FINESTRE SULLA NORMALITÁ Mentre si torna
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FINESTRE SULLA NORMALITÁ Mentre si torna
FINESTRE SULLA NORMALITÁ Mentre si torna a parlare di ricovero per i malati di mente, nel centro di Milano vive una piccola comunità. Giovani, liberi e perfettamente inseriti nella città. Li assiste uno psichiatra in guerra contro i pregiudizi. Che vent’anni fa lasciò il manicomio inseguendo una sirena. (Emanuela Zuccalà – Io Donna – 10 maggio 2003) Romina tiene un costante colloquio con il diavolo. Sprofonda ogni giorno nella poltrona in pelle nera del salotto, a braccia conserte, truccata e ben vestita e sussurra domande e risposte. E’ l’unica che da anni non cucina né lava i piatti. Nessuno gliene fa una colpa e il suo nome sta sempre lì, sulla tabella dei turni appesi al muro. Claudia si alza tardi, colpa del farmaco che ingabbia le sue allucinazioni. Ha visto in tv il film di Luc Besson su Giovanna d’Arco, e si è messa a ridere pensando ai suoi, di deliri, quando fermava le macchine in autostrada proclamandosi Gesù Cristo. Alla vigilia del suo trentatreesimo compleanno si temeva la crisi mistica più plateale. Invece lei ha semplicemente festeggiato con gli amici. Giulio era un eroe: aveva la fidanzata. Si erano incontrati alla riunione di alcolisti anonimi. Ma ogni distacco, anche di poche ore, gli lacerava il cuore con un dolore insopportabile. Adesso si sveglia di colpo, di notte, trafitto dai picchi di ansia. E cammina su e giù per la casa finché non crolla. Carlo vive con Katia da più di dieci anni. Dipinge e fa traduzioni dall’inglese. Ha un incedere lento e un’aria dolcissima. Le voci continua a sentirle ma non gli fanno più paura come in passato: è come se gli stessero accanto, non dentro. Le conosce e le domina. Emanuele viveva per strada. Ha rischiato il manicomio criminale per uno spintone a sua madre, che l’ha denunciato. Dicono che sia schizotipico e non contenga gli istinti, ma parlandogli, in piedi nel corridoio, sembra solo un ragazzo di ventisette anni insofferente alle regole. Originale combriccola, quella di via Leopardi, 1 a Milano, scala a destra, terzo piano. Un appartamento/comunità che esiste da diciotto anni eppure è ancora un esperimento. Perché far abitare otto giovani matti in un bel palazzo d’epoca del centro, in una casa ariosa e ben arredata; inventarsi per loro stimoli e svaghi (il cinema, la palestra, il corso di disegno e l’inglese, il lavoro, le vacanze in montagna) sfilarli piano dall’abbraccio di madri che li terrebbero in eterno legati ai loro letti di adolescenti falliti, restano operazioni controcorrente. Nelle quali lo psicoterapeuta Giampietro Savuto, 56 anni, e una travolgente comunicativa siciliana, ha creduto dopo la sua fuga dal manicomio. “Mi sono specializzato a Mombello, il più grande manicomio della Lombardia: una città di tremila e rotti pazzi. Giovane com’ero, mi faceva una impressione enorme la perdita di ogni dimensione spazio temporale. Là dentro poteva essere il 1920 come il 1960: non te ne accorgevi”. Una grande madre che contiene la follia, avvolgendo il folle in un sonno senza risveglio. Al contrario, le tre piccole comunità che Savuto ha aperto a Milano chiamandole Lighea (la sirena di Tomasi di Lampedusa che seduce e fa perdere il senno) trattano i matti come farebbe un padre: li responsabilizzano (perché se si salta il turno in cucina nessuno mangia), allentano il legame simbiotico con la famiglia, li avviano all’autonomia affinché la psicosi non li schiacci e non impedisca la loro crescita sociale e sentimentale. “Sono profondi e introspettivi” li descrive Savuto “alcuni hanno una sconvolgente capacità logica di costruire il pensiero. E’ sul piano emotivo che non reggono”. L’idea di far abitare i malati di mente in un condominio del centro, perché vivano la città e la città conosca finalmente la pazzia, è venuta a Savuto durante un viaggio a Londra, negli anni Settanta, dove si tentavano le prime strade alternative ai manicomi/ghetti. “Fino all’anno scorso ho lavorato in assenza di legge” spiega riferendosi al vuoto intercorso fra la Basaglia, del 1978, e le norme regionali per finanziare nuove strutture per i pazienti psichiatrici, applicate ancora oggi a macchia di leopardo. All’inizio le sue comunità erano per ricchi, oggi c’è una convenzione con la Asl e Lighea è una fondazione. L’unica cosa che non è cambiata, secondo Savuto, è il pregiudizio della gente. E lui cerca di combatterlo con la sua associazione culturale, AIEMm, con la quale ha anche partecipato al festival di Venezia con un cortometraggio ideato dai suoi pazienti, vincendo il premio Corti Aiace nel ’98. “Quando ho aperto la prima comunità, in via Besana, i vicini volevano cacciarmi. Uno di loro, avvocato penalista diceva che i miei clienti disturbavano i suoi. Gli ho chiesto: come possono dei poveri depressi dare fastidio a spacciatori e ladri? Ecco: il criminale lo accogliamo, del matto abbiamo paura perché ci rimanda l’immagine della nostra parte malata. Sappiamo di averla e ci terrorizza: i manicomi non erano che il recinto per la nostra ordinaria follia. E la proposta di legge che parla di strutture con venti posti letto non fa che ravvivare quella cultura. Provi a mettere venti donne bionde in una casa, o venti nani, o venti uomini con i baffi: non li isola inesorabilmente dal mondo?”. In otto invece è come una famiglia allargata. Nonostante la schizofrenia, i disturbi ossessivo compulsivi, la grave depressione di cui i pazienti di Lighea soffriranno per sempre. “Sono malattie croniche” spiega Savuto “non si guarisce ma si impara a gestirle e a raggiungere una buona qualità di vita. I ricoveri per le fasi acute diventano sempre più rari fino a scomparire”. E se i genitori collaborano, convincendosi che i figli sono malati da curare e non bambini da accudire, il percorso è in discesa: due o tre anni in comunità con un’assistenza 24 ore su 24 e poi si va a vivere da soli o con altri pazienti, assistiti poche ore al giorno. Oggi gli appartamenti che ruotano intorno a Lighea sono quindici, una rete di socialità che organizza il brunch domenicale, gruppi di self-help, feste di compleanno. Claudia lavora, poche ore a settimana, alle Misericordie. E’ qui da 15 anni. Roberto, che sta nella villetta di via Canzio, la terza Lighea appena aperta, va qualche pomeriggio in una agenzia fotografica. Nessuno è pericoloso, o meglio: tutti lo sono esattamente come i “sani”. “Solo che non hanno il senso della realtà e non sanno gestire le cose banali come il cibo e i soldi: cinque euro al giorno gli bastano a mala pena per le sigarette” racconta Sara, un’operatrice. È giovane e carina, i matti la abbracciano, la inseguono per casa, dicono che è l’unico angelo rimasto sulla terra. “Le diagnosi saranno uguali ma loro sono tutti diversi” afferma Sara. “L’unica caratteristica comune è che hanno sofferto per mancanza di attenzione. E la comunità, con i suoi ritmi, le regole, i doveri e il confronto con gli altri, si erige su questo grande vuoto affettivo”.