furlanettotracce2013cai

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Montagne del futuro: breve viaggio sul crinale che si snoda tra verità naturali e
artifici virtuali.
E’ una società in bilico la nostra, intrisa nel profondo dal desiderio e dalla nostalgia di
naturalità e al contempo travolta nel quotidiano dai miti della velocità e dell’artificialità.
Così ci ritroviamo tutti in viaggio, spesso in modo incosciente, lungo un crinale che ci può
portare verso una società più giusta e più attenta ai valori della natura e del benessere
comune, oppure verso un sistema sociale sempre più artificializzato, virtualizzato e
umanamente “gelido”. In tutto ciò, le montagne continueranno ad esistere. Ma per gli
uomini del futuro, saranno le stesse montagne?
Sono profondamente convinto dell’insostenibilità ambientale degli attuali modelli di vita e di
sviluppo delle società umane cosiddette “avanzate”. Darei per scontato che chi mi legge si
sia, in qualche modo, già reso conto che “qualcosa non va” nell’attuale modello di sviluppo
delle nostre società. Ma cosa?
Chi guarda in modo non superficiale quanto stà accadendo nelle società post industriali
non può non accorgersi di aspetti che ritengo profondamente correlati: si stanno profilando
all’orizzonte una serie di fenomeni nuovi, sia sul piano ambientale che su quello
economico e sociale, che probabilmente trasformeranno profondamente gli attuali assetti
politici ed economici delle nostre comunità. Ma come?
Non sono certo in possesso di conoscenze e capacità tali da rispondere con certezza alle
due questioni poste, pur tuttavia, sono profondamente convinto di quanto appena
affermato ed è per questo che in modo sempre più cosciente, sfruttando il mio
osservatorio “privilegiato” sul piano ambientale, ho iniziato a maturare alcune risposte che
in questo contesto cercherò di condividere con voi.
Più mi addentravo nelle problematiche legate alla conservazione e gestione delle risorse
naturali, più mi rendevo conto che le risposte sin’ora date erano inadeguate se non
compendiate da un’analisi più generale del contesto economico e sociale in cui si
ponevano.
In altre parole e con un esempio, anni di lavoro per tutelare alcune specie o un ecosistema
a rischio, venivano rimesse in discussione e qualche volta vanificate in pochi mesi, se solo
cambiava il contesto dentro il quale erano maturate: nonostante l’enorme fatica messa in
campo sul piano culturale e spesso anche economico per tutelare quegli ambienti o quei
beni, bastavano pochi mesi di “malgoverno”, o un evento imprevisto sul piano economico
che obbligasse a interrompere il lavoro, o un crollo di tensione in chi operava sul tema
(quasi sempre pochi e isolati) e il lavoro di anni veniva vanificato in poco tempo. Tutto
troppo fragile!
Così ho cominciato a pensare ed a cercare di progettare ogni azione in termini di
sostenibilità, non più solo ambientale e economica, come già accadeva, ma anche e
soprattutto valutando come fondamentale la sostenibilità sociale dell’azione, la sua
condivisione, la sua comprensione intrinseca e non solo la sua astratta o acritica
accettazione.
Mi rendevo anche conto della necessità che la “sostenibilità” venisse declinata in ogni
modo e su ogni tema. A tale principio ho ispirato, negli ultimi anni, ogni mia azione, sia
nell’attività pubblica che nel privato, tentando di sperimentare ipotesi di approccio nuovo al
tema che, per come l’ho delineato, assumeva un aspetto universale. La conseguenza di
tale ragionamento, se coerente, è che ogni azione messa in campo nel settore della tutela
e corretta gestione delle risorse ambientali non si può assolutamente esaurire nel suo
campo e per essere efficace deve compenetrarsi nel tessuto sociale in cui si pone, inteso
come sistema di relazioni e comunità umane.
Ritengo quindi che lo scopo primario di un Parco, quale quello che dirigo, sia quello di
contribuire ad aiutare il nostro sistema sociale a prevenire, contenere e dove necessario
adattarsi, possibilmente senza contraccolpi violenti, ai cambiamenti ambientali in corso e
alle loro ricadute su economia e società.
Ciò premesso, vi sono centinaia di testi di elevato valore scientifico, frutto del lavoro di
migliaia di ricercatori al mondo, che analizzano e dettagliano come e con quale velocità
stiamo distruggendo la Terra e su cosa si dovrebbe fare, tecnicamente e politicamente, per
arrestare o contenere il processo e non voglio ora dissertare su tali complessi argomenti.
Pur tuttavia ritengo necessario richiamare alcuni aspetti che meglio di altri ci
consentiranno di riflettere insieme su alcuni temi coerenti con il dibattito odierno.
Iniziamo con un primo aspetto di ordine generale: la comunità scientifica internazionale
ritiene che l’umanità si trovi oramai all’inizio di un nuovo periodo geologico, che è stato
definito “Antropocene” dal ricercatore olandese Paul Crutzen, Premio Nobelnel 1995 per
gli studi effettuati sulla chimica dell'atmosfera, in particolare riguardo alla formazione e alla
decomposizione dell'ozono. Secondo lo scienziato n
Benvenuti
nell�Antropoceneegli ultimi tre secoli gli effetti prodotti dalle azioni dell'uomo sull'ambiente
di tutto il mondo, soprattutto l’emissione di anidride carbonica e di altri gas clima alteranti,
sono talmente cresciute da aver innescato una deviazione del corso naturale del clima
terrestre che durerà per molte migliaia di anni a venire. Per tale motivo lo scienziato ha
ritenuto giusto chiamare "Antropocene" l'epoca geologica attuale, dominata dall'uomo
quale preponderante forza modificatrice che sta trasformando l'Olocene, il periodo mite
che ha caratterizzato il clima terrestre degli ultimi 10-12 millenni.
D’altra parte, la crescente influenza umana sull'ambiente fu riconosciuta sin dal 1873,
quando il geologo italiano Antonio Stoppani si riferì all'"era antropozoica" dove l’umanità
venne definita «una nuova potenza tellurica che per vigore e ampiezza può essere
paragonata alle più ampie forze terrestri». Ecco un primo argomento da affrontare
insieme: siamo coscienti, come componente attiva e propositiva nella nostra società, di
tale potere/potenza?
Tornando a Paul Crutzen, l'Antropocene sarebbe iniziato nell'ultima parte del XVIII secolo,
e ciò in base a dati ricavati da analisi effettuate su aria intrappolata nel ghiaccio polare
che, in riferimento a quel periodo storico, hanno mostrato che in quegli anni per la prima
volta si verificò un incremento abnorme di concentrazione nell’atmosfera terrestre di CO2
e di metano.
D’altra parte, occorre ricordare che negli ultimi tre secoli la popolazione umana è cresciuta
di dieci volte, fino a superare gli attuali sei miliardi di individui e ci si aspetta che arrivi a 10
miliardi entro la fine di questo secolo.
Ma più di tutto, è l'utilizzo di energia fossile che è cresciuto di ben 16 volte durante il XX
secolo, causando un'emissione nell'atmosfera di 160 milioni di tonnellate di anidride
solforosa all'anno, più del doppio dell'emissione naturale. Nel contempo il consumo umano
di carburanti fossili, ha causato un sostanziale aumento di concentrazione di gas "effetto
serra": la CO2 in atmosfera è aumentata del 30 per cento e il metano di oltre il 100 per
cento. Queste concentrazioni sono le più alte degli ultimi 400.000 anni e non possono che
crescere, perché finora questi effetti sono stati causati solo dal 25 per cento della
popolazione mondiale. Le conseguenze sono che stiamo trasformando il nostro pianeta e
conseguentemente, le nostre società.
Le nove piaghe della modernità si chiamano: cambiamento climatico, acidificazione degli
oceani, riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, modificazione dei cicli dell’azoto e
del fosforo, perdita di acque dolci, perdita di biodiversità, perdita di suoli, diffusione di
polveri e aerosol tossici in atmosfera ed infine inquinamento chimico, comprendendo con
tale termine i composti radioattivi e gli inquinanti organici di origine artificiale.
Quindi, in un tempo brevissimo, se confrontato con lo scorrere dei millenni che ci hanno
preceduto, la nostra specie ha alterato in modo radicale tutti gli ecosistemi esistenti, dalla
foresta amazzonica alle barriere coralline, dai ghiacciai alpini ai terreni agricoli, si è
riprodotta a una velocità senza precedenti, ha provocato e continua a provocare
l'estinzione di numerose specie animali e vegetali, a depauperare le risorse idriche, a
inquinare con sostanze chimiche i corsi d'acqua e le aree coltivate, ma soprattutto ha
modificato la composizione dell'atmosfera fino a generare concentrazioni di gas serra
paragonabili, se non addirittura superiori, a quelle che in passato posero fine alle
glaciazioni.
Sappiamo tutti perfettamente che la Terra ha sempre subito cambiamenti e che alcune
volte ciò è avvenuto in modo violento, come quando venne colpita da grandi asteroidi o
quando un'era glaciale allentava la sua morsa, ovvero di fronte a grandi eruzioni
vulcaniche. Quanti nutrono infinita fede nelle capacità umane di “cavarsela a buon
mercato” citano tali esempi per tranquillizzare. Ciò che però è oramai chiaro è che ci
troviamo all'inizio del cambiamento più vasto e più profondo mai registrato nella storia
dell'umanità, pari solo a quei grandi eventi che abbiamo potuto leggere nelle tracce
lasciate nelle rocce e nel ghiaccio.
E ciò, si badi bene, nonostante l’avanzare di nuove e sempre più sofisticate tecnologie. Le
nuove tecnologie, infatti, non riusciranno comunque a soddisfare i bisogni e i consumi
crescenti di una popolazione in continuo aumento. Basti un solo dato: secondo la FAO al
tasso attuale di crescita della popolazione, la produzione agricola mondiale dovrà crescere
di almeno il 70% per poter sfamare i 9 miliardi di abitanti del pianeta terra del 2050.
Nel dicembre 1968 l'Apollo 8 era in orbita intorno alla Luna e quando alla quarta orbita, il
comandante Frank Borman decise di far ruotare la capsula spaziale, all’improvviso vide la
Terra sorgere dietro al suo satellite. Fu allora che Bill Anders, uno dei membri
dell'equipaggio, prese una macchina fotografica e scattò la foto che diventò famosa come
"Earthrise", l'alba della Terra. Nella foto la Terra è una biglia blu e bianca che fluttua
nell'immensità dello spazio e contrasta con la superficie arida della Luna. Borman la
ricorderà come la visione più bella e toccante della sua vita, come l'unica cosa in tutto lo
spazio a essere colorata, mentre tutto il resto era semplicemente bianco o nero. Il terzo
membro dell'equipaggio, Jim Lovell, descrisse l'episodio con parole incisive: «La Terra mi
apparve come una grande oasi».
Quelle fotografie, se paragonate alle fotografie da satellite riprese oggi dimostrano, anche
solo visivamente, che quella meravigliosa oasi nello spazio sta soffrendo: la terra oggi
appare opaca, avvolta da una patina giallastra, più calda.
Possiamo fare qualcosa, come singoli e come società organizzate? Dobbiamo! I nostri
compiti e quelli delle generazioni che ci seguiranno, saranno essenzialmente due: da una
parte contenere e mitigare gli effetti dei cambiamenti in corso e dall’altra adattarsi alle
nuove trasformazioni globali in atto sul nostro pianeta, trovando la via verso una “gestione
ambientalmente sostenibile” dello stesso. Solo modificando radicalmente i modelli culturali
e sociali che oggi abbiamo a riferimento, possiamo sperare di superare la “tempesta
continua” economica, sociale e ambientale che ci attende arrivando insieme a tale
traguardo.
Ma è possibile una “gestione ambientalmente sostenibile” senza una profonda e radicale
riorganizzazione sociale? Ed è possibile riorganizzare le nostre società in modo
democratico e non autoritario, senza mettere radicalmente in discussione i paradigmi sui
quali si reggono? E quali sono questi paradigmi?
A mio avviso vi sono alcune “parole chiave” che da sole esprimono i modelli sui quali il
sistema sociale delle comunità tecnologicamente evolute è stato plasmato, partendo dagli
ultimi due secoli. L’uso esasperato di tali parole, dietro le quali si esprimono interi modelli
politici e sociali, hanno assunto, soprattutto negli ultimi trent’anni, proporzioni
parossistiche, oserei dire addirittura estremistiche. Tali parole sono: crescita, competitività,
velocità.
Dietro questi termini si protegge, nasconde (?), un modello di sviluppo assolutamente
insostenibile, sia sul piano ambientale che su quello sociale. Questo modello fa della
crescita senza limiti, della competizione continua tra parti del mondo, tra nazioni, tra
comunità e individui, e dell’assurda velocità impressa ad ogni azione umana, il mantra
dello “sviluppo deviato” che oggi ci caratterizza e che si presenta con un aggettivo che,
sebbene sia di uso comune, risulta tutt’altro che innocuo e contiene in se un potenziale
distruttivo devastante: consumismo.
Come ultimamente stiamo vedendo, i nodi stanno venendo al pettine e dopo aver messo
in crisi l’ambiente mondiale ed intere popolazioni (pensate solo alle grandi migrazioni in
atto in tutto il pianeta), anche la terza “gamba” del sistema, quella economica dietro la
quale si erano giustificati i propugnatori del fondamentalismo consumista, non regge più il
tavolo delle nostre comunità e le attuali crisi economica e finanziaria, non ne sono che la
rappresentazione palese.
Ragioniamo insieme: possiamo ancora credere che continuando a crescere continuando a
“consumare” suolo, risorse energetiche, mari, montagne e persone, si possa arrivare da
qualche altra parte che non sia l’autodistruzione del pianeta e con esso delle nostre
società? E se provassimo a leggere l’attuale crisi economica che investe l’Europa (ma
USA e altre nazioni non stanno poi meglio, anche se stanno scaricando sull’Europa e,
dentro di essa, sugli Stati e gli strati sociali più deboli le loro contraddizioni economiche e
sociali) non con le lenti deformate degli economisti, ma con gli occhi di persone “normali”,
che hanno a cuore il futuro delle proprie comunità e dell’ambiente in cui vivono?
E se cominciassimo a ricostruire pezzo dopo pezzo quella gerarchia di valori che poco alla
volta si è andata sgretolando, iniziando a ribaltare i termini del mantra del
fondamentalismo consumista, contrapponendo alla crescita la stabilità, alla competizione
la solidarietà e il reciproco soccorso, alla velocità la pacatezza e la capacità di meditare
sulle proprie azioni orientandole in termini temporali di lustri e non di pochi giorni o di
poche ore?
Se, ad esempio, incominciassimo a ribellarci a una visione consumistica estremista che
chiama gli ospedali “Aziende sanitarie” con la vergognosa conseguenza che il malato sia
un “cliente” e la malattia una “merce”? E perché non ci ribelliamo a chi ci dice che la
scuola non si basa sulla crescita culturale della nostra società e dei nostri figli, ma che sia
un’azienda che debba vendere e consumare nozioni alle quali i nostri figli rispondono
ricevendo “crediti” o dovendo pagare “debiti”?
Cosa c’entra tutto ciò con le nostre montagne? C’entra eccome!
Mentre noi trasformavamo radicalmente le nostre economie e società e con esse il
pianeta, le nostre montagne continuavano ad essere li. Le Alpi sono uno straordinario
ambiente ancora per molti versi, selvaggio. Certo, i fondovalle alpini assomigliano spesso
a conglomerati delle periferie urbane, le piste da sci e gli invasi artificiali hanno modificato
alcuni paesaggi “industrializzandoli”, ma la loro essenza è sostanzialmente integra, sono il
socio-ecosistema maggiormente resiliente del continente europeo.
Quello che invece è profondamente cambiato, a mio avviso addirittura alterato, è il modo
con cui culturalmente l’attuale sistema sociale si pone nei confronti delle montagne: non
più luoghi di vita e lavoro per le comunità che vi risiedono e di ricreazione e svago per chi
le frequenta, ma uno spazio da conquistare, da piegare a voleri consumistici imposti, quasi
un vuoto da riempire di “cose”. Guardate bene, cose che nella visione del consumismo
estremista possono chiamarsi non solo motoslitte o impianti da sci, ma anche ciaspole e
sci alpinismo.
Molti dei comportamenti distruttivi che abbiamo oggi lamentato, altro non sono che il frutto
di una visione arrogante, aggressiva e possessiva dei comuni beni naturali. L’ambiente
naturale, anche quello fragile e delicato delle nostre montagne, anziché essere vissuto con
rispetto e accarezzato, viene vissuto come un campo di gara dove riportare acriticamente i
disvalori dell’estremismo consumista: velocità, competizione, aggressività.
E’ mia convinzione, peraltro condivisa con molti studiosi ed economisti, che in una società
che ha fatto del consumo, della velocità e della mercificazione di qualsiasi bene il proprio
credo, persino della mercificazione della salute e della cultura, il relativo isolamento delle
vallate alpine, così come di ogni altro luogo del mondo ritenuto marginale dal
fondamentalismo consumista, ha conservato semi di sostenibilità che oggi risultano tanto
preziosi quanto rari.
L’alternativa potrebbe essere un mondo dominato da sistemi antidemocratici, accentratori
e autoritari, che razionino le risorse, ovvero che le riservino a pochi a scapito dei molti, con
tutto il corollario di guerre e violenze che ne conseguirebbe.
Torniamo allora alle nostre vallate alpine, alle nostre piccole comunità marginali, ai nostri
“semi di sostenibilità”.
E’ proprio questi semi che dobbiamo piantare, poi coltivare e accudire nel loro crescere,
affinché producano nuovi germogli di vita sociale ed economica, sostenibili. E non c’è
sostenibilità economica e sociale senza sostenibilità ambientale, senza rispetto per tutte le
forme di vita che popolano la Terra, senza rispetto per le forme dei paesaggi che le
caratterizzano, frutto della storia e della presenza di chi ci ha preceduto. Questo dobbiamo
fare e questo è ciò che cerco di fare ogni giorno nel lavoro di tutela delle risorse ambientali
che mi sono state affidate.
L’alternativa a questo modo di procedere, dove il rispetto reciproco, il dialogo e la crescita
nella consapevolezza del comune destino devono dettare il modello dell’agire, non può
che essere una deriva violenta ed estremista.
I cambiamenti climatici, la scarsità di risorse alimentari ed energetiche, la desertificazione
e la perdita di biodiversità, l’inquinamento di acque, aria e suolo, costringeranno le società
umane del futuro a ripensare radicalmente alla loro organizzazione. Innanzitutto, questo
sarà possibile iniziando a “rimettere al suo posto” il ruolo preponderante che negli ultimi
decenni ha assunto l’economia, non più governata dalle società umane, ma abbandonata
al “libero mercato”, cioè a se stessa ed alle sue regole, alle quali ambiente e società si
sono dovute adattare. Il governo mondiale affidato ai soli poteri economici senza un reale
controllo politico è alla base dei danni ambientali e delle disarticolazioni sociali (si pensi
solo alle grandi migrazioni in atto) che si stanno verificando a livello globale.
Se esiste ancora una speranza per sopravvivere su un pianeta trasformato dall’ossessione
umana per la crescita e il potere affidati all’economia e al denaro, probabilmente questa
risiede solo in società fortemente radicate localmente, piccole e resilienti, che
probabilmente riusciranno a sopravvivere ed a caratterizzare il pianeta del futuro.
Di fronte ai pesanti sconvolgimenti ambientali, economici e sociali che ci attendono, una
società che non sia cosciente dei propri limiti, che non sappia accudire con sapienza il
proprio ambiente e che non sia orgogliosa dei propri paesaggi e delle proprie culture, sarà
facile preda di qualsiasi demagogo che si presenti a proporre soluzioni miracolose.
Per questo le nostre montagne, i nostri territori e i nostri miti vanno coltivati e protetti: essi
costituiscono la nostra garanzia per un futuro possibile.
Per fare ciò, tutti dobbiamo imparare a migliorare, aiutandoci reciprocamente. Concludo il
mio intervento con le parole di un grande profeta della modernità immaturamente
scomparso, Alex Langher, parole che vogliono essere al tempo stesso un’esortazione ad
agire ed un augurio a ciascuno di noi.
“A una visione del mondo incentrata su un’idea di sviluppo fatta di mercificazione,
competitività e crescita (citius, altius, fortius - più veloce, più in alto, più forte) vogliamo
opporre un’alternativa che rovesci il motto olimpico e che dica: più lentamente, più in
profondità, con più dolcezza (lentius, profundis, soavis)”.