La “seduzione” nell`antichità

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La “seduzione” nell`antichità
SCHEDA DI APPROFONDIMENTO
La “seduzione” nell’antichità
A cura di Luciana Morra
Socio responsabile dell’accoglienza e dell’ospitalità turistica
Riflettere sul significato di ‘seduzione’ non è così banale come potrebbe apparire ai più, ma
conduce all'esplorazione di un mondo tanto misterioso quanto affascinante dell'essere uomini e
donne.
Parlare oggi di seduzione significa contestualizzarla nella nostra specifica cultura, perché è proprio
quest’ultima che ne determina non solo le abitudini ma anche lo specifico significato, per evitare
fraintendimenti. La seduzione non è banalmente la conquista erotica. Il termine deriva dal latino [se
= a sé, ducere = condurre, guidare] ed indica la raffinata capacità -non solo erotica- di attrarre, un
magnetismo in grado di sviare altre persone da intenti e distrazioni verso di sé. Per seduzione
s’intende, dunque, quella specifica abilità o capacità di suscitare fascino e attrazione. Uomo e
donna utilizzano segnali diversi per sedurre che nel tempo hanno subito evoluzioni e cambiamenti.
A differenza dell’uomo, la donna ha mantenuto costante nel tempo le sue strategie di seduzione, ha
modificato, però, il suo atteggiamento verso la seduzione. Questo cambiamento è dovuto
principalmente alle nuove abitudini culturali.
La più celebre ‘seduttrice’ storicamente conosciuta, nota per il suo fascino ammaliatore, è
Cleopatra, Regina d’Egitto. Le fonti tramandano che la Regina conoscesse bene l’arte della
seduzione. Per lo storico Dione Cassio ‘era splendida da vedere e da udire, capace di conquistare i
cuori più restii all’amore, persino quelli che l’età aveva raffreddato’. Secondo Plutarco invece ‘la
sua bellezza in sé non era incomparabile o tale da stordire chi la incontrava, ma aveva qualcosa di
particolare, che la rendeva attraente in modo irresistibile’. ‘Il fascino delle sue parole – ricordava
Dione Cassio – conquistava tutti coloro che la udivano’. Nel 41 a.C. per ammaliare Marco Antonio,
che si trovava a Tarso, in Cilicia, risalì il fiume Cidno su un’imponente imbarcazione, mentre gli
schiavi spingevano la nave con remi d’argento al tempo di soavi liuti e pifferi: la bella Cleopatra
giaceva sotto una baldacchino di tessuto d’oro, vestita come la dea Afrodite, mentre fanciulli, in
abiti da Cupido, le facevano aria con i loro ventagli. Le ancelle erano abbigliate come Nereidi e
Grazie. Forti profumi esalavano dagli incensieri. A cena quello che stupì Antonio fu il numero
straordinario di luci, disposte secondo fantasiosi disegni. Cleopatra dedicava molto tempo alla cura
del suo corpo e fu, probabilmente, autrice di un trattato di cosmesi, oltre che grandissima
estimatrice dei profumi. Secondo gli archeologi, Marco Antonio per omaggiare il suo sapere in
materia le regalò una fabbrica di profumi che si trovava all’estremità sud del Mar Morto, a 30 Km
dall’oasi di Ein Gedi. Dall’analisi dei vasi con i residui di antichi profumi, si è potuti risalire alle tre
fragranze più diffuse all’epoca di Cleopatra: il regale ‘unguentum’, contenente clamo, mirra, legno
di rosa, balsamo, maggiorana, spezie ed altre essenze di fiori, il ‘susinum’, olio di lillà, il
‘ciprinum’, olio estratto dai fiori dell’hennè cipriota dalla profonda fragranza di limone.
Fondamentale però è capire come gli antichi concepissero la ‘seduzione’: essa senza dubbio poteva
generare effetti devastanti tanto psicologici che fisici nel soggetto sedotto e poteva essere tanto
strumento per la donna quanto poteva essere da questa subita.
Il topos della donna ‘sedotta e abbandonata’, infatti, ricorre nella letteratura antica. Nei racconti
mitici greco-romani è frequente la figura dell'eroina che, innamoratasi di uno straniero, lo aiuta in
una difficile impresa, venendo in qualche modo meno ai doveri che la legano alla famiglia ed alla
propria patria; quindi lo segue, spesso lontano, per poi essere da lui tradita e abbandonata.
All'interno dell'ambito latino possiamo rintracciare tre famose eroine ‘sedotte ed abbandonate':
Didone, Medea e Arianna, donne accomunate dal passionale amore per eroi che poi, mostrando
ingratitudine, le hanno abbandonate.
Didone, regina di Cartagine, era innamorata dell'eroe Enea ed era totalmente succube del suo
amore, preda del ‘furor’, la passione amorosa che l'aveva portata a pensare solo al suo rapporto con
Enea e ad annullare se stessa sia come donna che come regina. Ella non riesce a raggiungere la
libertà da questo amore nemmeno con l'atto estremo del suicidio, perché nella maledizione che
lancia all'eroe si augura di essergli vicino anche come ‘fantasma’ per tormentarlo: nemmeno dopo
la morte accetta di stare lontana dal suo amato.
Medea è l'eroina greca che, per amore di Giasone, accetta di abbandonare la sua terra e la sua
famiglia e di accompagnarlo nelle sue peregrinazioni. Anch'ella è talmente succube dell'amore per
Giasone che, quando lui la lascia, uccide i suoi figli per vendetta, per non avere nulla che lo
ricordasse e perché da sola ha paura di non riuscire a sopravvivere.
Infine vi è Arianna, innamorata di Teseo. Nel suo lamento di donna abbandonata afferma di essere
disposta a seguire Teseo come schiava, e in virtù di questa condizione è disposta a prostrarsi ai suoi
piedi, compiendo l'atto di umiliazione per eccellenza.
Questi tre esempi di eroine antiche dimostrano come spesso anche le donne fossero preda del
‘furor’, ossia della passione amorosa derivata dalla seduzione di un uomo che le portava ad
annullarsi completamente e ad essere prigioniere del loro stesso amore.
Un’opera a noi pervenuta che ne richiami la tematica è il Carme LXIV di Catullo, in cui il lamento
di Arianna riecheggia i topoi che domineranno nei secoli la letteratura di questo genere: ovvero, la
perfidia del seduttore spergiuro, la sua ingratitudine, la sua spietata insensibilità, lo smarrimento
della donna indifesa in una terra deserta e facilmente destinata a cadere in pasto alle belve,
invocazione della punizione degli dei, etc.
Nella Medea, tragedia di Seneca che riprende la tragedia omonima del greco Euripide, Medea, dopo
aver compiuto una serie di delitti e malefatte in nome dell'amore che la lega a Giasone, vede
quest'ultimo abbandonarla per sposare un'altra donna. Ecco che la nostra eroina è agitata da
sentimenti contrastanti, amore e odio nello stesso tempo, in un crescendo di follia fino al tragico
epilogo della vicenda.
Le ‘Heroides’ (o ‘Epistulae heroidum’) sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate da
donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. Esse sono opera di Ovidio. Le prime 14 sono
lettere di eroine mitiche (Didone a Enea, Arianna a Teseo, Medea a Giasone, etc.), ovviamente
eroine da inserirsi a pieno titolo nella tradizione delle donne abbandonate.
Per quanto riguarda la Didone virgiliana, ella è la diretta discendente di Medea e Arianna: nelle sue
parole possiamo notare gran parte dei motivi sopra elencati, fino alla maledizione lanciata contro i
discendenti del suo seduttore, Enea.
Tra le tante vittime d’amore della letteratura d’ogni tempo, Didone è tra le più umanamente ricche,
poiché è del tutto originale la perfetta coerenza con cui essa vive, dall’inizio alla fine della sua
tragica vicenda, la propria duplice natura di donna appassionata e di regina. Si tratta dunque di una
figura complessa, che ebbe nel tempo una fortuna enorme, basti pensare che sono almeno una
trentina le opere liriche ispirate a questo soggetto.
Fonti letterarie
Eneide
L’invettiva di Didone.
Virgilio mette di fronte le due figure contrastanti di Enea e Didone: la regina cartaginese viene
raffigurata secondo il codice della poesia erotica, l’eroe troiano invece ubbidisce al codice epico.
Inizialmente la regina spera ancora di piegare l’eroe; gli rimprovera il suo tradimento, ricorda la
parola data, insistendo sulla propria sorte infelice, rimpiangendo la mancanza di un figlio. Cerca
quasi di ricattare Enea per tenerlo ancora con sé. Ma Enea, calmo e solenne, non fa alcuna
concessione ai sentimenti: assicura la sua eterna gratitudine a Didone, ma nega di aver inteso il loro
rapporto come matrimonio, lascia trasparire la sua nostalgia per la patria e le rimprovera di
ostacolarlo. Ecco che Didone, presa dalla disperazione, non gli chiede più di restare, ma travolta
dall’ira lo accusa di feroce crudeltà e irride le motivazioni degli ordini divini, da lui addotte per la
partenza. Infine lo maledice e minaccia di perseguitarlo, da morta, come una Furia. Didone è ora in
preda a un tumulto di sentimenti di dolore e sdegno, e lascia affiorare per la prima volta l’idea del
suicidio per vendetta. Dopo questo passo i due amanti non s’incontreranno più (se non negli inferi),
ma seguiranno diversi destini: Enea tutto dedito ormai alla sua eroica missione, Didone sempre più
in preda ad una disperazione che la condurrà alla morte.
Virgilio, Eneide, IV, vv. 381-7.
‘I, sequere Italiam uentis, pete regna per undas.
spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,
supplicia hausurum scopulis et nomine Dido
saepe uocaturum. sequar atris ignibus absens
et, cum frigida mors anima seduxerit artus,
omnibus umbra locis adero. dabis, improbe, poenas.
audiam et haec Manis ueniet mihi fama sub imos'.
‘Va’, raggiungi l’Italia con le tempeste, ricerca il regno attraverso le onde;
spero, se qualcosa possono i pii numi,
che tu sconterai la pena in mezzo agli scogli e che per nome Didone
spesso chiamerai. Da lontano ti perseguiterò con fiamme funeste
e, quando la fredda morte avrà sottratto le membra dell’anima,
come un’ombra ti seguirò in tutti i luoghi. Tu, crudele, espierai la colpa;
io udrò, e questa fama giungerà a me fino alle ombre dei morti’.
L’ultimo soliloquio di Didone e il suicidio.
Didone ha fatto innalzare un rogo all’interno della reggia per ardervi il letto coniugale e tutti gli
oggetti donati da Enea, col pretesto di un rito magico che la liberi dall’amore, ma già intenzionata a
morire. Manda allora la nutrice a chiamare Anna; quindi sale sul rogo, sul letto in cui aveva
consumato la sua passione, e dopo strazianti parole di rimpianto, si getta sulla spada che Enea le
aveva donato, dopo aver contemplato per un istante le spoglie dell’eroe rievocando la propria
gloriosa vita di regina: se i troiani non fossero mai arrivati sarebbe stata sicuramente felice.
Rinuncia allora ad ogni altro proposito di vendetta, solo augurando che Enea, scorgendo dal mare le
fiamme del suo rogo, tragga sinistri presagi. Le ancelle vedono la regina nell’atto di trafiggersi;
ecco che la reggia si riempie di clamore e la notizia si diffonde per la città sgomenta.
Virgilio, Eneide, IV, vv. 660-2.
[…] 'moriemur inultae,
sed moriamur' ait. 'sic, sic iuuat ire sub umbras.
hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis.'
‘Morirò invendicata –soggiunse- purchè muoia. È così, è così,
che voglio scendere all’ombre. Veda questo fuoco dal mare
il crudele, della mia morte porti con sé il presagio’.
Heroides
Ovidio, Heroides, VII, vv. 25-38.
‘Aeneas oculis semper vigilantis inhaeret;
Aenean animo noxque quiesque refert.
ille quidem male gratus et ad mea munera surdus,
et quo, si non sim stulta, carere velim;
non tamen Aenean, quamvis male cogitat, odi,
sed queror infidum questaque peius amo.
parce, Venus, nurui, durumque amplectere fratrem,
frater Amor, castris militet ille tuis!
aut ego, quae coepi, (neque enim dedignor) amorem,
materiam curae praebeat ille meae!
Fallor, et ista mihi falso iactatur imago;
matris ab ingenio dissidet ille suae.
te lapis et montes innataque rupibus altis
robora, te saevae progenuere ferae,
aut mare, quale vides agitari nunc quoque ventis,
qua tamen adversis fluctibus ire paras’.
‘Enea è sempre presente ai miei occhi nelle mie veglie, Enea all’anima mia portano il giorno e la
notte. Si, egli è un ingrato, insensibile ai miei benefici; vorrei, se non fossi stolta, starmi lontana da
lui; non odio Enea, sebbene egli volga da me il suo pensiero; mi dolgo dell’infedele, e più,
dolendomi, l’amo!
Venere, indulgi alla nuora! Abbraccia il tuo crudo fratello, fratello Amore;oh anch’egli militi nella
tua guerra! E quegli ch’io presi, ch’io seguito ancora ad amare, quegli fornisca pure esca ai
tormenti miei!
No, io m’inganno; una falsa immagine innanzi mi viene; egli ben differisce dalla materna natura!
Te le pietre, te i monti, te le querce che sorgono sull’alte rupi, generarono te le crudelissime belve;
o forse il mare che pur ora tu vedi agitato dai venti, che ti appresti a solcare pur sopra flutti ostili’.
Medea
Medea ode il canto Imeneo e diventa furente. Ella si chiede se Giasone possa veramente
abbandonarla con due figli, da sola in terra straniera, ma ciò che più la tormenta è il fatto che
l’abbandono di Giasone significherebbe che quest’ultimo non prova alcuna riconoscenza nei
confronti di lei, sua sposa, che per salvargli la vita e poter vivere felici insieme ha perpetrato diversi
e terribili delitti, arrivando ad uccidere perfino il padre e il fratello. Tuttavia ella non è disposta ad
arrendersi, l’odio per Creusa e l’affronto di Giasone la rendono furente, disposta a compiere
qualunque atto pur di vendicarsi. Per lei non hanno più valore i delitti compiuti in passato, l’unico
suo desiderio è restituire a Giasone la sofferenza e il dolore che egli le ha provocato
abbandonandola e decidendo di sposare Creusa. E proprio su di lei intende vendicarsi.
Seneca, Medea, vv. 118-26.
[…] ‘uix ipsa tantum, uix adhuc credo malum.
hoc facere Iason potuit, erepto patre
patria atque regno sedibus solam exteris
deserere durus? merita contempsit mea
qui scelere flammas uiderat uinci et mare?
adeone credit omne consumptum nefas?
incerta uecors mente non sana feror
partes in omnes; unde me ulcisci queam?
utinam esset illi frater! est coniunx: in hanc
ferrum exigatur’.
‘Non riesco ancora a credere a tanta sventura! E Giasone ha potuto fare ciò? Dopo avermi tolto il
padre, la patria, il regno, ha potuto avere il coraggio di lasciarmi così sola in una terra straniera?
Oh, senza cuore! Ha dunque dimenticato con tanto disprezzo tutto il bene che gli ho fatto, egli che
soltanto per mezzo dei miei delitti riuscì a veder vinti il fuoco e il mare? E crede egli dunque che io
abbia esaurito la serie dei miei delitti? Incerta, inasprita, non mi sento io forse trascinare dalla
mente in delirio ad ogni estremo consiglio che mi possa dare vendetta? Oh, se egli avesse un
fratello! Egli ha invece una sposa. Ecco, è questa che io devo colpire’.
Seneca, Medea, vv. 1008-15.
Ormai la vendetta è compiuta, Medea ha ucciso i suoi due figli e Giasone è distrutto dal dolore A
nulla valgono le sue preghiere e le sue suppliche: Medea ha perso il senno, in preda a follia e rabbia
porta a termine la sua vendetta, e come ogni volta, fugge per i cieli, a bordo di un carro trainato da
due draghi, lasciando Giasone in lacrime coi corpicini dei figli ormai morti.
[…] ‘Misereri iubes.–
bene est, peractum est. plura non habui, dolor,
quae tibi litarem. lumina huc tumida alleua,
ingrate Iason. coniugem agnoscis tuam?
sic fugere soleo. patuit in caelum uia:
squamosa gemini colla serpentes iugo
summissa praebent. recipe iam gnatos, parens;
ego inter auras aliti curru uehar’.
‘Tu mi chiedi pietà. Ora sì che va bene: tutto quanto è compiuto. Io non ho mai avuto alcun altra
soddisfazione da chiederti, o mia vendetta. E tu, ingrato Giasone, alza quei tuoi occhi bagnati di
lacrime! Riconosci tua moglie? Io, di solito, fuggo così: la mia via è sempre aperta nel cielo: due
draghi piegano sotto il mio carro i loro colli squamosi. Riprenditi i figli, tu, padre! Io col mio carro
volante mi sollevo nel regno dei venti, per correre in alto gli spazi sublimi dell’aria’.
Luciana Morra
giovedì 28 aprile 2011