PAPERS - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

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PAPERS - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
-PAPERS-
BRUNO CARTOSIO
2008 – 1968: RITORNARE AL FUTURO.
IDEE, CULTURE E POLITICA A CONFRONTO
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – Papers
I “Papers” sono costituiti da testi proposti nell’ambito delle iniziative promosse dalla Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli.
I “Papers” sono pubblicati dalla Fondazione per gentile concessione dell’autore.
Testo della relazione introduttiva al convegno
“2008-1968: ritornare al futuro. Idee, cultura e politica a confronto”
Milano 10 dicembre 2008
© 2008 – by Fondazione Giangiacomo
2
Feltrinelli
1.
Vorrei mettere in epigrafe a questa introduzione una citazione dallo scrittore americano
William Faulkner che Barack Obama ha incluso, parafrasandola, nel suo discorso sulla razza,
tenuto a Filadelfia il 18 marzo 2008. Le parole che Faulkner fa pronunciare a uno dei personaggi
di Requiem for a Nun sono: “The past is never dead. It is not even past”. Quelle di Obama: “The
past isn’t dead and buried. In fact, it isn’t even past”: “Il passato non è morto e sepolto. In
effetti non è neppure passato”. Il concetto, pur con accentuazioni diverse, è nella sostanza lo
stesso nelle due citazioni e ha un’attinenza con questo incontro.
L’idea che ha presieduto alla sua organizzazione è che ci si debba guardare indietro, da
dove ci si trova, per avere la percezione tanto di dove si è veramente, quanto del percorso
compiuto per arrivarci e, aggiungiamo, di quello che abbiamo davanti a noi. La “solidarietà tra
epoche diverse”, per usare le parole in questo caso dello storico Marc Bloch in Apologia della
storia, è tale, “ha in sé tanta forza”, che se la si interrompe si perdono quelle “relazioni di
intelligibilità” che danno senso al vivere degli uomini nel tempo, nel loro tempo.
Scriveva ancora lo storico francese: “L’incomprensione del presente nasce fatalmente
dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato,
quando non si sappia nulla del presente”.
Quindi, rovesciando in positivo la sua formulazione: conoscere il passato – nel titolo di
questo incontro: il ’68 – a partire dalla conoscenza del 2008 e tornare all’analisi del 2008
prendendo il ’68 come uno dei possibili punti di partenza. Capire quello che si è diventati, quali
sono stati i percorsi e attraverso quali percorsi, ora, formuliamo i nostri giudizi sull’allora e
sull’oggi e elaboriamo premesse per il domani.
A voler dare una veste forse fin troppo ambiziosa all’intenzione di questo incontro si
potrebbe dire che vorremmo ragionare su quanto e come è cambiato questo nostro mondo con
gli occhi sia di chi ha l’età per avere esperito tanto quello di quarant’anni fa quanto questo, sia
di chi esperisce questo, e quell’altro lo ha solo studiato. Oppure, meno ambiziosamente, più che
tra due momenti storici, il confronto è tra le rappresentazioni che dell’uno e dell’altro momento
danno generazioni diverse, a partire da come vivono il presente – e pensano al futuro – persone
che appartengono, appunto, a generazioni differenti.
“Come pensano al futuro”, ho appena detto, perché nel titolo di questo incontro,
“ritornare al futuro” è racchiusa un’implicazione ottativa, in una certa misura programmatica. Il
titolo non è il facile richiamo a un film di successo di qualche anno fa; è la dichiarazione di un
proposito, che si colloca tra l’intenzione, il desiderio e la speranza: nella crisi attuale, in questo
presente così spiacevole e contrario, cercare di recuperare lo spirito necessario per ripensare al
futuro, ecco: questo, se vogliamo, come si faceva in quegli anni. E farlo con passione. Queste
sono le uniche cose di quell’altro momento di crisi che varrebbe la pena cercare di recuperare.
Nell’aprile scorso, spiegando in un’intervista a La Repubblica il titolo di un suo libro
appena uscito, Forget 68, Daniel Cohn-Bendit – uno dei leader del Sessantotto francese –
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diceva: “Il Sessantotto è finito! Questo non vuol dire che quel passato sia morto, ma soltanto
che è sepolto da quaranta tonnellate di selciato che, da allora, hanno segnato e trasformato il
mondo”. Certo che è finito, lo è da un pezzo. E certo che il mondo è cambiato. Oggi la
“solidarietà tra epoche diverse” ha senso se ci aiuta a esaminare criticamente i tracciati di quel
selciato, su cui camminiamo disagevolmente, e soprattutto se ci serve a riprogettarne il
percorso.
Ci riusciremo? Nelle ultime due righe del suo libro di vent’anni fa sugli anni Sessanta –
Years of Hope, Days of Rage – il sociologo, storico ed ex militante della Nuova sinistra
statunitense Todd Gitlin ha inserito una citazione: “ ‘Non è dato a te di portare a termine il
compito’, ha detto il rabbino Tarfon mille e novecento anni fa, ‘e tuttavia non ti è permesso
rinunciare’ ”. Non ci è permesso neppure di pensare che quello che non abbiamo fatto noi
nessun altro lo farà, né che non possa farlo meglio di noi.
2.
La “solidarietà tra epoche diverse” include continuità e discontinuità e conflitto: non è
detto che ciò che non era possibile ieri o non sembra possibile oggi non lo sarà neppure domani.
“La mia storia” personale e familiare, ha detto Barack Obama mesi fa con un ironico e
autoironico understatement, “non ha fatto di me il più convenzionale dei candidati”. Eppure
Obama ha vinto. Fermiamoci un momento sulle elezioni presidenziali statunitensi.
Nella
lunghissima
campagna
elettorale
gli
anni
Sessanta
sono
stati
quasi
incessantemente evocati, spesso per giocarli a favore o contro questo o quel candidato.
L’occasione lo giustificava: McCain era un eroe della guerra del Vietnam, che segnò almeno
metà di quegli anni; Barack Obama e Hillary Clinton rappresentavano ognuno a suo modo lo
sbocco simbolico delle dinamiche di denuncia, rivendicazione e lotta aperte dai movimenti sociali
di quei “lunghi anni Sessanta” iniziati a metà del decennio precedente con il movimento
afroamericano e proseguiti fino all’acquisizione di dimensioni di massa del movimento di
liberazione delle donne.
E’ chiaro che l’evento pone domande sul passato: chi avrebbe mai pensato che un
afroamericano diventasse presidente? Finora solo Hollywood aveva avuto il coraggio di
immaginarlo. Come è potuto accadere, dunque, che un afroamericano e una donna abbiano
potuto competere per quella carica nel 2008?
In altre parole: come si fa a comprendere l’importanza storica, epocale, dell’elezione di
Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti se si ignora la storia che ha preceduto
questo fatto? Nel corso del 1960, l’anno prima che Obama nascesse, 70.000 giovani neri
parteciparono in tutto il Sud ai sit in per conquistare il diritto di sedersi dove volevano nei bar e
nelle tavole calde e 3000 di loro furono arrestati. Nel 1961, il suo anno di nascita, 700
dimostranti – tra cui Martin Luther King – venivano arrestati ad Albany, in Georgia, perché
protestavano contro la segregazione razziale e le discriminazioni a carico dei neri. Tre anni
prima, il giovane nero Clennon King era stato giudicato pazzo e internato in manicomio per
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avere chiesto di iscriversi all’Università del Mississippi. Se Obama, invece, ha potuto studiare a
Columbia e Harvard e diventare il primo direttore afroamericano della Harvard Law Review nel
1990 vuol dire non solo che il Massachusetts non era il Mississippi, ma anche che qualcosa era
già cambiato, tanto da permettere che le qualità personali potessero portare un afroamericano
figlio di “nessuno” a un incarico così prestigioso.
Però non si può isolare la storia personale dal contesto entro cui acquista il suo significato
storico. Quindi, la domanda: è vero che l’elezione di Obama chiude la dinamica conflittuale
aperta intorno alla metà degli anni Cinquanta dalle lotte di massa contro la segregazione
razziale, contro il razzismo istituzionale e per la conquista dei diritti civili? La risposta è: sì, sul
piano simbolico. Pur riconoscendo tutta l’importanza – grande – che i simboli hanno nella storia
e nella cultura delle nazioni, bisogna dire che la success story di Obama testimonia che la
collettività afroamericana è ora socialmente molto più diversificata al suo interno di quanto fosse
decenni fa, ma anche che il successo di Obama – il terzo nero a diventare senatore in tutto il
Novecento (e il primo fu eletto soltanto nel 1967) – non rappresenta, né sintetizza l’elevazione
sociale di quella collettività, che rimane, sociologicamente, la componente più povera, più
discriminata e più carcerata degli Stati Uniti. D’altro canto, le aspettative che in tutto il mondo
sono state caricate sulle spalle di Obama non testimoniano forse che l’oggi della sua elezione si
proietta nel futuro?
Considerazioni analoghe si potrebbero fare sulla candidatura alla presidenza di Hillary
Clinton, la prima di una donna nella storia statunitense. Nello stesso anno in cui Hillary Clinton
nasceva, il 1947, Marynia Farnham e Ferdinand Lundberg pubblicavano un libro, Modern
Woman: The Lost Sex, che rimase fino agli anni Sessanta la bibbia in base alla quale veniva
fissato il ruolo sessuale ancillare della donna negli Stati Uniti. Domanda: il quasi successo di
Hillary Clinton conferma la caduta definitiva di quel sessismo o sciovinismo maschile che il
movimento femminista di fine anni Sessanta denunciava come endemico nella società? Anche in
questo caso si dovrebbe tenere conto della divaricazione dei piani: su quello simbolico la
risposta sarebbe affermativa; su quello sociale, dovrebbe invece registrare che ai tanti “passi
avanti” delle donne fanno da contraltare le persistenze discriminatorie sul piano salariale e
sull’accesso ai posti di responsabilità. Il “tetto di cristallo” che impedisce alle donne di arrivare
alla cima della piramide istituzionale non è stato infranto, ma ha subito 18 milioni di incrinature,
ha detto Hillary Clinton nel suo discorso di chiusura della campagna, nel giugno scorso. Quasi
diciotto milioni erano i voti che lei aveva accumulato nel corso delle primarie democratiche fino a
quel momento. In futuro, ha detto subito dopo, a nessuna donna si potrà più impedire di
perseguire e raggiungere l’obiettivo che lei stessa non ha potuto raggiungere in questa
occasione
3.
I contenuti antirazzisti e antisessisti di cui sono rappresentative le vicende di Obama e
Clinton caratterizzano la storia dei lunghi anni Sessanta statunitensi. Non sono invece presenti,
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per esempio, nel Sessantotto messicano o cecoslovacco. In Italia, Germania, Francia parte di
quei contenuti arriveranno soltanto più tardi, con il femminismo. Sono forti ovunque, invece,
dopo la metà del decennio centrale, l’opposizione alla guerra in Vietnam e l’antiautoritarismo,
anche se con varianti diverse da paese a paese. Ma non voglio soffermarmi sul passato; vorrei
tornare al rapporto tra passato e presente e viceversa.
A quarant’anni dal 1968, le memorie sui “lunghi anni Sessanta” rientrano nel più ampio
discorso storico. Del resto, forse che la storiografia sul fascismo, sulla Seconda guerra mondiale
o sulla Resistenza ha dovuto attendere quattro decenni prima di procedere oltre la
memorialistica? In Italia la storiografia sugli anni Sessanta è meno ampia che altrove, che in
Francia, forse; di sicuro negli Stati Uniti. E però quasi ovunque quegli anni rimangono
argomento di contrapposizioni forti, molto spesso giocate sul terreno di una pubblicistica e di
memorie che ignorano la storiografia e la deontologia della ricerca storica.
Vorrei
fare
qualche
considerazione,
poco
diplomatica,
prima
sulla
storia
nella
pubblicistica, poi sulla memoria.
Avendo in mente quello che ancora Marc Bloch definiva il “mestiere di storico”, e proprio
a partire da dove ci troviamo in questa fase politico-culturale in Italia, mi sembra di poter dire
che il campo del discorso sulla storia si è aperto come mai prima d’ora alla superficialità, a
revisionismi di convenienza e addirittura a quella nuova pratica che è stata definita
“rovescismo”: si tratta non del riscrivere la storia che ogni generazione e ogni scuola o
componente sociale fanno e hanno sempre fatto o cercato di fare, ma della messa in circolazione
sui media di scempiaggini pseudostoriche, che vedono la luce solo perché legittimate da questo
nostro presente politico-culturale. E’ lo scempio del senso: o diventa tutto uguale, i “ragazzi di
Salò” come I ribelli della montagna, oppure piace più il fascismo che chi lo ha combattuto,
magari per le stesse ragioni per cui piacciono più i SUV che, diciamo, le Punto: quello che fluttua
nell’aria è la fascinazione per i falsi simulacri di potenza, l’adesione egoistica alla moda
dell’arroganza…echi del “chi se ne frega”.
Si tratta di scempiaggini che non sono prive di incidenza. Circolano, e con loro circola
l’idea che ogni opinione è lecita, indipendentemente dalla ricerca e dal rispetto per i fatti. Si
riverberano sul passato e lo ricostruiscono a immagine e somiglianza dell’ideologia dominante. Il
punto è quanto la deontologia intrinseca alla pratica storiografica – l’etica, la moralità cui il
ricercatore è tenuto – viene svalutata nell’uso opportunistico, mediatico e a volte spettacolare
che si fa del discorso storico o, appunto, pseudostorico.
Qualche anno fa Nicola Gallerano aveva giustamente preso sul serio quel fenomeno
complesso che è l’”uso pubblico della storia” e aveva dedicato pagine importanti alla sua analisi.
Qui mi riferisco solo ad alcuni suoi aspetti deteriori; direi che parlo dei seminterrati dell’edificio
analizzato da Gallerano.
L’ideologia dominante, sedimento della subcultura dei ceti dominanti nel nostro presente,
è diventata egemonica al punto da indurre alcuni a ritenere di potersi permettere di spostare nel
terreno dell’opinabile, quindi al di fuori del campo della ricerca e della verifica, intere fette del
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bagaglio storico del nostro passato. Un esempio di ciò riguarda, in queste ultime settimane,
Antonio Gramsci – verrebbe da dire il povero Gramsci: prima, la ripetuta messa in circolazione
giornalistica di opinioni fantasiose sulla sua morte – almeno due ipotesi contemporaneamente,
addirittura in alternativa tra loro: assassinio da parte dei suoi stessi compagni o suicidio, a
scelta del lettore – e poi la ripresa di antiche favole sulla sua conversione al cattolicesimo in
punto di morte.
Questa pubblicistica non cambia il corso della ricerca propriamente storiografica, che
continua a discutere criticamente di fascismo e Resistenza, di comunisti e democristiani, di
politica e cultura. Ma molto più della ricerca propriamente storica questa stessa pubblicistica
contribuisce a creare il clima di opinione che modella il senso comune. Per essere più precisi: si
muove all’interno di quel clima di opinione e da esso è legittimata, ma nello stesso tempo
contribuisce a rafforzarlo e ad allargarne la portata mistificatrice. Addirittura, in qualche caso
detta l’agenda del sistema dell’informazione. Si guardi a quanti sono stati gli articoli, su quanti
giornali, che hanno ripreso, discusso, confutato o satireggiato la storia della conversione di
Gramsci. La banalizzazione dei discorsi e dei contenuti, il “rovescismo”, l’”opinionismo”
incompetente
distruggono
il
valore
stesso
dell’autorevolezza
che
deriva
dalla
serietà
professionale ed etica per sostituirla con il nuovissimo metro legittimante della “visibilità”, della
popolarità mediatica, della falsa autorità conferita dal successo economico o elettorale.
Quando Giampaolo Pansa, nei dibattiti dedicati ai suoi libri recenti, risponde alle obiezioni
di merito riguardanti metodo, contenuti e implicazioni ideologiche delle sue narrazioni
pseudostoriche, cita prima di tutto il numero delle copie che i suoi libri hanno venduto; vale a
dire: se il pubblico mi compra vuol dire che ho ragione. Esattamente come chi, parlando dei
palinsesti televisivi, ignora la miseria intellettuale dei programmi e dice: diamo al pubblico quello
che il pubblico vuole. E ancora come chi, su un altro piano, indica nel maggior numero di voti
ottenuti nelle elezioni la fonte di una investitura che gli dà pregiudizialmente ragione e lo intitola
a cambiare le leggi a proprio favore e piacimento.
Trent’anni fa Richard Nixon espresse come meglio non si può questa concezione del
potere che si autolegittima: “Quando il presidente fa una cosa, vuol dire che non è illegale”.
Negli anni che si stanno chiudendo George W. Bush ha ingaggiato avvocati e accademici per
dare fondamento giuridico a quello stesso presupposto autoritario.
La questione, qui appena esemplificata in alcune delle sue possibili articolazioni, la si può
ricondurre ai temi ben più ampi dell’egemonia perduta della ragione illuministica, della
svalutazione del pensiero scientifico a favore di quello religioso o magico, del prevalere del
principio di autorità su quello dell’autorevolezza. L’incidenza del pensiero laico rischia la
irrilevanza. Lo stesso vale per il pensiero critico. E il pensiero economico-politico dominante in
questi ultimi decenni – diciamo dal Premio Nobel a Milton Friedman, nel 1976, fino a ora – non
ha dato sostegno ad altro che all’attacco contro mondo del lavoro e fasce deboli delle società e
alla crescita delle sperequazioni sociali. La stessa damnatio del Sessantotto in Italia, cui una
parte della stampa, della cultura e della politica attribuiscono opportunisticamente quasi tutte le
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possibili responsabilità per i mali di scuola e università – se non dell’intera società – ha a che
fare con questo stato di fatto: il sole calante della ragione proietta ombre lunghe sulla realtà, e
più la ragione scende verso il crepuscolo, più si allungano le ombre. Questo solo possiamo dire,
oggi: nonostante tutto, non è ancora notte. Non è una consolazione, ma aiuta a capire come sia
proprio l’angoscia per il calare delle tenebre che ha fatto diventare Barack Obama, povero lui, la
speranza di tre quarti del mondo.
Ora, la memoria.
Esiste un altro versante della riduzione della storia all’esperienza personale e
quindi alla memoria. Se l’esperienza vissuta e la ricostruzione della memoria nel presente
diventano le sole fonti di legittimazione dei contenuti del ricordo, rendono indiscutibili il giudizio,
l’interpretazione, l’opinione. Scriveva Maurice Halbwachs nel suo I quadri sociali della memoria:
“Al di fuori del sogno, il passato, in realtà, non ricompare tale e quale; anzi, tutto sembra
indicare che esso non si conserva, ma che lo si ricostruisce a partire dal presente”.
E’ dunque il presente che detta i criteri della rimemorazione e, quando si riduca la storia
a memoria, della ricostruzione storica. Ma non tutti ricostruiscono il passato in ossequio al
giudizio negativo che ne dà il senso comune oggi dominante. Nel caso del Sessantotto, tra chi lo
ha “fatto” e non ne è pentito, esiste anche l’attaccamento ostinato, oppure affettuoso e
nostalgico al proprio passato come al tempo migliore della propria vita. La memoria di quegli
anni può allora diventare la “memoria possessiva”, di cui hanno scritto Peter Braunstein in un
saggio su Ácoma del 1999, Anna Bravo, nel suo A colpi di cuore del 2008, e a cui aveva già fatto
riferimento Peppino Ortoleva vent’anni fa, scrivendo nel suo Saggio sui movimenti del 68 dei
tratti “patrimoniali” che caratterizzavano parti della memorialistica prodotta appunto da chi
aveva “fatto il ‘68”.
In questi casi la memoria funziona come strumento di autodifesa identitaria. E’ uno degli
strumenti attraverso cui persone e gruppi difendono nel tempo un’identità a cui continuano a
riconoscere valore. Ma proprio per questo, quando le figure del nostalgico e dello storico
coincidano nella stessa persona, la memoria possessiva può deformare la ricostruzione storica,
riducendola più o meno acriticamente al territorio dell’esperienza individuale e di gruppo e
chiudendo la storia entro i confini di quel territorio. Una parte della storiografia statunitense
sugli anni Sessanta soffre certamente di questo limite. Infine, a volte, chi si chiude nel bozzolo
apologetico del proprio passato tende poi a svalutare la ricerca storica, inevitabilmente
smitizzante, di chi sia “venuto dopo”, di fatto non riconoscendo a chi impieghi gli strumenti
propri del mestiere il diritto di esplorare quel “suo” territorio. Proprio su questo cadono a
proposito le parole che ha scritto Sandro Portelli, recensendo sul manifesto qualche giorno fa
Sangue d’Italia, di Sergio Luzzatto: “Sono due gli elementi di forza del discorso di Luzzatto: la
rivendicazione, contro ideologismi e strumentalità, della professione dello storico; e la posizione
generazionale che gli permette, una volta data per assodata e condivisa la valenza politica e
morale dell’antifascismo e della Resistenza, [di] prendere le distanze da miti e retorica e cercare
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di ragionare sulle fonti e, per quanto possibile, sui fatti [, con ciò, tra l’altro, sottraendo] ai
revisionisti l’arma della dissacrazione”.
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Per finire, due brevi notazioni conclusive, che riavvicinano questa introduzione ai lavori
dei gruppi di discussione che seguiranno. Se è vero che il ’68 italiano è stato “l’anno degli
studenti”, come evitare di farsi domande su questo 2008 in cui le mobilitazioni studentesche
hanno riempito le strade e le aule delle scuole secondarie e delle università?, e viceversa: in che
modo la nascita e l’evoluzione del movimento attuale ci interroga sul movimento che lo ha
preceduto quarant’anni fa? In quali modi le trasformazioni intervenute d’allora in poi nella scuola
e nell’università, nella composizione sociale degli studenti, nella cultura, nella politica e nella
società circostanti hanno indotto o ostacolato il movimento attuale? A chi ha “fatto il ‘68” può
forse venire naturale domandarsi se siano o no presenti, ora, i contenuti antiautoritari e i
sottotesti ideologici presenti in quella rivolta (e nelle successive, di cui magari ci si dimentica).
Chi, invece, tenderà a guardare a queste manifestazioni come a fenomeni generazionali – i
protagonisti sono studenti, giovani in entrambi i casi – si farà altre domande. In ogni caso sarà
lo scambio tra presente e passato e rendere feconda l’esplorazione.
Si tratta dunque di ragionare criticamente su continuità e discontinuità, ma soprattutto di
ricostruire percorsi, segnare distanze, confrontare contenuti e contesti. A volte è la cronaca a
invitare alla riflessione, a volte è la memoria, altre la storia stessa.
E’ stato quasi impossibile, nei giorni scorsi, evitare di scontrarsi con la denigrazione
pubblicistica del ’68 studentesco con cui parte della pubblicistica tentava di screditare l’Onda, il
movimento attuale. L’opportunistica evocazione dei fantasmi del vandalismo o peggio, del “6
politico”, oppure del “18 politico” o addirittura del “30 politico” è stata presente nei commenti a
sostegno della necessità di “riformare” scuola e università. I consigli ai governanti di oggi dell’ex
ministro dell’Interno Cossiga hanno fornito una chiave interpretativa del passato e potrebbero
avere anticipato una chiave per comprendere il futuro del movimento attuale degli studenti. Il
“buon senso” che si dice guidi la mano del legislatore che vuole riformare la scuola si incaglia
nelle secche di ossimori come la “discriminazione positiva” – scimmiottatura improbabile della
affirmative action statunitense degli anni Sessanta di Lyndon Johnson.
Ma i lunghi anni Sessanta includono anche il ’69 operaio. Difficile estromettere dalla
storia quel movimento di massa straordinario che trasformò le organizzazioni sindacali e portò
poi alla conquista della Statuto dei diritti dei lavoratori. Per un attimo, il protagonismo di quel
movimento diede l’impressione di poter portare a realizzazione il dettato costituzionale: “L’Italia
è una repubblica fondata sul lavoro”.
Se non ci siamo arrivati è perché tutti i movimenti, anche quello operaio, stanno dentro
dinamiche più grandi, che li comprendono. E se la distanza tra quel momento e oggi è la stessa
distanza che passa tra la capacità di conquistare diritti e l’essere costretti a difendere con le
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unghie e coi denti quei diritti oggi minacciati è perché il ’69 operaio è stato anche il ’69 delle
bombe di Piazza Fontana – e tra due giorni è il trentanovesimo anniversario di quel fatto tragico.
Per lo storico, quelle bombe fanno fare un salto di qualità all’antagonismo con cui i poteri
istituzionali si erano opposti fino a quel momento all’iniziativa dei movimenti sociali, quello
contro la guerra, che metteva in crisi le alleanze internazionali del nostro paese; quello
studentesco,
che
metteva
in
discussione
i
pilastri
insieme
del
sistema
scolastico
e
dell’obbedienza all’autorità; quello operaio, che contestava ai padroni in controllo totale ed
esclusivo sulle vite e le aspirazioni dei lavoratori. Un paio d’anni ancora e quello delle donne
avrebbe minato alla radice l’autoritarismo maschile e il sistema patriarcale. Le bombe aprirono
una dialettica nuova, che sarebbe stata tragica in molte altre occasioni e che portò fuori dai
lunghi anni Sessanta. Il Sessantotto si chiuse allora? Sì, ma non del tutto e solo per quello che,
nei tempi della storia, è un momento. Se dagli Stati Uniti, in questo 2008, ci viene un
insegnamento è di non dare mai tutto per concluso per sempre. E anche Marc Bloch ci
ammonisce che epoche diverse hanno tra loro curiose e imprevedibili forme di solidarietà.
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dicembre 2008
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