nante, Joe Boyd. Soprattutto negli anni Sessanta, quando

Transcript

nante, Joe Boyd. Soprattutto negli anni Sessanta, quando
JOE BOYD
La frase con cui si chiude il libro è la negazione esplicita del vecchio
adagio a proposito dei sixties. Lei scrive: “io c’ero, e mi ricordo”. A
parte aver preso la precauzione di “non stonarsi troppo”, come ha
fatto a conservare una memoria così nitida di episodi accaduti più di
quaranta anni fa? È sempre stato un buon archivista di se stesso?
Non ho mai tenuto diari. Gran parte del libro nasce da ricordi che
non ho mai appuntato da nessuna parte. D’altra parte, è anche vero
che molte di quelle storie le ho raccontate più volte nel corso degli
anni, durante interviste radiofoniche o magari a cena con gli amici.
Una persona che conosco, volendo farmi un complimento, mi ha
detto: “ehi, grande, c’erano perfino delle storie che non avevo mai
sentito!” Credo di aver scritto questo libro nella mia testa infinite
volte. Una delle ragioni per cui mi sono deciso a pubblicarlo era che
sempre più spesso venivo interpellato a proposito di Dylan, di Nick
Drake, dei Pink Floyd ecc., e ormai quegli aneddoti si stavano logorando. Meglio fissarli su carta prima che diventassero troppo triti.
Con una certa umiltà, e una buona dose di understatement, lei
scrive di essere totalmente appagato dal ruolo di “eminenza grigia” che si è ritagliato durante la sua lunga avventura nel mondo
musicale. Cosa la attira, in particolare, nel ruolo di chi sta dietro
le quinte?
ILMUCCHIOSELVAGGIO
Ha avuto una vita strana e affascinante, Joe Boyd. Soprattutto negli
anni Sessanta, quando - nelle molteplici vesti di produttore, manager
di artisti, discografico, proprietario
di locali e animatore contro-culturale - ha attraversato da protagonista
un’indimenticata stagione di suoni,
colori e rivoluzioni sospese nell’aria.
Le sue esperienze di quegli anni
sono raccontate in Biciclette bianche, lo splendido memoir (pubblicato recentemente in Italia da
Odoya e recensito sul numero scorso) che ci ha offerto l’opportunità
di chiacchierare con il sessantottenne gentiluomo bostoniano.
di Carlo Bordone
Il primo per cui venne coniata la definizione “éminence grise” fu il
cardinale Richelieu. Lo scoprii studiando storia al liceo, e mi piacque
quell’immagine. In realtà non è che ho vissuto la mia vita preoccupandomi di attirare o di respingere le attenzioni. Più che altro, ho
cercato di pagarmi l’affitto facendo un lavoro di cui potessi essere
orgoglioso. Ora sono il manager di me stesso, ma fino al 2001 mi
sono sempre preoccupato di gestire un’etichetta, promuovere artisti
o svolgere altre attività legate al business musicale. La maggior parte
della gente, del resto, non legge i nomi dei produttori sui dischi. Una
grande soddisfazione, per me, è stata incontrare ai reading persone
che mi facevano firmare album su cui ho messo le mani, e contemporaneamente mi dicevano “non avrei mai immaginato che li avesse prodotti lei, prima di leggere il libro”.
Quanta era cosciente dell’importanza epocale di certi avvenimenti, nel momento stesso in cui ne era parte? Come tanti di quelli
che si sono persi gli anni Sessanta, mi ha sempre colpito il modo
in cui la gente in quel periodo vivesse esclusivamente per
il presente, per l’hic et nunc. Non è ironico che proprio
quella generazione sia quella che oggi coltiva maggiormente il culto del (proprio) passato?
Credo che il grande cambiamento rispetto a quei tempi sia
di natura economica. I sixties erano un’epoca privilegiata.
Molta gente era in grado di vivere vite meravigliose con
pochi soldi in tasca, tutto costava molto meno.
Naturalmente, noi rappresentavamo un’elite. Ma non
un’elite economica. Non c’era bisogno di essere ricchi per inseguire i propri sogni. Molti lo hanno fatto rimanendo nelle loro cittadine o nei loro villaggi. Oggi tutti vogliono diventare famosi,
tutti vogliono i loro cinque minuti in televisione, tutti vogliono
diventare ricchi e ciò crea un’onda generalizzata di stress da prestazione. In quegli anni ce ne fregavamo, il mondo era ottimista.
Oggi la mia generazione è diventata molto brava a raccontarsi la
propria favola, questo è vero, ma per un breve momento quel
modo innocente di guardare alle cose è stato davvero genuino.
Nonostante ciò, durante l’esibizione di Dylan a Newport ci rendevamo conto che dal giorno dopo tutto sarebbe cambiato. La
Londra psichedelica del ’66/’67, invece, era eccitante proprio perché sentivamo che era importante, ma non sapevamo quanto
importante. Il futuro si stava scrivendo in diretta, ed eravamo noi
a poterlo fare.
Quando, di preciso, è finito il sogno dei sixties? Avrebbe forse
potuto durare un po’ più a lungo?
Quel sogno è durato. Dura ancora oggi. Le nostre vite sarebbero
molte diverse senza le conquiste di quegli anni. Vai a fare la stessa domanda a un qualunque politico di destra, vedrai quanto
anche solo il nominare quel periodo lo farà andare in bestia!
Storicamente, l’innocenza e l’ottimismo sono spariti alla fine del
1967. C’è stata poi ovviamente una lunga coda, piena di cose
belle che tuttavia si portavano dietro un rovescio della medaglia
fatto di negatività e violenza. Ho rivisto di recente il film sul concerto degli Stones a Hyde Park, nell’estate del ‘69: si vedono solo
volti distesi, persone amichevoli e colorate, persino gli Hell’s
Angels sembrano pacifici. Pochi mesi dopo ci sarebbe stata
Altamont.
C’era evidentemente una dark side anche in quel periodo di luce
e di positività. Non pensa che alcuni personaggi geniali e tormentati con cui lei ha incrociato il cammino - Drake, Barrett, Mike
Heron e Robin Williamson, Sandy Denny, John Martyn - in qualche modo l’abbiano incarnata, quella zona d’ombra, con i loro
comportamenti autodistruttivi?
Le zona d’ombra esistono in ogni periodo storico, e nella vita di
chiunque. Quel che penso è che in un’era di assoluta libertà come
quella si tendeva a essere molto meno attenti a se stessi e alla propria salute. Si pensava di poter rimanere eternamente giovani.
Qualcuno avrebbe potuto andare prima da uno psicologo, qualcun
altro, come Sandy, avrebbe potuto disintossicarsi dall’alcol e forse
le cose sarebbero andate diversamente. Ma se prendi uno come
John Martyn, ti rendi conto che è stato autodistruttivo fino alla fine
dei suoi giorni, non solo negli anni Sessanta. Syd e Nick erano
entrambi dei geni visionari, in anticipo sui loro tempi. Quando Syd
è morto, mi è capitato di ascoltare una sua intervista radiofonica
della primavera del 1967, poco prima del suo tracollo. Mi ha commosso perché mi ha ricordato che ragazzo brillante, e allo stesso
tempo assolutamente normale, fosse Syd prima di diventare l’anima torturata che puoi ascoltare sui suoi dischi.
E Nick? Cosa pensa dell’eredità che ha lasciato? Avendolo conosciuto, non trova irritante il mito romantico e un po’ morboso che
gli è stato cucito attorno?
Prima di tutto Nick era un musicista formidabile, e questo
non viene mai sottolineato abbastanza. È vero: chi lo ascolta
proietta su di lui determinate idee di decadenza e di malinconia, ma è evidente che una certa visione morbosamente
romantica gli era propria fin dall’inizio. Basta leggere testi
come Fruit Tree per rendersene conto. La sua realtà era però
l’esatto opposto: negli ultimi anni Nick era un uomo spaventato e infelice, di romantico non era rimasto più nulla.
La sua condizione di americano espatriato in Europa ha influenzato
il modo in cui osservava ciò che le accadeva attorno, negli anni
Sessanta?
Ci pensavo raramente, a dire la verità. Tutti i miei amici a Londra
erano inglesi. Mi divertiva essere un “visitatore”, ma d’altro canto ho
sempre cercato di avere a che fare con le diverse culture in base ai
loro caratteri peculiari. Cercando di esserne parte, piuttosto che
osservandole dall’esterno. A quei tempi era più facile ottenere un
visto: oggi sarebbe complicato trasferirsi a Londra dagli States per
fare il manager di musicisti. Ammetto comunque che un po’ del
famigerato ottimismo yankee mi è stato utile, in quegli anni.
L’atteggiamento pragmatico di chi pensa che tutto può essere risolto e tutto può essere migliorato mi ha salvato in molte occasioni.
Ci sono nel libro molte pagine dedicate alle differenze culturali tra
Inghilterra e Stati Uniti, soprattutto per quel che riguarda il rapporto
con le rispettive tradizioni musicali…
Nel nostro mondo globalizzato le differenze si sono attenuate, ma
rimane il fatto che le tradizioni sonore americane sono inseparabili
dall’Africa. Per questo i ritmi della musica americana - più o meno
qualunque musica americana - tendono a essere più sensuali e a
suonare più moderni se comparati a ciò che nasce dal retaggio folk
britannico. Negli ultimi quarant’anni c’è stato un influsso notevole
della cultura giamaicana sulla musica inglese, tanto che oggi
potremmo persino far rientrare il reggae e i suoi derivati nel concetto di “folk”, che per altri versi è in una fase di revival. Insomma, i
confini non sono più così netti come nel periodo che racconto nel
libro, ma le diversità permangono.
Ci sono ricordi che si è volutamente censurato?
Non esattamente. Diciamo che ho messo da parte parecchi avvenimenti più “personali”. Volevo raccontare solo i fatti e le cose che
avvenivano intorno a me, piuttosto che la mia vita. Ma non si tratta
di autocensura, quanto di saper giudicare cosa può interessare davvero un lettore. Dedicare un capitolo a quel giorno del 1968 in cui
presi l’lsd con una mia fidanzata potrebbe dare origine a una lettura interessante solo se scritta magnificamente. Io sarei stato capace
di tirare fuori giusto qualche pessimo cliché sixties.
Ci sarà un secondo volume di sue memorie, magari sottotitolato
“fare musica negli anni Settanta”?
Non proprio. Sto scrivendo un libro sulla world music che includerà
alcune mie esperienze nel campo relative a quel periodo o subito
dopo, ma gli anni Settanta non sono stati un periodo entusiasmante per me: solo un sacco di frustrazioni e di fallimenti...
Pensa che l’industria musicale, così come l’ha conosciuta lei, avrà
ancora un futuro?
L’industria musicale no. La musica sì, quella ci sarà sempre.
Attualmente sono affascinato dal fiorire di tutto ciò che ha a che fare
con la musica suonata dal vivo. Pensa allo straordinario successo
dei festival. Ma per l’industria è finita. E prima spariranno le grandi
corporation, meglio sarà per tutti.
In due parole, cosa sono stati gli anni Sessanta per lei?
Libertà e ottimismo. Esattamente ciò che manca al mondo, oggi. 135