I soprannomi - Mariano Fresta

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I soprannomi - Mariano Fresta
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Mariano Fresta
Il soprannome: dalla qualificazione alla ‘ngiuria.
1. "Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo...". In questo modo comincia una pagina
famosa di Giovanni Verga che, in un semplice soprannome, condensa tutta la
drammatica storia di un giovane minatore 1). Noi non abbiamo bisogno di conoscere il
suo nome proprio, né il cognome della sua famiglia per sapere qualcosa della sua
vicenda umana, che anzi un nome e un cognome non ci avrebbero detto nulla. Se la
novella verghiana avesse avuto il seguente inizio: "Giovanni Cristaldi era un ragazzo
malizioso e cattivo...", non avremmo avuto lo stesso effetto. Il soprannome di
"Malpelo", invece, insieme con la diversità del ragazzo, ci suggerisce, seppure
implicitamente, anche il modo con cui il racconto non può che concludersi.
Il procedimento stilistico del Verga è quello dell'impersonalità: le parole che gli
escono dalla penna non sono sue, appartengono invece alla comunità in cui Malpelo
vive, la quale attribuisce un carattere malvagio a tutti coloro i quali deviano dalla
norma: in un paese in cui tutti sono di carnagione e di pelo bruni, l'individuo dai capelli
rossi non può che essere un "segnalato" dalla natura, dal quale è bene guardarsi. Il
soprannome "Malpelo" indica sinteticamente tutte queste cose, non c'è bisogno di sapere
più di quanto esso esprime: per la comunità in cui vive, il ragazzo ha i capelli rossi
perché è cattivo, e per questo si chiama Malpelo; il resto non conta. Il soprannome ha,
quindi, la capacità di individuare e rappresentare una persona distinguendola da tutte le
altre, attribuendole oltre ad un carattere, una psicologia, una cultura, una posizione
socioeconomica, un aspetto fisico specifico, anche una vicenda umana particolare2.
2. In effetti, i nomi propri di persona, secondo le teorie linguistiche, possono essere
considerati dei puri significanti, semplici suoni senza referenti specifici e quindi senza
significato. Se io emetto il suono "cane", tutti capiscono che mi riferisco a quell’animale
che ha quattro zampe, che abbaia, che è amico dell'uomo, ecc. ecc.; ma se io dico
"Alfio", al di fuori di un contesto determinato, nessuno sa chi è la persona che possiede
questo nome, nessuno sa a chi mi riferisco. Di "Alfio" ce ne possono essere a migliaia e
ognuno diverso dall'altro. Soltanto se il nome proprio diventa nome comune, per
antonomasia, esso acquista un significato preciso: tutti sappiamo che la perpetua è la
domestica di un prete, la quale così si chiama perché Perpetua, la serva di Don
Abbondio, nel romanzo dei Promessi sposi, è diventata così famosa da dare il suo nome
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G.VERGA, Rosso Malpelo, in Vita dei campi, a cura di C. Riccardi, Catania 1987.
Non diversamente, la mentalità e la cultura del Medioevo ritenevano che la storia personale di ogni individuo fosse
inscritta già nel suo nome (nomen omen: nel nome c'è il destino) e che in fondo i nomi sono conseguenza delle cose
(nomina sunt consequentia rerum).
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a tutte le domestiche che prestano la loro opera in casa di sacerdoti. Il soprannome,
dunque, qualifica la persona in modo inconfondibile, così che mentre in una comunità si
tollera che ci siano dieci, venti, cento individui che si chiamano Alfio, non è possibile
trovare un soprannome che indichi due persone diverse, tranne che si tratti di nomignolo
riguardante un casato (per es.: "i Martineddi", per restare nell’ambito della ricerca di
Zappalà).
Così, in una piccola comunità, in un paese di qualche migliaio di abitanti, il
soprannome era, una volta, l'unico modo per individuare le persone; tanto è vero che
tutti i ricercatori che si sono occupati di soprannomi, prima o poi, si sono sentiti dire:
"Nel nostro paese il soprannome passa avanti"; nel senso che la gente si conosce quasi
esclusivamente attraverso i soprannomi. Quando qualcuno parlava del “firraru” o del
“farbu” non si poteva sbagliare, perché nel paese uno solo era quello che esercitava il
mestiere di fabbroferraio ed uno solo, tra tutti, era quello che aveva i capelli sul biondorossiccio. Come d’altra parte una donna alta, la sola fra tutte le altre di statura mediobassa, poteva essere soprannominata “a longa”, che è un nomignolo così caratteristico
nei paesi mediterranei che lo ritroviamo anche nei Malavoglia del Verga.
La realtà sociale e culturale degli ultimi quarant'anni ha, però, in modo più o
meno evidente, trasformato questa situazione: la scolarizzazione di massa, la
burocratizzazione della vita sociale (patente di guida, certificazioni e licenze varie,
codice fiscale, ecc.) hanno segnato, presso le generazioni più giovani e acculturate, la
supremazia del cognome sul soprannome: i giovani e i giovanissimi ricorrono al
soprannome soprattutto per aiutare la persona più anziana a riconoscere gli individui di
cui si parla e con cui si parla: "Sono stato con Saro Zappalà", dicevo a mia madre. "Saro
Zappalà chi?", mi chiedeva lei; per me il nome e il cognome dell’amico con cui ero stato
erano più che sufficienti ad indicarlo, ma per lei no, dato che con quella denominazione
c'erano due persone sue conoscenti: Saro Zappalà "u prisotu" e Saro Zappalà, il figlio di
"Surianu". Per farle sapere con chi ero stato mi era necessario ricorrere al soprannome.
Oggi, dopo circa trent'anni da quella mia esperienza, il sopravvento del cognome sul
soprannome è ancora più evidente: "Chi sei?" chiedo ad un giovane santalfiese a me
sconosciuto. "Mario L...", è la risposta, per me insufficiente. "Figlio di chi?". Lui
capisce e mi risponde: "Il figlio di S... u sapunaru". E così, diventato un mezzo di
riconoscimento a cui si ricorre solo in occasioni rare e particolari, il soprannome perde
qualsiasi eventuale connotazione negativa.
In ogni piccola comunità, dunque, non solo etnea o siciliana, ma italiana ed
europea, e forse in tutte le piccole comunità del mondo in cui il sistema antroponimico
è complesso, il soprannome è una denominazione fortemente individuante, la cui
attribuzione non è dovuta né a chi la porta, né ai suoi genitori, ma a tutta la comunità nel
suo complesso. Ed è per questo che si può dire, e Zappalà lo spiega molto bene, che l'io
è in mano agli altri: la comunità esercita sugli individui un controllo sociale, una
censura, che si materializzano in un soprannome; a tale controllo difficilmente
l'individuo può sottrarsi ed è probabilmente dovuto alla volontà di resistenza e di
ribellione "passiva", nei confronti di quella comunità che lo vuole modellare secondo i
suoi parametri, il fatto che, in genere, il soprannome venga rifiutato, anche quando è
positivo.
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3. Come sono nati e come nascono i soprannomi? Domanda interessante che
equivale a chiedersi in che modo nascevano i nomi in epoche molto lontane dalla nostra
e come nascono presso le cosiddette popolazioni etnologiche. Uno dei più grandi
antropologi di questo secolo, Claude Lévi-Strauss, ritiene che se si potesse sapere come
sono nati i nomi, molti problemi sulle origini del pensiero e del linguaggio umani
sarebbero risolti. Noi in merito possediamo solo informazioni “mitiche”: leggiamo nella
Bibbia che Adamo dette un nome a ogni cosa, ad ogni animale; dobbiamo arguire che,
quando Adamo dette il nome di “gatto” a quel mammifero a quattro zampe, che
acchiappa i topi e che gira volentieri di notte e che fa “miao”, quel nome conteneva in
sé tutte queste prerogative e in più aveva quegli elementi che lo distinguevano da altri
mammiferi a quattro zampe che sono abituati a convivere con l’uomo: in definitiva, il
nome dato da Adamo conteneva la stessa pregnanza di significati che ha il nostro
soprannome.
Sappiamo anche che presso le popolazioni etnologiche i nomi non sono fissi:
ogni individuo durante l’arco della sua esistenza viene chiamato con diversi nomi,
perché ad ogni stadio della sua vita egli è una persona “diversa” da quella di prima e da
quella che sarà dopo; la stessa cosa succede con i soprannomi in qualche comunità
ancora oggi3. Lo stesso Lèvi-Strauss ci dice, infatti, che, presso le popolazioni Penan,
ogni individuo ha un nome proprio che porta solo da bambino e che appena si creano le
condizioni necessarie riceve un altro nome che lo qualifica e lo individua nel sistema
familiare e in quello sociale4. Così, nelle nostre piccole comunità, il nome serve a
classificare l’individuo entro il sistema familiare, mentre il cognome lo classifica a
livello burocratico e il soprannome serve a classificarlo nel sistema sociale della
comunità.
La necessità di aggiungere al cognome il soprannome è certamente dovuta al
fatto che il patrimonio dei cognomi in ogni comunità è piuttosto ristretto; Zappalà
riferisce che sul finire del secolo scorso a Sant’Alfio soltanto dieci cognomi erano
sufficienti ad indicare più di quattrocento individui giovani. In una situazione del
genere diventava necessario distinguere, per esempio, un Alfio Caltabiano da un altro
Alfio Caltabiano, o un Giuseppe Contarino da un altro o addirittura altri Giuseppe
Contarino. Grosso modo c’era la stessa situazione che poco più di 2000 anni prima si
era verificata nell’antica Roma. Qui i nomi erano piuttosto pochi: Marco, Caio, Publio,
Sempronio e poi i nomi numerali Secondo, Quinto, Sesto, ecc.; anche i cognomi, o
meglio i nomi gentilizi. erano pochi: la storia ci dice che il popolo Romano era diviso in
trecento gentes, e che quindi c’erano solo trecento cognomi, cosicché, quando la
struttura sociale diventò più complessa e le famiglie si divisero in più rami, fu
giocoforza adottare un terzo cognome o soprannome. Si ebbero così: il praenomen, che
corrisponde grosso modo al nostro nome (per es.: Marco); il nomen, che era il nome
della gens, della famiglia, e che non possiamo far corrispondere tout court al nostro
cognome (per es.: Tullio); ed il cognomen, che era il nome che si aggiungeva a quello
della gens, equivalente al nostro cognome ma anche al nostro soprannome (per es.:
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Si veda A. MARRALE, L’infamia del nome, Palermo, Gelka 1990, il quale ci informa, sulla scorta di studi condotti
in Francia dalla Zonabend, che a Licata alla stessa persona possono essere attribuiti nel corso del tempo più
soprannomi. (Ma c’è qualche caso anche a Sant’Alfio, come quello della persona che viene indicata con prisota, ma
anche con diavula, e vedova allegra )
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C. LEVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore 1979, p. 216
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Cicerone era il nome di un ramo della gens Tullia, derivato dal fatto che il suo
capostipite aveva sul naso un appendice a forma di grosso cece).
Nel periodo medievale, al momento della nascita delle lingue così dette
neolatine, si formano i nuovi nomi e i nuovi cognomi; il sistema antroponimico è quindi
binomiale, formato da un nome seguito o da un’indicazione di luogo (per es.: Jacopo da
Lentini), o da un patronimico (Paolo di Giovanni) o da un matronimico (Dante
Alighieri5) o da un attributo relativo al mestiere (Andrea del Sarto), ecc.; il patrimonio
dei cognomi è comunque così scarso che diventa necessario ricorrere ai soprannomi6.
Ma non è solo la scarsezza dei cognomi a dettare la necessità di coniare i
soprannomi; i cognomi, infatti, in un primo momento non erano fissi, ma svolgevano la
stessa funzione che dopo avrebbero avuto i soprannomi e potevano essere modificati o
cambiati a seconda che la comunità avesse l’esigenza di indicare ed individuare con
precisione le persone. Man mano, però, che i cognomi si cristallizzavano e si fissavano,
mediante la scrittura, nei vari registri amministrativi (anagrafe, parrocchia, tasse, ecc.)
essi perdevano la loro capacità individuante in seno alla comunità. Ed ecco allora che
diventava necessaria la nascita di altri cognomi, ovvero di altri soprannomi, alcuni dei
quali, a loro volta sarebbero diventati nuovi cognomi; e così via.
L’origine dei soprannomi non ha tempi e leggi tali da consentire la conoscenza
di come si siano formati, tanto che la maggior parte di essi resta inspiegabile non solo ai
ricercatori e agli studiosi, ma anche ai membri della società delle generazioni che sono
successive all’occasione che ne ha determinato la creazione e l’imposizione. Spesso la
nascita di un soprannome è di una banalità sconcertante, rimanda ad accostamenti di
immagini paradossali ed arbitrari. Inutilmente ci si sforzerebbe di capire il significato e
l’origine di soprannomi come “l’ariuplanu” o come “sparacristi” o “minaventu”,
lavorando solo a livello di ricerca storica e filologica. E così, moltissimi soprannomi
raccolti da Zappalà restano inspiegabili, incomprensibili, perché, come dice Marrale7,
persosi ormai il contesto storico, sociale e culturale o, addirittura, il ricordo
dell’occasione in cui il soprannome è nato, è impossibile cercare di individuarne il
significato. Solo dunque i soprannomi che hanno un preciso riscontro nel mondo
quotidiano e quelli di conio più recente possono essere interpretati, spiegati e capiti; per
gli altri dobbiamo accontentarci di avere i repertori.
4. La microanalisi storica ci ha insegnato che lo studio di una piccola comunità ci
può dare un paradigma che serve poi a capire una società più grande. Così lo studio dei
soprannomi di Sant’Alfio, nel modo in cui è stato fatto da Zappalà, ci consente di
conoscere quali sono la funzione e gli scopi dei soprannomi in un territorio più vasto
che potrebbe essere quello dei paesi ubicati sulle pendici orientali dell’Etna, o uno
ancora più esteso. Ma l’analisi di come questi soprannomi si strutturano, di come e da
dove nascono, della funzione che svolgono, ci permette anche di rintracciare una o più
tessere fra quelle che costituiscono il mosaico delle condizioni materiali e culturali di
una comunità. Attraverso il sistema dell’antroponimia e della soprannominazione
possiamo individuare strategie matrimoniali, strutture della parentela, stratificazioni e
5
Lo stesso Dante (Paradiso, XV, 135 sgg..) ci dice che il cognome Alighieri era derivato dalla moglie del suo
trisavolo Cacciaguida, una certa Aldighiera originaria di Ferrara.
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Si veda E. DE FELICE, Dizionario dei cognomi italiani, Milano, Mondadori 1978.
7
A. MARRALE, op. cit., p. 45.
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relazioni sociali, provenienze geografiche, sistemi culturali, conoscenza e controllo del
territorio, ecc.
Dal patrimonio di soprannomi santalfiesi viene fuori, così, la storia di una
piccola comunità formata in massima parte da coltivatori diretti e poi da qualche
artigiano e da qualche bracciante che viene quasi sempre e immediatamente ricondotto
dentro i parametri sociali santalfiesi con la sua trasformazione in “massaro”, ovverosia
in lavoratore agricolo fiduciario di un medio o grande proprietario. Il sistema dei
soprannomi conferma che Sant’Alfio appare come una piccola comunità di relativa
recente formazione8 che rimane chiusa in se stessa (a parte le grandi fughe verso
l’Argentina, gli Usa e l’Australia tra ‘800 e ‘900 causate dalla crisi vitivinicola) fino alle
sconvolgenti trasformazioni del secondo dopoguerra, come dimostrano i numerosissimi
soprannomi, indicanti non i singoli ma le famiglie, che si sono perpetuati fino ai nostri
giorni, quando diventa difficile spiegare la loro origine e, spesso, anche il significato.
Difatti, anche se molti soprannomi sono chiari dal punto di vista linguistico (canitti, si
sa, significa “piccoli cani”; così è facile capire il significato di lliccasasizza o
taddisechila, “leccasalsiccia” e “costa di bietola”), è impossibile venire a conoscere
perché e in quale occasione fu dato quel nomignolo. Da questo perpetuarsi della
soprannominazione, dunque, si può arguire come la comunità santalfiese sia rimasta
compatta e chiusa in sé fino, forse, ai primi di questo secolo XX, quando la
segmentazione di alcune famiglie (per es.: Zappalà Fruntetta e Zappalà Surianu, ecc.) e
l’ingresso di immigrati provenienti da altri paesi vicini e lontani (Giarrotu, Rannazzisi,
Pachinotu, ecc.) determinò la necessità di ampliare il patrimonio di soprannomi.
5. I più antichi tra questi soprannomi certamente sono i patronimici che non hanno
avuto il tempo oppure il modo, risalendo forse a uno o due secoli fa, di burocratizzarsi e
quindi di italianizzarsi (per es.: Iabbicheddi poteva diventare Jacobelli - come il
popolare giornalista della televisione di qualche anno fa, Jader Jacobelli; Martineddi
poteva diventare Martinelli, un cognome molto diffuso in tutta Italia, così come si
sarebbero potuti avere i D'Arrigo, i Paolini, i Pasquarelli, ecc., cognomi anch’essi
rintracciabili in ampie aree dell’Italia). Ma antichi sono anche quelli di cui si è perso del
tutto il significato: Barranca, per esempio, è un cognome di origine spagnola, che può
avere a che fare, come dice Zappalà, con il Salto di Cavagrande, visto che significa
appunto “baratro”, “precipizio”; ma può anche essere il cognome spagnolo di una
famiglia (“Barranco” è cognome ancora oggi vivo in Spagna) che ha fornito la sposa ad
uno dei tantissimi Caltabiano, che per essere individuato prende come soprannome il
cognome della moglie: i Barranca sono, dunque, quei Caltabiano che hanno avuto una
bisnonna o una trisnonna di origine spagnola, cosa possibile in una Sicilia che ha
ospitato tante dominazioni straniere. Se per questo nomignolo è possibile avanzare
qualche congettura, per altri come furru, fraeca, limu, zzica, zzolla, ecc., ci dobbiamo
arrendere senza nemmeno l’onore delle armi.
Gli altri nomignoli, quelli più facilmente spiegabili a livello linguistico ed
etimologico, rimandano alla cultura contadina santalfiese: basta scorrere il repertorio per
vedere come la soprannominazione abbia attinto a piene mani dal mondo animale e da
quello degli oggetti e degli utensili di uso quotidiano. L’ispirazione è stata data
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Il Pelluzza ipotizza che il primo nucleo del paese si sia formato alla fine del 1600 (F. PELLUZZA, Cenni storici
sulle origini del Comune, in Sant’Alfio, storia della comunità, Sant’Alfio 1992).
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ampiamente anche dagli aspetti fisici e corporali delle persone, giocando magari sul
dualismo dell’eccesso (per es.: panzuni / panzitta, quadarazza / quadaredda: pancione /
pancetta, parolone / paioletto) e soprattutto calcando sul pedale del grottesco
(bbaddicacati, culipadedda, ficusicca, testepapuri, tinchitanchi, trittesti, ucchescarpu:
pallecacate, cul di padella, ficosecco, testa di bastimento, tinchitanchi, tre teste, bocca di
scarpa, ecc.). Da qui, forse, il termine ‘ngiuria che nel dialetto siciliano serve ad
indicare il soprannome.
La soprannominazione, dunque, non è quasi mai realistica, tanto che, su
suggestione delle teorie bachtiniane, Zappalà avanza l’ipotesi che buona parte del
sistema soprannominale abbia la consistenza di un mondo carnevalesco e contenga una
“ideologia soggiacente” di abbassamento e trivializzazione del mondo ufficiale.
I soprannomi più recenti sembrano meno resistenti all’usura del tempo e
soprattutto interessano pochi individui; si può dire, dunque, che, tranne per alcuni rari
casi di persone dagli atteggiamenti fortemente caratterizzanti, la popolazione più
giovane si identifica e viene identificata solo attraverso il nome e il cognome. Ciò è
dovuto, oltre che ai fenomeni culturali e sociali degli ultimi decenni più sopra accennati,
anche al fatto che la società santalfiese non è più chiusa in se stessa e dentro i confini
del suo territorio, ma si è aperta all’esterno ed ha al suo interno una mobilità maggiore:
è così aumentato il numero dei cognomi disponibili e si ricorre a nomi non tradizionali,
come Manuela, Alessio, Claudio, Tamara, ecc. Il soprannome finisce per diventare
superfluo; almeno per ora.
6. Zappalà ha raccolto tutti i soprannomi che hanno circolato a Sant’Alfio
sicuramente negli ultimi novant’anni; si tratta di un corpus piuttosto robusto, molto
ricco, forse anche completo ed esauriente, che contiene soprannomi arcaici, ormai
dimenticati, soprannomi arcaici che ancora resistono, soprannomi di recente o nuovo
conio, soprannomi indicanti una stirpe, una famiglia o soprannomi singoli. Ci sono
soprannomi che hanno resistito decenni ed altri effimeri, nati in piccoli comunità gruppi
e scomparsi non appena la vita ha separato i membri dei gruppi; ci sono soprannomi che
rimandano a modi di produzione tipici del mondo contadino (u fizzaru, u
manganiddaru: il fecciao, colui che prendeva la feccia delle botti per rivenderla; colui
che manovrava il mangano, macchina usata nella lavorazione del baco da seta) ed oggi
del tutto obsoleti e dimenticati, ed altri che invece hanno a che fare con il mondo
moderno (da-rradiu, di-bbombuli: della radio, delle bombole, colui che vende
apparecchi radio e bombole del gas per uso domestico).
Tutte queste denominazioni sono state studiate e analizzate da Zappalà con
pazienza, con lungo amore e con la coscienza di recuperare e di conservare un prezioso
patrimonio culturale e linguistico che altrimenti poteva disperdersi nel nulla; un
patrimonio complesso e articolato, i cui meccanismi possono essere conosciuti solo
attraverso l’ uso di strumenti di analisi complessi offerti da differenti metodologie.
Zappalà non si è sottratto a questo compito ed ha così usato metodi interpretativi dello
strutturalismo e della semiologia e poi anche quelli della sociologia e dell’antropologia.
Talora si può dissentire, in parte o del tutto, dai suoi giudizi, dalle sue conclusioni, ma
non si può non sottolineare positivamente lo sforzo fatto per cercare di penetrare i
significati, spesso reconditi, non solo linguistici, ma anche storici e antropologici del
soprannome e della sua funzione. Lo studio di Zappalà ricostruisce buona parte del
patrimonio culturale e dell’identità di Sant’Alfio e può costituire il primo di una serie di
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ricerche che completino il ritratto storico ed ambientale di questo paese nato e cresciuto
orgogliosamente su uno sperone lavico, che è stato domato e reso fertile dalle fatiche
operose di molte generazioni.
(Introduzione a Rosario Zappalà, L’Io in mano agli altri: i soprannomi in un paese
dell’Etna, Rubbettino, Catanzaro 1997).