso l’alto, ai lati della mascella, e dal
delicato polsino, è ineccepibile. Il collo, reso rigido con
1
Jean-Lin Christillin
— 35 —
Jean-Lin Christillin, nato a Issime ne 1785 e morto nel
1853, apparteneva alla famiglia “Leu’sch Matte”. Cfr. L.
Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart, 1992.
A U G U S T A
delle fodere interne, è allacciato dietro il collo con ganci
o spille. Tuttavia a determinare l’eleganza e l’importanza
del sindaco è un altro elemento: la cravatta. La cravatta e
il modo di annodarla sono il nuovo emblema dell’eleganza maschile e del buon gusto tanto che, alla fine degli anni
Venti del secolo, uscirono due trattati fondamentali, uno
in Inghilterra e uno in Francia2, sull’arte di annodare la
cravatta. Rigorosamente bianca per il giorno e nera per la
sera fino agli anni Trenta, successivamente, per influenza
degli inglesi, viene accettata e indossata dalla borghesia e
dai burocrati la cravatta nera anche di giorno. Jean-Lin
Christillin, contrasta il candore del suo alto collo proprio
con una cravatta di seta nera “solitaire”, annodata a fiocco, secondo quelli che sono i dettami di una moda sovrannazionale, più legata alla condizione di classe che all’identificazione di appartenenza ad un comunità. I suoi capelli, con la discriminatura a lato, sono spazzolati e leggermente rigonfi sulle orecchie, diventano tutt’uno con i
folti basettoni. Sicuramente, il sindaco per essere effigiato avrà scelto i suoi abiti migliori e nessun dettaglio sarà
stato trascurato o lasciato al caso.
L’emulazione della moda d’oltralpe di un borghese di una
comunità come Issime non deve stupire in quanto è una ca-
Jean Christillin
Louis Christillin
2
3
4
Nel 1927 Honoré de Balzac pubblica “L’art de mettre la cravatte enseigné en seize leçons” e, un anno dopo, in Inghilterra, il volume di H. Le Blanc “L’arte di annodare la cravatta” incontra un notevole successo.
Louis Christillin nacque a Issime nel 1776 e morì ad Aosta nel 1859, si dedicò alla difesa del particolarismo valdostano scrivendo un trattato sulla difesa del rito gallicano in Valle d’Aosta. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart, 1992.
Jean Christillin figlio di Jean Christillin morì nel 1874 dopo
aver contratto una malatia mentre si occupava di assistere dei malati ad Entrèves. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres,
Musumeci, Quart, 1992.
ratteristica comune a tutta la borghesia valdostana, piuttosto quello che stupisce è la velocità con cui questi elementi sono accettati rispetto al passato, quando le mode necessitavano di tempi più lunghi per essere acquisite. Se si confronta il ritratto di Jean-Lin Christillin con quello di Louis
Christillin3 dipinto tra il 1800 e 1825 da un artista anonimo,
ci si rende conto di come la moda incominci a cambiare nel
giro di pochi decenni. Louis Christillin, indossa ancora una
marsina dal collo alto e spalle rigide realizzata secondo i
dettami settecenteschi, sebbene il colore sia già quello cupo
prediletto dalla emergente borghesia. Il collo alto della camicia bianca è ingentilita da una candida cravatta in pizzo.
I pizzi, ornamenti superflui, saranno ben presto abbandonati dalla più sobria moda maschile ottocentesca.
La distanza nell’abbigliamento sembra essere ancora maggiore tra Louis Christillin e suo figlio Jean Christillin4, ritratto
tra il 1860 e il 1870 da Johan J. Franz Curtaz. Il medico, ritratto all’età di cinquantasei anni, quindi non più giovanissimo, indossa una giacca con risvolto dai toni scuri e un gilet,
probabilmente in broccato, color bronzo, ingentilito da delicati arabeschi. L’ampio scollo del gilet lascia vedere il candore della semplice camicia impreziosita da una spilla romboidale. Al collo, abbassato e quasi invisibile, è annodata la
cravatta di seta, anch’essa di bronzo. Particolare interessante
è il copricapo. Il medico indossa un fez rosso in omaggio alla
Grecia, frivolezza questa molto in voga alla fine dell’Ottocento. Jean Christillin manifesta ancora un certo gusto, seppur ridimensionato rispetto al secolo passato, per il gioiello
e, oltre alla spilla in oro lavorato, porta all’indice un anello e
l’immancabile orologio da tasca. L’orologio da tasca solitamente in argento, in nichel e per alcuni in oro, agganciato
ad una pesante e, a volte, elaborata catena fissata all’asola
del gilet con una stanghetta, diventerà il gioiello per anto-
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A U G U S T A
Johann Blaise Aimé Linty (anno 1863)
della famiglia z’Avokatsch
nomasia dell’uomo ottocentesco, nessuno si farà ritrarre senza di esso. Così, anche il notaio Johann Blaise Aimé Linty
(*1809 ✝1882) che si fa ritrarre prima da Johann J. Franz
Curta (1863) e successivamente da Victor Carrel (1870)
ostenta in entrambi i quadri una catena d’oro al gilet. Nei
due ritratti il notaio indossa abiti, se non uguali, simili. I taglio della redingote nera è come quello con cui si è fatto raffigurare il sindaco Jean-Lin Christillin, collo alto con i risvolti
ampi, maniche aderenti che si allargano all’altezza dell’ascella. Affini appaiono anche la camicia dal collo rigido a fascia con le punte rivolte verso l’alto e la cravatta di seta nera.
In apparenza sembrerebbe che dagli anni Trenta agli anni
Sessanta la moda non sia cambiata o, se è cambiata, la borghesia locale non l’abbia seguita. In realtà il nuovo dettame
della moda è la predilezione per i gilet nero non più in contrasto con la redingote, proprio come indossa Johann Blaise Aimé Linty. Tuttavia il fatto che si faccia ritrarre con abiti simili a distanza di anni chiarisce la complessità dell’analisi dell’abbigliamento come fenomeno sociale. La spiegazione di questa scelta può essere vista nel fatto che ormai lo
stato sociale di una persona e la sua appartenenza sono codificati da canoni vestimentari ben precisi, soprattutto per la
borghesia, tanto che l’esistenza di questi dettami hanno portato gli studiosi a parlare di “uniforme” borghese5. Altro
aspetto da non sottovalutare in questa disanima è la difficoltà
che le persone hanno invecchiando di accettare le nuove
mode, infatti è con l’avanzare dell’età che si è più ancorati
5
6
alla tradizione e non si ha più particolare interesse per le
nuove fogge e le novità della moda. Ciò appare evidente in
questo caso se si confronta il ritratto di Johann Blaise del
1870, dipinto da Carrel, con quello coevo del nipote JeanBaptiste Louis Albert Linty6, sempre realizzato da Carrel.
Quest’ultimo ha sostituito la redingote con una più comoda
giacca nera lasciata aperta sull’immancabile gilet dalla tinta
scura in broccato a piccoli fiori. La camicia bianca ha il collo ripiegato, non più alto, chiuso da un ampio “solitaire” in
seta scura. Anche il taglio dei capelli è differente: Jean-Baptiste ha abbandonato l’acconciatura e i folti basettoni del fratello, prediligendo i capelli all’Umbertina, cioè corti alla tempia e alla nuca, un poco più lunghi sulla fronte. Questa pettinatura deve il suo nome al re Umberto poiché è così che
egli è solito acconciare i propri capelli e, sempre come il re,
il giovane notaio predilige i baffi.
Questa tendenza dei più giovani ad assimilare più facilmente le novità è visibile anche nel ritratto della moglie di
Jean-Baptiste, Anne-Marie Ronco. La moglie del notaio indossa un abito scuro dalle spalle discendenti e dalla ampie
maniche chiuse ai polsi. Il corpetto dell’abito è nascosto
dall’ampio foulard in seta disegnata usato raddoppiato, dalle punte incrociate sul davanti e fermate in vita. Questo
modo di indossare il fazzoletto diventa, a partire dal Settecento, tipico delle popolane che in questo modo si riparano dal freddo viste le ampie scollature del tempo e per secoli l’uso di questo capo rimarrà duraturo e costante anche
se più come elemento decorativo che funzionale. Sul delicato pizzo che circonda il viso troneggia un vistoso gioiello. Si tratta di un nastro di velluto nero bordato chiuso davanti con un fermaglio centrale a forma di cuore in oro, dal
quale pende un altro nastro, sempre in velluto nero che sostiene una croce polilobata in oro, si tratta di una croce definita alla “Jeannette”. Nonostante l’apparenza essa non doveva essere pesante in quanto generalmente realizzate con
Cfr. G. Buttazzi, A. Mottols Molfino, L’uniforme borghese,
De Agostini, Novara, 1991.
Jean-Baptiste Louis Albert Linty, nato nel 1837 e deceduto nel 1886, eserciterà la professione di notaio come era
tradizione. Cfr. L. Ferretti, Nos Ancêtres, Musumeci, Quart,
1992.
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Jean-Baptiste Louis Albert Linty
della famiglia z’Avokatsch
A U G U S T A
sottili placche di metallo stampate e sagomate mediante
percussione, vuote all’interno oppure realizzate a stampo.
Quasi sempre si tratta di oggetti realizzati in rame ricoperti
con oro fine, di stagno o di leghe simili all’oro. Raramente
si hanno nelle collezioni di gioielli popolari monili realizzati in argento e, se lo sono, generalmente sono riservate
alle ragazze, alle non maritate, tuttavia questa tendenza
sembra non toccare la Valle d’Aosta. Si può supporre però
che la croce “a la Jeannette”, ispiratasi ai gioielli di battesimo degli ugonotti, di derivazione francese, fosse un dono.
Quasi sempre le croci entravano a far parte del patrimonio
familiare attraverso questa usanza, se non erano un dono
del futuro marito erano il dono della madre o della madrina, perciò non si vendevano quasi mai. Esse rappresentavano un segno di distinzione per chi le indossava, era la testimonianza di un certo benessere, una garanzia di dote e
di una certa dignità di vita. Per quanto riguarda l’acconciatura le borghesi non possono comunque permettersi le
elaborate acconciature delle dame e le loro pettinature
sono più semplici, così i capelli sono raccolti.
L’acconciatura di Anne-Marie ha una discriminatura centrale, i capelli sono raccolti in chignon leggermente più basso sulla nuca, così da ottenere una linea leggermente più
rigonfia sui fianchi e sono racchiusi in un foulard di seta
leggermente arretrato e annodato dietro la nuca. Sebbene
vi siano degli elementi comuni tra il suo modo di vestire e
quello delle più anziane Marie-Françoise Alby, moglie di
Johann-Blaise Aimé Linty e Marie-Magdalaine Christillin
vedova Ronco (madre di Anne Marie Ronco) ritratte nello
stesso periodo (1870) da Victor Carrel, alcune differenze
simboleggiano l’acquisizioni di nuove mode. L’abito scuro
dalle spalle discendenti e dalla ampie maniche chiuse ai
polsi è comune a tutti i ritratti, tuttavia le due donne presentano un elemento differente, ritenuto superfluo dalla
più giovane, due ampi grembiuli con pettorina, in seta blu
per Marie-Françoise Alby, nero per Marie-Magdalaine
Christillin. Così il foulard utilizzato per coprire lo scollo del-
Marie-Françoise Alby della famiglia Griffjisch
l’abito e usato raddoppiato dalle punte incrociate è nascosto sotto il grembiule. Non deve stupire che le anziane signore considerino il grembiule uno dei loro capi più preziosi, tanto da scegliere di essere effigiate con esso: il
grembiule, che per generazioni ha avuto un ruolo puramente funzionale, ridiventa parte del guardaroba di una signora, anche se non considerato un indumento di gran
moda esso è ritenuto conveniente e adatto per i lavori di
cucito o di ricamo.
Marie-Magdalaine Christillin vedova Ronco
della famiglia Tunterentsch
Anne-Marie Ronco
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A U G U S T A
Maisons à colonnes
CLAUDINE REMACLE
uel que soit son sujet d’étude, le chercheur
valdôtain qui fréquente les Archives des Notaires d’Aoste rencontre dans les minutaires
des XVIIe et XVIIIe siècles, au détour des feuillets jaunis, les noms des familles d’Issime et
de Gaby. La spécialisation artisanale des Issimiens les conduisait dans l’ensemble du Duché d’Aoste, en Savoie, en
Dauphiné et en Suisse. En ce qui concerne notre vallée,
on les rencontre aussi bien dans les actes notariés déposés à Morgex et à Aoste qu’à Châtillon1. Ces maîtresmaçons passaient, d’une part, des contrats pour organiser
leur travail (prixfait, convention, capitulation, obligé, quittance) et, d’autre part, pour gérer leur vie (testament, contrat de mariage, achat, vente, échange). En outre, ils
étaient souvent pris comme témoins par des personnes de
l’endroit où ils migraient durant la bonne saison.
Il est difficile, dans l’état actuel des recherches, de dire
pourquoi certaines constructions font l’objet de convention passée devant notaire plutôt que d’autres. Aux XVIIe
et XVIIIe siècles, on peut aussi bien trouver un texte qui
décrit le futur chantier d’un minuscule moulin couvert de
planches que celui d’une grande maison en pierre à trois
ou quatre étages, équipée de nombreuses commodités et
portant une charpente à ferme soutenue par des piliers
de formes variées. Les textes sont rédigés en français,
souvent teintés de franco-provençal. Les colonnes rondes
qui sont l’objet de cet article portent dans les textes anciens le nom de « piles ». En général, elles étaient mises
en œuvre pour donner plus d’extension aux espaces couverts autour des bâtiments et pour circuler à l’abri des intempéries. Ces colonnes soutenaient les poutres de mélèze de la charpente, mais aussi celles de support des
planchers et parfois les sablières hautes et basses des séchoirs en bois et des chambres à provisions. L’ajout de
piles, en töitschu d’pillunha, accompagnait souvent la réfection de la charpente et de la couverture en lauzes des
édifices. On posait alors de grandes fermes à arbalétriers
visibles en façade principale. Les corps de bâtiment
étaient toujours en retrait par rapport à ces éléments ajoutés. Avec une simplicité parfois désarmante, les artisans
constructeurs, les maîtres-maçons, bâtissaient, modifiaient et ajoutaient des annexes en respectant les lois logiques de la stabilité.
C’est dans les vallées situées au sud-ouest de la région que
l’on rencontre, aujourd’hui encore, le plus de maisons rurales anciennes à colonnes. Il est probable que l’érection
de l’Ola, ferme seigneuriale du château d’Introd, avec ses
grosses colonnes en maçonnerie de plus d’un mètre de
Q
1
Zinnesili. Maison composée de trois corps de bâtiment.
Au centre, l’annexe à colonne abrite
les escaliers extérieurs et un balcon
Décor de 1660
C’est évidemment sous la « Tappe de Donnas » que se trouve le plus grand nombre d’actes concernant les Issimiens puisque leur territoire dépendait de ce bureau d’insinuation.
— 39 —
A U G U S T A
Maison des notaires Ansermin à Valpelline
diamètre, a pendant des siècles impressionné les bâtisseurs. L’Ola est construite en deux phases : un bâtiment
principal ancien datant du XIVe siècle, reconstruit avec
ajout de l’aile nord, datant du XVe siècle. Les grosses
poutres prises dans les colonnes et supportant les structures en bois ont été abattues au cours de l’automne/hiver 1458/1459. La charpente de « l’aile » ajoutée a été terminée à la même époque que la charpente du corps principal, mais les datations des prélèvements s’échelonnent
de 1421/1422 à 1459/14602. Dans les environs de la ferme des seigneurs d’Introd, plusieurs maisons comportent
des colonnes, à Introd d’abord, mais aussi dans les villages
et hameaux de Rhêmes, d’Arvier, ainsi qu’en Tarentaise
de l’autre côté des montagnes. Sporadiquement, on en
rencontre dans la Vallée d’Aoste tout entière. Elles signalent alors le prestige des propriétaires d’autrefois qui ont
voulu affirmer leur statut social par la construction de leur
maison. Souvent, ces personnages avaient regroupé un
2
3
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7
8
patrimoine foncier important après une période de crise.
On sait par exemple que, après la peste de 1630, plusieurs
maçons originaires d’Issime travaillent dans la région d’Introd et d’Arvier et qu’ils étaient spécialisés dans la réalisation de colonnes et de pilastres en pierre. Les archives
des notaires nous ont fait connaître leur nom : en 16473,
« Maistre Jaques de Jaques Choquer4 de Cime » travaille à
Liverogne; il traite également avec « Jean de Christan
Christillie et Christophle de Louys Touscoz de Simaz »5. Aux
Combes d’Introd, les maçons « Mathieu et Christan de
Jean Christillie » concordent un prix-fait le 3 décembre
16516 pour «fere une pille à pierre du costé du levant ...,…
plus du costé du solleil couchant dudit domicille seront tenus fere une pille de pierre ». À Planaval et à La Crête, vers
1655, on rencontre « Jacques Linthe et Mathieu Freppaz
de la parroisse de Simaz »7. En 16588, « Jean Christillie de
la paroisse d’Yssimaz » refait, rétablit et restaure de neuf
un toit au village des Combes. Je pourrais continuer sur
Laboratoire Romand de Dendrochronologie de Moudon-CH (LRD). Ces sondages ont été effectués pour le compte de la Surintendance des biens culturels en 2001 pour connaître la date de construction de bâtiments importants ou particuliers.
ANA. AO 473, notaire Germain Chantellex., le 28 juin 1647.
On rencontre plusieurs fois ce personnage dans le registre et son nom est orthographié de différentes façons : Soquier,
Schoquer, Choque.
ANA. AO475, 20/7/1651.
ANA. AO475.
ANA. AO 479, notaire Chantellex, 18 avril 1657.
ANA AO 480, 18 juin 1658.
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ma lancée et citer d’autres noms : Ronc, Busso, Alby, Albert, Stévenin, Labaz, etc.
Les hommes de loi (juges, châtelains, notaires) et les
hommes de pouvoir sont parmi les personnages qui modifient leur maison en plaçant aux angles, bien visibles,
une ou plusieurs piles : les notaires Ansermin à la Tour
de Valpelline, le notaire Frutaz à Valleil de Torgnon, les
notaires Albert à l’amont de Gaby ou encore le plus riche
propriétaire foncier de la paroisse d’Oyace, Jean-Antoine
Petey, au Berioz et au Closé. La plupart de ces colonnes
sont du XVIIIe et du XIXe siècle, mais, comme les textes
l’ont montré, il en reste de plus anciennes. Les trois colonnes englobées dans les maçonneries de la maison
Buillet-Bruil de la Ville d’Introd (Musée de l’alimentation)
sont de 1683 environ, celles que l’on aperçoit dans les
murs de la maison Gérad-Dayné à Cogne sont probablement de 1670.
Partout, les pierres mise en œuvre étaient revêtues d’un
enduit à la chaux pour faire ressortir davantage les colonnes par le jeu d’ombre et de lumière et donner du relief à la façade grâce à cet élément architectural évocateur
de style.
Tout comme la réalisation des voûtes d’arêtes dans les
cuisines, la colonne signale la présence de notables locaux, de personnages de relief que l’on retrouve dans
les archives : cottets ou registres cadastraux. Avec un
peu de chance, l’emplacement même du bâtiment se
croise avec les données des livres terriers de l’Ancien
Régime.
➤ À Issime, par exemple, les maisons qui ont conservé
des colonnes de prestige sont rares. À ma connaissance, il en existe encore deux de valeur. La première
se trouve à Zinnesili, Cerisoles dans les textes anciens.
Elle fait partie d’une maison évolutive contre laquelle,
vers 1660, un propriétaire de renom a sans doute ajouté
une annexe voûtée servant de maison focale. Il a fait,
en outre, décorer de graffitis les encadrements des
fenêtres des pièces d’habitation et a fait construire une
colonne à l’angle sud-ouest qui soutient une structure
en bois. Il s’agit probablement du « Sieur Egrège Jean
Biolley, notaire, filz de Jacques » et de son frère
Mathieu, qui possèdent, d’après le cadastre de 16459,
une grande parcelle de onze quartanées et vingt six
perches: « une piece de pre et vaccole, Tiers dessoubz
lieudit Cerisolle, confinant au commun du Balmaz, le
fleuve du Les, Phillibert de Jean Jacques d’Alby Linte en
deux divers endroitz ». Le notaire Jean Biolley est actif
à Issime de 1645 à 1670. Le « Noble Spectable Jacques
feu le Sieur Jean Jacques » cède la maison au « Sire
Philibert à feu Jean Cervier » avant 170310. En 1772, la
maison appartient à « Alby Jean Jacques et Jean Pantaléon feu Jean Jacques ». Les domiciles sont de 365,3
toises avec le terrain alentour, à l’ouest se trouve le
Lys ; à l’est et au sud, les frères Christille. En 1914, la
maison est indivise entre les familles Freppaz et Stévenin. La poutre faîtière d’une seconde annexe frontale datant de 1843, porte les initiales des Freppaz “iG
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Les pièces de bois de la ferme ont été datées
par dendrochronologie de 1620 à 1628 (LRD01/R5238)
F”. La moitié nord du bâtiment appartient en 1914 à
“Freppaz Silvano fu Serafino proprietario, e Freppaz
Anna fu Giacomo vedova Freppaz, usufruttuaria”. La
moitié Sud qui n’évolue pas depuis le XVIIe siècle appartient alors à Stevenin Giovanni Girolamo fu Giovanni Pietro.
➤ Une autre maison à colonnes mérite encore plus d’attention. Tout le monde la connaît parce que, grâce à sa
situation exceptionnelle, elle domine le Vallon de SaintGrat et se trouve aujourd’hui au point d’arrivée de la
nouvelle route. Pour l’instant, on sait peu de choses de
ses constructeurs. Il faudrait en effet mener une recherche très pointue dans les archives et les efforts
porteraient-ils, peut-être, leurs fruits. La difficulté réside dans le fait que la construction date environ de la
terrible peste de 1630. Les registres du début du XVIIe
siècle sont souvent incomplets ou ont disparus. Aux archives des notaires d’Aoste, je n’ai trouvé aucun minutaire de cette période.
Sur le bâtiment lui-même, une première date, incisée sur
la poutre de la cheminée à l’étage, est sûre: 1627. Il s’agit
de travaux de reprises d’œuvre d’un édifice beaucoup
plus ancien dont il ne reste qu’un grenier en bois de type
archaïque, datant probablement de la période des défrichements et du peuplement même du vallon au
Moyen Âge.
En 164511, quatre frères sont propriétaires du bâtiment,
avec leur mère, dont on ignore, hélas, le nom : « Jean, Mathieu, Pierre et Antoine, filz de Christan Quera et Magdelaine, leur mère ». Le fait que Magdelaine soit citée indique probablement que le patrimoine de Chröiz provient
de sa propre famille paternelle et non de celle des Quera.
Trois frères sur quatre sont absents. Ils travaillent sans
Fo.128 et 129.
ANA. DO070. Notaire Jean Jacques Alby, 16 mai 1703.
ACI. Cadastre de 1645, F°882.
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A U G U S T A
Chröiz.
L’avancée de la toiture,
soutenue par les colonnes,
protège la basse-cour
doute ailleurs comme maçons. Ils possèdent entre autre,
près de la chapelle, « une pièce de pré et champ de trois sesteurs aux pertinences de La Croix appellé le pré de Jaques
et Pirdilquin ». Mais, en fait, leurs propriétés à La Croix
sont très étendues, ce qui semble indiquer que leurs biens
proviennent d’un parent décédé important : « deux quartannées deux tiers en champ à La Bin ;... trois quartannées
et demy en pré et champ à La Fontaine » ; une autre quartannée appelée « Champlong » ; une autre encore « La
Roze ».
En 1772, il est probable que la parcelle comprenant la maison12, de 192 toises y compris un champ et un pâturage,
confine à la chapelle du couchant et appartienne à un certain « Quera Christophe feu Pierre », mais cela devrait être
vérifié dans les archives communales, car ce possesseur
possède une cote foncière très basse.
En 1914, tout comme aujourd’hui, la maison est indivise:
on trouve Storto Giacomo Valentino fu Giacomo Gabriele
à l’aval, héritier des Quera par sa mère Marie-Christine13
et dit en töitschu Keerisch et Linty Giovanni Maria fu Giovanni Luigi à l’amont. L’histoire de la propriété du bâtiment est très intéressante, car il s’agit d’un exemple d’enracinement d’une souche familiale, les Quera, pendant
plus de trois siècles.
La date incisée sur la poutre maîtresse semble être 1633,
mais plusieurs personnes y voient 165314.
Les sondages dendrochronologiques montrent que les
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arbres abattus pour la construction de la charpente ont
été prélevés dans les bois entre l’hiver 1619-20 et 1628. La
faiblesse évidente de la ferme à arbalétriers, posée sur les
deux colonnes, a exigé des travaux de renforcement dix
ans plus tard. On a ajouté un pilier carré central en pierre de taille et des étais en bois. La pièce sous la ferme date
de 1637-38. Actuellement, l’état de la couverture est alarmant.
Les maçonneries des façades sont soignées, particulièrement celles qui entourent le viret - l’escalier en colimaçon
– situé au sud-est. Ce viret est lui aussi un élément architectural qui démontre le statut social élevé du fondateur
du bâtiment à colonnes. La maison a été adaptée pour
deux familles - deux étables, deux piellji, deux höischer,
un seul grand fenil - , mais on ignore à quelle période exactement, car les données historiques sont vraiment trop distantes l’une de l’autre.
Il faut souligner pour conclure que, dans l’état actuel de
la recherche, cet édifice qui est, incontestablement, d’un
type très rare en Vallée d’Aoste, n’a, en apparence, pas
d’histoire. Cette absence d’informations donne une touche
de mystère à la maison et ne lui ôte en rien sa valeur comme important témoignage du passé, profondément lié au
peuplement du vallon de Saint-Grat, mais aussi à la vie sociale de la communauté du Tiers de la montagne d’Issime
au XVIIe siècle.
AHR. Cadastre sarde: n. 1043.
Renseignements sur la famille Querra et Storto, fournis par Michele Musso.
A. BARGHINI, Territorio, architettura, gruppi etnici nella media Valle del Lys: il caso di Issime e Gaby, in Rivista Augusta 1998,
p. 6.
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As chnechtji zélltni
dschéin ieste summer z’alpu
Un pastorello vi racconta la sua prima estate in alpeggio
DON UGO BUSSO Schützersch Dschoantsch
Hirtjini séin déi boffiltini das goan z’alpu mit üriun houslljöit. Wa a voart vil hirtjini séin gsinh chnechtjini unner
meischter, un das ischt nöit gsinh z’selb dinh, Wén ich bin
gsinh ich auch as chnechtji in Türrudschu,doa dar béi,
hendschi pheeben zwian gséllji das séin gsinh z’alpu mi
üriun oalten pappa un ich, al vért das ich hendschi gsia,
wol das. ich hen khee lljib meischtara. hennich gmüssurut unner mich: wi hübsch wén ich méchti sinh ich auch
z’alpu mit méini houslljöit.
Pastorelli sono quei ragazzini che salgono negli alpeggi
con i loro familiari. Ma un tempo molti pastorelli erano
in servizio sotto padrone e ciò era ben diverso. Quando
sono stato anch’io un pastorello in servizio a Tourrison,
lì vicino, stavano due miei amici che si trovavano nell’alpeggio con il loro nonno ed io, ogni volta che li vedevo, anche se avevo dei bravi padroni, pensavo tra me:
come sarebbe bollo se potessi anch’io stare in un alpeggio
con i miei familiari.
Du, den summer van villje 60 joar kannhe, hennich kheen
élv joar un dar pappa un d’mamma hemmi kheen gmertut
chnechtji z’alpu van Sen Bernoard unz z’Sen Michiel.
Ich bin gsinh dackuard antweegen das hemmer gén gvallen d’chü wa ich hen noch nji khen pruavut was wilt seen
goan awek vam hous.
Allora, in quell’estate di quasi 60 anni fa, io avevo undici
anni ed il papà e la mamma mi avevano contrattato come
piccolo garzone in montagna dal giorno di san Bernardo
(15 giugno) a San Michele (29 settembre). Io ero d’accordo perché mi sono sempre piaciute le mucche ma non avevo ancora mai provato che cosa vuol dire lasciare la casa.
Ischt sua das den Sen Bernoard van z’joar 1947 hendschmer ghannut méin rüksackh un vür d’iestu voart hennich gloan ich auch méis nescht in d’Kruasi um passrun
d’Lljeisu im z’Endrusteg un goan ouf duch a halbu das
ischtmer noch gsinh vrüefti. Ischt gsinnh mümmer dar
meichter das
h e m m e r
zeihut
da
weg van in
d’Lasiti, im
Bioulei un dé
ouf, an hüeje
staf fal
zu
dam andre
vür mia dén
an
stunn
weg, unz im
Krechtaz,
uab da Vasir
un z’Léjunh
un unner di
Tschannavellji. Doa hennich gvoan a
méin ieste
summer z’alpu das ich
bin drum z’ni
zéllje.
È così che il giorno di San Bernardo dell’anno 1947 mi
hanno preparato il sacco da montagna e per la prima volta ho lasciato anch’io il mio nido di Crose per passare il
Lys al ponte di Seingles, per risalire per un vallone che
mi era sconosciuto. Così, con il mio padrone che mi mostrava la strada, sono passato ai Lasiti
e poi al Bioley per arrivare, dopo
più di un’ora
di cammino
al Krechtaz
sopra il Vasir
ed il Lèjunh e
sotto Tschannavellje. Lì
ho iniziato la
mia prima
estate in alpeggio che vi
sto raccontando.
L’alpe Krechtaz e, sullo sfondo, il Mont Nery (m. 1436) ed il Col Chasten
del vallone di Borrine. Una staccionata impedisce l’acceso sul tetto alle capre.
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A U G U S T A
Im Krechtaz séiwer blljibben noch a wuchu wa zu hewer
mussu voaren in Türrudschu.
Wa voare het wéllje seen lieren d’goavunu: béttucha un
patti, alli da mennedsche, z’chübbji, d’schüsselin um melhie,d’chéssini um richte, un unzana d’garbunju mit da
hénnju un as taski dri d’chatzu.. Nuan d’geiss un d’chü mit
üriun chöttini um da halz séin kannhen mi üriun tschapti. Das weerch hewer mussun tun seksch vért: dröi um voaren unz in d’hüéischtun alpu, un dröi um cheemen amingier
D’éltrugu hen troa d’schwierschtu léddini un wir chnechtjini hen mussu machun vill rüddini zam tag. Ich bsinnimich nuan das wéilu hennich mussun goa mit dam hopt
in as chéssi un um gsian da weg as soiri mia den im spitz
dar zuaklu, hennich mussun bürren tan un tan z’chéssi
antweegen da weg, in déi stotzen gumbu, ich gsinh z’merteil, an staffal zu dam andre.
Al Krechtaz siamo rimasti una settimana ma poi abbiamo
dovuto transumare a Tourrison.
Ma transumare voleva dire svuotare la baita:coperte e vestiti e tutti gli utensili da cucina, la zangola i secchi per
mungere, i grandi recipienti di rame per colare il latte, il
cestone con le galline ed anche un sacchetto con il gatto.
Soltanto le capre e le mucche con la loro catena attorno al
collo andavano con le loro gambe. Quel lavoro dovevamo
farlo sei volte: tre per transumare fino all’alpeggio più alto
e tre per ridiscendere. Gli adulti portavano i carichi più pesanti e noi garzoni dovevano fare parecchi viaggi al giorno.
Io mi ricordo soltanto che ogni tanto dovevo andare con la
testa dentro un recipiente di rame e per vedere la strada un
po’ oltre la punta degli zoccoli, dovevo alzare ogni tanto il
recipiente, perché la strada in quel ripido vallone era quasi sempre una scalinata dopo l’altra.
L’alpe Türrudschu (m. 1636) e, sollo sfondo il vallone di San Grato
.Wén mu zélt noch d’léddini um troan ouf d’spéis un ingier dan anghe un da chiesch, un um troan da witt, so mieder müssuru was léddini séin passrut ubber da rück van
d’éltrugu un van wir junnhi in déi gumbu wua ischt nöit
gsinh noch as nuas noch an üeschil. Krat a voart zar wuchu, im sunnatag da muarge, in d’hüéischtun alpi séin
gcheemen z’vuss van Böjulu étlljig fümmili mit gruass
chuarba loaden awek den guten anghe van ündsch alpi,
gén hübschi gelwi un das ischt gschmolzen im mun.
Se si contano pure i carichi per portare su le vivande e giù
il burro ed il formaggio e per trasportare la legna, potete immaginare quanti carichi passavano sulle spalle degli adulti e di noi giovani in quel vallone dove non c’era né un mulo
né un asino. Soltanto una volta alla settimana, la domenica mattina, negli alpeggi più alti arrivavano a piedi da
Biella alcune donne con delle grandi ceste a portar via quel
buon burro dei nostri alpeggi, sempre bello giallo e che si
scioglieva in bocca.
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A U G U S T A
In Türrudschu séiwer blljibben dröi wuchi. Doa ischtmu
blljibbe wol. D’goavunu ischt gsinh hübschi un gruassi un
da wit ischt gsinh béi. Mümmer hen gholfe dam oalte
meischter, zwei endri chnechtjini das hen kheen zwei ol
dröi joar mia dén ich. Eis ischt gsinh van Kwarrusu un
z’andra van Eischeme wit ich. Mi dem van Kwarrusu hewer nöit muan schwétzen töitschu wa nuan piemunteis.
A Tourrison siamo stati tre settimane. Lì si stava bene. La
baita era bella e grande e la legna si trovava nelle vicinanze. Con me, aiutavano l’anziano padrone, due altri pastorelli che avevano due o tre anni più di me. Uno era di Carema e l’altro di Issime come me. Con quello di Carema non
potevamo parlare töitschu ma solo piemontese
Z’éltragschta ündscher andru ischt aschuan gsinh guts
z’mieje un sua za hoeju un zan oamudu is gcheemen z’grünn um helfen da meischtere. Dé, z’alpu hewer noch
mussun tun auch dschéis weerch. Wa z’merteil méis weerch ischt gsinh das z’hüten, z’machun d’pulentu z’mittag
un d’chuchi z’nacht un z’melhien mia dén as totzet geiss.
D’geissumilch gmischliti mi dar gnéidlutu milch het keen
ous vérousig alpuchiedscha.
Il più grande di noi tre era già capace di falciare e così al
tempo del primo e secondo fieno scendeva al piano per aiutare i padroni. Allora, all’alpeggio dovevamo fare anche il
suo lavoro. Abitualmente però il mio lavoro consisteva nel
pascolare, nel fare la polenta per pranzo e la minestra per
cena e di mungere oltre una dozzina di capre. Dal latte di
capra mescolato con il latte di mucca scremato si ottenevano speciali tome di montagna.
Krat noa mittag, wénn war hen nöit kheen anner z’tun heewer groddut mit lljick holze chü das war hen gmachut
séntsch hüte mit jöipi das war hen bekschut mi ündschem
mésserllji um darnoa dschu lécke rinnhe mi dschu chlöpfen eina kuntra d’andra. Het gwunnen déja das ischt nöit
kannhen z’undran ouf.
Darrum hewer gmachut, va vür, chü mi d’huarni wol breitu um das dschi tétti nöit goan z’undran ouf z’vill tel, wa
eina méiru das het kheen d’huarni in dar luft het génh
gwunne. Ischt sua das auch méin gséllji hendschi keen an
acht das mit huarni sua hendsch kheen tschebbur dschi
wélpen. Sitter hewer gmachut chü mi da huarnu in dar luft
wi déju van d’geiss un unzana gchröizutu in an muadu das
dschi séin nümmi blljibben gwalptu un sua hewer nümmi
muan lécken rinnhen ündsch lljick reini.
Solo dopo pranzo, se non avevamo altro da fare giocavamo
con piccole mucche di legno che facevamo durante il pascolo con rami di rododendro che intagliavamo con il nostro
coltellino per poi metterle in battaglia, lanciandole una contro l’altra. Vinceva quella che, nello scontro, non rimaneva
rovesciata. A tale scopo facevamo prima della mucche con
le corna ben larghe perché non si capovolgessero troppo facilmente ma una delle mie che aveva invece le corna alzate vinceva sempre. È così che anche i miei amici si sono accorti che con le corna rialzate rischiavano di meno di capovolgersi. Da allora intagliavamo delle mucche con le corna innalzate come quelle delle capre e persino incrociate, al
punto che non rimanevano più capovolte per niente e così
non abbiamo più potuto mettere a combattere le nostre piccole regine.
Ich bsinnimi auch das wén war séin gsinh ellji im bétt dar
oalt meischter hennündsch bettut vür un sua het toan
auch méin sielegen küssinh Dschoddifji, dan summer
drouf, wén ich bin gsinh z’alpu middim im Chröiz. Wiss
nöit ol dischen schienen brouch gannhi noch vürsich höit
zam tag ol das z’alpu bettun nuami d’hirta das cheemen
vam Marock.
Mi ricordo pure che al momento in cui ci trovavamo tutti
a letto, l’anziano padrone iniziava la preghiera della sera e
così faceva anche il mio cugino Giuseppe, buon’anima, l’estate successiva, quando ero in alpeggio con lui al Chröiz.
Non so se questa bella abitudine va ancora avanti al giorno d’oggi o se nei nostri alpeggi pregano soltanto più i garzoni che vengono dal Marocco.
D’gruaschtu vuacht das ich hen kheeben in Türrudschu
isch gsinh an oabe das z’het gwettrut wi mi gitzun tschapti un dan éise stekje van dar blljitzker ischt passrut van an
lierch zam andre mi dondiriti das hen toan z’vrüchte, un
ich, séntsch das d’endri hen gmolhe hen mussun goan
süjen zwian swach tschirki (rucki) van dar Pischu das hen
nji poaschtut im troppe mit dan andre un das ich hen génh
mussun goan süjen im woald, unzana in den büesche oabe
wénn ich hetti muan n’en schikhjen zu a hunn, wa war hen
njanka kheen den.
La paura più grande che ho provato a Tourrison è stata una
sera che pioveva, come gambe di capretto (come si dice da
noi) e la sbarra infuocata del fulmine passava da un larice all’altro con rombi di tuono che facevano spavento, ed io,
mentre gli altri mungevano, ho dovuto andare a cercare due
vacche ribelli di Fontainemore che non pascolavano mai insieme alle altre e che dovevo andare a cercare anche in quella sera minacciosa quando avrei potuto mandare loro dietro il cane pastore, ma non avevamo neppure quello.
Van in Türrudschu séiwer gvoarit ouf i Leiet, as alpikji uab
Kredemí. Doa séiwer blljibben nuan a wuchu. Doa béi, dar
meischter het ghannut, ellji joar, da witt das ischt gsinh z’troan hüajur, unz in d’ Krecht wua ischt nümmi bauma un
wua, wi mu seet van ündsch hüejun alpi, d’chü mian nji essen d’weidu mit dan vir tschapti ouf im woase.
Da Tourrison abbiamo transumato a Leiet, un piccolo alpeggio sopra Kredemí. Lì siamo rimasti soltanto una settimana. Lì vicino il padrone preparava ogni anno la legna
che doveva essere poi trasportata più in alto, fino al Krecht
dove non c’erano più piante e dove, come si dice dei nostri
alpeggi più alti, le mucche non possono mai brucare l’erba
con le quattro zampe sulla zolla.
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A U G U S T A
Il caretteristico
paravalanghe
dell’alpe
Kredemì
(m. 1768)
Testimonianza
di fede
e di operosa
previdenza
In d’Krecht das ischt villjen z’vurku wua mu disendurut
vidder Pickuvoal, séiwer blljibben dröi wuchi, unz noa Mittemaugschte. Doa z’ schwiar weerch, noa ellji d’endri,
ischt gsinh vür wir chnechta das all toaga hewer mussun
goan ambri, krat kessen z’ambéisse unz villjen in Kredemí
um goan gian an spoaltjian witt van eim um nen troan ouf
in d’Krecht an stunn stechige weg hüejur. Bsinnimich
Al Krecht che si trova quasi al colle da dove si scende su Piedicavallo, siamo rimasti tre settimane, fin dopo Ferragosto.
Lì il lavoro più pesante, dopo tutti gli altri, era quello che
toccava a noi garzoni, di scendere tutti i giorni, subito dopo
aver mangiato pranzo, fin quasi a Kredemí per andare a
prendere un pezzo di tronco ciascuno, per portarlo su al Krecht che si trovava più in alto dopo un’ora di ripida strada.
L’alpe Lejet
(m. 1935)
( = laghetto:
visibile
quasi
asciutto
alla sinistra)
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A U G U S T A
noch nunh van d’ hitz un d’liertschunu ubber da halz das
ich hen gschpürt unner déi gchnüftu léddini.
Nuan im sunnatag hewer nöit mussun tun das weerch un
sua, noa mittag séiwer gcheemen ingier unz i Lei Kier wua
ischt gsinh z’alpu an schien gruass fammullju mi vill boffi un töchtirlljini junnhi wit wir.
Middene hewer groddut um den schienen loutere sia das
nöit um nöit heist Lei Kier (Lago chiaro).
Mi ricordo ancora adesso il caldo e la resina sul collo che
sentivo sotto quei carichi nodosi.
Soltanto la domenica non dovevamo fare quel lavoro e
così, dopo pranzo scendevamo fino a Lei Kier dove teneva
l’alpeggio una bella e grande famiglia con tanti ragazzi e
ragazzine della nostra età. Con loro giocavamo attorno a
quel bel lago limpido che, non per niente, si chiama Lago
Chiaro.
Van di toaga passrutu in d’Krecht bsinnimich van Mittemaugschtage. Den tag hets
gwettrut stoarch un wir séin gsinh z’hüten z’uabruscht d’roaji.
Ich hemmich gscheermut unner
an balmu, nass un vroschtlljigs
wa hen gmüssurut das z’mittag
hettewer kheen as ümmis verous antweegen das ischt gcheemen z’alpu, den tag, auch d’meischteri das het kheen gchochut an hénnju. Un sua, noa hen
gleit i d’chü hewer nündsch
muan ar weermen mit a schien
gut napfutu woarm brüji.
Dei giorni passati al Krecht mi ricordo il giorno di Ferragosto.
Quel giorno pioveva forte e noi ci
trovavamo a pascolare in cima
alle radure più alte. Io mi sono riparato sotto una balma, bagnato
e intirizzito ma pensavo che a
mezzogiorno avremmo mangiato
un pranzo speciale perché, per
quel giorno, era salita all’alpeggio la padrona che aveva cucinato una gallina. E così, dopo aver
fatto rientrare le mucche, abbiamo potuto scaldarci con una bella scodella di brodo caldo.
Leikier ( m. 2090) (= alpe del lago chiaro: vi si specchiano due ochette vanitose)
An leid bsinni van déi toaga in d’Krecht ischt van d’nechtini das ich hen nöit muan ptun d’auge antweegen
z’vroschtsch. D’nacht, méin gséllji as söiri éltrugur dén
ich, séntsch schloafe, oan dschi geen an acht, hentsch
dschi kwunnhen in di déchini un ich bin blljibben antakhts
un im vroscht. Wéilu hennich gschrowe dam oalte
meischter das het gschloafe hinner as gwénnuts koarllji.
Dar oaltu het wol keen an rawutu wa déi hen sicher nöit
khüart un ich bin blljibben, wéilu unz da muarge, z’luasen
dar winn un d’rietzu luft bloasen in ter d’blatti.
Un brutto ricordo di quei giorni al Krecht è quello delle notti in cui non potevo chiudere gli occhi a causa del freddo.
Di notte, i miei amici, un po’ più adulti di me, mentre dormivano, senza neppure accorgersi, si avvoltolavano dentro
le coperte ed io rimanevo scoperto e al freddo. Ogni tanto
chiamavo l’anziano padrone che dormiva in un angolo riparato da pareti di legno. Lui faceva ben dei richiami ma
quelli non sentivano di certo ed io rimanevo, a volte fino al
mattino, ad ascoltare il vento e l’aria rigida che soffiavano
tra le ardesie.
Wa in alle summer dan büeschten tag ischt gsinh den das
hetti sollu sinh da hübschte. Ischt mer bschit das an tag
hendsch mich gloan cheemen zam hous grützen d’mam-
Ma, per tutta l’estate, il giorno più triste è stato quello che
avrebbe dovuto essere il più bello. Mi è capitato che mi hanno lasciato venire a casa per salutare la mamma, la sorel-
— 47 —
A U G U S T A
L’alpe Krecht (m. 2253) a poca distanza dal Colle del Lupo che apre su Piedicavallo
ma ,d’wetta un z’brüderllji das het kheen zwei joar, wa
wénn ich bin arrivurut zam hous di tür ischt wol gsinh artoani un ich hen sübbit muan laufen i wa an vrüaft vrauwa
hemmich aréchturut un hemmi nöit wélljen loan i. Was
ischt gsinh bschit? Méini séin gsinh ouf z’beerg im Prassevinh, un in d’Kruasi, vür d’iestu voart, hendsch kheen
varzüaft, oan das ich hettis gwists, zwia choambri da hierulljöite das hemmich nöit piént un das hemmich nöit vill
antfannhe wol. Un sua hennich mussun goan am ouf z’Alpu mit an gruass growi.
la ed il fratellino che aveva due anni ma quando sono arrivato a casa la porta era aperta ed io sono corso dentro ma
una donna forestiera mi ha fermato e non voleva lasciarmi
entrare. Che cosa era capitato?I miei erano su al mayen di
Prassevin, e a Crose avevano affittato, senza che io lo sapessi, due camere a dei villeggianti che non mi conoscevano e che non mi hanno accolto molto bene. E così ho dovuto risalire all’alpeggio con un grande rammarico.
Henni geeren zéllt dischi dinnhi um das mu wissi as söiri
mia wi da lebtag in ündsch alpi ischt génh hérti wa das
dar ischt gsinh vill mia 60 joar kannhe. Wa willni auch
seen das méin zwia summara passrutu chnechtji z’alpu unner meischtara hemmer toan z’antschtoa vill dinnhi das
séin nöit in d’büjini un hemmer zeihut leebe, grech noch
mia dén was ich hen gleernit in d’schul. Sitter hennimich
gwénnt z’nöit mit kheen z’vill tell un z’nji vargesse das in
d’weelt ischt génh antwiar das schtrekhut mia dén wir.
Vi ho raccontato volentieri queste cose perché si conosca un
po’ di più come la vita dei nostri alpeggi sia sempre dura,
ma lo è stato molto di più 60 anni fa. Ma vi voglio anche
dire che le mie due estati passate come piccolo garzone in
servizio sotto padrone negli alpeggi mi hanno fatto capire
molte cose che non si trovano sui libri e mi hanno insegnato a vivere, forse ancora di più di ciò che ho imparato a
scuola. Da allora mi sono abituato a non lamentarmi troppo facilmente e a non dimenticare mai che nel mondo c’è
sempre qualcuno che tribola più di noi.
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A U G U S T A
Il teschio prelevato
dall’ossario del cimitero
Un racconto di Campello Monti1
VITTORIO BALESTRONI
L
e veglie serali, andà a fà vègia, erano possibili solamente durante il periodo autunno/inverno, quando i lavori dei campi e
della fienagione erano cessati. Le superstizioni condizionavano la vita e quindi il tema della paura e del coraggio di fronte
all’ignoto erano sempre al centro dell’attenzione, delle sfide e delle scommesse. Mentre nel periodo invernale ogni sera
si andava a casa di qualche vicino, una sera da me una sera da te…, nel periodo dell’alpeggio le occasione erano più rare.
La distanza tra gli alpeggi e la difficoltà di percorrere il sentiero, al solo lume delle lanterne, riduceva le occasioni a poche
volte nei tre mesi passati all’alpe.
LA TESTA ‘D MÖRT ANT L’USARI
D’autün e d’invern quand al besti eru ‘nla stala dal vachi,a gent as trueva un po’ a ca ‘d vun e un po’ a ca ‘d l’aut, par fa gni l’ura
d’nde durmì, cuntevu stori ‘dla puira e dal curac. Quand ieru su ‘n l’alp (20 Giugn - 20 Satembar) l’era nuta pusibil parchè la gent
duveivu buurà (meta la grema ‘n la pinàgia) e mungiar al vachi, regulè al lac e paragè la ceina. Intant a gneva nöc, e andè ‘n lìalp
pusè visin cum la lanterna l’era nuta còmut.
Una seira, a l’alp dan Cama, a chi gheiva püsè curac gan dic
: “ti gai curac da ‘ndè a Campèl, ‘ntal cimiteri dal Gaby, ‘ndè
in l’usari a to su na testa ad mört e purtela an l’alp?”. L’om
par fa vogar ch’l’era curagius la toc su la civera e sa ‘nvià ‘n
giù. An l’usari la auzà al cuerc, la tirà su la testa ad mört e la
mutùa ‘n la civera. A l’alp tüc eru curiùs da vògar s’ l’era andà
giù par dabòn o se al gheiva mo la lengua lunga. Fora dal cimiteri, l’om sa ’nvià pare la stra pusè curta, dan ciuma la tera
a l’Ãr. Peina pasà l’ultima cà dal pais,a la civera a la vegn püsè
greva; al va avanti ma rivà a l’Ãr al fa una pòsa e ‘l varda’nla civera. Al post d’la testa ad mört ghè dint un om an pei ch‘ag
dis seri : “tei facla grosa, ma ti sei furtunà chi suma parent, sinò
a ‘st’ura ti crapeivi ‘dla puira”. “Fa ‘l brau, turna purtem ‘indrè ‘ndùa ti mai toc su e fa più si robi ‘nlò”. ‘Ntant cl’andeva
‘ngiù la civera la gneva pùsè ligèra e quan clè rivà davànt al
cimiteri an la civera gheiva pù m’la testa cume prüma. L’om
la mesa turna ‘n l’usari e la dic un Au Maria ad pentiment.
Una sera, all’Alpe Cama, al più coraggioso venne fatta questa
proposta : avresti il coraggio di scendere a Campello, entrare
nel cimitero del Gaby, andare nell’ossario e prelevare un teschio e portarlo all’alpe? Per farsi vedere coraggioso l’uomo accettò, prese il gerlo, la civera, e si incamminò. All’ossario alzò
il coperchio e prelevò un teschio riponendolo nella civera. All’alpe, intanto, tutti erano curiosi di constatare se l’uomo avesse veramente del coraggio o solo la lingua lunga. Uscito dal cimitero del Gaby, l’uomo prende la strada più corta, quella che
passa dalla casa in cima del paese e sale all’alpe Orlo (dan ciuma la tera e l’Ör). Appena oltrepassata l’ultima casa di Campello (‘n ciuma la tera), il gerlo, la civera, diventa sempre più
pesante. Possibile, pensa, che un teschio possa essere così pesante (leva gnu ‘na carga)? Prosegue, ma giunto all’alpe Orlo,
a l’Ör, non ne po’ più. Posa il gerlo su un sasso per riprendere
fiato e dà un’occhiata al teschio. Invece del teschio nel gerlo
c’è una persona in piedi, che guardandolo dice, con tono di rimprovero: “Tu sei stato fortunato perché la testa prelevata è quella di un tuo parente, perché se non era di un tuo parente tu saresti morto di paura”. “Fa il bravo, riportami indietro, riportami dove mi hai preso, e che sia finita lì. E non fare mai più queste cose”. Ritornando verso il cimitero, man mano che scendeva il peso diminuiva finché all’ingresso del cimitero non rimase che il solo teschio che ripose con cura al suo posto, recitando una preghiera di pentimento.
CONSIDERAZIONI:
Mi ricordo, dice Vittorio, che al Fredo dal Vaud (Alfredo Guglielminetti) mi prendeva per la schiena, alzava il coperchio
dell’ossario e faceva finta di cacciarmi dentro. Io vedevo tutti
quei teschi che mi “guardavano” e strillavo come un tacchino
dalla paura. Mia mamma, Tensi Erminia, diceva al Fredo:
“guarda che gli fai venire il …mal brut…”.
Rimella, Alpe Pianello prima della bocchetta (passo)
per Campello. Si notano sul pascolo i mucchi
di letame per la concimazione dello stesso.
1
Estratto da una registrazione fatta a Campello Monti il 7 agosto 2002.
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A U G U S T A
Gressoney-La-Trinité: Osservatorio
Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.)
WILLY MONTERIN
e precipitazioni nevose nella stagione invernale 2004/2005 sono state inferiori rispetto all’inverno precedente e
la temperatura media estiva è stata leggermente superiore a quella dell’anno precedente di conseguenza si è avuto un maggior regresso delle fronti glaciali del Monte Rosa e in particolare quella del Lys.
Nelle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni, degli anni 20042005, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e le variazioni frontali dei principali ghiacciai del Monte Rosa nella Valle di Gressoney e in quella di Alagna Valsesia.
L
TEMPERATURE MEDIE in °C all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) - 2004-2005
Gennaio
-4,4
-3,2
Maggio
6,1
8,3
Settembre
11,0
Febbraio
-2,0
-6,2
Giugno
12,0
12,4
Ottobre
5,6
Marzo
-1,7
-0,2
Luglio
11,9
13,6
Novembre
0,8
Aprile
1,9
2,6
Agosto
12,8
11,9
Dicembre
-2,5
MEDIE ANNUALI
4,2
10,0
6,0
-0,1
-4,6
4,2
PRECIPITAZIONI in mm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m1850 s.l.m.) - 2004-2005
Gennaio
103,6
45,7
Maggio
115,9
77,9
Settembre
15,4
Febbraio
75,3
10,2
Giugno
27,1
89,9
Ottobre
126,6
Marzo
18,0
37,2
Luglio
95,9
71,9
Novembre
169,2
Aprile
151,9
136,6
Agosto
138,5
133,1
Dicembre
38,1
TOTALI ANNUALI
1075,5
80,0
77,2
10,7
23,9
794,3
PRECIPITAZIONI NEVOSE in cm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola ( m 1850 s.l.m.) - 2004-2005
Ottobre
33
5
Gennaio
111
64
Aprile
204
Novembre
154
89
Febbraio
89
18
Maggio
54
Dicembre
118
64
Marzo
26
10
TOTALI
789
131
0
381
PRECIPITAZIONI NEVOSE in cm. alla Stazione Pluviometrica ENEL del Lago Gabiet (m 2340 s.l.m.) - 2004-2005
Ottobre
30
20
Gennaio
81
30
Aprile
215
201
Novembre
237
98
Febbraio
108
18
Maggio
79
18
Dicembre
73
98
Marzo
24
43
TOTALI
847
526
Altezza massima del manto nevoso:
D’Ejola (m 1850 s.l.m.) 08/04/2004:
17/04/2005:
cm 160
cm 85
Gabiet (m 2340 s.l.m.) 10/04/2004:
17/04/2005:
cm 238
cm 120
Variazioni annuali delle fronti glaciali dei Ghiacciai del Lys, di Indren e del Piode (valori in metri).
Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355)
Ghiacciaio di Indren (quota della fronte m 3089)
Ghiacciaio del Piode (quota della fronte m 2460)
2004
2005
-18,0
-1,0
-2,0
-34,0
-3,0
-3,0
— 50 —
A U G U S T A
Ghiacciaio d’Sudren - Settembre 2005 (foto Willy Monterin)
“ALPI-ALPS,
dal MONTE BIANCO
al ROSA
alle DOLOMITI”
Franco Restelli
e Teresio Valsesia
‘In un libro l’incanto delle Alpi’, le più belle
immagini dal Monte Bianco al Rosa alle Dolomiti: così è stata definita l’ultima opera di
Franco Restelli e Teresio Valsesia. Il libro
pubblicato da Macchione, offre più di duecento fotografie a colori di Franco Restelli,
e testi bilingue (italiano-inglese) di Teresio
Valsesia.
C’è la bellezza delle “cime di ghiaccio”, delle rocce, delle arrampicate, del lavoro dell’uomo, del paesaggio alpino nelle sue più variegate espressioni. Un volume che oscilla tra natura e cultura,
tra l’uomo e il suo ambiente di vita, in un delicato equilibrio che costituisce l’anima delle Alpi.
— 51 —
A U G U S T A
D’Gròsso Albezò
Alpenzu Grande
EUGENIO SQUINDO
ròsso Albezò in dialetto titsch o Alpenzu Grande in italiano o Arbenson nel vecchio Catasto
ed in piemontese, si trova in territorio di Gressoney-St-Jean a metri 1779 d’altezza. D’Gròssò
Albezò colpisce per la sua particolare posizione, infatti, è posto su un massiccio sperone roccioso in posizione dominante da dove lo sguardo si rivolge a nord
verso il Monte Rosa, a est agli alpeggi di Tschampenò e di
Ebiolò, a sud la piana di St-Jean fino Bieltschòcke.
Tale frazione è senza dubbio uno dei più caratteristici villaggi della Valle del Lys ed il grande fotografo René Williem, che nello scorso secolo riprese le immagini dell’intera Valle d’Aosta, lo definisce: “Il villaggio più bello di tutta la Valle d’Aosta”.
I due Comuni di Gressoney ed il locale Walser Kulturzentrum si stanno interessando per rendere l’intera frazione un museo permanente; il Comune di Gressoney-StJean, con il concorso finanziario della Regione, ha già acquistato le due case più tipiche. La frazione conserva infatti antiche case costruite in pietra e legno, i tipici stadel
montati sui funghi, il forno, la fontana e la cappella.
Gròssò Albezò è uno dei primi insediamenti delle popolazioni
walser. Il più antico documento che parla di questo promontorio risale al 1249 quando “l’alpeggio Alpenzu” apparteneva al conto Goffredo di Challant, che lo concesse in affitto per sette anni a Umberto di Biandrate, signore di molte terre in Valsesia. Il Conte di Challant teneva allora in feudo molte terre nell’alta Valle del Lys per conto del monastero vallesano di Saint Maurice D’Agaune. La frazione divenne poi un insediamento permanente delle popolazioni
walser con l’affitto ereditario. Di questo antichissimo insediamento non vi è rimasta traccia, le case hanno subito trasformazioni, quelle attuali risalgono al XVII secolo.
Si riscontrano nella frazione le tipiche case del XVII secolo,
in pietra e legno, adibite per il ricovero degli animali, dell’uomo, del fieno e granaglie, e gli stadel, riservati alla conservazione dei cereali, essi pure in legno ed isolati dal terreno con pilastri sormontati da un disco liscio in pietra. La più
antica porta sulla trave di colmo l’incisione dell’anno 1668.
Le case erano costruite con grossi tronchi scortecciati, si
notano ancora le case costruite con tronchi squadrati solo
con l’ascia.
Ad Albezò vi è l’unica casa in tutta la Valle del Lys dove il
fumo non si scarica sul tetto ma sul lato del muro con feritoie a forma di fungo.
La frazione è circondata da pascoli, prati, e un tempo da
campi di segale, orzo, avena e patate.
La popolazione di Albezò si dedicava alla lavorazione dei
campi, alla raccolta del fieno, al pascolo estivo nei sovrastanti alpeggi di Mòntél, Lòosche e Pénte, alla lavorazione
del latte, all’allevamento del bestiame.
Successivamente, quando il clima divenne più freddo e si
G
Gròssò Albezò en titsch, Alpenzu grande en
italienesch, Arbenson nach dem oalte kadaschter, éscht em gebiet von Greschòney St.
Jean òf 1779 meter. Gròssò Albezò éscht enneme schéne òrt òf òm felse wòa gsémò z’ganz
land, em nord de gletscher, nach est Tschampenò òn Ebielò,
sud d’äbené bés z’Bieltschòcke.
Das dòrf éscht oane zwifal eis von de schénschte òrte vòm
Lys tal, de fotograf René Williem voa hät fotografiert z’ganz
Aosta tal, bschtémt Albezò z’schénscht dòrf vòn éndscher Region.
De zwei gmeine von Greschòney òn z’walser Kulturzentrum
^
tiensché
enteressiere òm das z’ganz dòrf schéeme es ecomuseo. D’Gmein vòn St. Jean, mét der hélfe vòn der Region, hät
kauft zwei tipésche stadla. Z’dòrf tud ufhoalte oalt fettrésche
^
hi scher
bute mét holz òn stei, stadla mét der musblattò, de
bachhofe, de trog òn de tschappòlò. D’Gròssò Albezò éscht es
òrt voa heindsché éngstellt d’érschtò walser éwonra.
D’oaltschtò schréft woa redòt vòn déschem dòrf éscht vòm
1249, due de graf Gotfred vòn Challant hät verzieft z’dòrf
ver sébbe joar dem Umberto di Biandrate. Duezòmoal de
graf vòn Challant éscht gsid herr vòn wéll òrte em Lys tal.
Z’dòrf éscht cheemet bevonts z’ganz joar mettem erbschafte
zueft.
^
Weismò wenég vòn de oaltò zitte, d’hischer
sin verändrete
^
kanget, d’iezegò hi scher sin alle vòn XVII. joarhòndert.
^
Gsémò em dòrf d’hischer
bute mit stei òn holz ver de tiere,
ver d’litte, ver z’hei òn z’chòre, òn d’stoadla ver ufhoalte psònders z’chòre, ou d’stoadla sin bute me holz òn isòlierte vòm
bode mét es mandie òn en musblattò. Z’oaltsch hus hät òf
^
der férscht de datòm 1668. D’hischer
sin bute mét gròse en^
trennòte stamme, gsémò noch d’hischer
bute mét stamme
gschnétteté mét dem biel.
Of Albezò éscht z’einzég hus en der ganzò valleschò voa de
rouch tuet ni usgoa von enneme tach chemmé aber òf der
sittò.
Z’dòrf éscht gsid òmréngòtz vòn weide, matte, achra met roché, géerschtò, habre òn héerfia. D’éwonra vòn Albezò hein
g’wéerchòt d’achra, g’heiòt, g’hietet em sòmmer òf de alpe,
Mòntél, Loasche òn Pénte, g’chéschòt òn ufzochet z’fée.
Spétòr, ven z’klima éscht choalter, d’éwonra vòn Albezò, wie
schier d’ganzò greschòneiera, sin usgwandret en der Schwiz
òn en Titschland.
Valentin Curta en gim buech “Gressoney einst und jetztz”
schribt das em 1630, usgnomme, Orsiò òn Albezò, éscht
gsid en gròse pescht. Tiemò séege das z’soalz sigge kanget
usteilz met es leffelte wéll blòss en gwésse Bonda hät noch
kät es bétzié, veròm désche ma éscht gsid sotte liebe
heingmò gseid “Goldman”, in Perletoa d’familiò Bonda
éscht usgstòrbet.
Nach dem oalte kadaschter, em dòrf, em 1772 sin gsid vierze wonònge: vòn Bondaz Jean Joseph feu Pierre; vòn Marty
D’
— 52 —
A U G U S T A
entrò nel periodo denominato “la piccola glaciazione”, gli
abitanti di Albezò, come quasi tutti i gressonari, emigrarono in Svizzera e in Germania.
Curta Valentino nel suo libro “Gressoney einst und jetztz”
scrive: “Nel 1630, tranne a Orsia e ad Albezò, c’è stata una
grande peste. Si racconta che ad Albezò il sale sia stato distribuito tra gli abitanti con un cucchiaio, in quanto solamente un certo Bonda ne aveva ancora un po’. Siccome
questo F. Bonda fu così buono lo soprannominarono Goldmann (uomo d’oro). La famiglia si è estinta a Perletoa nella casa di Goldmann (Goldmannsch Haus)”.
Da un riscontro con il Catasto terreni e fabbricati di Gressoney-St-Jean del 1772 risulta che in tale data i fabbricati
nella frazione erano 14 appartenenti a: Bondaz Jean Joseph feu Pierre; Marty Jean Joseph Antoine feu Gille;
Marty Jean Joseph feu Valentin; Marty Jean Joseph feu
Antoine; Marty Joseph Antoine feu Jean Jacques; Menabreaz Jean Joseph feu Joseph; les hoirs de Jean Joseph
Menabreaz; Wall (Woale) Jean Valentin feu Jean Joseph.
Risulta anche censita la Cappella ricostruita nel 1863 per volontà del reverendo Guillome Zimmermann e dedicata a Santa Margherita. È censito un forno intestato a “Particulier de
Arbenson” È censito un mulino intestato a Mer François.
In quel periodo vivevano stabilmente ad Albezò 8 famiglie.
Era nativo di Albezò Anton Zimmermann che, dopo aver
frequentato un corso di mastro birraio nella Baviera, fondò
ad Aosta nel 1837 la birreria Zimmermann, e divenne un
ricco industriale.
Jean Joseph Antoine feu Gille; vòn Marty Jean Joseph feu
Valentin; vòn Marty Jean Joseph feu Antoine; vòn Marty
Joseph Antoine feu Jean Jacques; vòn Menabreaz Jean Joseph feu Joseph; vòn les hoirs de Jean Joseph Menabreaz;
vòn Wall (Woale) Jean Valentin feu Jean Joseph. Escht éngschrébné de tschappòlò bute vòm hér Guillome Zimmerman. Escht éngschrébné de dòrf bachhofe. D’miele vòn Mer
François. In déer zit sin z’ganz joar gwont of Albezò acht
familie.
Of Albezò éscht bòret Anton Zimmerman voa, nach der
brauerschud von Baiern hät gréndet z’Augschtal em 1837
d’brauerei Zimmerman òn éscht kéemet e riche gscheftsma.
Le prime case di Alpenzu e la cappella di santa Margherita, viste dalla sottostante mulattiera (Foto Guido Cavalli)
— 53 —
A U G U S T A
IN MEMORIAM
Lina Busso * 1913 - 2005
SARANNO “PAROLE” DA RICORDARE
l 20 settembre del 2005 si è spenta Lina, nacque a Spaichingen in Germania nel 1913, dove
la famiglia si era trasferita da Issime e dove il
padre svolgeva il lavoro di muratore, come
molti issimesi a quei tempi. Con lo scoppio della prima Guerra mondiale l’intera famiglia dovette tornare definitivamente al paese d’origine.
A nove anni, nel 1922, andò in servizio come pastorella all’alpeggio di Scheiti alle dipendenza di Christille Germain;
l’alpeggio comprendeva la parte della famiglia Christille e
quella della famiglia Linty conosciuti come Rowersch con
una mandria di 7-8 vacche. Il suo compito era pascolare,
portare letame sui pascoli e sui prati, e raccogliere legna.
Al mattino, dice Lina “Come colazione c’era caffè e latte e
un po’ di pane, e se ne volevi ancora aggiungevi della polenta fredda”.
Nel 1923 Lina passò a servizio presso la famiglia dei Pinhsch, Jon di Settimo Vittone (Piemonte), i quali conducevano un mayen al Bühl (della famiglia Goyet) e la montagna di Höischer (di proprietà della famiglia
Freppa del Gaby), guadagnò in quell’anno 60
lire per la stagione estiva. Negli anni ’20 del
‘900 prendeva per giornata di lavoro 3 lire, in
seguito 5. Dal marzo 1937 al giugno 1972 lavorò a ser vizio presso la famiglia Goyet ai
Preit, Giovanni e Vittoria Freppaz che possedevano 7-8 bestie; lavorò nei mayen (beerga) di Bech e Benikoadi, dove saliva in primavera, e in autunno, con il bestiame per
consumare il fieno ritirato nei fienili, per coltivare i campi di patate e segale e dove in luglio aiutava nella fienagione, così come nei
schelbiti (per la raccolta del fieno selvatico).
Lina svolse un lavoro che le permise di conoscere a fondo il territorio issimese, la sua
gente e la sua cultura. Abitò al villaggio dei
Preit e ultimamente im Duarf.
Lina è stata fonte preziosa, irripetibile e insostituibile per ricerche linguistiche e non
solo, fonte per la rivista Augusta e molte pubblicazioni, fonte per ricercatori impegnati per
lo più in ambito universitario: ricerche con-
I
centrate sulla toponomastica, sul lessico, sulla tradizione
alimentare, sulla storia socio-economica degli alpeggi, su
proverbi, espressioni e filastrocche. Col tempo si è preferito far scaturire l'espressione degli argomenti dalla sequenza naturale della conversazione piuttosto che obbligare Lina alla rigida alternanza dei turni di domanda e risposta. Dai testi di queste ultime interviste, trascritte e
analizzate dal punto di vista socio-linguistico, alcuni ricercatori hanno pubblicato saggi ora diventati testi obbligatori nei programmi d’esame di Linguistica e Socio-linguistica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e all’Università del Piemonte orientale. Famoso, conosciuto e
studiato da tantissimi studenti e docenti è un capitolo di
testo universitario “Quattro lingue una sola conversazione: un invito per il caffè ad Issime”. L’invito era in casa di
Lina im Duarf ad Issime. Lina è “salita in cattedra”, possiamo tranquillamente affermare!
Wol vergelzgott Gotta Lina, anzi “Cocca Lina” come tutti ti
conoscevano e chiamavano.
Nell’anno 2005 sono mancati
tre fratelli Busso, Felice, Clara e Lina.
Nella foto da sinistra a destra
Clara Busso, Maria Ronco
ved. Goyet “Gotta Méji”e Lina Busso.
Sono stati quattro issimesi
che il paese ha stimato e rimpiange,
anche per il cospicuo aiuto
dato all’Associazione Augusta
— 54 —
A U G U S T A
Don Giovanni Christille * 23 aprile 1924 - 5 marzo 2006
La comunità walser non può
non ricordare con ammirazione e rimpianto don Giovanni
Christille, canonico onorario
della Cattedrale di Aosta, originario di Issime, dove riposa
nella tomba di famiglia, i Pöitzersch di Kruasi.
Fin da giovane prete, il Vescovo gli aveva affidato gli incarichi più delicati e di grande responsabilità: dalla formazione
degli alunni del Seminario diocesano aspiranti al sacerdozio,
all’Azione Cattolica, alla direzione del settimanale cattolico
in tempi di vivave e non facile
partecipazione alle vicende
politiche e alle problematiche
ecclesiali degli anni successivi alla guerra e poi di quelli
della grande riforma dell’ulti-
mo Concilio della chiesa cattolica.
Fu pure parroco di Saint-Pierre (Aosta),
cappellano dell’Ospedale regionale e
missionario in Cameroum (Africa) dove
ha speso le sue ultime risorse spirituali, fisiche ed economiche per la promozione umana e spirituale di quelle popolazioni.
La rivista “Augusta” che apprezzava e
che leggeva con viva partecipazione, lo
affida alla memoria della sua comunità
walser che ha onorato con intemerata
testimonianza di vita e con intelligente
ed appassionato impegno perché “le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che sof frono,
siano pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”
(Cost. “Gaudium et Spes” del Concilio
Vat. II).
Simone Ronco * 1988 - 2005
Dar blljitzker tüat an junhen alper van Eischeme
Il fulmine uccide un giovane alpigiano di Issime
Z’ganz lann un ellji déi das hen piént un gschétzt Pétéretsch Simone un dschéin fammullju séin blljibben gstarriti wén dschi
séin gcheemen a wissu, im sunnatag z’nacht van da summer
Kannhe, das dar blljizker het tüat im streich Simone, as junhs
un roatschigs mandji sibbenzejierigs, séntsch das z’het gleit ous
in d’Mattu dschéin mentschi un dschéini chalber.
Né
Perfino il cielo piangeva
quando siamo venuti a guardarti
per l’ultima volta,
i minuti sono diventati ore
e le ore giorni. . . .
avrei voluto che ti rialzassi
da quel letto di morte
ma ciò non avvenne
e le lacrime mi solcarono il viso,
quella giovane vita spezzata
da un evento crudele.
Eri innocente e ingenuo
eri gentile e premuroso
eri mio amico
e hai lasciato un vuoto
nel cuore di tutti noi che
mai e poi mai potremo riempire.
Quel giorno non solo io
ma tutti abbiamo perso
una persona veramente speciale
ci manchi e sempre ci mancherai
un amico
L’intero paese e tutti quelli che hanno conosciuto e stimato
Simone Ronco e la sua famiglia sono rimasti esterrefatti,
quando sono venuti a sapere, una domenica sera di questa
estate, che il fulmine aveva ucciso sul colpo Simone, un giovane e promettente ragazzo di 17 anni mentre portava al pascolo, all’alpe d’Mattu i suoi manzi e i suoi vitelli.
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La chevrette vagabonde
Sur la colline désolée
Une chevrette inconsolée
Regarde la vôute étoilée
Qui va s’éteindre lentement,
Randis que la mantille rose
De l’aube fraîche à peine éclose
Bientôt sur les glaciers se pose
Dans un immense embrasement.
Et déjà la douce chevrette
Derrière le berger s’apprête
A rejoindre la tendre herbette
Dans les sous-bois pleins de fraîcheur,
Et parmi les grandes fougères,
Sur le beau tapis de bruyère,
Au milieu des senteurs légères
Biquette écoutera son coeur.
Et le cœur de la jolie folle
Lui parle des tendres corolles
Dont le parfum divin s’envole
Dans le frisson du vent d’été,
Il lui parle des sources claires
Qui sortent du lac solitaire
Et voilà que la téméraire
Désire avoir sa liberté…
Tratto da “ La chevrette vagabonde”, in “Murmures de la Doire” di Edmond Trentaz
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