La vita cieca - Le reti di Dedalus

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La vita cieca - Le reti di Dedalus
La vita cieca
Roma, 28 dicembre 2003
Cara Maria,
questa notte mi è successo qualcosa di strano. Ho bisogno di raccontartelo, perché l’ora del
sonno si avvicina di nuovo, è mezzanotte passata, ho desiderio di stendermi e le palpebre mi si sono
fatte pesanti: ma ancora perdo tempo e mi trattengo in giro per casa trastullandomi con inutili
faccende… Conversare con te, scriverti, mi farà bene. E poi, se avrai il tempo e la voglia, mi dirai
cosa ne pensi, che effetto fa a te, che mi conosci da tanto tempo, questa specie di mia disavventura.
Niente di eccezionale, non credere. Eppure….
Insomma, ascoltami. Stanotte, mentre dormivo, e dormivo profondamente, senza sognare,
all’improvviso, tac! ho aperto gli occhi: aperti, sgranati nel buio, come accade ai protagonisti di
certi film dell’orrore.
– Tutto qui? –, mi dirai. Ebbene sì. Il fatto si riduce a questi termini banali. Non c’è niente di
particolarmente inconsueto nello svegliarsi nel cuore della notte. Diverse volte mi è successo in
passato, e anzi, soprattutto quando ero bambino, posso dire che mi capitava spesso. Allora, però,
avveniva in modo del tutto diverso: in maniera graduale, ovattata. Oppure no, anche all’improvviso:
ma sempre, in tutti i casi, non c’era mai – e ancor oggi non c’è, se talvolta mi accade -, non c’è mai
nulla di veramente sgradevole, tanto che quando mi accorgo di non essere più nell’incoscienza,
dopo essermi rigirato per un po’, crogiolandomi nel calduccio del letto, posso perfino decidere di
non svegliarmi del tutto e sto ben attento a prendere tutte le precauzioni perché ciò non avvenga. È
una tecnica che ho imparato, appunto, da piccolo: se ho sete, allungo una mano nel buio, ad occhi
chiusi, afferro la bottiglia che tengo a capo del letto, e bevo a garganella quel po’ d’acqua che mi
spegne l’arsura. Poi risprofondo sotto le lenzuola e riprendo a dormire. Se invece mi sembra ci sia
in agguato una crisi d’insonnia, metto in atto una strategia collaudata nel tempo: sempre senza
disserrare le palpebre, cerco il pispolino e accendo la luce, perché non si sa mai; poi mi alzo, e con
molta cautela, ancora a occhi chiusi tanto la strada la conosco, vado in bagno a svuotare la vescica.
Torno in camera, trovo a tentoni nel cassetto un paio di calzini di lana, me li infilo dato che in questi
casi mi si congelano sempre i piedi, e torno a letto. E qui (e non ridere di me per favore, ognuno ha i
suoi piccoli segreti), qui avvio il registratore, dove tengo pronta per l’occorrenza una cassetta di
musica new age. I suoni monotoni e carezzevoli mi avvolgono, e una morbida voce femminile
comincia a suggerirmi pensieri tranquillizzanti. Mi dice di non aver paura, di non preoccuparmi, di
ascoltare il mio respiro che va avanti e indietro, il torace che va su e giù senza che io lo voglia: è
l’universo, dice, che respira in me e con me, che mi protegge e mi insuffla la vita; non c’è altro a cui
debba pensare se non a dormire, se non a farmi cullare e a farmi donare la vita da quel respiro…
Così, dopo un po’, torno di nuovo nell’oblio e dormo pacificamente fino al mattino.
Invece, stanotte, niente del genere. Il risveglio è avvenuto in modo del tutto particolare, e da
questo, penso, è derivato il seguito… Intanto non sono rinvenuto pian piano, come quando talvolta,
ancora dormendo, sperimento la fantastica sensazione di galleggiamento che mi avvia ad un ritorno
graduale nella veglia; né mi è successo di “precipitare” come invece mi sembra altre volte, quando
mi pare di rientrare nel corpo come da una lontananza siderale. Niente di tutto ciò, ti dicevo: ho
solamente aperto gli occhi, da un momento all’altro, e ho visto il buio, tutto intorno a me, inalterato
e nero in ogni direzione.
Se il risveglio è dolce, di solito, posso avvertire in anticipo la sensazione dell’imminente
ritorno alla coscienza. Comprendo di essere nel mio letto, con le spalle, anzi con la pancia ben
appoggiata al materasso (perché dormo sempre a pancia in sotto, d’inverno e d’estate), ma capisco
anche che qualche cosa di me è ancora effuso tutt’intorno, e sta fluttuando. Poi, in questo stato di
ebbrezza paga e serena, si insinua un alito tiepido, come se qualcuno o qualcosa fosse al mio fianco,
accanto al letto. Ne intendo la presenza rassicurante e non mi importa sapere più. Lo guardo – per
modo di dire perché sto ancora dormendo – e nello stesso tempo gli giro attorno, intuendo una
vibrazione d’attesa nell’aria e sentendo contemporaneamente l’ottuso rigonfiamento del mio corpo
tra le coltri, nel buio. Registro il palpito di una vicinanza e benché sappia di essere sotto le coperte,
una parte di me gode di un’inconsueta libertà di movimenti: la mia coscienza danza leggera,
nell’etere, pervasa da un umore giocoso e fanciullesco. Tutto questo dura pochi attimi. Presto mi
sento preso per mano: ombra tra le ombre, navigo, caracollo, volteggio tra le quattro pareti della
mia camera, in mezzo a quinte e sipari di luce, finché non sono ricondotto giù. Riconosco le
lenzuola fredde contro la pelle, percepisco l’estranea tenerezza delle membra che si cullano nel loro
tepore animale, spesso ho una blanda sensazione di capogiro. E mentre assaporo la mia presenza a
me stesso, il sonno si scioglie e io ci sono: ho sete e mi sporgo verso la bottiglia, attento a non
scoprirmi troppo.
Le volte in cui invece, come ti dicevo, mi sento cadere in basso, in genere stento un poco a
riaddormentarmi.
Non perché ricavi dal tuffo una sensazione di angoscia ma perché atterro
euforico, un poco esaltato, come portando con me la suggestione di eventi che non ricordo né riesco
poi, per quanto mi sforzi, a rievocare e tutto l’entusiasmo del volo. Il quale, peraltro, è brevissimo e
non ha memoria della provenienza. Anche allora, non resta in me alcuna immagine definita:
rammento la sensazione di un balzo improvviso, di un prendere la rincorsa, dello spiccarsi da una
vaga lontananza per slanciarsi, in caduta libera, verso l’abbraccio fatale con le membra. Sibila
l’oscurità, sfrecciano nel sogno colori, fosforescenze, suoni indistinti e pieni di malia, di cui
conservo, al risveglio, solo una impressione vaga e fascinosa, come di contrade di sogno, appunto,
attraversate alla velocità della luce. Un attimo di vertigine e poi il tonfo: un battito violento di
cuore, simile a uno spavento, il sangue che pulsa veloce, il volto e gli arti un po’ freddi – e
quell’eccitazione, quella felicità che si ricava da un dono inatteso e generoso, che ci fa sentire più
ricchi. Il bisogno di urinare, la necessità di alzarmi per espletare un obbligo fisiologico, mi
riconducono alla realtà; i rituali successivi, calzini e musica new age compresa, con il suo effetto
ipnotico, mi restituiscono alla calma e al torpore
Stanotte, però, non c’è stato modo di ritrovare la pace: anzi, ti dirò, sono ancora molto turbato.
Anche adesso, mentre ti scrivo, riprovo quella sgradevole sensazione di impatto col buio, dovuta di
fatto ad un accidente ordinario, per me tuttavia affatto nuovo: a quell’inconsueto spalancarsi dello
sguardo nel vuoto oscuro, non preceduto da una graduale presa di coscienza. Una distrazione, un
difetto di difesa…
Neanche a farlo apposta, le tapparelle erano ben serrate e non filtrava nemmeno una lama di
chiarore dalla strada. Ero solo, perfettamente sveglio, e così desto che ho immaginato di essere stato
riscosso da un evento occasionale, interno o esterno, che potevo aver inconsapevolmente
interpretato come avvertimento d’allarme. Ma i segnali provenienti dal mio organismo erano
regolari e, se fosse stato un rumore, avrebbe dovuto essere forte, prodotto da un qualche fatto di
rilievo, magari da un fenomeno meteorologico o tellurico: il silenzio attorno non ne trasmetteva
tuttavia alcun indizio. L’appartamento dormiva silenzioso, la casa tutta taceva e, a confortarmi sul
persistere delle normali condizioni dell’ambiente, mi giungeva dalla via il lieve anfanare
dell’autobus notturno che arrancava su per la salita.
Il mondo attorno era tranquillo: ma io, nel tendere l’orecchio, nel tentativo di focalizzare
l’attenzione e quasi di scorgere così la causa del mio risveglio, inavvertitamente, purtroppo, avevo
già scrutato e interrogato l’oscurità. Non vi ho ravvisato nulla, d’accordo, ma in quello scrutare, per
la prima volta, ho visto la tenebra, il buio che mi circondava, meglio: ho visto la notte che circonda
e cinge la vita stessa, quando non è illuminata da luci artificiali.
Ho avuto paura e ho cercato allora di reagire, traducendo quell’inizio di rivelazione in una
catena di immagini. Ho pensato agli emisferi inghiottiti dalla notte che avanza man mano, mentre il
barlume del sole si ritira; e poi al mondo dei primordi, agli esseri che si rintanano nel chiuso ventre
del loro rifugio oscuro, che pure li scherma dalla più vasta oscurità: alle creature raccolte, l’una
accanto all’altra, nell’ombra di provvisori ripari o di vaste caverne. Ho immaginato tutti quelli che
hanno camminato o bivaccato, secolo dopo secolo, a cielo aperto, nelle notti senza luna, pellegrini e
briganti, esploratori e soldati, carovanieri e mendicanti, e ho capito da quale più cupo e civilizzato
sgomento nascesse l’interrogazione del pastore errante. Ho cercato di figurarmi come fosse vivere
in quei tempi, che ormai ci appaiono così lontani, in cui nella stagione delle giornate brevi ci si
doveva accomodare già dopo pranzo, per conversare e cucire, sui sedili ricavati nello spessore dei
muri, nei piccoli vani addossati alle finestre strombate, aspettando il calare del sole: quando soltanto
ai benestanti era concessa la lettura serale, costretta comunque ad interrompersi al verde della
candela; quando le case dei ricchi baluginavano di ori e dorature, di specchi e argenti tirati a lucido,
e lo sfarzo di quel lusso era magnificato dai bagliori di centinaia di torce riflesse; quando il sonno
dopo il crepuscolo era per la moltitudine un obbligo e non una scelta, quando scendere nelle cantine
era davvero pauroso, e le vie dei villaggi e dei borghi sprofondavano a sera nell’indistinto; quando
la luna era il lume della notte e l’amore per lo studio poteva risolversi, come niente, in un rogo.
Ho pensato ai tuguri e alle capanne, dove ancor oggi ardono lucerne a petrolio o dove è
appesa una lampadina da pochi watt; all’automobilista in panne, lungo una strada di campagna,
investito dal fascio violento dei fari di un’auto che sopraggiunge. Ai maleodoranti falò di copertoni
vicino ai quali si scaldano prostitute e reietti nelle periferie suburbane. Alla brace di milioni di
sigarette che bruciano a veglia, nelle stanze e lungo i viali, e negli abitacoli di milioni di veicoli, di
automobili e lunghi camion che percorrono autostrade e svincoli o stanno fermi, in coda, ai caselli
fosforescenti di neon. Alle facce dei vecchi, che si rimirano impaurite nell’acqua torbida di specchi
mal illuminati, sospesi su consolle dorate, in corridoi tappezzati di antica carta da parati, o sui
lavandini ingialliti di bagni che danno su tetri cortili. Ho visto l’insonnia dei solitari, nelle case di
periferia, rischiarata dal riverbero mobile e caliginoso degli schermi televisivi. Il sonno dei malati,
nelle lunghe corsie d’ospedale, vegliato da fioche lampade. L’affaccendarsi dei pescatori con le loro
lampare, intenti a spiare nel fondo degli abissi e a illudere i poveri pesci, che accorrono, anche loro,
cercando consolazione e trovando la morte nel richiamo di una lanterna. Ho visto il traccheggiare
inquieto dei nottambuli nel cerchio tracciato dai paralumi sopra i tavolini dei caffè, il loro stanco
curvarsi sui banconi nella fredda atmosfera dei bar; i volti di tante persone intente a chattare,
illividiti nella luce dei computer, le facce violette e multicolori che ghignano o sorridono stanche
nelle discoteche e nei night. E l’alone dei lumini perpetui nei cimiteri di paese, d’inverno, e quello,
ancor più maligno, dei lampioni semispenti di fronte ai loculi dei palazzoni cimiteriali delle
metropoli. Ho pensato a tutti quelli che dormono, nei loro letti, ricoperti dal buio, assediati da un
universo cieco.
Nell’affollarsi simultaneo di tante visioni, c’erano i fanali che bucano ritmicamente il sipario
della notte e le vetrate illuminate delle centrali idroelettriche e nucleari, nelle cui sale si accumula,
ancora non risvegliata, una luce potenziale, che non risplenderebbe se non fosse inviata a forza
verso miliardi di lampadine; c’erano le luci dei transatlantici, galleggianti sul mare cupo e solenne
con lo sfavillio di mille oblò; una distesa di alberi di natale, tremuli di patetiche lucette, e
l’immagine della penombra odorosa delle chiese, dove i pallidi splendori votivi proiettano lunghe
ombre.
In questa limitata e circoscritta camera, così famigliare, di cui conosco mobili e soprammobili
e perfino quel che c’è ma non si vede in quanto custodito nei cassetti e allineato dietro le ante
dell’armadio, mi sono sentito subitaneamente stretto in una morsa di minacciosa estraneità, e il
ricordo della luce mi è sembrato il ricordo, tristissimo e disperato, di un mondo lontano, perso per
sempre. Ho intuito che la luce fu un giorno ma non è sempre stata e che il sole e gli astri, e quelle
stelle che a torto chiamano “fisse”, sono epifenomeni della tenebra, che anch’essi vennero in
un’epoca lontana alla luce e cominciarono a irradiarla, certo, ma che anche loro, come noi, non sono
eterni. Quando si spegneranno, tutti insieme, ad uno ad uno, chissà, saranno corpi celesti immobili e
freddi, come cadaveri galleggianti nello spazio, o forse cominceranno a cadere a precipizio fino ai
confini dell’universo. In una specie di lancinante visione mi è apparsa la vita com’è: confitta nelle
tenebre, incomprensibile manifestazione di volontà, forse di intelligenza, nel vuoto pauroso del
nulla.
E ho capito all’improvviso, nel mio smarrimento, il senso di un sogno mai dimenticato che
venne a visitarmi tanto tempo fa, quando ero poco più che un ragazzo, forse non del tutto
spensierato ma sicuramente proteso con ottimismo verso la vita. Sognai, quella volta, di dormire nel
mio letto e di aprire gli occhi come fosse mattina – ma il buio era fittissimo, come quello che ho
visto questa notte, dopo essermi perfettamente destato in mezzo alla oscurità totale. Nel sogno di
tanti anni fa, però, credevo soltanto di essere sveglio, anche se con tutta la stupefacente naturalezza
e verosimiglianza che si sperimenta talvolta dormendo, con una straordinaria vivezza di sensazioni.
E dunque, sognando di svegliarmi e di ritrovarmi nell’atmosfera cieca della mia stanzetta, sognavo
pure di protendermi con una certa difficoltà verso l’abat-jour sul comodino e di cercare di
accenderla: ma non dava luce, come per un’interruzione di corrente. La lampadina fulminata? Un
blackout? La destità mi dava la certezza che fosse ormai giorno. Mi alzavo, tiravo su l’avvolgibile e
fuori dalla finestra non scorgevo nulla: niente lampioni, niente facciate di case, niente riverbero di
cielo, solo un opaco, solido muro di buio. Il panico si impadroniva di me. Inciampando, cadendo,
sbattendo contro invisibili ostacoli, correvo al telefono, afferravo la cornetta per cercare aiuto.
Orrore, orrore e orrore: dal microfono usciva un cono d’ombra, impenetrabile e compatto, che si
allargava minacciosamente e sembrava voler inghiottire ogni cosa. Più nero del buio si spandeva
tutt’intorno: visibile, anche in assenza del suo contrario, come la malvagia materializzazione di una
suprema insensatezza.
Per tanto tempo ho riflettuto su questo incubo, sognato in un periodo della mia esistenza in
cui non mi sembrava di essere infelice né di albergare, nel segreto del mio animo, oscuri terrori;
avevo finito per dimenticarlo del tutto, prima che l’esperienza della notte scorsa venisse a
riattualizzarlo.
Che posso dirti, cara Maria? Ho voluto raccontarti le mie vicissitudini perché non riesco più a
liberarmi dall’inquietudine e perché mi sgomenta l’idea che dentro di me si aprano, senza che io ne
sia consapevole, tali abissi di spavento. Devo andare dallo strizzacervelli? Che altro può rivelarmi
se non che si tratta della Paura Primordiale che tutti ci accomuna? Lo capisco bene anch’io. Ma quel
che mi sbigottisce è che io sia vissuto tutto questo tempo senza neanche esserne consapevole e che
per condurre una vita normale si debba vivere, giorno dopo giorno, come se niente fosse. Come può
accadere? E come accade che tutti sembrano vivere ignari di ciò che ci attende? Non è incredibile?
Non è mostruoso? Queste domande mi tormentano.
Ma tu, Maria carissima, non dartene pensiero. In fondo sono solo inezie rispetto a ciò che
quotidianamente accade ai quattro angoli del mondo. Ora ho rimorso di questo lungo sfogo e temo
di aver offuscato l’acqua limpida delle tue belle pupille. Forse ho solo bisogno di dormire (sono
sveglio da più di ventiquattr’ore); può darsi che domani, a mente fresca, ogni cosa mi appaia
diversa.
Tu voglimi bene, piuttosto: sento che il tuo affetto già mi basterebbe a lenire questo
spaesamento, a trovare, oltre tanto vuoto, la speranza di un conforto.
Mi auguro di rivederti presto, ma chissà se sarà possibile: sei sempre lontana, in viaggio…
Però ti aspetto fiducioso, e come sempre teneramente ti saluto
Tuo
Mario