Note e Rass.impaginate

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Note e Rass.impaginate
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2. - Il prezzo del silenzio per realizzare un servizio umanitario a favore dei perseguitati razziali: Croce Rossa e Vaticano nella seconda guerra mondiale.
1. - In presenza delle disumane tragedie verificatesi nel corso
dell’ultimo conflitto mondiale la Santa Sede e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) si trovarono a svolgere una missione di
difesa e protezione delle vittime civili oltre che militari del conflitto.
Ripetutamente sollecitate non solo ad intervenire ma a prendere posizione di fronte alle stragi e, in particolare, alla persecuzione antiebraica condotta nei Paesi soggetti al Reich germanico, queste due “internazionali del soccorso” improntarono il loro comportamento, rispetto al dilemma se denunciare o meno ciò che si stava verificando,
verso una identica linea di prudenza, senza riuscire in questo – secondo il giudizio di molti – «a opporre la resistenza che avrebbero
sperato» (p. 204). Inoltre, le due istituzioni pervennero alla medesima
risposta in modo disgiunto, nella convinzione che, di fronte alla possibilità di un aiuto limitato, una clamorosa protesta non avrebbe permesso di assistere più nessuno. Eppure per giungere a rapporti formalmente buoni e ad una fattiva collaborazione (iniziata già nella
grande guerra), Ginevra e Vaticano, come sappiamo ispirati da differenti orientamenti ideali, dovettero mettere da parte alcuni motivi di
diffidenza che nutrivano reciprocamente per la presenza nella Croce
Rossa di elementi massoni ed evangelici.
È significativo che, con queste differenze ideali e con qualche piccola rivalità, l’antico potere universale dei papi e la «prima organizzazione internazionale della storia contemporanea» (p. 8) – pur tra difficoltà e con il desiderio di mantenere distinti i campi di movimento – ritennero che la sola linea di azione fosse di agire in silenzio.
Una scelta che fu seguita dalla medesima critica per aver taciuto
di fronte allo sterminio degli ebrei, unito al sospetto di una Germania
come interlocutore privilegiato della Croce Rossa, questo anche per il
rifiuto di collaborazione messo in atto dall’Unione Sovietica. In effetti la Deutsches Rotes Kreuz (DRC), che fu la prima società di Croce
Rossa del mondo (cfr. p. 63), subì il processo di omologazione e asservimento riservato dal nazismo a tutte le istituzioni lasciate attive e,
per contro, poiché l’URSS non aderì alla Convenzione del 1929 sul
trattamento dei prigionieri di guerra, risultò impossibile intervenire in
Unione Sovietica. Ciò favorì la propaganda nazista, che poté utilizzare questo fatto e, nel contempo, operare un silenzioso sterminio dei
prigionieri sovietici, catturati in numero impressionante dalle forze
del Reich nel 1941, sterminio che «avviene fra la popolazione tedesca
e accanto alla nutrita delegazione del CICR di Berlino, che ne è pienamente cosciente» (p. 119).
2. - Come ha messo in luce Andrea Riccardi nella densa Prefazione a questa ricerca di STEFANO PICCIAREDDA, Diplomazia umanitaria.
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La Croce Rossa nella Seconda guerra mondiale (Bologna, Il Mulino,
2003, pp. 312): «Dopo la Seconda guerra mondiale, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha subito critiche simili a quelle rivolte a
papa Pio XII e ai suoi ‘silenzi’ sullo sterminio degli ebrei» (p. 10).
Le critiche nei confronti del Comitato Internazionale della Croce
Rossa giunsero subito con le prime rivelazioni concernenti la scoperta
dei campi di concentramento e l’«imparzialità fu messa in dubbio, la
prudenza tacciata di copertura, il costante ribadire di volersi limitare
ai propri obiettivi istituzionali venne ritenuto mancanza di coraggio e
di iniziativa» (p. 49).
Più tarde, ma maggiormente insistenti, sono invece le accuse nei
confronti della Santa Sede e, in particolare, dell’operato del pontefice.
Le reazioni a queste critiche risultarono diverse: il CICR fece la
scelta della trasparenza e mise a disposizione degli studiosi i propri
documenti, donando «copia della sezione di archivio relative alle questions israélites al Museo dell’Olocausto di Washington, perché ricercatori di ogni nazionalità potessero liberamente scandagliarla» (p.
184), mentre la Santa Sede si è chiusa in posizione difensiva, che torna a proprio danno, mostrando una sospettosa prudenza di fronte alla ricostruzionc storica, e anche gli Actes et documents du Saint Siège
relatifs à la Seconde guerre mondiale, pur ampi, risultano parziali,
come ebbi modo di porre in luce in altra sede (cfr. Un vescovo per la
guerra: l’azione pastorale del cardinale Boetto, arcivescovo di Genova (1938-1946), in “Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale”, a
cura di B. GARIGLIO, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 33-57, spec. p. 42).
3. - Di recente la documentazione conservata a Ginevra ha potuto essere utilizzata per questa originale ricerca di Stefano Picciaredda
e dall’indagine risultano evidenti una serie di considerazioni. In primo luogo che qualcosa si sapeva e, quindi, c’era il materiale per una
denunzia, ma che parimenti da un lato erano scarsi gli strumenti
normativi per tutelare i perseguitati razziali, trattandosi di civili e
non di militari, e soprattutto che il silenzio costituiva la condizione
per poter agire. Le informazioni non scarseggiavano: ad esempio relativamente al settembre 1944 troviamo una eloquente descrizione della
marcia di una colonna di internati: «Lungo le strade, per essere più
esatti lungo le piste polacche, che da Teschen portano ad Auschwitz,
abbiamo incontrato gruppi di uomini e donne, inquadrati dalle SS,
con la divisa a righe dei campi di concentramento, che formarono dei
piccoli Kommando. Tali Kommando lavorano sia nell’agricoltura che
nelle miniere. Queste persone, malgrado il lavoro all’aria aperta, hanno un colorito cinereo, smorto. Tutti marciano al passo, in fila per
quattro. Le guardie, il fucile sotto il braccio, sono della divisione Totenkopf. Ogni internato in campo di concentramento, maschio o femmina, ha un vestito di tela a strisce larghe, grigie e blu scolorite. Ma
non proveremo a dare conto dell’“atmosfera”. Ciascuno può immaginare queste colonne di forzati in cui non vi è alcun individuo, soltan-
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to dei numeri. Il numero è indicato sul pettorale e sul braccio sinistro. Le donne hanno sul vestito un camiciotto, gli uomini giacca e
pantaloni. Tutti portano un copricapo simile a un berretto basco.
Quando incrociano uno stendardo nero delle SS, un ufficiale o una
sentinella, gli internati si tolgono il berretto con un gesto meccanico,
molto rapido, e poi di nuovo, insieme, si ricoprono, con una sincronia
impressionante. Tutti questi crani rasati sono, visti da lontano, di una
somiglianza stupefacente. I loro volti, visti da vicino, con la testa nuda o con il berretto posato sulla fronte, appaiono smagriti e affaticati, ma se ne percepisce l’intelligenza. Senza muovere la testa, con gli
occhi ci scrutano con curiosità” (pp. 188-189).
Il Comitato «Al pari della Santa Sede, preferisce privilegiare l’efficacia alla denuncia; l’opportunità di aiutare poco, o molto, alla possibilità di elevare una protesta con voce autorevole, senza però aiutare nessuno. A giudizio dei responsabili del CICR questa è l’unica alternativa possibile» (p. 200). A fronte delle ripetute richieste presentate nella seconda guerra mondiale viene ribadita, il 19 giugno 1942,
la tradizionale linea di condotta che «Il CICR deve sempre più abbandonare una politica di protesta per consacrarsi con più efficacia ai
compiti concreti che è in grado di svolgere» (p. 21).
Come per il pontefice Pio XII, il silenzio di fronte ai crimini nazisti risultò il prezzo per realizzare un servizio umanitario da svolgere nell’imparzialità e non nel timore impotente di denunciare i crimini; una quasi impossibile neutralità diventa la condizione per superare le contrapposte frontiere del conflitto e raggiungere le vittime.
Ovviamente non si poterono comprendere le dimensioni del
dramma denominato “soluzione finale”, mentre risulta evidente che:
«Iniziative per casi specifici risultano più fruttifere rispetto all’interessamento per una intera categoria di persone. Tuttavia l’operato dei
delegati è limitato da decisi colpi di freno che giungono da Ginevra.
La preoccupazione che un’insistita azione in favore di una categoria
non protetta dalle convenzioni possa nuocere alla tradizionale attività
di intermediazione e soccorso prevale nettamente fino agli ultimi mesi
del 1944» (p. 172). In questo senso, come sottolinea Picciaredda:
«L’intervento di Ginevra è netto e ribadisce una strategia decisa da
tempo nei confronti della questione ebraica» (p. 170).
Gli spazi per eventuali denuncie sono limitati dalla convinzione
che le dichiarazioni pubbliche e le denuncie avrebbero impedito di
trovare quel linguaggio comune per comunicare con tutti i Paesi coinvolti e reso l’interlocutore più rigido, restringendo quindi gli ambiti di
manovra. In tal senso è chiara una direttiva del gennaio 1943: «Al riguardo, ritengo dobbiamo rinunciare, per il momento, a ottenere notizie degli ebrei, dato il categorico rifiuto ottenuto; in compenso, la
porta non è chiusa per azioni di soccorso in paesi occupati come Ungheria e Romania, dove le società nazionali di Croce Rossa sembrano
disposte a collaborare» (p. 199).
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D’altra parte, come già osservato, nessuno strumento del diritto
internazionale assicurava protezione in favore dell’opera dei perseguitati razziali né prevedeva un intervento diretto della Croce Rossa,
trattandosi di questioni che attengono agli affari interni di uno Stato
sovrano e che esulano dall’applicazione delle Convenzioni e già dal
1933 il CICR si pose il problema della delicatezza della questione se
intervenire o meno «in favore dei detenuti politici in Germania» (p.
64). Posizione questa che troviamo espressa ancora in una missiva del
maggio 1944: «Vi ringraziamo per gli sforzi compiuti allo scopo di ottenere l’autorizzazionc ad accedere nei camps d’Israélites, ma ci sembra utile richiamare la vostra attenzione sul fatto che tali questioni
debbono essere trattate con estrema riservatezza. [...] Sarebbe
senz’altro interessante per il Comitato conoscere le categorie di detenuti presenti in campi di quel genere, ma è meglio evitare di richiedere ufficialmente la visita di codesti campi. Richieste di questo genere
esulano dalle competenze dcl CICR, che non può fondarsi, per sostenerle, né sulla Convenzione di Ginevra, né su un costume riconosciuto dai belligeranti. Non bisogna dimenticare che, alla lettera della
Convenzione, soltanto i campi per prigionieri di guerra e internati civili sono oggetto di controllo da parte del Comitato. E’ dunque su tali categorie di campi che deve concentrarsi in primo luogo l’interesse
dei delegati, e conviene evitare iniziative che vadano oltre il nostro
tradizionale campo di attività, compromettendo le nostre possibilità di
intervento in favore di prigionieri e internati» (p. 170).
Altro documento, del novembre 1943, ribadisce che l’azione di
soccorso in favore di una categoria non protetta dalle convenzioni potrebbe nuocere all’attività generale: «Il problema ebraico è infatti
considerato dalle autorità tedesche come strettamente attinente alla
politica interna. Qualsiasi aiuto o intervento esterno, fosse soltanto
nel campo umanitario, è ai loro occhi indesiderabile. Tale riserva, che
siamo costretti a imporci, è imperativa, dal momento che non vogliamo rischiare, a causa di un’attività troppo appariscente, di nuocere
alle persone che desideriamo soccorrere. Purtroppo, dati i particolari
aspetti del problema, non è da escludere che azioni effettuate con le
migliori intenzioni sortiscano effetti opposti» (p. 166).
4. - Dalla ricostruzione del Picciaredda emerge che qualche volta
l’insistenza di singoli rappresentanti della Croce Rossa a livello locale
è produttiva, grazie al prestigio dell’istituzione, ma risulta rischiosa e
viene pertanto disapprovata da Ginevra: «Sembrerebbe che tali interessamenti non abbiano l’efficacia sperata, a causa del rigido e minaccioso diniego tedesco di fronte a ogni richiesta di spiegazioni. I documenti mostrano invece che l’insistenza paga. Fossoli non resta impenetrabile, né è impossibile trovare soluzioni ad alcuni casi particolari. Iniziative per casi specifici risultano più fruttifere rispetto all’interessamento per una intera categoria di persone» (p. 172).
Operazione anch’essa non esente da pericoli, infatti – come si afferma in una nota del dicembre 1943 – «Accade talvolta che alcuni
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ebrei riescano a rifugiarsi in posti poco frequentati, e inchieste fatte
su di essi hanno il solo risultato di concentrare su di loro l’attenzione
delle autorità» (p. 167). Da questa ricerca viene in evidenza ancora
una volta la particolare situazione dell’Italia e soprattutto di Roma,
specialmente dopo il 1943 allorché «Gli interlocutori istituzionali del
CICR sul territorio italiano si moltiplicano: ci sono il regio governo di
Badoglio, riparato a Brindisi; il comando alleato; le autorità tedesche
di occupazione; il governo fascista della RSI» (p. 155).
A Roma la situazione è complicata e, di fronte all’ipotesi di un
massiccio intervento di aiuti per la città, da Ginevra si osserva che:
«Se il Comitato intraprendesse un’azione in favore di Roma, città appartenente a un paese belligerante, sarà richiesto di nuovi interventi,
in favore di altre città e altri paesi, magari in Francia, dove le condizioni alimentari sono diventate estremamente precarie» (pp. 160-161).
Da un lato, per il bene dei prigionieri bisogna mantenere contatti con le diverse Italie, come pure cercare di rendere possibili i collegamenti epistolari tra Nord e Sud con le famiglie divise dal fronte interno e «le missive provenienti dalle zone di occupazione tedesca sono
inviate per posta a Ginevra, da lì trasportate in camion a Marsiglia e
quindi imbarcate su battelli della flotta del CICR alla volta di Lisbona. Dalla capitale portoghese aerei alleati assicurano il servizio postale verso Algeri, dove la corrispondenza viene smistata per le diverse
destinazioni» (p. 157).
Dall’altro, vista la presenza del Vaticano, vi fu la preoccupazione
di non sovrapporre i rispettivi campi di azione poiché non mancarono
occasioni di intralcio, come nel caso in cui: «Grazie agli accordi tra
Santa Sede e Gran Bretagna, infatti, il Vaticano riceve informazioni
sui prigionieri in tempi relativamente brevi, fatto, questo, che spinge
le famiglie a rivolgersi al papa piuttosto che alla Croce Rossa o al governo, per ottenere notizie» (p. 153).
5. - Nonostante l’impegno per conservare questa «imparzialità,
che diviene sinonimo di affidabilità» (p. 36), il CICR paga un prezzo
altissimo, tanto che anche per questi silenzi dopo il conflitto sono sorte altre organizzazioni umanitarie più sulla linea della denuncia; infatti la seconda guerra mondiale «provocò disastri talmente enormi da
mettere seriamente in discussione la sopravvivenza di un’istituzione
come il CICR, nata nel secolo precedente, quando gli orizzonti del
mondo erano limitati e la guerra un’altra cosa» (p. 50).
Oggi di fronte al ricordo dell’olocausto continuiamo a chiederci:
cosa si poteva fare e se la questione della persecuzione antiebraica,
ma anche le altre atrocità commesse dal nazismo, furono affrontate in
modo consapevole. E ancora se fu meglio la prudenza o si doveva scegliere il percorso della denunzia. “L’imparzialità fu messa in dubbio,
la prudenza tacciata di copertura, il costante ribadire di volersi limitare ai propri obiettivi istituzionali venne ritenuto mancanza di coraggio e iniziativa” (p. 49).
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L’estrema cautela e l’azione quasi felpata di questo «intermediario neutrale» (pag. 58) al servizio delle vittime dei prigionieri e degli
stessi governi, ma attivo senza essere né giudice né arbitro, impregnato di etica umanitaria di matrice ottocentesca, pervaso di spirito protestante e prudenza svizzera, moderazione borghese e spiccata sensibilità filantropica – «Un gruppo di dirigenti, ginevrini e svizzeri, inizialmente protestanti e in parte massoni in seguito di varie tendenze
religiose e filosofiche, ma sempre elvetici» (p. 8 della Prefazione Riccardi) –, risulta inadeguato di fronte agli stermini di massa pianificati tecnologicamente, con il coinvolgimento dell’apparato industriale.
«Situazioni non previste dalle convenzioni e diverse da ogni trascorsa
esperienza avrebbero richiesto risposte nuove, che prudentemente il
Comitato dilazionò» (p. 49).
Forse il Comitato internazionale della Croce Rossa (descritto dal
Picciaredda «più simile all’originale ottocentesco che a quello oggi in
carica: un gruppo ristretto di uomini – e quattro donne – omogeneo
per estrazione sociale, appartenenza religiosa, tendenze politiche» (p.
44), nonostante un allargamento di questa dirigenza fosse avvenuto
nel 1943) non trasse una lezione sufficiente dalla prima guerra mondiale, che pur vide in misura rilevante la questione della protezione
della popolazione civile dagli eventi bellici. Conflitto in cui «la proporzione di vittime civili era stata maggiore rispetto ai conflitti passati, annunciando così quel cambiamento che avrebbe contraddistinto le
guerre del Novecento: l’elevato coinvolgimento della popolazione non
militare, in misura sempre crescente» (p. 55). Il coinvolgimento dei civili segna pesantemente i conflitti contemporanei e «La guerra si rivelò molto diversa dalle previsioni dei responsabili della Croce Rossa,
per la sua estensione, per l’ampiezza del dramma umano, per le atrocità commesse e delle quali giunse eco a Ginevra, come accadde per lo
sterminio degli ebrei» (p. 49).
Sono interrogativi che non avranno risposta, anche perché risultano metastorici; ormai i protagonisti di quelle vicende sono scomparsi e restano le carte d’archivio non tutte disponibili e non interamente fedeli; ma, pur con i limiti, è certo che lo sforzo assistenziale del
Comitato Internazionale della Croce Rossa fu assai ingente e nel giugno 1947 gli schedari dell’Agenzia centrale dei prigionieri di guerra
(creata allo scoppio del primo conflitto mondiale e sancita dalle Convenzioni di Ginevra del 1929 che riservavano al Comitato il compito
di renderlo operative nel corso di ogni conflitto) contenevano circa 36
milioni di schede, ciascuna relativa a un militare, a un civile catturato, internato o deceduto, rispetto ai 7 milioni di schede della grande
guerra (cfr. pp. 44-45). «Una miniera di informazioni, alla quale poterono attingere migliaia di famiglie in tutto il mondo in attesa di notizie dei propri congiunti, militari e civili» (p. 53). Il tutto con un costo pari alla «somma spesa dai belligeranti per finanziare venticinque
minuti di guerra» (p. 54).
GIOVANNI B. VARNIER