Ite, missa est… - San Pietro di Sorres
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Ite, missa est… - San Pietro di Sorres
Ite, missa est… «Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo. Essi, predicando il Vangelo a tutti gli uomini, non dovevano limitarsi ad annunciare che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, bensì dovevano anche attuare l’opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica». Dietro questo passaggio di Sacrosanctum concilium 6, vi è un altro aspetto che merita di essere sottolineato, ossia il rapporto liturgia-missio. A tal proposito, il documento sopra citato utilizza frequentemente i verbi “mandare”, “inviare”. La liturgia, infatti, non può essere compresa come flatus vocis, ma è anzitutto azione (sono due, infatti, i termini greci che formano questa parola: laos ed ergon = “azione del popolo”, da cui “celebr-azione”): azione del Padre che non solo promette la salvezza, ma invia il Figlio perchè ne sia mediatore; azione del Figlio, dunque, che a sua volta, dopo aver portato a compimento il progetto del Padre, invia la Chiesa a far conoscere la salvezza, portandola; azione, di conseguenza della Chiesa che, insieme a Cristo, “media” la salvezza operata dal Padre. Ma non basta… Occorre, infatti, dopo aver noi riconosciuto la grandezza dell’amore di Dio, espressa nei sacramenti, farne conoscere al popolo di Dio il valore, che non ha “prezzo”. Ecco, allora, come la liturgia debba diventare “missione” per il cristiano: o dopo averne fatto esperienza personale nel rito, è chiamato ad annunciare e a testimoniare che c’è un Dio che è Padre e che ha cura dei suoi Figli, mettendo in azione quelle che sono le prerogative dell’eucaristia: la carità, la solidarietà, la donazione di sè; o far conoscere gli “strumenti” del suo amore e le “terapie” della sua premura nei nostri confronti: i sacramenti appunto. L’Anno della fede diventa perciò anche missione, in quanto momento opportuno per far riamare la liturgia al popolo di Dio, specie l’incontro domenicale di tutti i battezzati attorno all’altare del Signore. Esso è, infatti, come ribadisce il Concilio Vaticano II e la Sacrosanctum concilium al n. 106, la “festa primordiale” del cristiano: primordiale perché “prima” come nascita tra le festività dell’anno liturgico, ma anche perché pasqua settimanale nella quale, ogni otto giorni, celebriamo la risurrezione del Signore. Per questo occorrerà spendere maggiori energie anche in un cammino pastorale che abbia quale progetto, già predisposto dalla Chiesa, lo stesso anno liturgico, all’interno del quale dovranno intrecciarsi e confluire le diverse attività che animeranno quest’Anno della fede. Si badi soprattutto a far sì che, non solo la Pasqua annuale celebrata nei suoi riti, ma soprattutto quella settimanale possa essere incisiva nella vita della comunità; possa coinvolgere i cristiani nel mistero attraverso una liturgia ben celebrata e preparata con opportune catechesi mistagogiche offerte al popolo. Tra le più diverse motivazioni che conducono ad un’“assenza” sempre più “presente” e “pesante” del popolo di Dio alle nostre celebrazioni, non sottovalutiamo le liturgie poco curate, noiose perché non sviluppate nelle loro più alte potenzialità celebrative, incapaci di coinvolgere il popolo di Dio. Non dimentichiamo che, spesso, una celebrazione insieme seria, semplice e bella, può essere il segreto per “riconquistare” il popolo di Dio al suo Dio. Da questo punto di vista, ogni comunità saprà trovare strategie mirate secondo la diversità delle assemblee. Solo dopo che il cristiano ha ben vissuto il momento della celebrazione, è non solo invitato, ma spronato ad uscire dal rito per portarlo nella vita. Lo stesso comando di Gesù: «Fate questo in memoria di me», in realtà non rappresenta l’unica disposizione che Gesù affida ai suoi durante l’ultima cena. Non si tratta, infatti, di compiere semplicemente un rito. Gesù, prima di spezzare il pane e di offrire il calice, compie un gesto che rimane la manifestazione più grande di ciò che l’eucaristia, e la liturgia della Chiesa in genere, dovrebbe suscitare: «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13, 35). E da questo gesto scaturisce l’altro comando di reiterazione: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13, 14-15). L’eucaristia non può ridursi a “ritualismo”; essa, infatti, come ogni altra liturgia, ritrova nella vita vissuta cristianamente, “eucaristicizzata”, come diranno i Padri, la propria verità. A tal proposito, sempre la Sacrosanctum concilium al n. 11 ribadisce che «i pastori di anime devono vigilare attentamente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso». Dunque non basta badare alla validità dell’azione liturgica, ma occorre che questa sia partecipata, “com-presa” nella vita. Lo stesso invito del presbitero, al termine della messa: «…andate in pace», meglio reso con le parole latine ite, missa est, indica sì il termine dell’“eucaristia-rito”, ma inaugura ogni volta l’inizio della “eucaristia-missio”, del cristiano. Roma, 29 dicembre 2012 Don Pierangelo Muroni Docente al Pontificio Istituto Liturgico Pontificia Università Urbaniana – Roma