Il dono della missione - Centro Missionario Canossiano
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Il dono della missione - Centro Missionario Canossiano
MAGGIO 2 0 1 2 ANNO X • N°2 Il dono della missione Amedeo Cristino CUM - Verona Missione come risposta al dono. Dono e missione nel vangelo di Giovanni si trovano riuniti nell’episodio dell’incontro tra Gesù e la samaritana. Il primo impatto tra i due non è dei più felici. La donna percepisce della persona di Gesù unicamente il suo essere uomo e giudeo. La conoscenza è inevitabilmente superficiale ed erronea, perché Gesù è galileo e non giudeo. Gli elementi che ella coglie servono a misurare la distanza che li separa: donna-uomo, samaritana-giudeo. Gesù, allora, provoca la sua interlocutrice a muoversi verso di lui, a penetrare nel suo “mistero” e le dice: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere!», tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10). Qui è, dunque, questione di un dono da “conoscere”, ovverosia da accogliere, scoprire e riconoscere in quanto dono. Questo dono è la persona stessa di Gesù, il significato della sua missione, l’incontro decisivo con lui. La samaritana, allora, comincia a prestare attenzione più grande all’uomo che le sta dinnanzi. È incuriosita, intrigata dall’incontro inatteso nell’ora più calda della giornata. Nelle parole dell’uomo co- glie una profondità che la spinge a scavare dentro di lui. Ora dice di Gesù: “Signore, vedo che tu sei un profeta!” (Gv 4,19). La donna ascolta ancora l’uomo parlare e avanza nel suo mistero. Ora è davanti ad una porta, una di quelle che si aprono solo dall’interno. Ha compreso che quell’uomo-giudeo, che ha sperimentato come profeta, porta in sé un’identità ancora più grande. È il Messia, potrebbe essere il Messia. Ma non osa essere assertiva come quando si è rivolta a lui chiamandolo profeta. Quella porta solo Gesù può aprirla. Allora, la parola Messia lei la getta lì nel discorso, come se fosse niente, giusto per vedere l’effetto che fa. “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo”, dice all’uomo e quegli risponde: “Sono io, che parlo con te” (Gv 4,25-26). Ecco, la porta è aperta e lei può entrare. E qui, proprio in questo punto, attraverso i gesti della 1 donna l’evangelista scrive la parola missione affianco alla parola dono. La samaritana, infatti, “lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?” (Gv 4,28-29). Il dono, riconosciuto come tale, sollecita una risposta in chi ne è destinatario. Quando, poi, il dono ricevuto è la persona di Gesù c’è una sola risposta possibile: la missione, ossia andare verso la città e dire alla gente venite a vedere. Ma che cosa ha ricevuto la donna? La samaritana ci sorprende con quella sua espressione: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto”. Che strano modo di raccontare l’esperienza al pozzo di Sichar! Ci aspetteremmo che la donna dicesse: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto di lui”. La samaritana, invece, sottolinea che Gesù le ha detto tutto di lei. Oggettivamente, se rileggiamo il dialogo tra i due, a parte il breve passaggio sui mariti, non è che Gesù racconti molto altro sulla donna. Al pozzo si è parlato di teologia, di acqua viva che spegne la sete per sempre, di un’esperienza religiosa fatta di pienezza d’incontro tra Dio e Umanità, della possibilità di adorare in spirito e verità senza più luoghi che siano più sacri di altri e corpi più puri di altri. Eppure, la donna nel restituire l’esperienza dell’incontro con Gesù sente che, al di la delle parole, penetrando nel mistero di quell’uomo nel mezzogiorno assolato, lei ha colto il senso della propria esistenza. Conoscendolo si è riconosciuta. Come uno specchio, lo sguardo di Gesù le ha svelato il suo stesso volto, la forma del suo corpo. Negli occhi di lui si è vista ed era la prima volta. Di sé ha scoperto l’invisibile e l’inguardabile. Si è vista di spalle mentre si allontanava ogni giorno dal pozzo col passo sempre più stanco. Ha visto le gocce di sudore rincorrersi lungo la sua schiena e mischiarsi a quelle d’acqua cadute dalla brocca. Si è vista mentre dormiva avvolta negli abbracci rubati alle “altre” nel tentativo di spegnere quella sete d’amore che le screpolava le labbra. Lei ha guardato dentro Gesù e di colpo ha sentito insopportabile il peso di quella brocca inutile perché ormai di quell’uomo ha bevuto il nome e aveva il sapore di ogni sorgente e la forza di tutti gli oceani, la freschezza di ogni rugiada e gli scrosci di tutte le piogge. Non c’è più sete dentro di lei, si è spenta l’arsura che faceva del cuore deserto. Dorme ora la brocca accanto a quel pozzo, muta testimonianza di un’esperienza di Dio faticosa, imperfetta, ferita perché senza un volto da incontrare, senza corpo da abbracciare, senza un nome da pronunciare. La donna, liberata dalla zavorra della brocca, si ritrova dentro solo un bisogno irresistibile: andare verso la città, verso la vita, al centro della vita e li piantare l’annuncio di ciò che gli è successo. Il suo stile missionario è straordinario. La samaritana propone e non impone il Signore. È assertiva quanto alla sua esperienza di Gesù (mi ha detto tutto di me), per il resto invita a fare l’esperienza di lui (venite a vedere). Il suo annuncio è un interrogativo lanciato alla folla e comincia con “Che sia”: è un’offerta, una proposta, contiene un “forse”, un’ipotesi, il “sospetto” che esista un senso altro all’esistere. È questo stile che fa nascere curiosità sulla persona di Gesù, che muove la città all’incontro con lui. Decisivo per la fede, infatti, è proprio l’incontro personale con lui, lo stare a lungo col Signore. Così i concittadini, dopo due giorni passati ad ascoltare lo straniero, diranno alla donna: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo” (Gv 4,42). Parole che, lungi dall’offuscarla, le restituiranno l’intimità col suo Signore e la libertà di raggiungere altri a cui regalare il suo annuncio. 2 La missione, allora, nasce spontanea dalla consapevolezza di essere oggetto di dono e si configura come rendimento di grazie per il dono ricevuto. Essa trasforma la vita in esistenza eucaristica. Abbiamo a lungo affidato le sorti della missione agli esuberi di personale apostolico e abbiamo dimenticato che essa è figlia della sovrabbondanza della grazia. Quando analizziamo la fatica odierna nell’invio missionario delle nostre chiese, elenchiamo una serie di fattori che ci sembra spieghino i ritardi accumulati: il calo delle vocazioni, la necessità di uno sforzo missionario all’interno della realtà europea, la secolarizzazione che ha aggiunto molta acqua nel vino della passione per il Regno, e così via dicendo in un corteo di lamentazioni che, sebbene sappiano spiegare sociologicamente il fenomeno, forse servono ad occultare la domanda che non vogliamo farci. Se tra dono e missione esiste un legame di causa ed effetto, non sarà che le nostre chiese oggi fanno fatica sul piano dell’impegno missionario perché le difficoltà oggettive al loro interno affievoliscono la capacità di percepirsi oggetto di dono, anzi luogo della sovrabbondanza del dono? La missione va ricollocata nell’orizzonte della gratuità e della speranza, alla luce dell’invito di Gesù ai Dodici: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). I Vescovi d’Asia, il continente con il più piccolo numero di cristiani (solo il 3% della popolazione), riuniti nella V Conferenza della Federazione dei vescovi asiatici hanno affermato: “Evangelizziamo prima di tutto con un senso profondo di gratitudine a Dio Padre, Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo (Ef 1,3), e ha mandato lo Spirito nei nostri cuori così che noi possiamo partecipare alla vita vera di Dio. La missione è soprattutto una sovrabbondanza di vita che scaturisce da cuori riconoscenti e trasformati dalla grazia di Dio”. Più avanti nel loro testo i Vescovi, riferendosi alla lettera ai Romani, aggiungono che i cristiani fanno nella fede un’esperienza profonda dell’amore di Dio in Cristo Gesù, amore versato nei loro cuori dallo Spirito Santo. “Senza un’esperienza personale di questo amore ricevuto come dono e grazia, nessun senso di missione può fiorire” Oggi alle nostre chiese, troppo ripiegate su se stesse, l’Apostolo Paolo ripeterebbe l’esortazione rivolta ai Corinzi: “Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7). La missione è dono. Il dono della fede e dell’incontro con la persona di Gesù ci spinge fuori, incontro al mondo e fa maturare in noi, per sua natura, l’esigenza della condivisione di ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto. In questa condivisione, ciò che sperimentiamo non è l’impoverimento del dono, ma il suo dilatarsi. La missione, che nasce dal dono, si rivela come spazio in cui esso si precisa e si fa ancora più dono. La Chiesa, convocata dal Risorto nella missione, nei gesti dell’annuncio e dell’andare missionario fa l’esperienza dell’accadere continuo di Dio nella storia, del suo essere vivo e presente al fianco degli impoveriti e dei piccoli. (continua) 3 Madre Maria Motta Madre MARIA MOTTA nacque a Bollate, Provincia di Milano, il 15 Marzo 1903, fu battezzata lo stesso giorno, cosa di cui essa ringraziava sempre il Signore. Crebbe, oggetto di tenerissime cure da parte della sua famiglia, specie della mamma, donna di fede e di pietà non comune, che instillò nella sua Maria fin da piccola la più tenera devozione al Tabernacolo e alla Madonna. Fin dalla sua Prima Comunione si comunicò ogni mattina, e a tredici anni, in un giorno di Maggio, emise per la prima volta il Voto di Castità. Da quel momento il suo impegno per la vita spirituale fu continuo. Ben presto le fu insegnato dal Confessore il metodo per la meditazione e ogni mattina era sempre in chiesa, in ginocchio, per la Comunione e la Meditazione. Prima poi di uscire si portava immancabilmente all'altare della Madonna, onde assicurarsene la specialissima protezione. E la Madonna la protesse davvero e sempre. Erano anni difficili quelli dell'immediato dopo guerra, e Maria doveva recarsi ogni giorno fuori paese, mentre le attività socialiste e bolsceviche erano più attive che mai. La sua posizione di sopra- intendente in un importante setificio, la metteva in contatto con tante giovani operaie esposte a mille pericoli, ed essa comprese subito il dovere di vegliare sulla loro fede insidiata e sulla loro virtù in pericolo. Un giorno un giovanotto socialista, vedendo che non poteva venire a capo di nulla nella fabbrica ove si trovava Maria, pensò di intimidirla dandole uno schiaffo sonoro. Essa lo guardò tranquilla, imperterrita, e sorridendo gli offrì l'altra guancia, secondo il consiglio del Vangelo... Il giovane rimase interdetto, non osò colpirla un'altra volta, e se ne andò a denti stretti. Più tardi, essa ci raccontava raggiante, quel poveretto si ammalò, rientrò in sé stesso, volle ricevere i Sacramenti, e, prima di morire da buon cristiano, volle chiedere perdono alla giovane coraggiosa che aveva schiaffeggiata. Prima di entrare in Convento essa esplicò un vero e proprio apostolato canossiano. Nel suo paese a quel tempo non c'erano ancora le Suore ma un gruppo di ottime giovani, ben formate e ben dirette dai sacerdoti della Parrocchia, vi supplivano a meraviglia. A capo di questo gruppo c’era Maria. Aveva disposto le sue giornate e specialmente le sue domeniche in modo da non perdere un minuto di tempo, ed è sorprendente come riuscisse a fare tanto. Era il centro della gioventù femminile del paese, e si occupava con gioia di centinaia di bambine e giovanette. Le assisteva durante la S. Messa, ai Sacramenti, all'Oratorio; durante il mese di maggio e nelle Novene di Maria le guidava all'altare della Madonna, inspirando nei loro cuori ideali di bontà. Tante di quelle bambine divennero Religiose. Nel 1925 entrò nel Noviziato missionario di Vimercate. "Oh che tempo felice fu per me il Noviziato!" ripeteva con gioia. Appena professa i Superiori pensarono d'inviarla in Inghilterra per un corso regolare di studi, per prepararsi con un buon corredo di lingua inglese, alla sua vita di insegnante missionaria. Intelligente, attivissima, amante di tutto ciò che è bello, si diede allo studio con entusiasmo, amandolo e gustandolo. 4 Appena conseguito il diploma tornò in Italia e subito si preparò alla partenza per la Cina. Arrivò ad Hong Kong il 10 febbraio 1931 un po' scossa in salute, ma incominciò con tutto l'amore il suo apostolato nell'insegnamento; purtroppo però alla fine di quell'anno scolastico il suo povero stomaco non poteva quasi ritenere più nulla. Nella speranza che l'aria di St. Mary's house così aperta e vicina al mare le giovasse, vi fu mandata il 30 Novembre dello stesso anno e vi rimase più o meno malata fino al 2 Giugno 1939 in cui partì per l'ospedale di S. Francesco a Wanchai, dove sarebbe poi deceduta. Tuttavia non si creda che una creatura di così fragile salute non abbia conosciuto l'attività sacrificio della rinuncia che l’obbedienza le chiedeva, per un po' di riposo. Partecipava con particolare gioia alle ricreazioni della Comunità, dove insieme alle Sorelle ricreava il suo spirito. Nell'avvicinarsi dell'estate però, essa non poteva più trascinarsi dalla stanchezza e sofferenza fisica, allora seguivano mesi di più intenso patire e di offerta. Benché Madre Maria abbia condotto una vita così nascosta in seno alla sua stessa Comunità, esercitò una profonda influenza intorno a sé. Era diventata il modello di fedeltà alla S. Regola, di obbedienza alle sue Superiore, di carità affettuosa e soprannaturale con tutte e ciascuna delle sue consorelle, cui era felice di fare un favore anche a proprio costo. Aveva poi una vita interiore d'intensa unione con Gesù che traspariva da tutto il suo essere. Le lezioni di Madre Maria sul Catechismo e sul Vangelo erano dense di significato e trasmesse con tanta semplicità che le bambine rimanevano incantate ad ascoltare, anche quelle ancora pagane. Quante di esse chiesero di essere battezzate, e Madre Maria trovava nuove energie per istruirle e prepararle a ricevere i sacramenti. I due ultimi anni della sua vita di scuola prima di mettersi a letto definitivamente, Madre Maria raccolse attorno a sé un certo numero delle sue alunne, le migliori e più sensibili spiritualmente, le innamorò dell'Eucaristia, le consigliò alla Confessione settimanale, insegnò loro a fare la Meditazione, e le lanciò nell'apostolato fra le loro amiche nei diversi ambienti dove vivevano. Alcune di esse continuarono a visitare anche malata la loro maestra, e ne avevano quei consigli e incoraggiamenti che le sosteneva nella via del bene; così essa continuò il suo apostolato finché ebbe un fil di vita. Un Missionario disse di lei: "Vi assicuro che nessuna ragazza ha mai avvicinato Madre Maria senza diventare migliore." Nell'Ottobre 1939 sembrava già in fin di vita e si pensò di farle amministrare l'Estrema Unzione che essa ricevette con trasporto. Monsignor Vescovo, che la visitò con paterna bontà durante tutta la lunga malattia, volle amministrarle il Sacramento di sua mano. missionaria. Tutt'altro; Conscia forse, che la sua vita doveva presto consumarsi, si diede tutta zelo a lavorare nel campo affidatole dall'obbedienza: la scuola, dove, con amore, zelo apostolico e instancabile insegnamento, lavorò come se fosse stata sana. Anche dopo notti penose, e furono la maggior parte, essa era in piedi alla campana che chiamava in chiesa e benché pallida e stanca, sempre serena, riceveva la Santa Comunione, rispondeva con gioia e vera comprensione liturgica alla Santa Messa e faceva tutte le preghiere con la sua comunità. Passava poi alla scuola che lei amava tanto. A volte però, per amore della stessa, offriva a Dio il 5 Ma non era ancora suonata l'ora di Dio, anzi, avrebbe dovuto passare ancora più di un anno prima della partenza… Lo presentì, e si applicò con rinnovato impegno, ad offrire ogni istante del giorno e della notte per intenzioni speciali che abbracciavano l'universo: la gloria di Dio, la Chiesa, la sua amata Missione, l’ amato Istituto… Dopo la sua morte fu trovato un prezioso foglietto con delle sue intenzioni: "Gesù buono, mi unisco a Te, mio unico Bene, perché tutte le mie azioni e sofferenze siano santificate e, con te agonizzante, mi rendano una piccola ostia di espiazione e di amore. Per le persone e le anime tutte che in Te amo, offro: la mia immobilità perché le loro attività siano feconde di bene per le anime; la mia solitudine perché i Missionari facciano amare e regnare Gesù nei cuori e nelle famiglie dei novelli convertiti; il mio silenzio perché la divina parola trovi eco nel cuore dei pagani e si convertano, e perché le persone religiose coltivino la vita eucaristica in loro. Ti offro le preghiere e le sofferenze diurne per il mio amato Istituto, la privazione delle gioie della mia Comunità e il sacrificio del mio apostolato per le intenzioni della Madre Delegata, le piccole croci di ogni giorno per le mie Consorelle..." Dopo la sua morte sopraggiunta in breve tempo, ci furono di conforto le numerose lettere di condoglianze, specie dei Rev. Padri Missionari, dalle quali trasparisce quanto la cara Sorella fosse apprezzata. Un mussulmano, padre di scolare dì Madre Maria scrisse: "Con gran dispiacere ho appreso la morte della Madre Maria. Che la pace dell'Altissimo sia sopra l'anima sua. lo non ho mai parlato con essa, ma sento che noi oggi abbiamo perduto un'anima santa. Le mie figlie hanno sempre parlato con la stima più alta di lei, che deve essere stata una Suora veramente esemplare." Madre Maria moriva a 38 anni di età e dieci di Missione. …38 anni di età, dieci di missione… una breve esistenza, un breve periodo di vita missionaria. Eppure, potrebbe bastarci a capire l’intensità con cui M. Maria ha vissuto la sua vita, la preghiera di offerta qui sopra riportata. La missione non è una vita lunga o corta di anni di lavoro … la missione è il dono totale di noi a Dio, lì dove si è e compiendo unicamente la sua volontà, qualsiasi essa sia. Pensiamoci… CAMIC ad Gentes è una pubblicazione trimestrale, strumento di informazione, formazione e scambio missionario tra il Centro Missionario Canossiano e le sorelle ‘ad Gentes’. 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