Il sistema politico continua a dimostrare la propria

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Il sistema politico continua a dimostrare la propria
Il sistema politico continua a far finta di non capire che la riforma della giustizia è
nell’interesse di tutti.
Cadono nel vuoto le parole del Capo dello Stato sulla necessità di una riforma complessiva della
giustizia, o meglio: cadono sulle spalle di una classe politica, vecchia e nuova, che si rifiuta di
comprendere che il problema dei rapporti tra il cittadino e lo Stato passa per l'assetto costituzionale
della magistratura ma non appartiene a nessuno schieramento e non dipende da una sentenza, ma
dalla crisi complessiva del sistema giudiziario che dura da decenni. Del resto la posizione del
Presidente della Repubblica non è nuova, essendo stata più volte ribadita nel corso del suo primo
settennato, ed il fatto che sia venuta all'indomani della sentenza della Cassazione su Berlusconi
serviva solo a sottolineare che la stessa prescinde dalle contingenze di questo o quel processo. Il
problema esiste, ci ha detto il Presidente Napolitano, inutile nascondere la testa sottoterra, e
nessuna valutazione di opportunità lo potrà rimuovere; e bene ha fatto il Capo dello Stato a
rammentarlo posto che la classe politica, invece, continua a trattare la questione della riforma del
titolo IV della Costituzione alla stregua di una contesa da cortile mentre la magistratura rifiuta, in
maniera ottusamente conservatrice, persino che se ne discuta.
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Quando ancora le parole del Quirinale erano state appena pronunciate, è iniziata infatti la solita,
trita, esibizione di luoghi comuni e banalità intrise di analfabetismo giuridico ed istituzionale, che
da anni si ascolta quando si affronta la riforma della giustizia. Accanto alla immediata, quanto
intollerante, posizione della magistratura più o meno associata, che con il consueto riflesso
pavloviano ha sfoderato i soliti cliché a sostegno del paradossale argomento secondo il quale la
Costituzione, là dove riguarda quell'ordine, sarebbe "intoccabile" (aggettivo che con lapsus
freudiano finisce per svelare il nocciolo ultracorporativo della posizione), subito si sono poste le
voci di una parte dello schieramento politico che pure, in tempi risalenti, vedi la Bicamerale, aveva
ben compreso che lo Stato non si riforma se non si interviene anche sullo statuto della
magistratura. Ed invece, incapace di sottrarsi ad una sorta di incongruo riflesso condizionato, e
comunque di resistere alla vulgata ultra populista delle nuove formazioni con le quali è in
competizione, il maggior partito di sinistra si é immediatamente espresso, attraverso suoi
qualificati esponenti, sfoderando il più vieto armamentario con il quale si confondono i termini
delle questioni. Ciò è avvenuto tanto sulla terzietà del giudice, che solo la separazione delle
carriere può realmente garantire, che sulla indipendenza della magistratura, che una riforma
ordinata contribuirebbe a rafforzare innanzi tutto al proprio interno, così come sulla obbligatorietà
dell'azione penale, che una sinistra realmente moderna dovrebbe affrontare in nome
dell'eguaglianza dei cittadini e non in difesa dei privilegi castali delle procure. Non paga di aver,
anche sulla sua pelle, sperimentato l'incontrollato ed incostituzionale protagonismo politico di
Procure e Procuratori, la sinistra vecchia e nuova si rifiuta per l'ennesima volta di essere parte
attiva di un discorso sullo Stato che pure la dovrebbe vedere protagonista, preferendo rifugiarsi
nella difesa dell'esistente, secondo il copione stantio degli ultimi anni. Come se quel che esiste nel
nostro Paese, in tema di giustizia e specificamente sul punto dell'equilibrio dei poteri, fosse il
migliore dei mondi possibili quando è vero il contrario ed anche a sinistra lo si sa perfettamente.
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A destra, e anche questa non è una novità, si evoca uno scenario apocalittico, che si scopre, però,
solo quando il cataclisma si verifica nel proprio cortile, salvo accantonarlo con altrettanta
determinazione quando si avrebbe la possibilità concreta di intervenire con riforme di ampio
respiro, come avvenuto nella scorsa legislatura. Oggi il refrain è che bisognerebbe avere la
maggioranza assoluta per riformare la Giustizia, quando invece basterebbe evitare di discuterne
solo per interesse di parte, finendo così per offrire i migliori - o forse solo i meno vieti - argomenti
ai fautori dell'immobilismo. Oggi si dice che la questione è una conditio sine qua non, ma fino a
ieri ogni possibile scorciatoia è stata seguita pur di contrattare una via di uscita giudiziaria per le
vicende dell’ex premier, pagando il prezzo della mancata riforma come unica moneta, avariata, nei
rapporti con la magistratura. Oggi si impugnano di nuovo, ma come clave da utilizzare contro la
magistratura, armi che hanno una loro storia, una loro dignità scientifica, una collocazione alta nel
pensiero giuridico, come la separazione delle carriere, oppure il controllo democratico
sull'esercizio dell'azione penale, o infine l'architettura costituzionale sui nodi della separazione tra
poteri, ma lo si fa in maniera strumentale, finendo per danneggiare battaglie che pure si dichiara di
voler combattere. Ma sopratutto, e per l'ennesima volta, si scolora nei tempi e nei modi
un’iniziativa che dovrebbe essere condotta in nome di tutti e non legandola al destino personale e
giudiziario di un leader. Una vicenda di cui si dovrebbe ricordare il respiro europeo ed
internazionale, visto che il fenomeno della esondazione del giudiziario non è solo italiano, ma che
si immiserisce unendola a richieste di soluzioni giudiziarie per il capo di quello schieramento,
come la grazia, che finiscono per minare i richiami giustamente super partes del Quirinale. Un
capitolo che si dovrebbe aprire spiegando che l’obiettivo di fondo è uno Stato moderno e liberale,
in cui la giurisdizione non può che essere libera, ma al tempo stesso aliena da invasioni di campo,
e la politica realmente rispettosa di quella libertà ma anche pronta a difendere il proprio primato
democratico.
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In realtà quello che si mette in scena in questi giorni è solo l' ennesimo capitolo della saga, tutta
italiana, che ha visto la politica giudiziaria di un grande paese democratico piegata ai calcoli di
parte, dell'uno e dell'altro schieramento, e legata a triplo filo alle vicende giudiziarie di singoli
personaggi politici; con la magistratura a fare da arbitro non solo delle contese giudiziarie ma
anche di quelle politiche. In altro modo non si possono che leggere molti passaggi storici, come la
stagione di tangentopoli, ovvero i casi sempre più frequenti in cui al controllo di legalità si è
deliberatamente sostituto un vero e proprio controllo di eticità, in nome di una "questione morale"
sacrosanta quando la si pone in politica ma eversiva quando viene trasfusa in ambito giudiziario.
Una saga ben più che ventennale, per la verità, non legata all'ingresso in campo di Berlusconi ma
alla progressiva ed ingravescente debolezza della politica la cui perdita di consenso ha coinciso
con l'invasione di campo, ripetuta e spesso - addirittura - rivendicata, dell'ordine giudiziario.
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Ed allora, sia detto tanto alla destra che alla sinistra, visto che la responsabilità del livello del
dibattito va equamente divisa, lo scandalo civile di questi mesi, semmai, non è stato quello di
discutere della questione della riforma costituzionale della giustizia dopo la condanna di
Berlusconi, quanto quello di averla accantonata al momento della formazione di un governo che
pure aveva tra i suoi punti qualificanti proprio la revisione della forma dello Stato. Il paradosso
democratico cui abbiamo assistito in questi mesi – e che, purtroppo in solitudine, abbiamo
denunciato – è stato, infatti, quello di avere messo da parte - sull'altare di una " divisivita' " che
sarebbe meglio definire tout court incapacità ed inadeguatezza della politica italiana - uno dei
problemi più significativi che non si riesce a risolvere da almeno 50 anni: quello dei rapporti tra
poteri dello Stato. Un’inettitudine non nuova, che ciclicamente si palesa dai tempi della prima
Repubblica, con il fallimento delle commissioni Bozzi e De Mita, alla seconda, con la mortificante
esperienza della commissione D'Alema. In tutti questi casi una classe politica debole e divisa si è
arresa all’oukase della magistratura a non toccare il proprio statuto, imposto anche attraverso
manifestazioni sicuramente al di fuori della Costituzione, come il fax con il quale 70 procuratori
della Repubblica intimarono alle Camere di non occuparsi della magistratura stessa, proprio ai
tempi della Bicamerale; documento rimasto agli atti parlamentari a testimonianza imperitura di
una pagina vergognosa della storia repubblicana.
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Di fronte a tutto questo non resta che rivolgersi ai cittadini, nel tentativo di fare quel che in un
Paese ordinato sarebbe compito della classe politica: informare sui reali termini delle questioni sul
tappeto, orientare scelte consapevoli e nette, ma soprattutto saper immaginare e progettare un
futuro non immerso nelle visioni anguste, provinciali e particolari che offre il presente. Per questo
l’Unione delle Camere Penali, cioè quella parte della avvocatura che si batte da anni per una
revisione organica e moderna del sistema giudiziario, e che in passato combatté in solitudine la
battaglia per l’affermazione del Giusto Processo, ha accettato di far parte del comitato promotore
dei referendum, per aprire innanzitutto un grande dibattito politico sul tema giustizia. Per questo
saremo impegnati avanti ai tribunali nella raccolta delle firme su questioni fondamentali
(separazione delle carriere, ergastolo, custodia cautelare, responsabilità civile dei magistrati,
magistrati fuori ruolo) che la politica accantona. Per questo, oltre che per contrastare il livello
indecente della tutela dei diritti umani nelle carceri, faremo sentire con forza la nostra voce alla
ripresa delle attività giudiziarie.
Roma, 5 agosto 2013
La Giunta