lo psicologo nelle comunità locali
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lo psicologo nelle comunità locali
Convegno “PSICOLOGIA E ANZIANI: RUOLI, FUNZIONI, ATTIVITÀ E PROSPETTIVE PER LA PROFESSIONE” Padova, venerdì, 4 ottobre 2013 LO PSICOLOGO NELLE COMUNITÀ LOCALI Ennio Ripamonti Università Milano-Bicocca [email protected] Anzianità e rappresentazione sociale dell’invecchiamento Come ogni altra età della vita anche l’ultima stagione dell’esistenza è interessata da potenti processi di rappresentazione sociale. Se le idee dominanti sull’invecchiamento umano e sulla condizione anziana sono forgiate da variabili storiche e geografiche la stessa psicologia rischia di esserne inconsapevolmente vittima, perdendo in tal caso la consapevolezza dei propri limiti e la capacità critica nei confronti dei pensieri socialmente dominanti. Nel campo della gerontologia questa tendenza si è più di una volta manifestata in rappresentazioni stereotipate e omogeneizzanti della condizione anziana. E’ solo da pochi anni che le scienze sociali si mostrano più aperte, più critiche e più autocritiche nel loro modo di approcciare (sia sul piano conoscitivo che dell’intervento sociale) questo periodo della vita. Ma si tratta di un’apertura ancora minoritaria che fatica a mettere in crisi i modelli di pensiero più consolidati. Questo ci porta a intravedere un’inattesa saldatura fra lo sguardo prevalente che presidia le scienze biomediche (e in cui l’anzianità è sinonimo di malattia) e lo sguardo prevalente che presidia le scienze sociali (in cui l’anzianità è sinonimo di inutilità) come pensieri che costruiscono e rinsaldano i principali stereotipi sociali dell’anzianità. Fra disimpegno e attività Già a partire dalla metà del secolo scorso si sono venute formando due diverse prospettive teoriche nel campo della condizione anziana. Una prima prospettiva è riconducibile all’idea del disimpegno (disengagement) e una seconda all’idea dell’attività (activity). I modelli che si richiamano al concetto di disengagement si concentrano sugli aspetti di declino causati dal processo di invecchiamento. L’anzianità è un’epoca segnata dalle sofferenze, dalle malattie e da una serie di ineluttabili riduzioni di capacità. Conseguenza normale di questo itinerario di rarefazione di capacità sarebbe il ritiro progressivo della persona anziana dagli impegni sociali. In corrispondenza all’allontanamento messo in atto dal soggetto corrisponde un analogo arretramento della società attraverso una sottrazione di richieste e di sollecitazioni nei confronti dell’anziano. Questo tipo di rappresentazione del rapporto fra anziano e società mostra il suo principale punto di debolezza nell’assumere come naturale un processo che è frutto di precisi e potenti condizionamenti. Il fatto che siano in atto meccanismi di disimpegno e di allontanamento non significa di per sé che siano eventi intenzionalmente voluti dalle persone anziane. I modelli che si richiamano al concetto di activity prendono le mosse dall’idea della persona anziana come di un soggetto ancora attivo e in grado di dare ancora contributi utili e funzionali allo sviluppo della società. Se è quindi indubitabile il processo di invecchiamento nella sua forma della riduzione dei ruoli socialmente il problema diventa quello di attivarsi nella ricerca di nuovi. Questo processo avrebbe un doppio vantaggio. Per la persona che si attiva la sperimentazione di nuovi ruoli produrrebbe un miglioramento del tono dell’umore e della immagine di sé mentre per la società le potenzialità degli anziani attivi andrebbero a costituire un giacimento di abilità e capacità riutilizzabili e da mettere a valore. 1 Il rischio positivista delle scienze psicosociali Viste più da vicino entrambe le prospettive appaiono connotate da alcuni elementi che ne tradiscono l’impianto positivista: Oggettivazione dei soggetti. Nella grande maggioranza dei casi gli anziani sono considerati esclusivamente “oggetti” di ricerca e intervento. Il processo di costruzione dei concetti e di formulazione delle teorie sui comportamenti della popolazione anziana è terreno esclusivo della comunità dei ricercatori / operatori Condizionamento sociale delle teorie. Le modalità di costruzione delle teorie coinvolgono poco o nulla la soggettività degli anziani ma sono intensamente condizionate da un processo di “travaso di contenuti” dalla società alla scienza sociale. Le idee socialmente dominanti in tema di anzianità avrebbero quindi un facile e acritico accesso nella costruzione del pensiero degli “addetti ai lavori”. Influenzamento dei valori dominanti. All’interno del più complessivo processo di condizionamento vi sarebbe un’azione di “travaso di valori” propri della concezione sociale del segmento dotato di più potere di rappresentazione, e cioè l’età adulta maschile di classe media delle società occidentali. La scelta di teorie e di concetti tenderebbe quindi ad affermare le premesse e gli sguardi di questo stesso segmento sociale. Esternalità e normalizzazione. Si tenderebbe quindi a determinare al di fuori della realtà esistenziale concreta delle persone anziane le teorie che li riguardano (e i valori ad esse correlati) e, contemporaneamente, le deviazioni da questi presupposti teorici sono visti (e descritti) come anormalità. Anche le analisi possono essere inconsapevolmente strumentalizzate poiché il loro obiettivo è quello di evidenziare quello che i ricercatori definiscono come normalità o come salute. Come si può vedere si tratta di una visione che rende difficile poter lasciar parlare l’Altro. Ne deriva che la condizione anziana se è disimpegno è necessariamente sofferenza, poiché è impossibile una vita piena e soddisfacente al di fuori del recinto della produttività adulta. Non si vuole ovviamente affermare il contrario. Il disagio e la sofferenza sono fenomeni molto presenti nella condizione anziana ma, come mostra l’analisi di Tornstam, troppo spesso nell’ambito degli studi gerontologici assumono la caratteristica di veri e propri assiomi. Queste riflessioni conducono inevitabilmente a confrontarsi con molti valori guida che ispirano e connotano gli sguardi e le azioni di molti psicologi. Ovviamente non intendiamo autoescluderci da questa disanima critica nè tanto meno suggerire improbabili neutralità e oggettività. Va detto peraltro che nel contesto italiano gli approcci improntati al concetto di activity sono relativamente recenti anche se attualmente paiono godere di una certa diffusione nell’ambito della letteratura di settore e fra gli operatori più impegnati. Sono approcci che stanno aiutando a fare uscire le rappresentazioni dell’anzianità ricorrenti nel nostro Paese dalle forme più tradizionali e scontate del disimpegno e dell’assistenza. Ma proprio perché crediamo sia importante costruire modelli di lettura e di azione capaci di rappresentare nuove e mutevoli esperienze di vita in età anziana ci interessa sottoporre questa stessa visione ad una disanima critica di uguale rigore a quella condotta in precedenza. Lo psicologo di fronte ai miti da sfatare Ne deriva che lo psicologo è chiamato in causa, in prima persona, a sfatare i miti sull’anzianità per potersene occupare in maniera efficace e soddisfacente. L’OMS ha proposto in particolare 6 potenti miti su cui lavorare: 1. Primo mito: La maggioranza degli anziani vive nei paesi industrializzati. L’aspettativa di vita è cresciuta in tutto il mondo, ed il motivo di questa crescita è il pronunciato declino della morte prematura dovuta a molte malattie infettive e croniche durante l’ultimo secolo 2. Secondo mito: Gli anziani sono tutti uguali. In realtà si tratta di un gruppo molto diversificato, con percorsi e condizioni di vita altamente differenziate. Uno stile di vita caratterizzato da invecchiamento 2 attivo implicano: participare alla vita della famiglia e della comunità; nutrirsi con una dieta sana e bilanciata e mantenere un esercizio fisico adeguato 3. Terzo mito: Uomini e donne invecchiano allo stesso modo. In realtà la variabile di genere è piuttosto significativa. In alcuni contesti sociali il vantaggio biologico delle donne è ridotto dal loro svantaggio sociale (discriminazione) 4. Quarto mito: Gli anziani sono fragili. I dati ci dicono che la grande maggioranza delle persone anziane rimane fisicamente in forma fino ad età avanzata, con buone competenze nei compiti della vita quotidiana e un ruolo attivo nella comunità 5. Quinto mito: Gli anziani non possono fornire un contributo alla società. Idea decisamente disconfermata dalla constatazione degli ingenti contributi forniti da questo segmento sociale alle loro famiglie, alla comunità e alla società nel suo insieme. Per queste ragioni la psicologia di comunità è chiamata in causa a: conoscere e riconoscere il ruolo degli anziani nello sviluppo locale; promuovere la partecipazione, l’autoaiuto, il volontariato e la cittadinanza attiva; promuovere opportunità di apprendimento durante tutto il corso della vita; promuovere salute e benessere 6. Sesto mito: Gli anziani sono un peso economico per la società. Per quanto ci venga quotidianamente ripetuto nel dibattito giornalistico in realtà si tratta di un’affermazione altamente discutibile e frutto del pregiudizio (e di un certo ageism). Come ha affermato di recente l’Istituto Superiore di sanità “Il crescente numero di anziani che si aspettano cure sanitarie e pensioni di vecchiaia, non deve essere visto come un pericolo o una crisi, ma solo come una opportunità di sviluppare delle politiche che assicurino standards di vita decenti in futuro per tutti i membri della società, giovani e vecchi”. Possiamo quindi dire che c’è un grande spazio di ricerca e sperimentazione per collocare la funzione dello psicologo all’interno di un orizzonte politico sociale e professionale che mira a costruire coesione, appartenenza, responsabilità e partecipazione nelle comunità locali, agendo a diversi livelli e con differenti modalità: costruendo competenze, sviluppando potere, producendo legame sociale, innovando la cultura e superando gli stereotipi. 3