la liberalizzazione della liturgia romana

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la liberalizzazione della liturgia romana
LA LIBERALIZZAZIONE DELLA LITURGIA ROMANA
Di Domenico Pizzuti s.j.
Contrastanti reazioni, amplificate dai media, ha suscitato nel mondo cristiano e laico
la Lettera Apostolica di Benedetto XVI, a modo di Motu proprio, “Summorum Pontificum”,
in data 7 luglio 2007, che contiene disposizioni riguardanti l’uso della liturgia romana
anteriore alla riforma del 1970, di cui occorre chiarire il significato storico-religioso. Infatti,
come è noto, la pluralità di riti e lingue è diffusa e legittima nella comunità cattolica nel
mondo: si pensi a quelli greco, melchita, maronita, copto per l’Oriente ed al rito ambrosiano
per l’Europa. Senza dimenticare il rito romano in lingua latina, che non è stato mai
abrogato. Per la chiarezza dell’informazione, sono utili preliminarmente alcune precisazioni
circa la natura e l’ampiezza dispositiva del documento, per coglierne la portata e gli effetti
nel campo religioso.
In primo luogo, la citata Lettera apostolica è un documento pontificio, regolativo
nell’ambito liturgico, che contiene disposizioni in forma di 12 articoli che riguardano l’uso
della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. E’ una sorta di decreto che liberalizza
ampiamente l’uso della liturgia romana antecedente la riforma del 1970 e rientra nelle
competenze del romano pontefice. E’ una forma di validazione istituzionale di modalità del
celebrare i riti nella confessione cattolica, come avviene per quelle del credere, da parte
della suprema autorità della Chiesa. Per questa natura, non mette in questione documenti
che hanno ben altro valore dottrinale e pastorale come quelli emanati dal Concilio Vaticano
II sulla stessa liturgia cattolica in vista di una sua riforma e rivitalizzazione. Anche se
continua ha essere oggetto di interpretazione il carattere di continuità o discontinuità dello
stesso Concilio, come appare dal documento della Congregazione per la dottrina della fede,
“Risposta a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa” che mira a
ribadire che l’unica chiesa voluta da Cristo trova la sua piena identità soltanto nella Chiesa
cattolica. Ha ragione Alberto Melloni quando osserva con una certa ironia che è
onestamente ovvio che il Vaticano II non ha cambiato la precedente dottrina sulla chiesa,
“tanto quanto è ovvio che se un concilio si fa sarà per dire qualcosa…” (Corriere della sera,
11 luglio 2007, p.6).
In secondo luogo, sull’ampiezza di questa liberalizzazione, si deve evidenziare che
non riguarda solo la celebrazione della Messa, secondo l’art. 1: <<E’ lecito celebrare il
Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato
Giovanni XXIII nel 1962, come forma straordinaria della liturgia della Chiesa>>,
accogliendo le richieste di gruppi di fedeli che stabilmente in una parrocchia aderiscono
alla precedente tradizione liturgica. E non solo questa forma straordinaria può aver luogo
nei giorni feriali, ma anche nelle domeniche e festività, ed in circostanze particolari
(matrimoni, esequie, pellegrinaggi). Ulteriormente, all’art. 9 si estende la licenza di usare il
rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del battesimo, della confermazione,
del matrimonio, della penitenza e dell’Unzione degli infermi, in vista sempre del bene delle
anime.
In seguito a richieste di gruppi di fedeli più o meno “tradizionalisti”, avremo quindi
nelle parrocchie celebrazioni in forma ordinaria in lingua volgare ed una straordinaria in
latino a seconda di preferenze liturgiche che attengono ad un ambito soggettivo ma anche
organizzato di gruppi tradizionalisti. Polifonia o cacofonia, questo è il problema! Può
sfuggire che l’uso del Messale romano secondo l’edizione del 1962 e del rituale più antico
nell’amministrazione dei sacramenti comporta, se ben comprendiamo, il rispetto delle c.d.
“rubriche” per quanto riguarda per esempio i paramenti da indossare da parte del
sacerdote, la celebrazione con le spalle rivolte al popolo, i canti liturgici, i chierichetti solo
maschietti e cosi via.
Non è in questione solo l’ estetismo liturgico di gruppi di fedeli, molto più
importante su un piano non solo sociologico è fare attenzione alle credenze, atteggiamenti e
comportamenti che i vari rituali trasmettono ed inculcano, come è stato rilevato per
esempio per espressioni nei confronti dei giudei da parte del Messale romano che feriscono
le sensibilità non solo degli ebrei. Ad ogni modo, in una visione genuinamente religiosa
occorre tenersi lontano da ogni feticismo idolatrico dello stesso Messale che segna percorsi
di celebrazioni religiose di una comunità di fedeli approvati dall’autorità ecclesiastica. Non
a caso questi Messali portano delle date e hanno una loro storia che non va ignorata e di cui
bisogna comprendere le ragioni del loro affermarsi nella vita della chiesa. Una
relativizzazione storico-sociologica non fa male e non esclude altre valutazioni.
Infine , bisogna considerare gli effetti aggregativi e disgregativi del documento in
questione nel campo religioso: da una parte viene incontro alle richieste dei gruppi
tradizionalisti ed in particolare del movimento lefebvriano che auspica il ripristino di
vecchie forme di espressione e di culto (la Messa secondo il rito di Pio V, il catechismo di
Pio X, le vecchie traduzione della Bibbia), favorendo un avvicinamento del movimento che
prende nome da Mons, Lefebvre scomunicato nel 1988. Non si deve sottovalutare in
particolare questo accoglimento di alcune richieste del movimento tradizionalista di
Lefebvre, - pur nell’ambito di un sano pluralismo in campo liturgico -, che più in generale
ha posto in questione l’interpretazione del Concilio Vaticano II. Infatti, tale movimento
rappresenta una reazione di fronte al cambiamento religioso nel cattolicesimo in seguito al
Concilio Vaticano II, auspicando una restaurazione di forme precedenti di espressione ed
una riaffermazione dell’autorità e dell’identità del sacerdote. Il problema riguarda quindi l’
innovazione o meno (modello culturale dinamico della modernità occidentale) portata in
vari campi dallo stesso Concilio Vaticano II nella vita della chiesa nel tempo, chiave
interpretativa anche per il documento sulla liberalizzazione della liturgia romana.
Dall’altra il documento ha generato perplessità e sofferenza in religiosi e fedeli che
hanno accolto con entusiasmo e si sono adoperati per attuare nella vita della chiesa la
riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II, manifestando anche in questa
occasione una diversità di sensibilità e stili di vita cristiana che può dar luogo ad un
soggettivismo religioso per preservare ciò in cui si crede ed il modo in cui si crede. Il
problema non di oggi riguarda la difficoltà di un libero e responsabile dibattito nella chiesa.
Onestamente questo ritorno legittimo a rituali antichi, per ragioni comprensibili nelle
strategie ecclesiali sul versante dei gruppi tradizionalisti, suscita nostalgia dei fermenti del
“movimento liturgico” che nel primo Novecento hanno preparato la Riforma liturgica del
Vaticano II che ha animato proficuamente le celebrazioni liturgiche e la vita cristiana della
quasi totalità dei fedeli, almeno nei nostri territori.