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IL MARGINE
ISSN 2037-4240
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno 34 (2014)
n. 10
Alberto Mandreoli
Francesco Ghia
LEGGERE
I SEGNI DEI TEMPI
Samuel Velásquez Serrano
IL CONCILIO
VATICANO II
IN AMERICA LATINA
Omar Brino
TRAUMI
E MONTAGNE
L’IDEOLOGIA
NAZISTA: CREDERE
E DISTRUGGERE
Alidad Shiri
Alessandra Tisot
AFFRONTARE
L’EBOLA SUBITO
CON CORAGGIO
E REALISMO
INDICI
DELL’ANNATA
XXXIV (2014)
IL MARGINE
Francesco Ghia
10
3
DICEMBRE 2014
Leggere i segni dei tempi.
Un ‘cambio di passo’ nella
pastorale familiare della Chiesa cattolica?
Samuel Velásquez Serrano 9
Il Concilio Vaticano II
in America Latina:
«l’aggiornamento di una Chiesa
che ha ascoltato il grido dei poveri»
Omar Brino
19
Traumi e montagne.
Sulla prima guerra mondiale
e torneranno i prati di Ermanno Olmi
Alberto Mandreoli
22
L’ideologia nazista:
credere e distruggere
Alidad Shiri intervista
Alessandra Tisot
30
Affrontare l’Ebola subito
con coraggio e realismo
36
Indici dell’annata XXXIV (2014)
IL MARGINE
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Il Margine 34 (2014), n. 10
Leggere i segni dei tempi
Un “cambio di passo” nella
pastorale familiare della Chiesa cattolica?
FRANCESCO GHIA
«Sulla questione dei matrimoni bisogna dire chiaramente che la disciplina canonica
così come è, fondata sulla nullità ex tunc, non regge. Non regge di fronte alla storia
…, non regge di fronte alla psicologia moderna, al cambiamento sociale, e dà luogo
a paradossi e ingiustizie. Perché il prete può fallire e restare nella Chiesa e avere i
sacramenti e perfino sposarsi; il religioso può fallire nella sua vocazione, mentre un
laico che si è sposato non può fallire nel matrimonio, come purtroppo oggi accade
con frequenza crescente? Il dramma dei divorziati che non possono accedere ai sacramenti non può essere sottovalutato. Sappiamo tutti che anche a questo livello la
pastorale trova la sua soluzione: il prete buono e comprensivo che ammette ai sacramenti, salvo non dare scandalo… Si crea così anche in questo campo un regime
di doppia verità: c’è una norma intransigente sui divorziati ma c’è una prassi che la
supera. Ma è accettabile un regime di doppia verità nella Chiesa di Cristo? Occorre
certo il coraggio della coerenza, ma quale coerenza? Anche quello che la pastorale
chiede ha le sue esigenze di coerenza e deve diventare in qualche modo norma riconosciuta»1.
M
olti si aspettavano che il Sinodo sulla famiglia, convocato da papa
Francesco e conclusosi in Città del Vaticano il 18 ottobre 2014, potesse in qualche maniera dare un seguito a queste parole, ormai sature di anni, pronunciate da Pietro Scoppola, un «cattolico a modo suo».
In realtà, se molte speranze si erano appuntate sul Sinodo in merito a un
rinnovamento se non della dottrina – che certamente non era all’ordine del
giorno – quanto meno della prassi teologica e pastorale della Chiesa su questioni per così dire “sensibili” (unioni civili, convivenze, comunione sacramentale ai divorziati risposati, unioni tra persone dello stesso sesso ecc.), il
risultato finale della Relatio Synodi ha lasciato molti commentatori delusi.
Anzi, non v’è alcun dubbio che una tale delusione sia stata anche il sentimento prevalente nella ricezione del documento presso i mass media e una
parte non irrilevante dei fedeli2.
E nondimeno, stando a una attenta analisi razionale e spassionata della
realtà sinodale, era improbabile e francamente naïv attendersi qualcosa di
diverso da un risultato di compromesso. La scelta di pubblicare, al termine
della Relatio, l’esito numerico della votazione sui suoi singoli punti è però
particolarmente interessante. Per un verso segnala come proprio la discussione dei punti citati abbia raccolto il maggior numero di non placet: il dibattito interno al Sinodo dev’essere stato, in relazione a tali punti, niente affatto univoco e indolore. Per altro verso, gli estensori della Relatio non hanno voluto celare l’esistenza di un tale dibattito. L’onestà intellettuale di dichiarare la presenza, tra i Padri sinodali, di diversi gruppi di opinione è già
indubbiamente il segnale incoraggiante di un primo – come oggi si ama dire
– cambio di passo.
Le gioie e le speranze dell’uomo “contemporaneo”
Dal punto di vista teologico, la Relatio ricalca in più punti, non solo
(come dovrebbe essere ovvio) nello spirito, ma finanche nella lettera, la cadenza della sezione dedicata alla famiglia dalla costituzione conciliare Gaudium et Spes. Si tratta di un dato da salutare positivamente, sia perché segnala esplicitamente l’intenzione di ri-vivificare l’essenza trasformatrice e, per
usare un termine roncalliano, “aggiornatrice” di quel Concilio, sia perché
proprio la Gaudium et Spes ha introdotto, nella riflessione della Chiesa, una
nozione, quella di “uomo contemporaneo” e di “mondo contemporaneo”,
destinata a trasformare radicalmente, se rettamente metabolizzata, la comprensione dei credenti nel loro rapporto con la realtà del vissuto dell’oggi.
Naturalmente, di fronte a un aggettivo tanto impegnativo e plurivoco
come “contemporaneo” si impone necessariamente la domanda su che cosa
sia, realmente e autenticamente, contemporaneo. A questo proposito, vale la
pena meditare quel che ha scritto un filosofo italiano che, se pure da una
2
1
Il testo della Relatio Synodi si può leggere sul sito:
http://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20141018_relatiosynodi-familia_it.html.
P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 103-104.
3
4
prospettiva “aconfessionale”, ha molto riflettuto sul senso e il significato del
Vaticano II: Alberto Caracciolo. Ecco quel che scrive:
«Nella determinazione del ‘contemporaneo’ entra in gioco – innanzitutto e fondamentalmente – la considerazione di quel che nell’oggi, non di fatto è, ma dovrebbe
essere contemporaneo. Contemporaneo dunque non come fatto, ma come imperativo. Appena occorre aggiungere che la contemporaneità di fatto emerge solo nel farsi evidente della contemporaneità ideale e che, per converso, la fatica e il cammino
volti a intravedere la figura della contemporaneità ideale non possono prescindere
dal coglimento, attorno a sé e in sé, della contemporaneità di fatto, ferma restando la
coscienza dei limiti e delle difficoltà che si frappongono a tale coglimento, ma decisa anche restando la volontà di spostare per quanto possibile quei limiti e di superare per quanto possibile quelle difficoltà»3.
Ora, come si sa, nel linguaggio roncalliano, poi rifluito (almeno kata
pneuma) in alcuni scritti del Vaticano II, quel richiamo alla «contemporaneità ideale» e quella «volontà di spostare per quanto possibile i limiti e di superare per quanto possibile le difficoltà» si sono tradotti nell’appello
all’aggiornamento e alla costante attenzione da riporre nella lettura dei «segni dei tempi». E, come ricordava Paolo VI, proprio citando il suo predecessore, «leggere i segni dei tempi» significa saper cogliere l’invito, offerto al
pensiero moderno, «a decifrare nella realtà storica, in quella presente specialmente, i ‘segni’, cioè le indicazioni d’un senso ulteriore a quello registrato dall’osservatore passivo»4.
Il ‘mondo contemporaneo’ è quindi visto, da tale prospettiva, non come
il luogo abitato inesorabilmente dal peccato, e quindi in quanto tale da contrastare con tutte le forze, ma come la fonte inesauribile di una opportunità
di grazia e di redenzione.
Così, nella Relatio Synodi, al n. 11, si può leggere che «occorre muovere
dalla convinzione che l’uomo viene da Dio e che, pertanto, una riflessione
capace di riproporre le grandi domande sul significato dell’essere uomini
possa trovare un terreno fertile nelle attese più profonde dell’umanità». E
ancora: «occorre accogliere le persone con la loro esistenza concreta, saperne sostenere la ricerca, incoraggiare il desiderio di Dio e la volontà di sentir-
si pienamente parte della Chiesa anche in chi ha sperimentato il fallimento o
si trova nelle situazioni più disparate».
Insomma: il “mondo contemporaneo” va letto e interpretato non con le
categorie giuridiche della condanna, ma con la dinamica cristica della misericordia, su cui non casualmente papa Francesco ha fin dal primo giorno impostato integralmente il suo ministero. Così si legge al n. 28:
«conforme allo sguardo misericordioso di Gesù, la Chiesa deve accompagnare con
attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta».
Scelte pastorali coraggiose?
Senza dubbio la strada da percorrere è ancora abbastanza lunga. Non si è
ancora riusciti a depurare totalmente l’“ecclesiastichese” da quell’impronta
di una certa superiore benevolenza che porta a sovrapporre la pedagogia del
maternage alla dinamica della misericordia. Si può tuttavia supporre che una
qualche percezione della necessità di un tale lavoro di revisione anche linguistica sia stata presente, se è vero che il n. 33 del documento esordisce con
le parole: «la conversione è anche quella del linguaggio perché esso risulti
effettivamente significativo». È comunque rilevante l’attenzione non teorica,
ma concreta, che i Padri sinodali pongono sulla «necessità di scelte pastorali
coraggiose» (n. 45). Si legge per esempio al n. 41:
«Mentre continua ad annunciare e promuovere il matrimonio cristiano, il Sinodo incoraggia anche il discernimento spirituale delle situazioni di tanti che non vivono
più questa realtà. È importante entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di
evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al Vangelo del matrimonio nella sua pienezza. I pastori devono identificare
elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale.
Una sensibilità nuova della pastorale odierna consiste nel cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze. Occorre che nella proposta ecclesiale, pur affermando con chiarezza il messaggio cristiano, indichiamo anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più a esso».
3
A. Caracciolo, Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, a cura
di D. Venturelli, Il nuovo melangolo, Genova 20102, p. 151.
4
Il discorso di Paolo VI, tenuto all’Udienza generale del 16 aprile 1969, si può leggere
sul sito: http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1969/documents/hf_pvi_aud_19690416_it.html.
5
6
Nodi e questioni irrisolte
in vista della riammissione delle persone divorziate e risposate o conviventi
anche alla comunione sacramentale.
Lo sforzo di cogliere più la dimensione positiva che quella negativa, negli elementi chiaroscurali della realtà odierna, si può legittimamente considerare come il portato culturalmente più significativo – dal versante della
prassi comunicativa e pastorale della Chiesa – della Relatio Synodi. La stessa Relatio non nasconde di voler essere, anche da questo punto di vista, non
un punto di arrivo, ma di partenza. Ciò spiega l’esistenza non taciuta, ma
anzi riconosciuta con aperta franchezza e parrhesia, di nodi e questioni irrisolti che vengono per così dire lasciati, conformemente alla prassi teologica
del Vaticano II, al discernimento critico del sensum fidelium, ossia alla capacità dei fedeli di meditare a propria volta tali questioni aperte per suggerire, nei fatti, possibili vie di soluzione.
In tal senso, è sintomatico della difficoltà e dell’imbarazzo dei Padri sinodali il fatto che i numeri del documento che hanno ricevuto il più alto
numero di non placet siano stati quelli relativi all’accesso ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia da parte dei divorziati risposati. Sul punto, la
Relatio non dice nessuna parola definitiva; e se poteva essere lecito aspettarsi un atteggiamento un po’ meno prudente, è comunque importante che se ne
sia cominciato a parlare con sollecitudine e passione anche da parte dei pastori.
Da questo versante, mi pare meriti la massima attenzione il n. 53, che è
con tutta probabilità il segnale che, anche sotto il profilo della necessaria
riflessione teologica sul punto, si è ormai davvero molto prossimi
all’individuazione della soluzione. Leggiamo dunque che cosa afferma il
paragrafo in questione:
«Alcuni Padri hanno sostenuto che le persone divorziate e risposate o conviventi
possono ricorrere fruttuosamente alla comunione spirituale. Altri Padri si sono domandati perché allora non possono accedere a quella sacramentale. Viene quindi
sollecitato un approfondimento della tematica in grado di far emergere la peculiarità
delle due forme e la loro connessione con la teologia del matrimonio».
L’isola dei teologi
L’approfondimento della tematica e l’impulso a dare energia e vigore a
questo primo “cambio di passo” è però consegnato più alla responsabilità,
alla cura e all’impegno dei laici e dei presbiteri che non alla riflessione dei
teologi. Infatti, è proprio la dimensione della riflessione teologica a uscire
più sconfessata e, verrebbe da dire, “depotenziata” da una spassionata lettura
della Relatio. I punti più controversi non sono mai dibattuti “in punta di dottrina”. Per esempio sulla questione della contraccezione e dei “metodi naturali” si ribadisce, al n. 58, la tradizionale posizione della Chiesa espressa
nella Humanae Vitae, ma il fatto stesso che essa non venga più ulteriormente circostanziata e che, quindi, la maggior parte dei lettori della Relatio quasi
non si sia accorta della sua menzione, dimostra come, all’atto pratico, si tratti di un tema dato quasi per perduto. Insomma, nessun sinodo potrà mai intimare, neppure ai teologi morali più zelanti, un perentorio silete!: tuttavia,
che la loro voce sia vieppiù inascoltata qualcosa vorrà pur significare e suggerire…
Papa Francesco, nella conferenza stampa tenuta il 30 novembre 2014 durante il volo di ritorno dalla Turchia, ha ricordato una frase che il patriarca
Atenagora di Costantinopoli avrebbe detto a Paolo VI in occasione del loro
storico incontro del 1964: mettiamo i teologi su un’isola deserta a discutere
tra loro e, mentre loro dibattono, noi nel frattempo troviamo un accordo ragionevole… Sarò malizioso, ma l’impressione finale, dopo la lettura della
Relatio Synodi, è che la risposta alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce dell’uomo contemporaneo sempre meno proverranno dall’«isola
dei teologi», e sempre più dall’apertura della mente e del cuore delle donne
e degli uomini di “buona volontà”.
Appare del tutto evidente che una riflessione seria e attenta sulla connessione tra comunione spirituale, comunione sacramentale e teologia del matrimonio, se non vorrà produrre una indebita svalutazione della comunione
spirituale, la cui importanza come dimensione complementare e non alternativa o sostitutiva rispetto alla comunione sacramentale è ampiamente attestata da una secolare pratica devozionale, costituisca un prodromo importante
7
8
Il Margine 34 (2014), n. 10
partecipazione dei vescovi latinoamericani al Concilio Vaticano II (19621965) non fu irrilevante. Tuttavia, la realtà in America Latina aveva bisogno
di essere riletta più accuratamente alla luce del Concilio: si pensi alla povertà, all’ingiustizia sociale, alle dittature, ai colpi di stato, alla guerra fredda, al
comunismo a Cuba. Personaggi noti, come Che Guevara (1928-1967) e il
sacerdote Camilo Torres (1929-1966), possono essere considerati due icone
per descrivere l’ambiente storico di quegli anni. I vescovi latinoamericani
non lontani da questa realtà hanno convocato nel 1968, con il placet di Roma, la Seconda Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano, con il proposito di far calare nel concreto le direttive del Concilio nel Continente3.
Il Concilio Vaticano II
in America Latina
«L’aggiornamento di una Chiesa
che ha ascoltato il grido dei poveri»
SAMUEL VELÁSQUEZ SERRANO*
Dalle «catacombe del Concilio Vaticano II» fino a Medellín
noto, almeno per molti, che la storia della Chiesa Cattolica nel Nuovo
Mondo è iniziata nel 1492. Ufficialmente, l’evangelizzazione cominciò
con il secondo viaggio di Cristoforo Colombo nel 1493. Dopo 53 anni dalla
nascita della Chiesa in America, ebbe luogo il Concilio di Trento, tra gli anni 1545 e 1563. In quell’occasione non ci fu alcuna rappresentanza della
Chiesa appena nata; tuttavia, le definizioni dei Padri conciliari si fecero sentire tramite il II concilio Limense nel 1566. Non fu un lavoro semplice, fu
una sfida creativa per poter adattare agli indigeni e agli immigrati
dall’Europa una teologia, un catechismo e delle regole pensate esclusivamente per gli europei1.
I vescovi latinoamericani, radunati a Rio de Janeiro nel 1955, stabilirono la creazione del Celam (Conferenza Generale dell’Episcopato
dell’America Latina)2. Nell’ambito della Nouvelle Théologie promossa in
Europa a metà del secolo XX, molti sacerdoti latinoamericani si formarono
in grandi università europee, ponendo così le basi di una teologia autentica e
originale in America Latina. Grazie alla loro convocazione, la presenza e la
È
*
1
2
Dottorando presso la Pontificia Università Gregoriana. L’articolo esce per gentile concessione della “Rivista di Teologia Morale”, dove è apparso nel n. 179 (2013), pp.
369-378, con il titolo Il Concilio Vaticano in America Latina: Rinnovamento.
Per approfondire l’argomento: P. Tineo, Los Concilios Limenses en la evangelización
latinoamericana, Eunsa, Pamplona 1990; J.I. Saranyana, C.J. Alejos-Grau, La primera recepción de Trento en América (1565-1582), in J.I. Saranyana (ed.), Teología en
América Latina, Iberoamericana Editorial, 2002, pp. 131-148.
Per approfondire: A. Lorscheider, ¿Qué es el CELAM?, in Medellín: Reflexiones en el
CELAM, BAC, Madrid 1977, pp. 3-10.
9
Nel 1962, un mese prima dell’inizio del Concilio, Giovanni XXIII affermava in un radiomessaggio: «In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa
si presenta quale è, e vuol essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la
Chiesa dei poveri»4. Ma chi erano realmente questi poveri? Tali parole, durante l’intero percorso del Concilio, sono risuonate nel cuore di alcuni Padri
conciliari latinoamericani; nella loro sensibilità riecheggiavano tanti volti di
vittime, emarginati, donne e bambini abbandonati, per il pianto e la disperazione sulle strade dell’America Latina.
Ormai prossimi alla fine del Concilio e – perché non dirlo? – mossi dallo Spirito Santo, il 16 dicembre 1965, una quarantina di vescovi firmò il
Patto delle catacombe, dopo un’Eucaristia celebrata nelle catacombe di Santa Domitilla. Con questo patto, i vescovi giurarono di scegliere una vita di
povertà in una Chiesa «serva e povera», rinunciando a tutti i simboli di potere e mettendo al centro del loro ministero i poveri. Tra quei vescovi ce n’era
uno ben noto, Dom Hélder Câmara. Dalle sue labbra uscivano, dopo il Concilio, sentenze chiare e forti: «Aspettando: Costantino continua a vivere in
noi»5; oppure, dopo Medellín: «chi distribuisce cibo e vestiti è subito una
3
J.F. Heredia Zubieta, Los derechos humanos en las conferencias generales del episcopado latinoamericano de Medellín, Puebla y Santo Domingo, Universidad Iberoamérica – Colegio de Estudios Tecnológicos, México D.F. 2004, p. 194.
4
Radiomessaggio di Giovanni XXIII a tutti i fedeli cristiani ad un mese dal concilio: Enchiridion Vaticanum 1, p. 251.
5
J. De Broucker, Le notti di un profeta: Dom Hélder Câmera al Concilio, Jaca Book, Milano 2006, p. 32.
10
persona rispettabile, un santo; chi invece, arriva alla convinzione che è necessario fare una autentica promozione umana è rivoluzionario, un sovversivo, un bandito comunista»6.
Giunto l’anno 1968, la Conferenza de Medellín è stata «la contestualizzazione ufficiale del Concilio Vaticano II»7. Ma qual era la realtà
dell’America Latina? A livello socioeconomico, ci si trovava davanti a un
Continente con delle enormi e visibili disuguaglianze tra ricchi e poveri,
immigrati dalle campagne alle periferie delle grande città. A livello politico,
ci si trovava di fronte a dittature, instabilità di governi ed eserciti di sinistra.
A livello ecclesiale, movimenti di cristiani socialisti, forte tensione fra Stato
e Chiesa, nascita di gruppi carismatici, interrogativi sull’ordinazione delle
donne, sul celibato sacerdotale8 e la polemica iniziata dopo la pubblicazione
dell’Enciclica Humanae Vitae (25 luglio 1968).
Dopo Medellín, sono stati pubblicati innumerevoli articoli e libri di teologia autoctona, ma anche esperienze pastorali polemiche come, ad esempio,
la comunità di Solentiname, fondata in Nicaragua dal sacerdote Ernesto
Cardenal. In quel medesimo ambiente sono state fondate delle cooperative
per i poveri e, inoltre, è stato organizzato un movimento socio-culturale, politico e teologico d’interpretazione rivoluzionaria delle Sacre Scritture9. Non
possiamo dimenticare un grande vescovo martire dell’America Latina,
mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso mentre
celebrava la Messa, durante la quale era solito denunciare profeticamente le
ingiustizie e le violenze subite dal suo popolo10.
A questo punto è d’obbligo la domanda: se la Conferenza di Medellín è
stata, per l’America Latina, risonanza per la ricezione del Concilio Vaticano
II, allora, in concreto, cosa ha lasciato di positivo il Documento di tale Conferenza? «Medellín è visto come il compimento reale del Celam»11. È stato
un grande segno concreto della collegialità episcopale di tutta l’America Latina fino ai nostri tempi, com’era già stata proposta dal Concilio nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium, III). I vescovi latinoamericani non sono stati semplici spettatori di conclusioni teologiche conciliari,
hanno preso coscienza della loro responsabilità. Con una maturità storica ed
ecclesiale, unita a una grande capacità di dialogo, hanno intrapreso una rilettura del Concilio alla luce del Vangelo per applicarlo all’ambiente latinoamericano, aiutando così a rileggere la storia ecclesiale e a rivedere la sua
missione.
Non sono mancati, tuttavia, anche sbagli pratici nell’ermeneutica dopo
Medellín: ad esempio, una lettura polemica della Costituzione pastorale
Gaudium et Spes, una distorta lettura dell’Enciclica Populorum Progressio
(1967) e una lettura marxista della Parola di Dio, che hanno spinto alcuni
sacerdoti alla creazione di gruppi di matrice socialista. Ciononostante, Medellín è stato un dono di Dio per l’America Latina e la Chiesa universale.
Si può riconoscere che tale desiderio di rinnovamento teologico è stato
così energico e presente da aver portato alla nascita di alcune forti espressioni teologico-ecclesiali: si pensi, ad esempio, alla «teologia della Liberazione, la teologia femminista, l’eco-femminismo, la teologia del popolo, la
teologia degli indigeni ecc.»12.
Si comprende, dunque, come afferma Gerhard Müller, Prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede, che il Concilio e Medellín sono
stati ispirazione, natura e fondamento per la Teologia della Liberazione,
contrariamente a quanti, invece, pensano che sia stato il marxismo a porre le
basi di tale prospettiva teologica13.
12
13
6
H. Câmera, Chi sono Io?, Cittadella Editrice, Assisi 1979, p. 58 (traduzione nostra). Per
approfondire: I.A. Rampon, O caminho espiritual de Dom Hélder Câmara, Pontificia
Università Gregoriana, Roma 2011.
7
T. Mifsud, El sello conciliar de la reflexión moral en América Latina, in “Studia Moralia”, 50 (2012), n. 2, p. 295.
8
A. López Trujillo, Medellín mirada global, in Medellín: Reflexiones en el CELAM, pp.
23-25.
9
J.I. Saranyana, Introducción, in J.I. Saranyana (ed.), Teología, p. 35.
10
Per approfondire: O.A. Romero, La voz de los sin voz: La palabra viva de Monseñor
Oscar Arnulfo Romero, UCA Editores, San Salvador 1980.
11
Lorscheider, ¿Qué es el CELAM?, p. 4.
11
Saranyana, Introducción, pp. 23-38.
G. Müller, Le mie esperienze con la teologia della liberazione, discorso pronunciato in
occasione della laurea honoris causa conferitagli dalla Pontificia Università Cattolica
del Perù (28/11/2008): «[di tratta di] un programma pratico e teorico che mira a comprendere il mondo, la storia e la società, e a trasformarle alla luce della stessa rivelazione soprannaturale di Dio come salvatore e liberatore dell’uomo. Si basa su una
profonda spiritualità. Il suo substrato è la sequela di Cristo, l'incontro con Dio nella
preghiera, la partecipazione alla vita dei poveri e degli oppressi, la disposizione ad
ascoltare il loro grido di libertà e il loro anelito ad essere pienamente riconosciuti come figli di Dio; è il partecipare alla loro lotta per porre fine allo sfruttamento e
all’oppressione, al loro desiderio per il rispetto dei diritti umani, alla loro esigenza di
giusta partecipazione alla vita culturale e politica della democrazia. La Teologia della
Liberazione, ben compresa nella sua concezione originaria, è la risposta migliore alla
12
Medellín è stato uno stimolo pastorale più che un semplice vademecum,
un ascoltare delle voci dei senza voce, delle comunità e degli emarginati.
Capace di capire e dare risposta ai «segni dei tempi»14, com’era stato proposto dal Concilio nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes15.
Uno dei segni dei tempi sul quale i vescovi dell’America Latina hanno
richiamato l’attenzione riguarda l’interlocutore: se uno dei principali interlocutori del Concilio era il soggetto moderno borghese16, per la Chiesa latinoamericana non era esattamente lo stesso. Questa, pur raggiungendo tutti,
infatti, dava maggiore ascolto al povero, all’escluso, all’ammalato ecc.
(Esodo 3-8). Pertanto, la Conferenza di Medellín è stata vera discepola del
Concilio e non soltanto una mera applicazione generale di Costituzioni, di
Dichiarazioni e di Decreti, ma un approfondimento per tornare alle radici
della Parola di Dio, un ressourcement per vedere nel povero e nella sua realtà un locus theologicus.
Il povero inteso come luogo teologico e l’analisi sociologica, secondo
Tony Mifsud, sono stati grandi apporti che la teologia latinoamericana ha
dato alla riflessione più generale della teologia17. In particolare, Medellín ha
contribuito perché la teologia cattolica ripensasse alle sue grandi opzioni,
tramite una ben concepita e chiara Teologia della Liberazione:
«opzione e amore preferenziale per i poveri, opzione per la liberazione e promozione integrale, storica e trans-storica degli uomini e dei popoli; ossia, una liberazione
che scopre le ingiustizie sociali e il peccato come situazione, però promuove come
traguardo la conversione e la riconciliazione»18.
I vescovi a Medellín fanno proprie le parole della Gaudium et spes: «Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le
tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»; pertanto, una profetica opzione preferenziale e solidale per i poveri deve essere il contenuto e anche
l’obiettivo dell’evangelizzazione. Garantendo una veritiera promozione
dell’umano che contribuisca alla costruzione di una società più giusta e libera19.
Da Medellín ad Aparecida
Dopo Medellín, un altro evento decisivo per lo sviluppo postconciliare è
stata la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di
Paolo VI (1975). Secondo Carlos M. Galli, questo documento è «il più
grande documento pastorale della storia della Chiesa»20. L’Esortazione voleva porre fine alla ormai vecchia discussione tra evangelizzazione e sacramentalizzazione21.
La terza Conferenza dell’Episcopato latinoamericano, svoltasi a Puebla
nel 1979, può essere distinta come la seconda ricezione del Concilio, ancora
più profonda22. Se è ormai assodato che la liberazione e l’opzione preferenziale per i poveri, di cui si era già parlato a Medellín, abbia posto alcune basi, con la Conferenza di Puebla si realizzò, in maniera evidente, un metodo
attento agli orientamenti della Gaudium et spes e dell’Esortazione Evangelii
nuntiandi, a riguardo della «Evangelizzazione delle culture e della cultura»
(§ 20). Si tratta di un metodo ben lontano dall’essere un mero fatto decorativo o artificiale; o anche un metodo azzardato per superare il dramma della
nostra epoca, cioè «la rottura tra Vangelo e cultura». Puebla ha accolto la
sfida di rendere concreta l’Evangelii nuntiandi e per essere in grado di farlo
e, quindi, di evangelizzare la cultura o le culture latinoamericane, era necessario prendere in considerazione la «religiosità popolare»23.
19
critica marxista della religione, sia in teoria sia in pratica». http://www.bistumregensburg.de/download/borMedia0875605.PDF (visitato il 21/03/2013).
14
Cf. Rampon, O caminho espiritual de Dom Hélder Câmara, p. 89.
15
«È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello
Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del
nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata
sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma
più adatta» (Gaudium et spes, § 44).
16
Cf. Heredia Zubieta, Los derechos humanos.
17
Cf. Mifsud, El sello conciliar, p. 298.
18
López Trujillo, Medellín mirada global, pp. 23-25.
13
Cf. il documento di Puebla (1979), §§ 1134, 1153-1154.
C.M. Galli, Dones de la Iglesia latinoamericana a la nueva evangelización: Novedades
de Evangelii Nuntiandi y Puebla hasta Aparecida y el Sínodo 2012, in “Gregorianum” 93 (2012), n. 3, p. 595.
21
Cf. Saranyana, Introducción, pp. 23-38.
22
Cf. Galli., Dones de la Iglesia latinoamericana, p. 596.
23
Cf. Evangelii nuntiandi, § 48 e inoltre Puebla, § 444: «L’insieme delle profonde credenze sigillate da Dio, degli atteggiamenti di base che da queste convinzioni derivano
e le espressioni che le manifestano, si concretizza nel modo o nell’esistenza culturale
che la religione accoglie presso un certo popolo. La religione del popolo latinoamericano, nel suo modo culturale più caratteristico, è l’espressione della fede cattolica. Si tratta di un cattolicesimo popolare».
20
14
È bene ricordare che la religiosità popolare era vista con sospetto, poiché
troppe volte era stata valutata come mescolanza di tradizioni africane, indigene e di cattolicesimo, riunite in un unico panorama superstizioso. Dal
momento che la religiosità popolare può, effettivamente, implicare alcuni di
questi elementi, si rese chiara la necessità che essa venisse purificata, al fine
di promuovere gli elementi positivi, così come dice il Documento di Puebla24. Infine, l’evangelizzazione della religiosità popolare deve arrivare al
centro delle culture, proprio perché essa ha in sé «la Parola di Dio incarnata,
è una forma attiva con cui il popolo evangelizza continuamente se stesso»25.
Questa Chiesa evangelizzatrice, come sottolinea Puebla, non può non farlo
che attraverso il servizio: «la Chiesa è un popolo di servitori»26. Questa è la
sua identità e originalità, servitrice di tutti senza escludere nessuno, ma
sempre servitrice preferenzialmente per i poveri e sofferenti.
Nel 1992, la IV Conferenza dell’Episcopato latinoamericano si è riunita
a Santo Domingo. Come specificità di questo percorso, Santo Domingo ha
continuato a sostenere quello che era già stato proposto nella Evangelii nuntiandi e confermato da Giovanni Paolo II, ossia un «impegno non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nelle sue espressioni»27. Nuovo ardore significa comunicare Cristo, novità sempre attuale. I nuovi metodi e le nuove espressioni
esprimono, come primo aspetto, l’inculturazione della fede nella storia, una
maggiore scoperta degli interlocutori, dei mezzi creativi per arrivare ai destinatari, affrontando sempre di più le sfide di rinnovamento della fede popolare28. Tutto ciò senza dimenticare di essere una Chiesa evangelizzata ed
evangelizzatrice29. A partire da questo punto storico, il concetto di «nuova
evangelizzazione», è stato l’apporto latinoamericano alla teologia universale, costituendo così «la realizzazione pastorale e il frutto maturo del rinnovamento promosso per il Concilio Vaticano II»30.
La V e ultima Conferenza dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi
si è tenuta ad Aparecida (Brasile) nel 2007, con il tema: Discepoli e missionari di Gesù Cristo, affinché in Lui i nostri popoli abbiano vita. Questa
24
Puebla, § 454.
Puebla, § 450.
26
Puebla, § 270.
27
Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea del CELAM (9/3/1983), p. 4.
28
Cf. Galli, Dones de la Iglesia latinoamericana, pp. 599 e 602.
29
Cf. Evangelii nuntiandi 15.24.
30
Galli, Dones de la Iglesia latinoamericana, p. 596.
25
15
Conferenza ha mostrato una maturità eccellente della collegialità episcopale,
deliberativa e propositiva del magistero, diverso dallo stile consultivo dei
Sinodi dei vescovi31. Ha confermato certamente le grandi opzioni fatte precedentemente; soprattutto ha confermato il ricco patrimonio teologico latinoamericano. Benedetto XVI, nel suo discorso inaugurale, ha proposto che
si adottasse un orientamento cristologico, per sottolineare che la vera felicità
che riempie la vita dell’essere umano si raggiunge soltanto se al centro della
persona c’è Cristo, unica ricchezza veritiera dell’uomo, e non il materialismo che falsifica il concetto di realtà e porta la vita dell’uomo a un enigma
indecifrabile32.
Ad Aparecida, l’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi è una
delle caratteristiche visibili della Chiesa latinoamericana e dei Caraibi, opzione inscindibile dalla fede cristologica33, perché «i volti sofferenti dei poveri sono i volti sofferenti di Cristo»34. Così afferma Felicísimo Martínez:
«Se noi dimentichiamo i poveri nella Chiesa, non c’è Vangelo, perché prendere preferenzialmente in considerazione i poveri, ci dà il criterio di autenticità del Vangelo»35. Aparecida ha confermato che la Chiesa dell’America
Latina e dei Caraibi è tuttora in stato permanente di missione evangelizzatrice, a livello continentale36. Infine, è una missione che implica la partecipazione di tutti i cristiani in ogni ambito sociale, culturale e politico; una missione che oltrepassa la mera struttura gerarchica delle Chiese.
Le sfide di oggi
Per una rinnovata lettura del Concilio per l’America Latina, ci si può
chiedere: che cosa manca oggi dopo cinquanta anni? Come operare in questo nuovo contesto?
31
Cf. J.O. Beozzo, Vaticano II: cinquant’anni dopo in America latina e nei Caraibi, in
“Concilium”, 48 (2012), n. 3, p. 143.
32
Cf. Alla V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi: Enchiridion Vaticanum 24, pp. 519-550.
33
Documento di Aparecida (2007), §§ 391-392.
34
Aparecida, § 393.
35
F. Martínez, Intervista di José Manuel Vidal a Felicísimo Martínez (25 febbraio 2013),
http://www.periodistadigital.com/religion/espana/2013/02/25/felicisimo-martinezojala-cardenales-y-obispos-empezaran-tambien-a-renunciar-religion-iglesiaevangelio-vaticano-papa-.shtml (sito visitato il 25 febbraio 2013).
36
Aparecida, § 287.
16
Indubbiamente il Concilio Vaticano II ha percepito la fine della «civiltà
cristiana», nel senso che si dava a questa espressione. La missione della
Chiesa, sostenuta da fede, speranza e carità, era un fatto ormai dato per
scontato; si trovava, però, davanti a un bivio: o si aggiornava e tornava alla
radice, o si era costretti a vivere in una Chiesa divergente dalla realtà.
Questo bivio ci si presenta oggi e in ogni momento della storia, tanto che
la Chiesa deve vivere in un costante rinnovamento, in una continua conversione, deve essere capace di leggere i segni dei tempi alla luce del Vangelo;
deve vivere centrata nella persona del suo Maestro – vero modello
dell’individuo – ed essere capace di promuovere veramente l’umano. Se la
Conferenza di Medellín è stata un «evento di coscienza ecclesiale» di fronte
alla realtà, la Chiesa latinoamericana non può venire meno davanti alle sfide
di oggi, ossia, una Chiesa capace di vivere una costante opzione preferenziale per tutti i poveri in tutte le sue forme e, a proprio modo, capace di uscire
dalle sue sicurezze.
Per arrivare a questo fatto, la Chiesa non può perdere il senso della sua
autentica natura, come afferma la Lumen Gentium, ovvero il fatto che la
Chiesa esiste per liberare dalla schiavitù dell’egoismo tramite il suo “Dna
soprannaturale”, che è la logica della comunione tra Dio e l’umanità. In questa prospettiva, si avverte la grande istanza di «umanizzare
l’evangelizzazione», perché
«il maggior pericolo che corre la religione cattolica è di essere ridotta a una teoria
separata dalla vita, senza forza per comprenderla e modificarla … la Chiesa ha bisogno non soltanto di una riforma realizzata una volta per tutte, ma di una riforma
permanente, quotidiana, di tutte le ore, di tutti gli istanti»37.
Una delle grandi sfide attualmente in America Latina è la rapida crescita
del secolarismo religioso e del sincretismo religioso. In ogni caso, si percepisce un’impazienza materialista e consumista, comprensibile forse a causa
del buon momento dell’economia dell’America Latina. Tuttavia, la Chiesa
latinoamericana che è in constante missione, secondo gli insegnamenti di
Aparecida, deve impegnarsi a dare risposta ai nuovi tipi di povertà di valori,
di povertà spirituale, sociologica ecc.
La Chiesa latinoamericana non può perdere il protagonismo profetico
grazie al quale si è distinta. Nella sfida della missione continentale perma37
C. Del Campo, Dios opta por los pobres: Reflexión teológica a partir de Aparecida,
Ediciones Universidad Alberto Hurtado, Chile 2010, p. 95.
17
nente, proposta da Aparecida, è compresa la viva azione profetica di ogni
battezzato che annuncia Cristo come Buona Notizia, tramite le parole e la
testimonianza di vita in una continua conversione morale nella fede38. Proprio dal punto di vista della morale rinnovata, l’opzione preferenziale dei
poveri è stato il punto di riferimento per sviluppare un’etica evangelica, almeno sotto due aspetti: primo, la scelta di un’etica in chiave di liberazione;
secondo, una più acuta riflessione etica fatta dalla Teologia della Liberazione39. Entrambi gli aspetti hanno come fondamento «la categoria degli impoveriti come quella che configura la prospettiva antropologica»40.
In conclusione, si può riconoscere che è impossibile dividere il vincolo
che si è creato tra il concilio Vaticano II, Medellín, Puebla, Santo Domingo
e Aparecida. Il dono dello Spirito che ha illuminato il Concilio Vaticano II e
ha permesso alla Chiesa di entrare rinnovata nel secolo XXI, ancora oggi
accompagna e non abbandona anche nelle prove più amare. In ogni tappa
del futuro, non si dovrà avere paura dei cambiamenti e vergogna di fronte al
mondo moderno, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II41. Medellín ha
ricordato alla Chiesa di «non vergognarsi di fronte ai poveri»42. Da questa
Conferenza risulta «un originale contributo latinoamericano al cristianesimo
universale: “Il paradigma liberatore”»43, che si realizza tramite il vedere, il
giudicare e l’agire. Inoltre, si può riconoscere con umiltà, come afferma Jon
Sobrino, che «Medellín ha messo mano all’opera di “ripulire il volto di
Dio”»44, che è il volto dei poveri.
Finalmente, con una costante e continua conversione, concretizzata in
una vera testimonianza personale, comunitaria ed ecclesiale, si può trasmettere al mondo la gioia di essere cristiani. La felicità di poter essere fedeli
«discepoli e missionari del Signore per poter avere in Lui vita».
38
Per approfondire: J.L. Sicre Díaz,¿Una Iglesia profética?, in “Proyección”, (2012), n.
244, pp. 9-31
39
Cf. Mifsud, El sello conciliar, p. 296.
40
Mifsud, El sello conciliar, p. 297.
41
Cf. J. Sobrino, La “Chiesa dei poveri” non ha avuto sviluppo al Vaticano II, in “Concilium”, 48 (2012), n. 3, p. 106.
42
Sobrino, La “Chiesa dei poveri”, p. 106; inoltre J. Sobrino, La Chiesa dei poveri: fortune e sfortune, in “Concilium”, 49 (2013), n. 1, pp. 129-139.
43
J.M. Vigil, Teología del pluralismo religioso: nueva etapa para la Teología de la Liberación, in “Franciscanum”, (2011), n. 155, p. 22.
44
Sobrino, La “Chiesa dei poveri” non ha avuto sviluppo al Vaticano II, p. 106.
18
Il Margine 34 (2014), n. 10
Traumi e montagne
Sulla prima guerra mondiale
e torneranno i prati di Ermanno Olmi
OMAR BRINO
uscì, nel 1959, un film oggi considerato giustamente un classico
Quando
come La grande guerra suscitò molte polemiche, perché venne visto
come troppo poco patriottico e come dissacratore di un mito nazionale. Un
decennio dopo, nel 1970, veniva prodotto e distribuito, anche qui non senza
residuali polemiche, un film come Uomini contro, alquanto più duro del
precedente, nel clima politicizzato e contestatore di allora, verso l’esercito
italiano della prima guerra mondiale. Con gli anni Ottanta, il tema della
grande guerra poteva invece piuttosto tranquillamente scivolare verso il
pecoreccio dell’epoca (Porca vacca, 1982). Del resto, da qualche anno, la
data del 4 novembre, celebrata per quasi sessant’anni come festa della
vittoria, era finita tra le festività soppresse (1977).
Il tempo era passato e il ricambio generazionale faceva sì che coloro che
quella guerra l’avevano fatta e la portavano dentro direttamente rimanessero
sempre meno: si presentava l’idea che ormai su di essa non ci fosse più
granché né da celebrare, né da dissacrare. Poi sarebbero venuti gli anni del
leghismo, di un liberismo senza inibizioni che non sentiva più il bisogno dei
vecchi miti, di un indebolimento complessivo dell’idea di unità nazionale di
fronte all’individualismo e alla globalizzazione, dei lamenti sulla morte
della patria. Uno scrittore come Mario Rigoni Stern – che aveva
dolorosamente scritto una buona parte della sua opera per liberare la sua
terra, l’Altipiano di Asiago, e la stessa guerra ivi combattuta, da un
nazionalismo opprimente, di tipo fascistico – assistette perplesso a questi
ultimi andamenti del sentimento nazionale. Parlando con Rigoni Stern,
anche Emilio Lussu, che la prima guerra l’aveva vissuta e criticata
dall’interno in un libro vietato dai fascisti – Un anno sull’Altipiano – già
aveva scosso il capo di fronte a un film come Uomini contro (che pure da
19
quel libro era tratto, ma ne aveva presentato il messaggio in modo forse
troppo semplicistico)1.
Il fatto è che di fronte a un trauma storico come la prima guerra mondiale
anche la stessa contestazione rischiava di risultare semplicistica, come già lo
era stata la celebrazione e come poi sarebbe risultata la rimozione degli anni
successivi. Perché è certo un dovere ribadire quanto le varie spinte che
mossero un’opinione pubblica incerta alla guerra fossero alquanto discutibili
(l’estremismo nazionalistico, l’espansionismo dinastico sabaudo, gli
interessi industriali, ma anche lo stesso interventismo democratico – di un
Salvemini e di Lussu – che nel dopoguerra venne infine assordato dalle altre
motivazioni). Ed è certo un dovere ribadire quanto le condotte dei politici e
dei generali che diressero le operazioni prima, durante e dopo la guerra
furono alquanto discutibili, così come alquanto discutibili sono le
denominazioni che passarono dagli slogan politici ai libri di storia (“terre
irredente”, “maggio radioso”, “vittoria mutilata” eccetera). Né il fatto che
siano molto discutibili le spinte che mossero anche le altre nazioni alla
guerra, così come le condotte dei loro politici e generali, non cambia
granché la situazione. È difficile ammettere un approccio
“giustificazionista” a quel trauma, che cerchi di difenderlo come passaggio
necessario a una necessaria moderna unità politico-sociale nazionale, perché
la storia sembra avere ben poco necessità di passaggi necessari e tanto meno
così spaventosi. Detto tutto questo, è però innegabile che senza quel trauma
la storia dell’Europa e dell’Italia sarebbe stata – moderna o non moderna,
unita o non unita – un’altra storia. L’approccio migliore, al di là delle
celebrazioni e delle pur giuste contestazioni, mi sembra essere quello per
così dire terapeutico: che cerca di far riemergere i traumi per quello che
sono, provando a rimuovere pazientemente le rimozioni, per poter guardare
al futuro, nella consapevolezza che quei traumi, nel bene o nel male, fanno
comunque parte di noi2.
Un verbo al futuro è nel titolo di torneranno i prati di Ermanno Olmi che
1
2
Cfr. M. Rigoni Stern, Introduzione a E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Einaudi, Torino
2000.
Un’analisi intensa dei traumi della storia identitaria italiana e dei suoi miti resta La
tragedia necessaria. Da Caporetto all’Otto settembre, Bologna 1999, di Mario
Isnenghi, autore di altri libri fondamentali come Il mito della grande guerra (prima
edizione Bari-Roma 1970, nuova edizione Bologna 2014). Tra i lavori più recenti,
usciti anche in occasione del centenario dell’inizio del conflitto, cfr. M. Mondini, La
guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, Bologna, Il Mulino 2014.
20
Il Margine 34 (2014), n. 10
in modo scabro ed efficace si affaccia al trauma della prima guerra
mondiale. È un film che denuncia le atrocità del conflitto e non nasconde le
responsabilità dei comandi superiori dell’esercito, ma, evidentemente, non si
limita a contestare; sembra voglia anche contribuire a curare, o forse,
meglio, a trattare ferite che, al di là delle rimozioni, restano ancora incise nei
prati delle montagne dell’Altipiano di Asiago e nelle difficili identità – di
italiani o di europei – che ci portiamo dentro.
Aleggia nel film lo spirito del grande amico di Olmi Rigoni Stern: la loro
amicizia era cominciata, più di cinquant’anni fa, con il progetto di portare
sullo schermo Il sergente nella neve; poi quel film non si fece più, ma Olmi
si costruì una casa sull’Altipiano vicino a Rigoni e ora, a più di ottant’anni,
ci lascia dell’Altipiano e della sua guerra una trasfigurazione in immagini,
parole e musica che sarà difficile dimenticare. Parole che non si
dimenticano, ad esempio, sono quelle in dialetto veneto con cui un umile
soldato, nel momento estremo, esprime la sua straziante teologia politica.
Musica che non si dimentica è quella composta da Paolo Fresu, che, sardo
come Lussu, è riuscito subito come lui a cogliere le voci profonde
dell’Altipiano. La straordinaria fotografia è curata dal figlio del regista,
Fabio, ma il film è dedicato a suo padre che la guerra ’14-’18 la combatté e
gliene parlava, fin da quando era bambino, con sentimento e passione.
Proprio dalla memoria del padre parte la scena di apertura del film, in cui un
soldato napoletano viene lasciato cantare le sue melodie – Comme è bella ‘a
montagna stanotte... – in mezzo alla linea del fronte, con i soldati di
entrambi gli schieramenti a sentire in silenzio e ad applaudire.
Il tempo passa e il ricambio generazionale farà sì che, come se ne sono
andati coloro che la guerra la combatterono, così se ne andranno coloro che
ascoltarono direttamente da essi i sentimenti e le passioni con cui la vissero:
ma, nell’andare, ci si passa di mano le esperienze e i ricordi, sui quali, nel
bene o nel male, imboccherà la sua strada chi giunge dopo di noi.
L’ideologia nazista:
credere e distruggere
ALBERTO MANDREOLI
R
ecentemente è stato pubblicato per Einaudi un saggio intitolato Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS. Christian Ingrao, autore del
volume e direttore dell’Institut d’Histoire du Temps Prèsent (Parigi), ha
esaminato non solo la carriera e il ruolo (teorico ed organizzativo) che uomini colti e preparati svolsero all’interno della macchina burocratica nazista
dagli anni Trenta sino al 1945 ma anche i motivi storici, interiori e religiosi
che li condussero a “consegnarsi” senza riserve al piano di sterminio pianificato dal III Reich durante la seconda guerra mondiale.
La Grande Guerra (1914-1918), il primo conflitto mondiale e moderno
di cui quest’anno ricorre il centenario, fu l’esperienza che segnò, secondo
l’interpretazione di Ingrao, l’infanzia dei futuri intellettuali delle SS tedesche. L’esperienza di guerra percepita dai bambini tedeschi venne influenzata da alcune memorie indimenticabili: la partenza dei padri e fratelli, le privazioni alimentari, i lutti familiari. Non meno importante fu la credenza, diffusa nella cultura e nella società tedesca, che il conflitto fosse unicamente di
natura difensiva e che la Germania, asserragliata dalle potenze della Triplice
Intesa, avesse dovuto entrare necessariamente in guerra per difendere la
propria sicurezza nazionale. Werner Best, ex vicecomandante dello RSHA
(Ufficio centrale per la sicurezza del Reich), ricordò nel 1947 la perdita del
padre, morto a Treviri per cause di guerra nell’ottobre 1914:
«La morte da eroe (Heldentod) di mio padre mi ha lasciato a me stesso quando avevo undici anni. Mia madre crollò e cercò sostegno nei suoi figli più di quanto potesse prodigarne. … Mio padre ci aveva lasciato una lettera nella quale ci raccomanda-
21
22
va nostra madre e ci esortava a diventare uomini, tedeschi e patrioti. … A partire dai
quindici anni, mi sentivo responsabile del riorientamento della Germania».1
I trattati di pace2, firmati tra il giugno 1919 e l’agosto 1920 ed estremamente punitivi per gli imperi centrali (i vinti infatti non vennero nemmeno invitati alla conferenza di Parigi) e il timore vissuto dalla Germania di
scomparire come realtà biologica/razziale e come realtà di Stato (Vernichtung) costituirono il fulcro su cui Hitler e gli aderenti al Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP) fecero leva. L’intellighenzia
nazista, che nel periodo di formazione (1919-1933) seguì diversi corsi accademici (economia, lingue, diritto, storia, geografia, germanistica) nelle più
prestigiose facoltà tedesche – come Lipsia, Kiel e Könisberg – non si limitò
ad acquisire saperi, ma operò cercando di abbinare le conoscenze apprese a
una militanza politica/militare. Le università e gli istituti di ricerca, ormai
completamente nazificati, operarono per dimostrare da un punto di vista
scientifico la necessità di riportare nei confini del Reich le comunità di etnia
tedesca – come, ad esempio, i Sudeti, la Renania e l’Austria – che dopo Versailles appartenevano ad altre nazioni. Questo rispondeva a una precisa teoria denominata völkisch che sin dal 1919 – quindi già durante la debole repubblica di Weimar – portava i suoi sostenitori a lottare contro
l’internazionalismo, l’ebraismo apolide e i nemici del popolo germanico, la
cui purezza biologica doveva essere preservata da ogni possibile contaminazione ad ogni costo.
Gli intellettuali SS interiorizzarono in profondità i dogmi che erano alla
base del credere nazista: la purezza della razza nordica, spiritualmente e intellettualmente più elevata rispetto agli altri popoli, doveva essere preservata
nella storia attuale – come sostenne Hans Günther, allievo di Gobineau – dal
pericolo del “meticciato”, fenomeno tendente ad affievolire la razza. Convinti che la società tedesca, uscita stremata dalla Grande Guerra, fosse caratterizzata dal caos, dalla violenza e dalla mancanza di valori, gli intellettuali
dell’Ordine nero tentarono di rifondare da un punto di vista genetico la società attraverso due percorsi paralleli ma tendenti a un medesimo fine. Da un
lato la soppressione fisica, morale e spirituale della “vita indegna di vivere”:
gli esperimenti condotti con l’Aktion “T4” (il programma nazista di eutanasia), la soppressione sistematica di malati a livello psicologico e che presentavano malformazioni fisiche congenite, l’eliminazione di ebrei, zingari,
omosessuali, perseguitati politici nei campi di concentramento nazisti durante il secondo conflitto mondiale e dal 1941 lo sterminio delle popolazioni
dell’Est europeo da parte di unità speciali addestrate ad hoc. Dall’altro
l’unione attraverso il matrimonio di individui biologicamente “puri”, custodi
autentici della “continuità del plasma germinativo”3.
Il Servizio di Sicurezza (SD), fondato da Reinhard Heydrich nel 1931,
fu inizialmente un ufficio-informazioni che si occupò degli oppositori del
nazismo. L’ufficio, i cui metodi erano l’osservazione e la ricerca, doveva
studiare il mondo del nemico e schedare in modo obiettivo ogni minimo dettaglio su di esso (Gegnerforschung). Adolf Eichmann, entrato nello SD nel
1936, dichiarò:
«Il dr. Six conduceva la “lotta ideologica contro gli oppositori” su una base puramente scientifica. Aveva occhi e orecchie dappertutto e sapeva perfettamente chi dirigeva questa o quella istituzione, chi era questa o quella persona […]. Si trattava
per noi di mettere insieme delle conoscenze e questa attività girava per noi a pieno
regime»4.
1
C. Ingrao, Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS, Einaudi, Torino, 2010, pp. 1617.
2
In particolare si fa riferimento a: il trattato di Versailles con la Germania (28 giugno
1919), il trattato di Saint-Germain-en-Laye con l’Austria (10 settembre 1919), il trattato di Neully con la Bulgaria (27 novembre 1919), il trattato di Trainon con
l’Ungheria (4 giugno 1920) e il trattato di Sévres con la Turchia (10 agosto 1920). Alla Germania fu imposto di cedere: le regioni dell’Alsazia e della Lorena alla Francia;
la regione carbonifera della Saar alla Francia per quindici anni; la Prussia occidentale,
la Posnania e l’Alta Slesia alla Polonia (eccetto il cosiddetto “corridoio di Danzica”,
considerata città libera); Eupen e Malmedy al Belgio; lo Schleswig settentrionale alla
Danimarca. Inoltre la Germania dovette pagare un’indennità di guerra di 20 miliardi
di marchi-oro, il suo esercito venne ridotto a 100.000 uomini ed infine tutte le colonie
vennero divise tra le potenze vincitrici. E. Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni
di morti, la fine di un mondo, Laterza, Bari, 2014; in particolare il cap. IX (“Pace senza pacificazione”).
23
In un secondo momento, l’altro compito affidato allo SD fu di “controllare” e di “valutare” la sfera vitale germanica. Dall’esigenza di inglobare nel
Reich le aree di lingua e tradizioni germaniche nacque l’azione repressiva
degli Einsatzkommandos (EK – unità di intervento dipendenti dagli Ein-
3
4
Espressione del biologo Heinz Weismann (in Ingrao, Credere, distruggere, p. 79).
Ingrao, Credere, distruggere, p. 131.
24
satzgruppen), con arresti e confische di beni appartenenti ai “nemici del
Reich”: massoni, ebrei, comunisti, oppositori politico/confessionali.
Tabula rasa
Gli intellettuali SS, all’indomani dell’invasione della Polonia (1° settembre 1939) che diede inizio alla seconda guerra mondiale – percepita dalla
Germania come “lotta per l’esistenza” (Daseinkampf) – vennero catapultati
nell’Est europeo ed ebbero il compito di dimostrare il loro “valore” nella
guerra di sterminio. Poco conosciute sono le rappresentazioni mentali che i
tedeschi ebbero dell’Est: terra abitata da razze inferiori, l’Est era considerato
dalla Germania nazista un’area da “riconquistare” e da “riplasmare” da un
punto di vista biologico. Germanizzare questa zona (ossia il Generalplan
Ost) divenne l’obiettivo finale dell’invasione, in una sorta di palingenesi
dell’umanità. Il mito del sangue e del suolo trovò in questo caso la sua massima espressione:
«Nell’Est è il nostro domani, è l’anno che viene laggiù è l’ansia di un popolo, laggiù
ci attendono pericolo e vittoria. Laggiù i fratelli furono leali, non abbassando mai il
vessillo. … Laggiù dobbiamo conquistare una terra straniera che già un tempo appartenne ai tedeschi. Laggiù si tratta di un nuovo inizio, ebbene armatevi, tedeschi,
ascoltate»5.
L’ideatore e l’artefice del Generalplan Ost fu Hans Ehlich, capo dello
RSHA Amt III b, che l’11 dicembre 1942 davanti ai dirigenti del NSDAP
espose, senza contare i 9 milioni di ebrei abitanti nell’Est, le strategie del
Generalplan Ost: l’espulsione o “arretramento spaziale” di 35 milioni di
persone e l’eliminazione fisica dei cosiddetti “indesiderati”. L’anno precedente (1941) era stata allestita a Berlino l’esposizione “Pianificare e sistemare l’Est”: attraverso pannelli, conferenze e cartine i dirigenti dello RSHA
esposero al pubblico berlinese la strategia di pianificazione sociobiologica
dell’Est, area geografica che una volta ridotta a tabula rasa sarebbe dovuta
essere ricostruita ex novo. La guerra d’invasione in Polonia e in seguito in
Russia venne preceduta da una capillare e vasta campagna di legittimazione
5
Canto composto da Hans Baumann per la Reichsfrauenführung, in Ingrao, Credere, distruggere, p. 166.
25
dello sterminio6. Convinte di condurre una guerra “giusta” contro i “franchi
tiratori” (idea peraltro già presente nell’immaginario dell’esercito tedesco
sin dal 1870 durante l’invasione della Francia e nella guerra 1914-1918) e
nei confronti di una razza inferiore, composta da comunisti ed ebrei che non
avevano nessun rispetto per il popolo tedesco, le Einsatzgruppen (unità di
intervento) compirono al meglio il compito di controllo e di sterminio. A
mano a mano che procedeva l’invasione, le unità di intervento garantivano il
controllo dell’area conquistata attraverso l’arresto e l’esecuzione di nemici e
sovversivi. La messa in sicurezza del territorio doveva essere accompagnata
dal genocidio, l’unica pratica volta a rifondare biologicamente la società secondo il determinismo razziale nordico e a garantire la “salvezza” del popolo tedesco. La durezza e l’inflessibilità dovevano essere alla base del comportamento del soldato germanico chiamato dalla comunità di destino (la
Volksgemeinschaft) a combattere in una terra ostile colpita da ogni specie di
malattie (tifo, colera e peste) e contro un nemico barbaro da identificarsi sia
nei soldati che nei civili, da considerarsi “fiancheggiatori”.
Oramai le truppe ed i graduati tedeschi avevano interiorizzato l’idea secondo cui la Germania, assediata dal nemico bolscevico-giudaico, fosse in
costante pericolo e avesse il bisogno di conquistare il suo “spazio vitale”
(Lebensraum) attraverso la “spinta ad Est” (Drang nach Osten). Esemplificativo il discorso pronunciato dal generale d’armata Hoepner alla IV Panzerdivision schierata dinanzi alla città di Leningrado:
«La guerra contro la Russia è una parte essenziale per l’esistenza del popolo tedesco. Si tratta dell’antico combattimento tra germani e slavi, la difesa della cultura
europea contro l’invasione moscovita e asiatica, la difesa contro il bolscevismo giudaico. Questa lotta deve avere come scopo l’annientamento della Russia attuale e
deve essere condotta con una durezza inaudita».7
Non meno significativa la lettera che uno dei soldati appartenenti al
Sonderkommando 4° operante a Kiev nel 1941 scrisse alla moglie:
6
Per lo sterminio applicato in Polonia interessante è il saggio di J.T. Gross, I carnefici
della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano, 2002. Nel caso dell’eccidio della comunità ebraica di Jedwabne avvenuto il 10 luglio 1941, i reparti tedeschi non ebbero un ruolo pratico ma si
limitarono a scattare fotografie alla pratica del genocidio. Il compimento della strage
venne affidato unicamente a cittadini polacchi che, senza alcuna misericordia per la
vita umana, massacrarono i loro compaesani di religione ebraica.
7
Ingrao, Credere, distruggere, p. 197.
26
Il nazismo secondo Dossetti
«Stiamo facendo questa guerra per l’esistenza stessa del nostro popolo. […] I miei
camerati combattono letteralmente per l’esistenza del nostro popolo. Fanno al nemico ciò che egli farebbe loro. Dato che consideriamo che questa guerra sua una guerra giudaica, gli ebrei sono coloro che subiscono il primo urto. In Russia, laddove c’è
un soldato tedesco, non ci sono più ebrei».8
Fucilazioni, impiccagioni, uccisioni “dimostrative” su donne e lattanti
eseguite per spingere i singoli soldati a varcare il sottile ma pur esistente
confine del “non si può”, costituirono la pratica ordinaria, sistemica e produttiva dell’Olocausto. Sia sufficiente ricordare i massacri di immani dimensioni avvenuti nella tarda estate del 1941 a Babij Jar, un fossato nei
pressi di Kiev, e a Kamenec Podol’skij, città dell’Ucraina carpatica. Nel
primo eccidio il Sonderkommando 4°, coadiuvato dalla polizia ausiliaria
ucraina, assassinò tra il 29 e il 30 settembre 33.771 ebrei; nel secondo, durato circa tre giorni (28-31 agosto) per opera dell’Einsatzkommando 5, persero
la vita 23.600 ebrei di ogni età9. Nella Bielorussia fu tristemente conosciuta
l’opera di Eduard Strauch, esperto di diritto dello SD e sovraintendente della
polizia di sicurezza di Minsk (KdS); egli profuse infatti ogni sforzo
nell’annientare le comunità ebraiche e le formazioni partigiane dell’attuale
Russia bianca.
La percezione, ormai interiorizzata, di essere sopraffatti da un complotto giudaico/bolscevico, l’ansia di scomparire come realtà di popolo e di Stato, lo spirito di vendetta sorto in Germania dopo l’umiliante trattato di pace
di Versailles, la lettura “razziale” dell’invasione dell’Est, il processo di brutalizzazione del conflitto10, l’assuefazione quotidiana alla violenza11,
l’annientamento dei “diversi” per mezzo del lavoro (Vernichtung durch Arbeit), i meccanismi produttivi dell’èra industriale applicati alla società umana per eliminarne parti indesiderate, condussero l’umanità nella notte più
oscura.
Nell’interazione nefasta di queste variabili storiche/sociali, un posto
particolare spetta al tema del nazismo come vera e propria religione. Si deve
a Giuseppe Dossetti – che nel 1984 accettò con la sua famiglia religiosa (la
Piccola Famiglia dell’Annunziata) il mandato da parte della Chiesa di Bologna di essere a Monte Sole, luogo del barbaro eccidio avvenuto tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, una presenza orante e segno di riconciliazione –
il merito di aver proposto due categorie di pensiero attraverso cui interpretare il modus operandi delle truppe naziste sul fronte orientale ed occidentale.
In primo luogo il delitto castale: le riflessioni di Dossetti presentano in
modo inaspettato e unico il passaggio dal delitto razziale a quello castale.
Dopo un’attenta riflessione sull’influsso esercitato dalle dottrine razziali induiste sul nazismo e soffermandosi sul mito degli Ari, i conquistatori della
valle del Gange, si propone l’ipotesi del “delitto castale”, pratica basata non
su un principio fisico/biologico ma su un piano che fa riferimento ad un sistema di rigide gerarchie. Quel surplus di violenza sottolineato da Paolo
Pezzino e Luca Baldissara nel volume Il massacro. Guerra ai civili a Monte
Sole12, pare essere spiegato da Dossetti nell’Introduzione alle “Querce di
Monte Sole” nel seguente modo:
«direi che il delitto può qualificarsi castale quando è motivato su un piano che non è
più quello delle differenze biologiche o anche etniche, ma piuttosto su quello propriamente metafisico: cioè suppone un sistema o una gerarchia di distinzioni non solo sociologicamente ma metafisicamente rigido. Tale è in modo eminente il sistema
castale dell’induismo data la sua stretta connessione con la dottrina delle reincarnazioni: … si può solo aggiungere che tutto questo trascende ogni rapporto con l’etica,
almeno come tutto il pensiero occidentale può concepirla, per modo che quello che
noi chiamiamo ancora delitto – per esempio l’uccisione di un innocente – può divenire esso stesso un dovere di casta, e quindi in definitiva puro ed inarrestabile impulso trascinante»13.
8
Ingrao, Credere, distruggere, p. 222.
Per quanto concerne il genocidio messo in atto in URSS dalle truppe nazionalsocialiste
segnalo il volume di A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, il Mulino, Bologna, 2007.
10
Sull’argomento rimando al volume di S. Neitzel e H. Welzer, Soldaten. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati, Garzanti, Milano, 2012.
11
Per quanto riguarda, invece, la “normalità” della pratica di annientamento occorre rifarsi al volume di C.R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale”
in Polonia, Einaudi, Torino, 1992.
9
27
12
13
L. Baldissara, P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna, 2009, p. 21: «La tesi centrale […] è che il massacro di Monte Sole sia un capitolo della guerra antipartigiana in Italia, strategicamente condotta dagli alti comandi tedeschi attraverso la formulazione di un coerente sistema di ordini teso alla devastazione del territorio e dell’habitat della guerriglia, reso possibile nella sua forma terroristica e assassina dal “di più” di violenza legittimato dall’ideologia nazista».
G. Dossetti, Introduzione, in L. Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle
comunità martiri fra Setta e Reno 1898-1944, Il Mulino, Bologna, 1989, p. XVI.
28
Il Margine 34 (2014), n. 10
In secondo luogo l’ateismo assertivo. La mentalità nazista ha condiviso
pienamente la negazione radicale dell’umanità “indegna di vivere” e ha abbracciato, come è stato definito da Dossetti, “l’ateismo assertivo”. Hitler e i
suoi adepti non hanno imposto semplicemente la negazione di Dio, cioè un
materialismo ateo e laico, ma hanno diffuso una religione idolatrica, un vero
e proprio culto neopagano. La prostituzione agli idoli, in particolare il culto
del capo, ha manipolato talmente le coscienze degli uomini da renderle
completamente asservite alla “Potenza spirituale del Male”. Ciò che venne
chiesto al soldato politico, divenuto oramai gottgläubig (credente in Dio pagano e profano) fu la consegna della propria coscienza alla volontà indiscussa ed onnisciente del Führer. In nome di esso e della Germania nazionalsocialista, ogni assassinio venne legittimato e permesso.
Nel processo apostolico di beatificazione dell’olandese Tito Brandsma,
sacerdote carmelitano ucciso a Dachau il 26 luglio 1942 si può leggere la
testimonianza dell’infermiera che fece l’iniezione di acido fenico:
«Quando avevo sedici anni andai a Berlino come infermiera della Croce Rossa. Là
abbiamo dovuto giurare che consideravamo Hitler come il nostro Dio ed abbiamo
dovuto firmare che non saremmo più andate in Chiesa. La Chiesa e tutto il resto era
soltanto un’impostura. Gli Ebrei dovevano essere tutti sterminati. Questo era l’inizio
della nostra formazione. Ero troppo giovane per capire le conseguenze di tutto questo. … Gli feci l’iniezione verso le due meno dieci. … Tutto il giorno mi sentii male. … Il suo cuore cessò di battere. Il dottore era seduto vicino con lo stetoscopio
per salvare le apparenze. In quel momento il dottore mi disse: “Quel porco di un cane è morto”»14.
14
Affrontare l’Ebola subito
con coraggio e realismo
ALIDAD SHIRI intervista ALESSANDRA TISOT
A
lessandra Tisot, bolzanina, ha iniziato a lavorare per l’Onu nel 1988,
con un incarico in Gambia, un Paese di cui – afferma – conosceva solo l’esistenza e niente più. In seguito, dopo un breve periodo alla sede di
New York, è stata assegnata alle sedi in Laos, in Tanzania, nuovamente in
Laos, in Nepal, Cina, Etiopia e Ucraina. Ogni assegnazione ha avuto una
durata media di quattro anni. Ha fatto questo percorso con incarichi e responsabilità crescenti e ha raggiunto il livello di dirigente responsabile delle varie agenzie presenti in un dato Paese. È partita dal gradino più basso
della gerarchia professionale: lei pensa però che sia stato un vantaggio,
una scuola di vita. Ha sempre vissuto in un ambiente professionale multiculturale con “capi” e colleghi di nazionalità extraeuropea: una vera sfida,
dove norme di comportamento, di rapporti interpersonali e di interazione
devano essere imparate e dis-imparate ogni volta, con pazienza e tanta capacità di osservazione e di mettersi in discussione, con norme comportamentali diversissime dettate dalle nostre culture e formazioni.
È una mamma fierissima di due ragazzi che hanno prima subito e poi,
man mano che crescevano, partecipato alle sue scelte; non solo l’hanno
aiutata a mantenere un equilibrio tra lavoro e famiglia, ma le hanno insegnato a rapportarsi con le varie culture e realtà in cui hanno vissuto. Hanno viaggiato sempre assieme, adattandosi e imparando, a volte abbracciandosi per scacciare le frustrazioni, a volte meravigliandosi e a volte condividendo quel senso di “diversità” – lei sul lavoro, loro a scuola o nei giochi.
Le abbiamo chiesto di parlarci del suo impegno attuale in Africa e del
problema Ebola: quali i rischi del contagio sul posto; come funziona
l’assistenza sanitaria; quali sono gli interventi possibili attualmente e quali
sarebbero necessari.
Dossetti, Introduzione, p. XXIII.
29
30
È sufficiente il contributo di personale sanitario inviato dall’Italia e da
altri Paesi occidentali?
Recentemente mi hanno richiesto di raggiungere i colleghi in Liberia
per l’emergenza Ebola e mi sono recata a Monrovia. Ebola è una drammatica realtà che deve essere presa in considerazione con serietà, urgenza e in
maniera comprensiva, non si può pensare di isolare uno o due aspetti di
quello che costituisce l’emergenza. La strategia regionale (per l’Africa occidentale ed i tre Paesi più colpiti) e la strategia globale sono state formulate
da mesi. La risposta da parte della comunità internazionale però è ancora
lenta e spesso inconcludente, sicuramente non adeguata.
Che cosa comporta in termini pratici questo ritardo?
Panico, disinformazione e una risposta frammentaria non faranno che
aumentare il rischio con conseguenze sempre più disastrose che includono
instabilità politica ed economica nei Paesi affetti, costi di contenimento
sempre più elevati, rischi di utilizzazione del virus a scopi di bio-terrorismo
(in caso dovesse veramente accadere non possiamo nemmeno immaginare le
conseguenze). Organizzazioni non governative, e voglio fare menzione in
primo luogo di Medici Senza Frontiere, ma molte altre, comprese quelle italiane, stanno facendo un lavoro encomiabile affiancando governi nazionali,
locali e le Nazioni Unite e tutta le comunità e popolazioni locali. È necessario che ognuno di noi, anche a livello individuale, faccia la sua parte. Innanzitutto documentandosi sulle modalità di trasmissione e di contagio: le mascherine, il fatto di non accettare bambini africani negli asili, il cambiare posto nell’autobus sono azioni insulse e controproducenti.
Che cosa è necessario allora?
È necessaria una buona dose di solidarietà ma soprattutto realismo. La
prevenzione deve essere fatta ovunque, in ogni centro, e le strutture mediche
ovunque in Italia devono essere pronte a fronteggiare un caso di contaminazione. A questo proposito esistono protocolli approvati e devono sicuramente essere predisposti dalle strutture responsabili. I confini devono restare
aperti, lo stato di sensibilizzazione e allerta adeguato alla gravità della crisi,
una crisi che richiede la risposta globale, con realismo e solidarietà.
Ma, realisticamente, la Liberia è in grado di fare fronte, come è accaduto con successo in Nigeria, ad un’emergenza di questo tipo?
31
La Liberia esce da quasi 14 anni di guerra civile che ha distrutto non
solo il capitale umano ma anche quello sociale ed economico. Conta oggi
circa 4 milioni di abitanti, un reddito pro capite annuale di circa 750 dollari;
la percentuale della popolazione sotto la soglia di povertà estrema – calcolata a 1 dollaro al giorno – è del 50%, il tasso di alfabetizzazione raggiunge al
massimo il 50%. Le concessioni nel settore forestale e minerario – i giganti
industriali quali Arcelor Mittal e Chevron, ditte di punta nel settore della
gomma – hanno chiuso i battenti, il management internazionale è stato evacuato all’inizio di giugno e il personale locale è rimasto senza stipendio.
Mercati e commerci interni bloccati, campagne deserte, costi di trasporto
altissimi, commercio via mare limitato e conseguente blocco all’arrivo di
derrate alimentari ma anche di carburante nei porti, per paura di contaminazione del personale.
Una situazione drammatica, di cui in Europa non c’è forse ancora piena consapevolezza.
Ho assistito di persona a un episodio agghiacciante: un’intera famiglia
ha forzato le griglie di entrata del centro di quarantena perché «almeno lì,
distribuiranno da mangiare». I costi di contenimento del contagio, del trattamento delle diverse tipologie dei contatti, della macchina logistica richiesta, sono enormi ed è chiaro che la Liberia non può fronteggiare da sola la
crisi Ebola, non ha risorse, né umane, né finanziarie né organizzative e istituzionali per uscire da una crisi di tale entità. Pur tenendo nella dovuta considerazione gli argomenti di chi non è convinto che il battere d’ala della farfalla in Amazzonia scateni l’uragano in Texas, o di chi attribuisce un valore
diverso alle vite umane a seconda della loro provenienza geografica ed etnica, sapete quanto costa Ebola all’economia globale?
Proviamo a rispondere, per quanto sia difficile.
No, non è cosi difficile. È previsto che si aggiri intorno ai 32 miliardi di
dollari, con costi direttamente imputabili alle economie dell’Africa
dell’ovest; ma il fattore panico comporta un aumento molto più elevato ed
imprevedibile, per esempio, per le compagnie aeree, per il settore turismo,
energetico, per i servizi, tanto che avrà ripercussioni sull’economia globale.
Servono più fondi, più medici ed infermieri ma anche tanto personale operativo per sostenere la rete logistica necessaria alla distribuzione dei viveri alla
popolazione in quarantena ma anche alla popolazione più vulnerabile, per
contrastare i grossi costi e la mancanza fisica di cibo. Servono incentivi fi-
32
nanziari per il personale medico locale che continua ad andare a lavorare
nonostante i forti rischi, servono i servizi per chi di Ebola non soffre. Una
madre che deve partorire ormai non sa più dove andare, tutte le strutture sono requisite o possono essere contaminate, cosi per ogni altro caso medico
che non è collegato al caso Ebola.
Che cosa altro serve, ancora?
Servono inceneritori, tende, letti, tute protettive, disinfettanti in quantità e volumi importanti. Serve rinegoziare i diritti attribuiti dal governo liberiano ai titolari di concessioni quali quelle estrattive, ritrattarne le condizioni
includendo delle strategie per mitigare e monitorare i rischi di contagio sul
posto di lavoro, serve rifare ripartire l’economia. Le scuole e gli uffici pubblici sono rimasti chiusi dal primo luglio. Avete presente cosa vuol dire tenere i bambini ed i ragazzi in casa lontani dalla scuola per tutto questo tempo? Non solo le difficoltà logistiche ma anche il danno arrecato
all’istruzione, ai valori sociali. Servono assistenti sociali per il supporto psicologico della popolazione, perché Ebola è una crisi che traumatizza. A parte la paura del contagio c’è un totale sovvertimento delle norme sociali e
culturali.
Ecco, questo è un punto delicato che va molto oltre la semplice, terribile, conta dei morti e dei contagiati. Ebola sta distruggendo anche un modo
di vivere, una cultura.
In Africa il tessuto sociale, i riti, le feste religiose e non sono punti di
aggregazione molto forte. Tutto è stato proibito, c’è il coprifuoco e il divieto, c’è il sospetto e la paura. I soggetti contaminati sono prelevati dalle case
da personale medico in tute spaziali e di loro poi non si avrà più nemmeno il
corpo, sarà cremato, nessuno può avvicinarsi. Una tragedia sanitaria, umana,
sociale, economica che lascerà traccia per decenni. L’intera mappa della povertà in Liberia – ma anche in Africa occidentale – dovrà essere ridisegnata,
perché si può prevedere che anche una grande parte delle capacità e delle
competenze professionali acquisite nella società liberiana dalla fine del conflitto sarà spazzata via. Ed infine servono i vaccini, al più presto, vaccini il
cui prezzo dovrà essere regolato da accordi internazionali molto rigorosi,
con l’intervento dell’Onu o del WTO, l’Organizzazione mondiale per il
Commercio.
Da questo punto di vista Ebola segna un punto di non ritorno.
33
Ebola nella sua complessità e drammaticità presenta una situazione
completamente nuova: i connotati dell’emergenza sono assolutamente unici.
Con le emergenze climatiche, per esempio, si agisce dopo l’evento traumatico, dopo il terremoto, dopo il ciclone o l’uragano, si agisce secondo principi
umanitari nelle prime fasi, poi si valutano i danni, s’incomincia ad intervenire sul medio e lungo termine. In questo caso invece siamo nel mezzo del terremoto e dell’uragano e dobbiamo avere le capacità di agire per il presente,
medio e lungo termine mentre la terra trema.
Aleggia qui l’impressione che non ci siano molti italiani che lavorano
per le Nazioni Unite. È un fallimento delle nostre Università?
L’osservazione è assolutamente corretta. Siamo pochi. Se escludiamo i
rappresentanti all’interno degli organismi europei e ci limitiamo a quelli degli organismi internazionali, in percentuale rappresentiamo il 3% del personale con alcune eccezioni. Queste riguardano le agenzie delle ONU che
hanno sede in Italia: Ifad, Fao, Wfp. Se poi prendono in considerazione le
percentuali a livelli dirigenziali, la rappresentanza italiana si assottiglia ancora di più, per non parlare della presenza delle donne.
Si può risalire a un motivo di questa carenza degli italiani?
La scarsa presenza di funzionari italiani nelle strutture ONU è anche
causata dalla diminuzioni dei contributi versati dall’Italia alla cooperazione
allo sviluppo. L’Italia purtroppo continua a disinvestire sulla cooperazione.
Occorre una riforma complessiva del sistema che si attende da molti, troppi
anni. Intanto però, come in ogni settore, vengono fatti tagli dove si può.
Ogni Paese contribuisce con una quota di spesa al sistema ONU e l’Italia in
materia di cooperazione è arrivata ormai a livelli di contribuzione bassissimi. È una decisione che ci può recare solo svantaggio, non solo di immagine, influenza e peso a livello internazionale ma anche economico, di partecipazione del settore privato italiano in importanti investimenti, appalti, export di tecnologie.
Dati i suoi molti viaggi in diversi Paesi del mondo, e la Sua formazione
in studi economici, come immagina possibile la crescita di territori tanto
impoveriti come quelli dell’Africa?
Basta prendere solo in considerazione un dato semplicissimo: il ceto
medio in Africa. La popolazione africana crescerà da 1,1 miliardi di oggi a
2,5 miliardi nel 2050. Una popolazione giovane, 313 milioni apparterranno
34
Il Margine 34 (2014), n. 10
al ceto medio, che avrà bisogno di più telecomunicazioni, servizi internet,
servizi bancari, servizi d’istruzione: non credete sarebbe interessante sviluppare partenariati di pubblico-privato e raggiungere lo stesso obiettivo di crescita sostenibile fra ONU, aziende private e Paesi membri? È una domanda
alla quale secondo me dobbiamo tutti cercare una risposta se vogliamo vivere in pace e sicurezza.
Che suggerimento darebbe Lei a giovani con competenze adatte perché
possano intraprendere una professione nell’ambito dell’Onu?
Vorrei incoraggiare i giovani ad avviarsi ad una carriera nelle Nazioni
Unite, perché il sistema ha bisogno di gente giovane, determinata ed appassionata, idee e leadership consone ai nostri tempi. Non ho certo bisogno di
dirlo io che stiamo vivendo tempi delicatissimi, afflitti da molteplici crisi
con sistemi intergovernativi internazionali spesso paralizzati e incapaci di
fornire risposte adeguate. Una cosa che consiglierei di fare è innanzitutto di
leggere la Charter of the United Nations: leggete anche solo il preambolo
We the peoples. Anche ora mi fa venire i brividi: dobbiamo credere e continuare a lottare per ideali di miglioramento, di giustizia sociale, di dignità,
uguaglianza e mai abbassarsi al cinismo. Consiglio a tutti, ma soprattutto ai
giovani, di partecipare a iniziative internazionali quali The future we want:
si può votare ed esprimersi anche stando seduti sul divano, però meglio una
partecipazione attiva di confronto con tematiche globali. Esorto a confrontarsi con temi di giustizia globale, di continuare a porsi domande, di aprire la
mente, di viaggiare. Più specificamente per una carriera nell’ONU credo
siano necessarie una sensibilità alle tematiche di carattere internazionale,
passione, una bella dose di idealismo, una conoscenza delle lingue, una preparazione post-universitaria e forse un po’ di follia. Non aspettatevi stipendi
da nababbi: sicuramente, per la parte finanziaria, non fate riferimento agli
emolumenti percepiti da funzionari diplomatici europei o italiani. Ma se siete nella stessa sede all’estero fatevi invitare, mangerete sicuramente molto
bene in compagnia di gente interessante!
35
Indici dell’annata XXXIV (2014)
Numero 1, gennaio
(a) Emanuele Curzel, Daniela Dalmeri,
Francesco Ghia, Vi preghiamo, diteci di sì. Il
Documento preparatorio e il Questionario
del Sinodo dei vescovi 2014, 3-14 – (b) Matteo Prodi, Lavoro, Costituzione e partiti, 1522 – (c) Omar Brino, Vecio troppo presto.
Carlo Mazzacurati e i nostri tempi prematuri, 23-25 – (d) Alessandro Paris, Una
mappa per viaggiare, 26-28 – (e) Paolo
Ghezzi, Deutsche raus! I tedeschi dei
Sudeti, 29-34
Numero 2, febbraio
(a) Francesco Ghia, Silvano Zucal, La repubblica “extraparlamentare” e televisiva,
3-9 – (b) Mirco Elena, Le armi chimiche
oggi, 10-18 – (c) Matteo Prodi, Democrazia e Costituzione nell’Europa del 2014,
19-23 – (d) Lorenzo Perego, I discorsi
escatologici di Gesù, 24-27 – (e) Andrea
Dall’Asta, Dalla Parola all’immagine,
28-33
Numero 3, marzo
(a) Piergiorgio Cattani, Da Romero a Bergoglio, 3-4 – (b) Michele Nicoletti, Teologia
e politica nell’età di Francesco, 5-9 – (c)
Luigi Lorenzetti, Chiesa misericordiosa,
11-19 – (d) Silvio Mengotto, Michael
Davide Semeraro, I gesti di papa Francesco, 21-23 – (e) Piergiorgio Todeschini,
Resistere per restare umani. La resistenza nonviolenta tra 1943 e 1945, 24-26 –
(f) Stefano Pezzè, «Io non posso giurare
a Hitler», 27-30 – (g) Roberto Antolini, Il
36
“Berlinguer” di Veltroni. Arruolato alle
larghe intese?, 31-34
Numero 4, aprile
(a) Piergiorgio Cattani, L’Europa delle tre
crisi, 3-8 – (b) Michele Dorigatti, Con lo
sguardo sempre in avanti. Eredità e attualità
di Adriano Olivetti, 9-18 – (c) Alberto
Mandreoli, La via “nuova” della Resistenza: il diacono Mauro Fornasari
(1922-1944), 19-24 – (d) Matteo Prodi, Il
welfare state tra Costituzione, vincoli di
bilancio e «interesse personale propriamente inteso», 25-34
Numero 5, maggio
(a) Emanuele Curzel, Il palco e il dittatore,
3-8 – (b) Emanuele Rossi, Le riforme costituzionali e la Fortezza Bastiani, 9-18 – (c)
Paolo Grigolli, La crisi come opportunità
di cambiamento, 19-24 – (d) Luigi Giorgi, La fluidità e l’ordine. A 36 anni dalla
morte di Aldo Moro, 25-27 – (e) Stefano
Pezzè, Aut CL, aut nihil! Il caso Comunione e Liberazione in due recenti pubblicazioni, 29-34
Numero 6, giugno-luglio
(a) Piergiorgio Cattani, La messa del papa,
3-7 – (b) Silvio Mengotto, Elena Paltrinieri, Tra le villas miserias di Buenos Aires,
8-13 – (c) Alberto Conci, Tra le pareti di
roccia della “grande” guerra, 14-19 –
(d) Alberto Mandreoli, A settant’anni da
Monte Sole: i fatti e le distorsioni della
giustizia e della memoria, 20-28 – (e)
Mirco Elena, L’Iran che non ti aspetti,
29-34
Il Margine 34 (2014), n. 10
Numero 7, agosto-settembre
(a) Vincenzo Passerini, L’angelo della libertà, 3-10 – (b) Antonio Zecca, Il prossimo
1914, 11-14 (c) Roberto Antolini, Quel
che resta della sinistra, 15-23 – (d) Emanuele Curzel, Magnificant. Appunti di
mariologia, 24-34
Numero 8, ottobre
(a) Simone A. Bellezza, Che cosa vuole Putin e perché ha vinto. Considerazioni sulla
guerra nell’Ucraina orientale, 3-10 – (b)
Giuseppe Morotti, Caldei, Yazidi, Sciiti.
Che cosa succede in Medioriente?, 11-16
– (c) Piergiorgio Cattani, La misericordia
di Dio come annuncio fondamentale del
cristianesimo, 17-24 – (d) Omar Brino,
Imparentate «in maniera molto ardua (e
tortuosa)». Poesia e religiosità in Andrea
Zanzotto, 25-31 – (e) Lorenzo Perego, La
domanda sul male, 32-34
Numero 9, novembre
(a) Michele Nicoletti, La grande occasione,
3-12; (b) Giovanni Colombo, Dal puer al
vir. I sindaci bambini e i matrimoni gay,
13-15;
(c)
Vincenzo
Passerini,
L’educazione come giustizia. A proposito
Autori
Roberto Antolini 3g, 7c
Simone A. Bellezza 8a
Omar Brino 1c, 8d, 10c
Piergiorgio Cattani 3a, 4a, 6a, 8c
Giovanni Colombo 9b
Alberto Conci 6c
Emanuele Curzel 1a, 5a, 7d
Andrea Dall’Asta 2e
Daniela Dalmeri 1a, 9f
Michele Dorigatti 4b
Mirco Elena 2b, 6e
Paolo Ghezzi 1e
Francesco Ghia 1a, 2a, 10a
Luigi Giorgi 5d
Paolo Grigolli 5c
Luigi Lorenzetti 3c
di Lo schiaffo di don Milani. Il mito educativo di Barbiana, 16-19 – (d) Matteo
Prodi, Che fare della ricchezza? Alcune
riflessioni sul libro di Thomas Piketty, Il
capitale nel XXI secolo, 20-23 – (e) Silvio Mengotto, Aperti per ferie, 24-26 –
(f) Daniela Dalmeri, Monaci metropolitani, 27-33
Numero 10, dicembre
(a) Francesco Ghia, Leggere i segni dei
tempi. Un ‘cambio di passo’ nella pastorale familiare della Chiesa cattolica?, 38 – (b) Samuel Velásquez Serrano, Il
Concilio Vaticano II in America Latina.
«L’aggiornamento di una Chiesa che ha
ascoltato il grido dei poveri», 9-18 – (c)
Omar Brino, Traumi e montagne. Sulla
prima guerra mondiale e torneranno i
prati di Ermanno Olmi, 19-21 – (d) Alberto Mandreoli, L’ideologia nazista:
credere e distruggere, 22-29 – (e) Alidad
Shiri, Alessandra Tisot, Affrontare
l’Ebola subito con coraggio e realismo,
30-35 – (f) Indici dell’annata XXXIV
(2014), 36-38
Soggetti
Persone
Enrico Berlinguer 3g
Mauro Fornasari 4c
Francesco (papa) 3a, 3b, 3c, 3d, 6a
Giuseppe (Beppe) Grillo 5a
Josef Mayr-Nusser 3f
Aldo Moro 5d
Adriano Olivetti 4b
Carlo Mazzacurati 1c
Matteo Renzi 2a, 9a
Oscar Arnulfo Romero 3a
The Sun (gruppo musicale) 9f
Roger Waters (leader dei Pink Floyd) 5a
Andrea Zanzotto 8d
Luoghi
America Latina 10b
Buenos Aires 6b
Europa 4a
Iran 6e
Italia 2a, 9a
Medio Oriente 8b
Sudeti 1e
Ucraina 8a
Temi
Armi chimiche 2b
Arte sacra 2e
Chiesa: Sinodo dei vescovi 1a, 10a
- Concilio Vaticano II 10b
Crisi economica/problemi mondiali 5c, 7b,
9d
Ebola 10e
Escatologia 2d
Famiglia 1a, 9b, 10a
Mariologia 7d
Misericordia 3c, 8c
Politica:
- Comunione e Liberazione 5e
- Costituzione 1b, 2c, 4d; riforme costituzionali 5b
- democrazia 2c
- situazione politica italiana 2a, 9a; sini-
Alberto Mandreoli 4c, 6d, 10d
Silvio Mengotto 3d, 6b, 9e
Giuseppe Morotti 8b
Michele Nicoletti 3b, 9a
Elena Paltrinieri 6b
Alessandro Paris 1d
Vincenzo Passerini 7a, 9c
Lorenzo Perego 2d, 8e
Stefano Pezzè 3f, 5e
Matteo Prodi 1b, 2c, 4d, 9d
Emanuele Rossi 5b
Alidad Shiri 10e
Alessandra Tisot 10e
Piergiorgio Todeschini 3e
Samuel Velásquez Serrano 10b
Antonio Zecca 7b
Silvano Zucal 2a
37
38
stra 7c
- lavoro 1b
- welfare state 4d
Storia:
- Prima guerra mondiale 6c, 10c
- Seconda guerra mondiale/nazifascismo/resistenza 1e, 3e, 4c,
6d, 7a, 10d
Teologia:
- 2d
- ebraica 1e
- questione del male 8e
Volontariato 9e
Libri/film
Il caso Cl nella Chiesa e nella società
italiana 5e
Francesco Comina, L’uomo che disse di
no a Hitler. Josef Mayr-Nusser, un eroe
solitario 3f
Wolftraud de Concini, Boemia andata e ritorno 1e
Andrea Dall’Asta, Dio storia dell’uomo.
Dalla parola all’immagine 2e
Paolo Ghezzi, La Rosa Bianca non vi darà
pace 7a
Massimi Giuliani, Teologia ebraica. Una
mappatura 1d
Claudio Giunta, Una sterminata domenica. Saggi sul Paese che amo 5e
Ermanno Olmi, Torneranno i prati 10c
Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta
1943-1945 3e
Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo 9d
Piergiorgio Reggio, Lo schiaffo di don
Milani. Il mito educativo di Barbiana
9c
MichaelDavide Semeraro, Papa Francesco: la rivoluzione dei gesti 3d
Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer 3g
editore della rivista:
A SS OC IA ZI O NE
OSC A R
R O ME R O
Fondata nel 1980 e già
presieduta da Agostino
Bitteleri, Vincenzo Passerini, Silvano Zucal, Paolo
Ghezzi, Paolo Faes, Alberto Conci.
Presidente: Piergiorgio
Cattani. Vicepresidente:
Alberto Gazzola. Segretaria: Veronica Salvetti
I L MA R G IN E
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Fondato nel 1981 e già
diretto da Paolo Ghezzi,
Giampiero Girardi, Michele Nicoletti.
Direttore:
Emanuele
Curzel. Vicedirettore:
Francesco Ghia. Responsabile a norma di
legge: Paolo Ghezzi.
Amministrazione: Luciano Gottardi. In redazione vi sono anche:
Fabio Olivetti, Leonardo Paris, Pierangelo
Santini, Silvano Zucal.
Altri collaboratori: Roberto Antolini, Celestina Antonacci, Renzo Apruzzese,
Anita Bertoldi, Omar Brino, Paolo Calabrò, Fabio
Caneri, Monica Cianciullo, Giovanni Colombo,
Francesco Comina, Mattia
Coser, Dario Betti, Fulvio
De Giorgi, Mirco Elena,
Claudio Fontanari, Eugen
Galasso, Lucia Galvagni,
Luigi Giorgi, Giampiero
Girardi, Paolo Grigolli,
Fabrizio Mandreoli, Paolo
Marangon, Milena Mariani, Silvio Mengotto, Giuseppe Morotti, Walter
Nardon, Michele Nicoletti,
Lorenzo Perego, Matteo
Prodi, Emanuele Rossi,
Chiara Turrini, Mauro Stenico, Urbano Tocci, Grazia
Villa.
Una copia € 2,50 – abbonamento annuo € 25
(pdf gratuito a chi lo
chiede), solo pdf euro
10, estero € 30, via aerea € 35. I versamenti
vanno effettuati sul
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intestato a: «Il Margine», via Taramelli 8,
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IT97 D076 0101 8000
0100 4299 887). Estero:
BIC: BPPIITRRXXX.
I
cosiddetti antropomorfismi sarebbero in verità
teomorfismi: non è che noi ci figuriamo che Dio
vede, ascolta, parla, si adira, ama, perché noi vediamo, ascoltiamo, parliamo, ci adiriamo, amiamo:
bensì noi possiamo vedere, ascoltare, parlare, adirarci, amare, unicamente perché Dio vede, ascolta, parla,
si adira, ama.
Autorizzazione Tribunale
di Trento n. 326 del
10.1.1981.
Codice fiscale e partita iva
01843950229.
Franz Rosenzweig (1928)
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Periodico mensile – Anno 34, n. 10, dicembre 2014 – Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale – d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento – taxe perçue.
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