Le dimissioni e la risoluzione consensuale del

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Le dimissioni e la risoluzione consensuale del
Articolo pubblicato sul numero 46|2014 del 15/12/2014
Le dimissioni e la risoluzione consensuale del dipendente
di Gesuele Bellini
Il 31 Dicembre rappresenta una data in cui nei liberi rapporti tra le parti (anche per motivi legati alla gestione fiscale e
previdenziale) si possono verificare recessi nei rapporti di lavoro, analizziamo di seguito il tema delle dimissioni e della
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro
Lavoro : Rapporto di lavoro : Dimissioni
Lavoro : Rapporto di lavoro : Risoluzione del rapporto
Cod. civ. art. 2113
Cod. civ. art. 2118
Cod. civ. art. 2119
C. Cass. sent. n. 5638 del 9 marzo 2009
C. Cass. sent. n. 171 del 8 gennaio 2009
C. Cass. sent. n. 18285 del 13 agosto 2009
Legge n. 92 del 2012, art. 4
D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54
Nel rapporto di lavoro, le parti - datore di lavoro e lavoratore
- hanno la possibilità di recedere, prevedendone il momento,
col solo preavviso o, immediatamente, per giusta causa.
In sostanza, la libertà personale del prestatore di lavoro ammette che lo stesso, salva la stipulazione
di una clausola lecita di durata minima, possa liberarsi dagli obblighi contrattuali a tempo
indeterminato in qualsiasi momento, fermo restando l’obbligo del preavviso a tutela del datore di
lavoro. Il recesso costituisce, pertanto, una deroga alla vincolatività degli effetti contrattuali e si
realizza per mezzo di un potere che, attraverso un atto negoziale, è esercitato da una o da entrambe
le parti del contratto stesso, determinandone l'estinzione attraverso il cessare (Santoro Passarelli –
Lezioni di Diritto del Lavoro – Napoli 1995 n.d.a.)
In assenza di una disciplina ad hoc sulle dimissioni, contrariamente al licenziamento, è necessario
ricorrere ai principi generali che regolano il recesso dai rapporti obbligatori.
La dottrina ha inquadrato l’istituto del recesso del lavoratore talvolta nell’esercizio di un potere
potestativo, in altre occasioni, invece, è stato ricondotto in un atto d'autorità privata; resta tuttavia
pacifico che il potere di recedere, indipendente dalla sua natura e dalla fonte da cui derivi, si
esercita sempre con una dichiarazione unilaterale (Sangiorgi – Recesso - in Enc. giur., XXVI, Roma
1991 n.d.a.)
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Sotto il profilo giuridico, proprio perché le dimissioni rappresentano l’esercizio di un diritto
potestativo, esse devono essere qualificate quale atto unilaterale recettizio, con la conseguenza che
sono idonee a risolvere il rapporto di lavoro, senza che sia necessaria alcuna accettazione da parte
del datore, quando la loro comunicazione giunge a conoscenza del destinatario ai sensi degli artt.
1334 e 1335 c.c.
In pratica, secondo pacifica giurisprudenza la dichiarazione recettizia (che si sostanzia nella lettera
di dimissioni del lavoratore), ai sensi dell'art. 1335 c.c., si presume conosciuta nel momento in cui
giunge all'indirizzo del destinatario, inteso come il luogo che, per collegamento ordinario (dimora o
domicilio) o per normale frequenza (per l'esplicazione dell'attività lavorativa) o per una preventiva
indicazione o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario stesso,
così da apparire idoneo a consentirgli la ricezione dell'atto e la cognizione del relativo contenuto.
Costituendo le dimissioni un atto unilaterale recettizio, di per sé idoneo a risolvere il rapporto di
lavoro, la giurisprudenza ritiene, inoltre, che il prestatore che voglia dimettersi non sia tenuto a dare
alcuna giustificazione al datore di lavoro.
In giurisprudenza, si è dibattuto riguardo il luogo presso cui inviare la comunicazione di dimissioni
ai fini della sua idoneità ad estinguere il rapporto. Mentre è pacifico che essa debba essere inviata
presso il luogo di lavoro o, per le imprese di piccole dimensioni, anche presso la residenza del datore
di lavoro, ovvero presso un luogo diverso eventualmente pattuito nel contratto di lavoro, dubbi,
invece, sono sorti circa la possibilità di considerare efficaci le dimissioni rassegnate con lettera
consegnata brevi manu ad un dirigente aziendale o anche al diritto superiore del lavoratore
dimissionario non dirigente.
L’indirizzo prevalente, sul punto, è orientato nel senso di considerare valide ed efficaci le dimissioni
rassegnate con tale modalità, specificando che, in virtù della natura dell’atto, non è necessaria
l’accettazione del datore di lavoro, il quale, in ogni caso, può provare in giudizio, ai sensi dell’art.
1335 c.c., di non aver mai ricevuto la comunicazione per causa a lui non imputabile, con la
conseguenza che le stesse produrranno effetti soltanto a partire dal momento di effettiva conoscenza
dalla parte datoriale della volontà del lavoratore di recedere dal rapporto.
Nel caso che le dimissioni sono presentate al diretto superiore, il quale è tenuto ad inoltrarle in via
gerarchica all’organo della società che deve prenderne atto, esse hanno efficacia al momento della
presentazione.
La natura di atto unilaterale recettizio delle dimissioni comporta due effetti: il primo l’applicazione,
in quanto compatibili, delle norme che regolano i contratti ai sensi dell’art. 1324 c.c. e il secondo il
fatto che la revoca delle dimissioni è possibile solo se raggiunge la conoscenza del datore di lavoro
prima che questi sia venuto a conoscenza delle dimissioni stesse.
Al riguardo, giusto per completezza, appare utile evidenziare che in caso di recesso datoriale la più
recente giurisprudenza di legittimità ammette la revoca dello stesso da parte del datore di lavoro
anche successivamente al momento in cui il lavoratore ne ha avuto conoscenza; in tal caso il
rapporto si intende proseguito senza soluzione di continuità, ritenendosi l'impugnazione
stragiudiziale del licenziamento quale implicita messa a disposizione della prestazione da parte del
lavoratore.
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Del medesimo avviso è parte della dottrina, che peraltro precisa che in tale condizione si applicano
le disposizioni dell'art. 1324 c.c. (TABELLINI, Il recesso, Milano, 1962; GABRIELLI, Vincolo
contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985)
La forma delle dimissioni
Per quanto riguarda le modalità delle dimissioni è sempre valso generalmente il principio della
libertà della forma, la quale, quindi, salvo che sia prevista dalla legge o da qualche disposizione
contrattuale o individuale è, di regola, libera.
Secondo tale principio, le dimissioni, dunque, possono essere comunicate anche oralmente, ma per
giungere al perfezionamento delle stesse ed al fine di evitare possibili contestazioni è opportuno
procedere con la forma scritta.
Invero, anche se il lavoratore può presentare le proprie dimissioni oralmente o per comportamento
meramente omissivo, quale quello che si concreta in inadempimento delle obbligazioni discendenti
dal rapporto, ovvero per fatti concludenti della volontà di recedere, in caso di controversia deve
emergere in maniera in equivoca ed univoca la manifestazione della volontà incondizionata di porre
fine al rapporto nella sua interezza.
Al riguardo, la giurisprudenza è dell’avviso che non sia sufficiente il mero abbandono del posto di
lavoro da parte del lavoratore perché si configuri una dichiarazione tacita di recesso.
Qualora le modalità siano previste dalla contrattazione collettiva la forma scritta sarà richiesta ad
substantiam e quindi le dimissioni rassegnate oralmente saranno invalide, poiché mancanti del
requisito formale.
L’assenza di una previsione che imponga una particolare forma ha rappresentato una delle principali
problematiche legate alle dimissioni, in modo particolare per accertare l’eventuale invalidità delle
stesse, che condurrebbe a considerare nullo il recesso del lavoratore o, secondo un certo
orientamento, che ritiene che la forma sia richiesta ad probationem, inefficace (ARDAU, Manuale di
diritto del lavoro, Milano, 1972; Cass. n.1596/1996).
Sotto il profilo teleologico, la forma libera delle dimissioni, che possono essere rese per iscritto,
oralmente o in qualunque altra modalità ritenuta idonea a manifestare la volontà dell’interessato di
recedere dal contratto, risulterebbe conforme con il fine di soddisfare la volontà del lavoratore di
recedere da un rapporto in qualunque momento e senza oneri formali e procedurali, proprio per
consentirgli di riacquistare la propria libertà contrattuale nel minor tempo possibile.
Tale conformità, tuttavia, è soltanto apparente, in quanto nella prassi le dimissioni “coartate” o
quelle “in bianco” hanno rappresentato una delle principali situazioni patologiche del rapporto nei
fatti necessarie di maggior tutela.
Il legislatore per fronteggiare a tale pratica, già nel 2007 aveva approvato la Legge n. 188/2007,
recante “disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni
volontarie della lavoratrice, del lavoratore, nonché del prestatore d’opera e della prestatrice
d’opera”, che prescriveva l’onere di predisporre le dimissioni su un apposito modello informatico
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predisposto e reso disponibile da uffici autorizzati; tale disposizione venne in seguito abrogata nel
2008 ad opera dell’art. 39 co. 10, lett. l) del D.L. n. 112/2008, convertito in Legge n. 133/2008.
Con la riforma del lavoro del 2012 (Riforma Fornero), viene ripresa la problematica delle dimissioni
in bianco e contrastata con la reintroduzione di un’apposita procedura stabilita nella Legge n.
92/2012 che prevede la convalida delle dimissioni per la generalità dei lavoratori e l’applicazione
della medesima disciplina anche per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anch’essa
considerata espressione della libertà negoziale delle parti (art. 1372 co. 1 c.c.).
Restando ancora in tema di forma del recesso, qualche parola va spesa anche riguardo il possibile
comportamento del lavoratore.
Al riguardo, è stato affermato in giurisprudenza che la condotta del prestatore potrebbe rilevare
anche ai fini della prova della volontà di recedere dal contratto, che potrebbe essere desunta anche
da comportamenti concludenti posti in essere dal lavoratore, astrattamente incompatibili con la
volontà di proseguire il rapporto contrattuale; si pensi, ad esempio, all’assenza dal lavoro prolungata
nel tempo.
Al riguardo, la giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto, però, che tale comportamento possa
rilevare soltanto ai fini disciplinari, ma non può configurare una manifestazione tacita di dimissioni,
in quanto in assenza di forma scritta devono sussistere comportamenti o fatti che siano
inequivocabilmente e univocamente idonei a provare la volontà del lavoratore di recedere dal
contratto.
Laddove, poi, vi sia una previsione del contratto collettivo in base alla quale l’assenza prolungata per
un determinato periodo prestabilito sia idonea a far desumere la volontà del lavoratore di dimettersi,
tale norma, non essendo ammissibile una clausola risolutiva espressa del rapporto se non prevista
esclusivamente dalla legge, deve essere interpretata nel senso che tale comportamento equivale a
dimissioni soltanto se il lavoratore non provi in giudizio di non aver avuto alcuna intenzione di
dimettersi.
Vi sono casi, invece, in cui le disposizioni contrattuali prevedono che da comportamenti tenuti dal
dipendente scaturiscano in modo automatico le dimissioni; ne costituisce un esempio il rifiuto del
lavoratore di trasferirsi in altro luogo di lavoro o l’assenza ingiustificata oltre i tre giorni.
Per ciò che concerne, invece, i diversi tipi di recesso, la dottrina qualifica come recesso ordinario il
recesso che, alla stregua di quello contemplato dall'art. 2118 c.c., costituisce la causa estintiva
normale del rapporto di lavoro; al contrario, è considerato recesso straordinario sia il licenziamento
che le dimissioni intimate per giusta causa (ex art. 2119 c.c.) o per giustificato motivo, ovvero un
recesso conseguente ad un sopravvenuto difetto funzionale della causa (BALLESTRERO, I
licenziamenti, Milano, 1975; Fergola, La teoria del recesso e il rapporto di lavoro, Milano, 1985).
Le dimissioni dopo la riforma del 2012
Con la nuova disciplina delle dimissioni, introdotta dalla Riforma Fornero, le parti – datore di lavoro
e lavoratore – sono costretti a compiere molti adempimenti; nel dettaglio la Legge n. 92/2012
distingue due procedure comunicative, che hanno, comunque, la stessa finalità: proteggere il
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lavoratore dalla pratica delle c.d. dimissioni in bianco.
La prima procedura – prevista dall’art. 4, co. 16 – attiene alle dimissioni ed alle risoluzioni
consensuali effettuate durante il periodo tutelato dal D.Lgs. n. 151/2001 (Testo unico in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità).
Nella stessa si prevede che la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni
presentate dalla lavoratrice devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro
competente per territorio, nei seguenti casi:
●
●
●
●
per la lavoratrice, durante il periodo di gravidanza;
per la lavoratrice e il lavoratore, durante i primi tre anni di vita del bambino;
per il lavoratore e la lavoratrice, nei primi tre anni di accoglienza del minore
in caso di adozione e affidamento, o in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni
decorrenti dalle comunicazioni di cui all’art. 54, co. 9, del D.Lgs. n. 151/2001
In sostanza, sono introdotte alcune differenze rispetto al passato.
In primo luogo, l’estensione da uno a tre anni di vita del bambino la durata del periodo in cui opera
l’obbligo di convalida delle dimissioni volontarie; ciò vale anche nel caso di accoglienza del minore
adottato o in affidamento. Nel caso di adozione internazionale, i tre anni decorrono dal momento
della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottato ovvero della comunicazione
dell'invito a recarsi all'estero per ricevere la proposta di abbinamento.
In relazione a tale procedura, tuttavia, è opportuno precisare che il Ministero del Lavoro,
intervenuto al riguardo, ha reso noto che la lavoratrice madre recede dal lavoro ha diritto
all’indennità di disoccupazione solo il recesso avviene entro il primo anno di vita del bambino,
periodo durante il quale vige il divieto di licenziamento per il datore di lavoro. Non rileva, quindi, il
fatto che la riforma Fornero abbia esteso il periodo di convalida delle dimissioni da uno a tre anni,
poiché il Ministero del lavoro ritiene che l’estensione temporale dell’istituto della convalida non
abbia riflessi sul diritto all’indennità erogata a seguito di dimissioni volontarie che, pertanto, può
essere fruita solo nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento e cioè fino al compimento del
primo anno di età del bambino.
Un ulteriore importante novità da far rilevare riguarda l’ampliamento del campo di applicazione
dell’istituto della convalida che viene allargato anche ai casi di risoluzione consensuale del rapporto
di lavoro. Viene specificato, inoltre, che la convalida costituisce condizione sospensiva per l'efficacia
della cessazione del rapporto di lavoro.
La seconda procedura comunicativa – regolata dai commi 17 e 18 – prevede la convalida anche per
le restanti dimissioni o risoluzioni consensuali e riguarda la generalità dei lavoratori.
Anche in questo caso viene introdotto il regime della convalida con due metodi tra loro alternativi.
La convalida delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali del lavoratore e della lavoratrice si può
ottenere presso alcune sedi che già svolgono importanti funzioni in materia di lavoro, e cioè la
Direzione Territoriale del Lavoro, il Centro per l’impiego territorialmente competente o le sedi
individuate dai CCNL stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale.
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In alternativa, il lavoratore, può convalidare le dimissioni sottoscrivendo una dichiarazione in calce
alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, che l’azienda
è obbligata a inviare al Centro per l’impiego entro 5 giorni dalla data in cui è prevista la cessazione
del rapporto.
In merito, il Ministero del lavoro con apposita circolare la ha precisato che, quanto all’insorgenza
dell’obbligo di comunicare la risoluzione del rapporto a seguito della procedura di cui all’art. 4,
commi 16-22, della Legge n. 92/2012, lo stesso non può che coincidere con il momento a partire dal
quale il lavoratore (nel caso di dimissioni) o le parti nel caso di risoluzioni consensuali) intendono far
decorrere giuridicamente la stessa risoluzione.
Va rilevato, inoltre, che nel caso in cui il lavoratore non provveda alla convalida o alla sottoscrizione,
il datore di lavoro è tenuto nel tempo massimo di trenta giorni - decorrenti dalla fine del rapporto di
lavoro - ad invitare per iscritto il lavoratore a presentarsi nelle sedi previste per la convalida o per
effettuare la sottoscrizione. Se il datore di lavoro non provvede nei termini indicati, le dimissioni si
intendono prive di effetto (art. 4 co. 22, Legge n. 92/2012).
A tal punto il lavoratore entro sette giorni dall’invito del datore di lavoro può:
●
●
●
aderire all’invito formulato dal datore di lavoro;
non aderire all’invito formulato e in questo caso il rapporto di lavoro si intende risolto;
revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale.
In quest’ultima ipotesi, attivabile entro 7 giorni (che possono sovrapporsi con il periodo di preavviso)
da quello in cui ha ricevuto l'invito a convalidare le proprie dimissioni, la revoca va comunicata in
forma scritta. Il contratto di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, torna a avere corso
normale dal giorno successivo alla comunicazione della revoca.
E’ evidente che per il periodo intercorso tra il recesso e la revoca, qualora
la prestazione lavorativa non sia stata svolta, il lavoratore non matura alcun diritto retributivo. Alla
revoca del recesso conseguono la cessazione di ogni effetto delle eventuali pattuizioni a esso
connesse e l'obbligo in capo al lavoratore di restituire tutto quanto eventualmente percepito in forza
di esse.
Il preavviso: natura giuridica e funzione
Il diritto di ciascuno dei contraenti di liberarsi del vincolo contrattuale in qualsiasi momento, in
condizioni ordinarie, impone che sia rispettato un termine di preavviso.
Secondo un indirizzo maggioritario il preavviso assolve da un lato alla funzione di termine iniziale e
sospensivo dell'efficacia del negozio di recesso, dall’altro anche alla funzione di tutelare la parte, nei
confronti della quale si fa valere il recesso, al fine di ridurre le conseguenze dannose dello stesso
(GALANTINO, Diritto del lavoro, Torino, 2001; Scognamiglio, Manuale di diritto del lavoro, Napoli,
2005).
In altre parole, il preavviso non avrebbe la funzione di garantire una durata minima al rapporto a
tempo indeterminato quanto piuttosto quella di evitare che una sua interruzione, a discrezione del
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debitore, si traduca in un eccessivo danno per il creditore (SANGIORGI, I rapporti di durata e
recesso ad nutum, Milano, 1965).
Lo scopo principale del periodo di preavviso, pertanto, è quello di consentire al datore di lavoro di
sostituire il prestatore di lavoro dimissionario, senza danni all'organizzazione dell'azienda (PERA, La
cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 48; Meucci, Il rapporto di lavoro nell'impresa,
Napoli, 1991).
Durante il periodo di preavviso il rapporto di lavoro continua e produrre tutti i suoi effetti tipici,
infatti, il prestatore di lavoro è tenuto ad eseguire la propria prestazione ed il datore a corrispondere
la retribuzione, oltre a continuare a decorrere l'anzianità di servizio e ad essere applicati i
trattamenti economico-normativi; ne deriva che durante il preavviso permangono tutte le reciproche
obbligazioni delle parti e devono essere adempiuti tutti gli altri obblighi inerenti al rapporto.
La norma codicistica dell’art. 2118 non pone, tuttavia, un obbligo inderogabile, in quanto prevede
che l’unica sanzione per il mancato preavviso sia il risarcimento pecuniario con la c.d. indennità
sostitutiva del preavviso, indennità avente natura retributiva.
Sul punto, alcuni autori sostengono che la circostanza che durante il preavviso il rapporto di lavoro
rimanga in vita, così come tutti i diritti e gli obblighi delle parti, fa sì che la regola del preavviso sia
soggetta al principio dell'inderogabilità in peius (MAZZIOTTI, I licenziamenti dopo la Legge 11
maggio 1990, n. 108, Torino, 1991).
Riguardo la natura giuridica del preavviso, secondo l’indirizzo maggioritario il preavviso avrebbe
una natura reale e costitutiva, rivolto a spiegare gli effetti tipici del contratto durante il suo decorso.
In altre parole, il periodo di preavviso, a seguito di dimissioni si sostanzia nella prosecuzione del
rapporto di lavoro per tutta la durata prescritta e con tutte le obbligazioni inerenti al rapporto stesso.
Un diverso indirizzo, più recente, è dell’avviso che il preavviso non avrebbe efficacia reale ma
obbligatoria, quindi, qualora una delle parti eserciti il potere di recesso senza preavviso il rapporto
si risolve con effetto immediato (Cass. n. 11740/2007).
La conseguenza di quest’ultima affermazione è che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà
di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico
obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento
possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente,
nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del
rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale, il datore di lavoro potrebbe
legittimamente rinunciare all'obbligo di preavviso posto nel suo interesse a carico del dipendente
dimissionario.
Dimissioni senza preavviso per giusta causa
L’art. 2119 c.c. prevede che il recesso di entrambi i contraenti dal contratto di lavoro possa essere
immediato e, dunque, senza preavviso o c.d. straordinario nei rapporti a tempo indeterminato, o
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prima della scadenza del termine in quelli a tempo determinato, qualora si verifichi una “causa che
non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.”
Al riguardo, merita di essere precisato che non si è in presenza di due differenti negozi di recesso,
bensì di un unico tipo di negozio, rispetto al quale la giusta causa costituisce solo un presupposto
che esonera dal preavviso.
Ciò significa che, qualora si accerti che una siffatta causa non sussista di fatto, ferma restando
comunque la validità del recesso intimato, il recedente dovrà rispondere per il mancato preavviso.
La giurisprudenza ha riconosciuto le ipotesi di giusta causa facendo riferimento a gravi
inadempimenti del datore nell’ambito del rapporto di lavoro (per es. omessa corresponsione della
retribuzione, molestie sessuali, dequalificazione professionale).
In tal caso, proprio perché il recesso è stato determinato da un fatto colpevole del datore di lavoro, il
lavoratore che receda per giusta causa conserva comunque il diritto a percepire l’indennità
sostitutiva del mancato preavviso di cui all’art. 2119 c.c. se si trova in rapporto di lavoro
indeterminato, mentre in caso di contratto a tempo determinato, il risarcimento del danno subito dal
lavoratore è commisurato alle retribuzioni che allo stesso sarebbero spettate sino al termine di
scadenza del contratto stesso.
Dimissioni del lavoratore a tempo determinato
La disciplina del contratto a termine è contenuta nel D.Lgs. n. 368/2001 - attuativo della Direttiva
199/70 Ce relativa all’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’Unice, dal Ceep
e dal Ces regolamenta diversi aspetti del rapporto di lavoro a tempo determinato ma per quanto
concerne la cessazione del rapporto e le sue conseguenze si limita a disciplinare le ipotesi di
riassunzione del lavoratore alla cessazione del rapporto e di continuazione dello stesso oltre la
scadenza del termine pattuito.
Nella sostanza, il rapporto di lavoro a tempo determinato può cessare legittimamente per due
condizioni:
●
●
1) alla naturale scadenza del termine senza che sia necessaria alcuna specifica comunicazione da
parte del datore di lavoro e senza alcuna particolare conseguenza se non il pagamento delle
competenze di fine rapporto dovute al lavoratore;
2) prima della scadenza per il recesso del datore di lavoro o lavoratore assistito da giusta causa.
Non mancano tuttavia le ipotesi di recesso rassegnate dal lavoratore prima della naturale scadenza
del contratto dal lavoratore assunto con contratto a tempo determinato senza giusta causa; l’ipotesi
più frequente è per aver reperito una più stabile occupazione a tempo indeterminato, ed in tali casi è
assai raro che il datore di lavoro promuova un’azione nei confronti dell’ex dipendente chiedendo che
venga condannato al risarcimento del danno, di tale casistica, dunque, non risultano reperibili
precedenti giurisprudenziali.
Tuttavia, in applicazione dei principi generali in tema di inadempimento contrattuale e risarcimento
del relativo danno nella suddetta ipotesi il datore di lavoro potrebbe ottenere il risarcimento del
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danno.
E’ evidente però che il datore di lavoro dovrà fornire la prova dei danni subiti e la loro
quantificazione, anche se in assenza di tal’ultimo elemento in base all’art. 1226 c.c., se il danno non
può essere provato nel suo esatto ammontare, la sua liquidazione deve avvenire su base equitativa
presumibilmente con un importo equivalente all’ammontare dell’indennità sostitutiva del preavviso
che il lavoratore avrebbe dovuto prestare se il rapporto di lavoro fosse stato a tempo indeterminato.
La risoluzione consensuale
La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro si verifica quando entrambi le parti, lavoratore e
datore, acconsentono reciprocamente all'interruzione del contratto poiché è venuta meno la
convenienza o l’interesse alla prosecuzione del rapporto.
Anche in tale ambito, non di rado si è riscontrato che il recesso era solo apparentemente concordato
ma sia invece stato fatto sottoscrivere illegittimamente in bianco dal datore di lavoro, anche già
all’atto dell’assunzione, per poi essere da questo utilizzato quando ritenuto conveniente ed
opportuno.
La disposizione introdotta dall’art. 4 della Legge n. 92/2012, opera dunque anche in tale contesto,
prevedendo l’obbligo per il lavoratore di confermare le dimissioni attraverso varie procedure che
possano dare contezza della data effettiva di dimissioni e della volontà del lavoratore nel voler
risolvere il rapporto di lavoro introducendo un meccanismo volto ad asseverare la genuina volontà
del lavoratore di dimettersi o di prestare il proprio consenso nell’ambito di una risoluzione
consensuale del rapporto , producendo, dunque, sia per le dimissioni volontarie che della risoluzione
consensuale un effetto sospensivo condizionato alla convalida delle stesse.
La norma, in pratica richiede una seconda manifestazione di volontà del lavoratore, che si produce
con la convalida dell’atto di recesso, sottopone la risoluzione del rapporto ad una condizione
sospensiva legata alla convalida dell’atto stesso .
In tema di annullamento dell'atto di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, qualora
sottoscritto sotto minaccia di licenziamento, la giurisprudenza ritiene che sia suscettibile di essere
annullato per violenza morale solo quando venga accertata, con onere a carico del lavoratore, la
inesistenza del diritto della parte datoriale a procedere al licenziamento per insussistenza
dell'inadempimento contestato.
In merito è interessante richiamare l’orientamento, pacifico in giurisprudenza, secondo cui
nell’ipotesi in cui la risoluzione consensuale del rapporto o le dimissioni siano poste in essere
nell’ambito di un contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del
prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dell’autonomia collettiva, trova
applicazione il precetto posto dall’art. 2113 c.c. in relazione all’intero contenuto dell’atto, sempre
che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma ma strettamente interdipendente con le
altre.
Infine, appare utile evidenziare che l’obbligo di convalida, di cui alla legge Fornero n. 92/2012,
riguardante le dimissioni presentate o le risoluzioni consensuali concluse a decorrere dal 18 luglio
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2012 non è richiesto in tutte le ipotesi in cui la cessazione del rapporto di lavoro rientri nell’ambito
di procedure di riduzione del personale svolte in una sede qualificata istituzionale o sindacale,
poiché tali sedi offrono le stesse garanzie di verifica della genuinità del consenso del lavoratore cui è
preordinata la normativa in argomento.
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