Una nuova uguaglianza

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Una nuova uguaglianza
interni copertina
L’appello del ministro Mariastella Gelmini perché
l’educazione cessi di essere un campo minato
«da strumentalizzare per calcoli di bottega»
di Mariastella Gelmini*
N
il presidente Giorgio Napolitano ha posto
l’accento sui giovani e ci ha chiesto
di impegnarci per difendere il loro futuro,
il nostro futuro. Il presidente ci incalza,
con ragione. Nel 150° dell’Unità nazionale
che cosa occorre perché la scuola pubblica,
base della nostra “comunità di destino” –
come ha definito l’Italia il cardinale Angelo Bagnasco – si trasformi in un’impresa di popolo, invece che in un estenuante
spunto per la critica, per le polemiche, per
l’autoflagellazione collettiva? C’è bisogno
di aria nuova. Ancora una volta, ci dice il
Capo dello Stato, «occorre superare lo spirito di divisione che grava sull’Italia».
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el suo discorso di fine anno
| 30 marzo 2011 |
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Per parafrasare l’America democratica
cantata dal poeta Walt Whitman, io sento che la scuola «attende di essere trattata
nel modo gigantesco e generoso che merita». “Gigantesco” perché comprendiamo
bene che istruzione, formazione, educazione sono i temi cruciali per la stessa sopravvivenza della nostra comunità nazionale.
“Generoso” perché non possiamo più dividerci e scontrarci sull’essenziale, cioè sul
bene dei nostri ragazzi. Di fronte ad un’impresa di questa portata, l’esperienza di questi anni mi dice che si può dibattere su tutto e trovarsi a difendere modelli di scuola
assai differenti tra loro. Non mi scandalizza che ci sia chi non condivide il cammino compiuto a partire dalla riforma Berlinguer, passando per le riforme Moratti e Fio-
Mariastella Gelmini
è ministro dell’Istruzione
dal maggio 2008
10.800 scuole distribuite in
circa 45 mila plessi, 800 mila
insegnanti, 200 mila bidelli, 10.800 dirigenti scolastici, per un totale di oltre un
milione di addetti. Sono cifre da record.
Sotto questo profilo, rappresentiamo la
più numerosa comunità scolastica europea. Purtroppo non primeggiamo altrettanto nella quantità di risorse destinate all’istruzione, né per la qualità e l’innovazione che riusciamo a produrre in
un mondo che è cambiato radicalmente
rispetto a cento o a cinquant’anni fa, quando venne concepito ed elaborato il modello scolastico italiano, fortemente accentrato e statalizzato.
Foto: AP/LaPresse
Una nuova
uguaglianza
roni, che ci ha condotto a modificare radicalmente gli ordinamenti della scuola primaria e della scuola superiore, in modo
coerente e lineare, sia pur nella diversità degli approcci culturali e delle appartenenze politiche. Neppure considero un
dogma i provvedimenti, già realizzati o
ancora da concludere, dell’attuale governo
Berlusconi, che hanno completato le riforme avviate dai miei predecessori, modificato il modello di formazione degli insegnanti e che ora stanno affrontando i temi
del reclutamento, della continuità didattica, della carriera, della valutazione e della valorizzazione di una professione che,
nel tempo, è stata “proletarizzata” mentre
invece merita di essere rimessa al centro
del nostro sistema scolastico. Dico “merita”
non per blandire gli insegnanti ma perché
la figura del docente, di fatto non sarà mai
solo quella di un burocrate, di un semplice
“addestratore”, di un istruttore con il compito di trasmettere professionalità e competenze. L’insegnante è un “maestro”. Al
centro della missione della scuola non c’è
un microchip o un contenitore vuoto ma
l’essere umano, in tutte le sue dimensioni
relazionali, cognitive, affettive.
Dicevo che l’importante non è il consenso o il dissenso rispetto all’azione di
un ministro ma riconoscere con onestà
l’esistenza dei problemi e agire di conseguenza. La realtà è questa: il nostro sistema pubblico d’istruzione è composto da
Il coraggio della sinistra
L’autonomia scolastica e la parità purtroppo esistono ancora solo sulla carta, benché sia stata la stessa sinistra, con il ministro Luigi Berlinguer, a cogliere l’urgenza
dei tempi e a superare il monopolio statale in materia di istruzione. Insomma, avere
oltre un milione di dipendenti e un sistema che si ostina a resistere a sussidiarietà, flessibilità e pluralismo, significa impegnare risorse per una quantità di persona-
le più elevata, ad esempio, di tutti i militari che compongono l’esercito degli Stati Uniti. Preservando lo status quo condanneremmo la scuola italiana all’agonia;
occorre invece proseguire sulla strada delle indispensabili innovazioni, necessarie
per agganciare l’istruzione italiana al resto
del mondo.
Ripeto che non chiedo un’adesione
incondizionata al nostro progetto riformatore. Chiedo lealtà e disponibilità alla considerazione dei fatti reali. Ad esempio, come
si può proseguire sulla china della contrapposizione ideologica e politicante, buttando la scuola in piazza, rendendola oggetto
di una continua, furiosa contesa elettorale? Come si fa a ripetere ancora il ritornello imbroglione secondo cui da una parte
starebbe chi odia gli insegnanti e dall’altra
parte chi invece li ama? Come si può rimasticare all’infinito la falsa contrapposizione
tra scuola pubblica e scuola privata quando è scritto nella Costituzione, e lo ribadiscono le leggi della Repubblica e le sentenze del Consiglio di Stato, che la scuola pubblica è il sistema di tutte – e ribadisco, tutte – le scuole italiane, statali e non statali,
riconosciute come enti erogatori di un reale servizio alle persone? Come si fa a negare davanti ai cittadini la difficoltà a destinare risorse alla scuola, quando la Ragioneria
dello Stato ci rammenta che il
97 per cento degli investimenti
restano inchiodati ai costi per
gli stipendi del personale?
Come è possibile ripetere,
anche nelle amministrazioni
locali – comuni e province che,
come ministro, non mi stanco
di sollecitare – che “mancano
soldi” e che le scuole “cadono
a pezzi”, quando ci sono stanziamenti per un totale di 1 miliardo di
euro che a tutt’oggi non vengono utilizzati
perché si perdono nei meandri della burocrazia amministrativa? La politica dovrebbe sostenere, non strumentalizzare per calcoli di bottega elettorale, l’ansia di rinnovamento. I sindacati dovrebbero aiutare
il cambiamento, non difendere sempre e
solo l’esistente in nome di posizioni acquisite e di un potere di interdizione esercitato talvolta come arma di ricatto e blocco
di ogni innovazione. Tutto è legittimo in
democrazia ma non tutto è apprezzabile,
se affermiamo con onestà che la scuola ci
interessa. “We care” deve essere detto con
sincerità e non solo come slogan elettorale.
Ci interessa o no, che gli insegnanti
siano meglio retribuiti e che chi merita di
più, guadagni di più? Ci interessa o no che
gli studenti trovino giuste ragioni, oltre
alla denuncia dei problemi e dei disservizi, per riaffezionarsi alle proprie scuole e
ai propri professori? Nessuna tecnica, per
quanto moderna, e nessuna strategia, per
quanto sperimentata, possono sostituire
la libertà e la responsabilità dell’insegnante, la relazione tra docente e discente. Non
potremo mai sostituire la figura dell’insegnante con gli strumenti della tecnologia.
Certo, oggi è indispensabile l’introduzione dei moderni strumenti di formazione. Non possiamo certo rinunciare ad assumere nell’ambito scolastico la rivoluzione digitale e le nuove tecniche di misurazione e di valutazione delle modalità e del
successo con cui le conoscenze vengono
trasmesse ai ragazzi. La scuola però è fatta
essenzialmente dal rigore e dalla passione
con cui l’insegnante si cimenta nella sua
quotidiana “lotta di classe”. È fatta della
fatica e della gioia del sapere, della curiosità, della ricerca.
Oltre gli interessi corporativi
Basta dunque con i messaggi falsi e sbagliati. Basta con le contrapposizioni faziose, da
campagna elettorale infinita, da perenne
teatrino del bene da una parte e del male
dall’altra. Non possiamo più trattare la
scuola come uno spot, dove contano solo
gli interessi corporativi, le tessere della
tale associazione, il potere del tal altro sindacato. Prendendo esempio dalla tragedia
che sta vivendo il popolo giapponese, dando al mondo un’eccezionale prova di umanità, dignità, coesione, umiltà e coraggio,
smettiamo di marciare divisi e polemici e
concentriamoci sulle cose da fare per evitare il rischio che la nostra scuola imploda in
una sorta di “fusione nucleare”.
«Non capivo come mai alcuni suoi
nemici lo incolpavano di malignità –
dice Chesterton di Whitman, poeta della democrazia americana – se era vero,
non lo era per me. Ciò che apprezzavo era
quella proposta di una nuova uguaglianza, che non consisteva in uno squallido
livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini». Noi
abbiamo il dovere di fare in modo che studenti e insegnanti non siano più l’oggetto
di uno “squallido livellamento” ma il soggetto di “una nuova uguaglianza”. Dobbiamo guardare in alto. Cioè cambiare.
Perché tutti e ciascuno, secondo il proprio
ruolo e la propria sensibilità, possano stare meglio, possano imparare meglio, possano guadagnare meglio. In
quella impresa che riguarPer parafrasare l’America democratica
da il semplice fatto che gli
cantata dal poeta Walt Whitman, io sento
uomini siano uomini.
che la scuola «attende di essere trattata
nel modo gigantesco e generoso che merita»
*ministro dell’Istruzione,
università e ricerca
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