Parlami d`Amore. Sotto la pioggia... un giorno

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Parlami d`Amore. Sotto la pioggia... un giorno
Leonardo Bloise
Parlami d’Amore.
Sotto la pioggia...
un giorno
Prefazione di Marina Leto
Edizioni Helicon
In copertina:
“Tutto in una goccia”
foto di VIVIANA ALESSANDRINI
Progetto grafico di
LEONBLAS
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Stampato in Italia / Printed in Italy
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Parlami d’Amore.
Sotto la pioggia...
un giorno
Quasi non immaginavo più come fosse starsene seduti da soli a vagabondare fra le nuvole con
la leggerezza e la spensieratezza di un giocoliere
maldestro o, perché no, di un funambolo in preda
a leggere crisi di vertigini. Anzi no…un ciclista, un
ciclista alla guida di un carretto ricolmo di arance e
maestose zucche che, ad una ad una, si sollevano
nel vento, legate da fili invisibili a palloncini a forma
di soffici nuvole bianche. Beata svagatezza.
E chi avrebbe mai detto che una giornata grigia
avrebbe potuto portare con se anche coloriti sprazzi di gioiosa gaiezza.
Servivano proprio le fruscianti pagine di un giornale, con quel inconfondibile aroma pungente di
inchiostro compassato e carta da riciclo appena
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sfornata da immense rotative cigolanti. Su e giù
per stravaganti montagne russe…in una infinita fila
indiana…e le notizie sono servite. Già alla terza
pagina i polpastrelli sembrava che avessero assaggiato quintalate di carbone!
Dannata politica, noiosa finanza, fotogrammi di
cronaca nera. Aborrente di continuare ero quasi tentato di non proseguire nell’impresa. Richiudendo mi accorsi che scendeva qualche goccia di
sangue...Forse ero distratto...c’era ancora morte e
non me ne ero accorto. Una nuova guerra non voluta dilaniava un paese inerme.
Avrei preferito una lettura surreale...forse sarebbe stato meglio riaprire gli occhi...Un milione di pagine più avanti il sospirato appuntamento con la
rubrica culturale. “Note letterarie e dintorni”. Non
avevo mai capito quali fossero esattamente quei
“dintorni”, ma era stimolante non porre un limite
alla bizzarrìa di quelle recensioni. Ero curioso di
sapere a chi sarebbe toccato quel giorno. L’incipit
era tutto un programma: “Una interessante giovane
promessa del panorama culturale del nostro paese
rischia di sconvolgere i canoni della tradizione letteraria. La tardiva resipiscenza dei soloni annichiliti
del post “transavandietrismo”…e bla bla bla”.
Quasi partiva uno sbadiglio. Saltai a piè pari il resto di quella menata fino al punto in cui l’occhio fu
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improvvisamente catturato da una strana formula:
T= t1 + t2 + t 3 + …+ t n +…=
SOFFRO TANTO… MA IO AMO
Io odiavo la matematica ma i simboli attraverso i
quali si esprimeva mi avevano sempre affascinato.
Come si potrebbe non essere ammaliati, ad
esempio, dalla bellezza di quel doppio occhiello
che rappresenta il simbolo dell’infinito? Una sorta
di 8 rovesciato, girato di 90°, come se fosse disteso su di un fianco a sonnecchiare. Serviva un simbolo al matematico Wallis per rendere immediato
il rimando al concetto di infinito ma, guarda caso,
ne scelse uno le cui origini si perdevano nella notte
dei tempi. Ve ne erano tracce già nelle pitture rupestri e nei graffiti primitivi. Gli intrecci a forma di 8
erano poi simboli celtici per eccellenza e chiave di
lettura proprio dell’infinito, della ciclicità delle cose
e del susseguirsi di giorno e notte, nascita e morte. La vita per essi non aveva un inizio e una fine,
ma procedeva con naturale continuità. Nell’antico
Giappone il numero 8 era considerato persino sacro perché rappresentava la quantità innumerevole, immensa ma non definibile. Le otto forze della
natura sono, infine, il risultato dell’interazione cosmica di Yin e Yang che, combinate, danno origine
ai sessantaquattro esagrammi dell’I Ching, da cui
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origina, a sua volta, tutto ciò che esiste!
Quanta magia e timore può derivare dal rapporto con i numeri! Al punto che, rivelarne il segreto
funzionamento, poteva portare persino alla morte.
Esattamente quello che era accaduto al malcapitato Ippaso di Metaponto per il quale, colpevole
di aver svelato un segreto caro a Pitagora, fu costruito un monumento funebre, quantunque fosse
ancora in vita. L’ira di Zeus e delle onde del mare
fecero poi il resto. Ippaso, applicando il teorema
di Pitagora ad un triangolo rettangolo isoscele, trovò che la diagonale ed il lato del quadrato erano
di grandezze incommensurabili, in quanto il loro
rapporto non era un numero razionale. Era stata
scoperta non solo l’esistenza di numeri irrazionali, ma anche quella di un segmento (la diagonale del quadrato di lato unitario) la cui lunghezza
era espressa da un numero che, dopo la virgola,
era infinitamente lungo. Per la scuola pitagorica
l’infinito era qualcosa di incompleto, imperfetto e
per questo Pitagora aveva prescritto che la notizia
non fosse in alcun modo divulgata. Almeno fino a
quando non avessero trovato una soluzione, per lo
meno logica, a quel problema, ma Ippaso proprio
non ce la fece a tenere la bocca cucita.
Eppure, il filosofo Liside aveva più e più volte
ammonito lo scellerato che non era cosa pia condividere i misteri del sapere con persone che non
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avevano la più pallida idea di dove stesse di casa
la purificazione dell’anima!
“…Dicono che tu, o Ipparco, pratichi la filosofia
intrattenendoti col primo venuto, anche in pubblico;
cosa che Pitagora aveva proibito, come tu stesso
hai appreso con entusiasmo.
Ma non ti sei attenuto a tale divieto, adesso che
hai provato, mio caro, le raffinatezze della vita siciliana, cui non avresti dovuto indulgere. Ora, se
cambierai atteggiamento, ne sarò ben lieto; diversamente sei già morto (per noi). Infatti, sarebbe conforme alla legge divina…conservare memoria
dei precetti umani e divini di lui, e non far partecipi
dei beni della sapienza coloro che non si sognano nemmeno di avere un’anima purificata. Perché
non è lecito offrire al primo che capita quanto si
è faticosamente acquisito con così grandi sforzi,
come non lo è rivelare ai profani i misteri delle dee
di Eleusi: coloro che lo fanno, sono in pari misura
ingiusti ed empi...”1.
Poteva essere più lapidario il filosofo? Non credo sia fuori luogo asserire che il segreto
custodito più gelosamente doveva essere la pos1 GIAMBLICO, La vita pitagorica, XVII, 75-78
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sibilità di plasmare un nuovo tipo di uomo, l’uomo
pitagorico appunto, immaginato come una sorta di
intermediario tra l’umanità e la divinità. Un segreto
che, giocoforza, non poteva non avere a che fare
con il silenzio, perché solo attraverso il silenzio,
inteso nella più vasta accezione del termine, era
possibile risvegliare in sé la voce del proprio maestro interiore.
Tornando a bomba, pensavo fosse la solita presa
per i fondelli, ma quel giovane poeta, vagamente
folle, si era inventato un titolo ad effetto per la sua
opera prima.
Il paradosso dei paradossi offriva una formula,
una reductio ad absurdum, per spiegare come fosse possibile che, per quanto patimento fosse in
grado di generare, valeva sempre la pena vivere
un Amore! Quali assurdità si è disposti ad imbastire pur di vendere una dozzina di volgari libercoli!
Già non mi aveva mai convinto come quella benedetta tartaruga, per quanto baciata dal destino, e
sbaragliando le più rosee e divine previsioni, potesse vincere, in una ipotetica gara col piè veloce Achille. Figurarsi addivenire ad un risultato che
avrebbe messo in imbarazzo qualsiasi tentativo di
forgiare conclusioni logiche e non contraddittorie!
Ma quale Amore!?
E pensare che il giovine, nelle poche cose estrapolate dal misterioso “capolavoro”, era parso di di-
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