05 TASSAZIONE DEI LAVORATORI ITALIANI ALL`ESTERO 5.1

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05 TASSAZIONE DEI LAVORATORI ITALIANI ALL`ESTERO 5.1
05 TASSAZIONE DEI LAVORATORI ITALIANI ALL’ESTERO
5.1 CONCETTO DI RESIDENZA
Prima di iniziare l’esame della tassazione dei lavoratori italiani
all’estero conviene chiarire il concetto dello “status” di “residente”
o “non residente”.
Tale status ha rilievo sotto un duplice profilo:
a) come sostituto d’imposta, in quanto sia obbligato ad effettuare
le ritenute fiscali;
b) come persona fisica lavoratore dipendente.
Si osserva che lo “status” di residente comporta la tassazione della
persona fisica sui redditi ovunque prodotti (in Italia e all’estero),
salve le deroghe convenzionali; il “non-residente” è tassabile,
invece, per i soli redditi prodotti nel territorio dello Stato (art. 3, 1°
comma TUIR 917/86).
Ma quando la persona fisica deve considerarsi fiscalmente residente
in Italia?
L’art. 2 TUIR n. 917/86 così recita: “Ai fini delle imposte sui redditi
si considerano residenti le persone che per la maggior parte del
periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione
residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la
residenza ai sensi del codice civile”.
Il legislatore ha quindi previsto tre criteri alternativi per stabilire la
residenza fiscale della persona fisica in Italia. Uno è di carattere
oggettivo (iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente) e
non pone alcun problema interpretativo; gli altri due (domicilio o
residenza ai sensi del codice civile) implicano, invece, scelte anche
soggettive del lavoratore e sono quindi di più difficile
interpretazione e applicazione. Con riferimento a questi ultimi, si
precisa che per il concetto di “residenza” in senso civile occorre
avere riguardo alla “abitualità” della dimora, cioè, sia alla presenza
fisica della persona nello Stato, anche se non continuativa, sia alla
sua intenzione di volere stabilmente dimorare in Italia.
Il criterio del “domicilio” - cioè la sede principale degli affari e
interessi - è ancora più incerto e dovrebbe collegarsi con il luogo di
produzione del maggior reddito.
Tuttavia, trattandosi di lavoratori dipendenti, è ragionevole fare
riferimento alla data (contrattuale) di inizio o cessazione
dell’assegnazione stessa, considerando “residenti” in ciascun
periodo d’imposta coloro la cui assegnazione abbia avuto inizio nel
primo
semestre
dell’anno
o
termine
nel
secondo
e
conseguentemente “non residente” coloro che si trovano nella
situazione opposta, salvo verifica della eventuale data di iscrizione
anagrafica.
L’invio all’estero di lavoratori dipendenti da parte di datori di lavoro
italiani comporta l’onere di dovere affrontare problemi di natura
non solo previdenziale, assicurativa e di disciplina del rapporto di
lavoro, ma anche problemi di carattere fiscale non sempre di
immediata soluzione.
Con riferimento alla tematica fiscale relativa all’invio all’estero di
lavoratori dipendenti si possono fare alcune considerazioni
relativamente a:
·
·
·
legislazione interna;
legislazione straniera del paese ove il lavoro viene svolto;
legislazione internazionale.
In altri termini si tratta di accertare se i compensi che remunerano
l’attività svolta dal dipendente all’estero debbano continuare, o
meno, ad essere assoggettati ad imposizione in Italia; inoltre, se
tali compensi debbano scontare imposte all’estero e, infine, nel
caso di doppia imposizione, quali accorgimenti adottare.
Limitare l’indagine alla verifica degli eventuali obblighi, in Italia e
all’estero, dei datori di lavoro sotto il profilo della sostituzione
d’imposta, trascurando di considerare gli obblighi tributari ed il
conseguente onere per il dipendente nella sua qualità di potenziale
soggetto passivo d’imposta in Italia e all’estero potrebbe essere
fonte di controversie di difficile soluzione.
Approccio più corretto sarebbe, invece, quello di affrontare
preventivamente anche la situazione tributaria del dipendente: ciò
non soltanto al fine di evitargli sorprese sgradite sul piano delle
possibili conseguenze derivanti da comportamenti omissivi nel
paese estero ma, soprattutto, per chiarire contrattualmente -fra
datore di lavoro e dipendente- chi debba beneficiare dell’eventuale
vantaggio fiscale derivante dall’invio all’estero del dipendente;
ovvero, nel caso opposto, chi debba sopportare il maggior costo. E
comunque sgombrare il terreno da insidiosi equivoci che
puntualmente avrebbero riscontro al primo esborso fiscale -diretto
o indiretto-.
5.2 LEGISLAZIONE INTERNA
Con riferimento alle conseguenze che il diritto tributario italiano fa
discendere dall’invio all’estero di personale dipendente, merita
preliminarmente considerare che, mentre nello specifico ambito
previdenziale il presupposto soggettivo per l’applicazione della
disciplina nazionale ed internazionale è costituito, salvo rare
eccezioni, dalla cittadinanza del lavoratore, in campo fiscale,
invece, tale criterio non trova applicazione, dovendosi avere
riguardo al più ampio presupposto della “residenza fiscale”. Per
intendere la quale si rinvia a quanto chiarito in precedenza.
La legislazione che trattiamo riguarda il regime tributario applicabile
al reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero da lavoratori
dipendenti di qualsivoglia nazionalità, residenti -in senso fiscale- in
Italia. Tale regime è disciplinato all’art. 3 del T.U.I.R. n° 917/86, in
forza del quale i redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero in
via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto sono esclusi
dalla base imponibile.
Quando tale esclusione trova applicazione si realizza la
detassazione
del
reddito
di
lavoro
dipendente
e,
conseguentemente, il sostituto d’imposta è autorizzato a
sospendere le ritenute alla fonte di cui all’art. 23 del D.P.R. n°
600/73.
L’art. 3 citato -in apparenza di trasparente interpretazione- non è,
tuttavia, così semplice come appare anche perché le situazioni che
la prassi aziendale ha, in materia, sono le più variegate. Di contro,
v’è da considerare che con la riformulazione normativa dell’art. 3
D.P.R. 697/73 operata dal legislatore del T.U.I.R. n° 917/86, con la
quale si sono volute “precisare le condizioni dell’esclusione, in
conformità alla prassi interpretativa emergente dalle circolari e
risoluzioni ministeriali” (cfr. relazione governativa al T.U.I.R.), una
serie di problemi interpretativi emersi in vigenza dell’originario art.
3 D.P.R. 597/73 devono oggi considerarsi superati, in quanto il
legislatore del T.U.I.R. ha voluto “codificare” con il nuovo art. 3
taluni propri orientamenti che, proprio in quanto tali, non potevano
avere importanza per intendere il campo di applicazione della
norma: avere promosso tali orientamenti al rango di norma di legge
ne ha assicurato, come evidente, un incontestabile valore cogente.
Ciò considerato in via preliminare, merita ora evidenziare le varie
situazioni nelle quali l’invio all’estero di lavoratori italiani (nel senso
prima precisato) può andare a realizzarsi: queste sono
sostanzialmente quattro, a ciascuna delle quali consegue un regime
tributario proprio.
Tali situazioni discendono -in larga misura- non da norme bensì da
una vasta e articolata produzione giurisprudenziale il cui primo
intento -non sempre riuscito- è stato proprio quello di coglierne i
tratti caratteristici, peculiari, così da rendere innanzitutto possibile
la distinzione fra l’una situazione e le altre: distinzione, tuttavia,
non sempre agevole sul piano operativo sia per la varietà delle
fattispecie poste in essere dagli operatori nella creazione di figure
atipiche di invio all’estero di dipendenti, sia per il fatto che la
giurisprudenza in materia non è univoca.
Le situazioni possono essere:
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assunzione per l’estero;
trasferta o missione;
trasferimento;
distacco o prestito di personale.
5.3 ASSUNZIONE PER L’ESTERO
Come già precisato, rientrano in questo primo caso il lavoratore che
pur reclutato in Italia, è destinato fin dall’assunzione a svolgere
attività lavorativa esclusivamente in territorio estero.
Tali assunzioni per l’estero sono solite nel settore edilizio, ma anche
nel metalmeccanico, per l’esecuzione di contratti di appalto che
richiedono l’apertura di cantieri in Stati esteri. Trattasi di assunzioni
a tempo determinato per le quali il rapporto di lavoro cessa con lo
scadere del termine o la consegna dell’opera. Non possono tuttavia
escludersi, in via di principio, anche le assunzioni per l’estero con
contratto a tempo indeterminato: è questo, ad esempio, il caso del
personale da destinare alla sede secondaria estera di impresa
italiana. In tutte le fattispecie considerate non v’è dubbio possano
venirsi a realizzare i requisiti di esclusività e continuità della
prestazione all’estero di cui al già citato art. 3 T.U.I.R. n° 917/86,
con la conseguenza che, ove in concreto tali requisiti fossero
riscontrabili, il relativo reddito beneficerebbe della detassazione
dall’I.R.P.E.F. come previsto dalla norma sopra citata.
La durata della permanenza all’estero non è elemento
discriminatorio per la applicazione o meno del regime dell’art. 3
T.U.I.R. n° 917/76 potendosi concepire assunzioni a termine anche
per breve periodo se non di giorni. Nota della Dir. Gen. II. DD. n°
8/159 del 9.5.79).
5.4 TRASFERIMENTO E TRASFERTA
Sia in caso di trasferimento sia nell’ipotesi di trasferta si viene a
realizzare una modifica, con riferimento al luogo di esercizio della
prestazione lavorativa, dei rapporti di lavoro già in essere.
Merita ulteriormente considerare che mentre con la trasferta di
regola si persegue il fine di realizzare fuori dalla sede dell’impresa
soltanto uno o più affari oppure una determinata attività
riconducibile ad uno specifico fine pur sempre limitato, con il
trasferimento, invece, tutta la normale attività del lavoratore e le
sue ordinarie mansioni trovano svolgimento in un’altra sede
dell’impresa, con carattere di stabilità e durata.
Con riferimento al fattore temporale, cioè alla durata della
permanenza all’estero, questo, pur non potendo assumere valore
decisivo, in alcune particolari situazioni può costituire tuttavia un
buon indizio per decidere in quale fattispecie ci si trovi.
E’ il caso dei trasferimenti c.d. “temporanei”, cioè di quei
trasferimenti ad altra sede disposti o convenuti per un periodo di
tempo determinato.
Come già anticipato, con decisione del 3 giugno 1985 n. 3292 la
Cassazione ha, in merito, sostenuto che nei casi dubbi, al fine di
decidere se vi sia trasferta o trasferimento, assume importanza
decisiva accertare se la durata della permanenza all’estero comporti
o meno la “riorganizzazione della vita familiare e sociale del
dipendente”. Diviene quindi determinante un elemento soggettivo
indirettamente collegato, tra l’altro, alla durata del soggiorno
estero: cioè il trasferimento della residenza (inteso in senso
civilistico) del lavoratore all’estero, il cui indizio più evidente è
certamente lo spostamento delle persone di famiglia oltreché la
riorganizzazione della vita di relazione nel nuovo paese.
Da quanto precede emerge dunque con chiarezza come ciascuna
situazione concreta debba attentamente essere valutata -sulla
scorta dei criteri enunciati- nella sua singolarità.
Una volta individuato il corretto inquadramento civilistico, le
conseguenze tributarie che ne discendono sono immediate;
l’esclusione dalla base imponibile di cui all’art. 3 del T.U.I.R.
n. 917/1986 può trovare applicazione nei soli casi di trasferimento
all’estero , mai nei casi di trasferta. Ciò è confermato, oltreché dalla
norma anche dalle interpretazioni ministeriali (Ris. Min. Fin. n.
8/1775 del 17.11.1979). Continuità ed esclusività della prestazione
sono infatti elementi non conciliabili con la condizione contingente
ed occasionale della trasferta all’estero. Durante la quale, invece, le
retribuzioni rimangono assoggettabili ad imposizione in Italia nei
modo ordinari, salvo lo speciale regime stabilito dall’art. 48, 4°
comma, del T.U.I.R. n. 917/86 concernente la diaria o indennità di
trasferta (esenzione fiscale fino a Lire 100.000 al giorno per il
rimborso forfetario delle spese di vitto e alloggio, o ridotto di un
terzo nel caso di rimborso forfetario delle sole spese di vitto).
5.5 DISTACCO O PRESTITO DI PERSONALE
L’istituto del distacco è quello che genera maggiore confusione in
campo tributario. Confusione probabilmente dovuta, come spesso
accade, alla trasposizione in ambito tributario della più ampia
accezione che viene data in campo previdenziale, sia dalla assenza
di una qualche chiarificazione in materia da parte del Ministero delle
Finanze.
Nell’esame delle fattispecie non deve mai trascurarsi di considerare
la ratio che presiede al divieto d’intermediazione di mano d’opera:
consistente
nell’evitare
che
la
separazione
tra
autore
dell’assunzione del lavoratore dipendente e beneficiario effettivo
delle sue prestazioni di lavoro si risolva in un ostacolo al diritto del
lavoratore di pretendere il più vantaggioso trattamento che gli
sarebbe spettato se assunto direttamente da tale beneficiario
(Cass. n. 7161 del 3.12.1986).
Ciò posto, merita ora considerare se la condizione di distacco
all’estero di un lavoratore dipendente soddisfi o meno i requisiti di
continuità ed esclusività di cui alla disposizione dell’art. 3 TUIR n.
917/86 in commento.
Se si tenesse conto di quanto manifestato dal Ministero delle
Finanze con Risoluzione n. 8/1775 del 17.11.1979, si dovrebbe
concludere in modo negativo: tuttavia, se si considera che nel
distacco viene messa a disposizione del soggetto terzo l’intera
attività lavorativa del dipendente, potrebbe legittimamente
sostenersi che con il distacco viene a determinarsi una situazione
analoga al “trasferimento temporaneo” con la conseguenza che la
disciplina fiscale coinciderebbe.
In tutti i casi in cui si rende applicabile la detassazione del reddito
di lavoro dipendente per effetto dell’art. 3 del TUIR n. 917/86 è
opportuno fare risultare esplicitamente, nell’accordo scritto fra il
datore di lavoro ed il dipendente, le modalità di esecuzione
dell’attività subordinata e quindi la rispondenza ai requisiti indicati
dalla norma fiscale.
Per quanto riguarda l’individuazione del reddito cui si applica
l’agevolazione fiscale, può osservarsi che la detassazione riguarda
tanto la retribuzione ordinaria relativa al lavoro esercitato all’estero
quanto tutte le altri voci retributive accessorie e i benefici in denaro
o in natura ad essa correlati percepiti prima, durante e dopo il
periodo di assegnazione all’estero quali, ad esempio, indennità di
trasferimento, anticipi, arretrati, rimborsi spese, indennità alloggio,
ferie non godute, ecc. La detassazione non si applica, invece,
all’indennità di fine rapporto, art. 20, 2 comma, TUIR n. 917/86.
5.6 NORMATIVA ESTERA ED ACCORDI INTERNAZIONALI
Indipendentemente dal regime tributario applicabile nel nostro
paese al reddito di lavoro dipendente prestato all’estero dal
lavoratore, si dovranno in ogni caso considerare quali conseguenze
il regime tributario straniero comporta per il dipendente e per
l’impresa.
Molti paesi ed anche l’Italia assoggettano a tassazione il reddito di
lavoro dipendente per il fatto di essere prodotto nel proprio
territorio ed alcuni di questi paesi possono prevedere disposizioni
particolari che tengono conto della situazione in cui sono i lavoratori
espatriati. Tali disposizioni tendono ad escludere dal reddito
imponibile quella parte della remunerazione che riveste carattere
più risarcitorio di una spesa necessaria che carattere compensativo
dell’attività prestata: ad esempio, nella legislazione Americana,
Belga, Olandese ed Ungherese.
Per essere certi di operare in modo corretto occorre
necessariamente la consulenza di uno studio locale, con il quale
verificare anche la questione, spesso delicata, dell’esistenza
dell’obbligo di effettuare ritenute alla fonte per lo Stato estero. Ai
fini della sussistenza di tale obbligo, la circostanza che l’impresa
italiana non possegga in quello stato una “stabile organizzazione”
può risultare irrilevante (ad esempio in Spagna), ovvero il concetto
di stabile organizzazione può essere definito in modo tale da
ricomprendersi l’attività anche di un solo dipendente (Germania).
Una attenta verifica, nel paese in cui si opera, circa l’esistenza
dell’obbligazione tributaria per il dipendente e per il datore di lavoro
italiano è indispensabile.
Qualora tra l’Italia o lo stato estero di assegnazione del lavoratore
sia in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni, si rende
necessario riesaminare la disciplina interna e straniera alla luce
delle disposizioni ivi contenute.
Di regola le convenzioni bilaterali non prevedono - in materia di
tassazione del reddito di lavoro dipendente - la esclusività della
tassazione in uno solo dei due stati anzi confermano la potestà
impositiva di entrambi gli stati su quel medesimo reddito. Il rimedio
per “evitare” la doppia imposizione è quello in base al quale uno dei
due stati, quello ove il lavoratore risiede, concede al contribuente il
credito per le imposte pagate nell’altro stato: credito peraltro che,
ai sensi del Testo Unico D.P.R. 22/12/1986 n. 917, art. 15, spetta
al residente dell’Italia anche in assenza di convenzione.
Nei trattati internazionali, in eccezione al principio generale per cui
ciascuno Stato ha potestà impositiva, è stabilita l’intassabilità del
reddito di lavoro subordinato nei casi in cui l’attività del lavoratore
residente in uno Stato è prestata temporaneamente nell’altro Stato
e siano soddisfatti tutti i seguenti requisiti:
la durata del soggiorno nell’altro stato sia inferiore a 183 giorni
nell’anno considerato;
l’onere fiscale delle remunerazioni non sia sostenuto da un
soggetto d’imposta dello stato ospitante;
il lavoratore sia un residente del primo stato in virtù della
definizione fornita dallo stesso trattato.
L’esenzione permette di evitare la doppia imposizione in tutti i casi
di trasferta all’estero, sempreché si rispettino i limiti temporali
sopra precisati.
Nei casi in cui non fosse possibile applicare la norma d’esonero,
resta il rimedio del credito d’imposta che, come noto, obbliga alla
presentazione del Mod. 740 o del Mod. 730 ed alla conservazione
della documentazione del pagamento dell’imposta (Circ. Min. Fin. n.
42 del 12.12.1981).