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La coscienza moderna 11 Nella sua “Fenomenologia”, nel suo romanzo di formazione, la coscienza ha dovuto risalire attraverso le sue rappresentazioni parziali del mondo (figure dello spirito – “sapere apparente”), spogliandosene ad una ad una dopo averle riconosciute inadeguate (come abiti troppo stretti per lei). Esse erano in realtà suoi accomodamenti, manifestazioni della sua subalternità al mondo. La subalternità al mondo della coscienza comporta un suo rapporto alienato, cioè parziale con sé. Essa cioè non è principio di sé, non parte da se stessa, ma si rimette ad altro, alla tradizione. Nell’ancien règime (come viene chiamata l’epoca prima della Rivoluzione francese) la tradizione è riconosciuta come principio di legittimità: è legittimo (regime politico, costumi, ecc.) ciò che si è “da sempre” rispettato (il cui principio non sta nella coscienza, ma si perde nella notte dei tempi). Si diffida di tutto ciò che ha odore di nuovo (misoneismo). L’Illuminismo rovescia questo presupposto tradizionalista. Non c’è una “prisca sapientia” – una sapienza originaria - come avevano immaginato i pensatori rinascimentali Marsilio Ficino e Pico della Mirandola - da cui ci siamo allontanati perdendone via via la originaria purezza, come le acque di un torrente si intorbidano via via che si allontanano dalla fonte. L’uomo moderno pensa di apprendere il mondo gradualmente, attraverso la sua esperienza, facendosene idee parziali (che sono anche “compromessi”, cioè rassicurazioni per lui circa la natura benigna dell’essere), mano a mano più adeguate (e sempre più disincantate, cioè meno rassicuranti). Il suo conoscere di più il mondo gli serve per correggere il suo stare nel mondo e viceversa. Per diventare più adeguato ad esso e renderlo più adeguato a sé. Perciò, essendo la sua conoscenza del mondo sempre in progresso, al contrario di quello antico, egli non può mai esprimere un giudizio definitivo sulla realtà e realizzare un rapporto altrettanto definitivo con essa. Ma a qualcosa di definitivo può giungere: a conoscere se stesso, se riesce a liberarsi dalla pressione che il mondo esercita su di lui. Essendo schiacciata dal mondo la coscienza non ha un rapporto pieno ed incondizionato con se stessa, ma sempre si vede nel mondo, ha una “rappresentazione” di sé. Ma essa non è qualcosa di particolare, non si soddisfa nel rappresentarsi come medico, impiegato, operaio, di essere buona, generosa, avara, malvagia, ecc. E’ tutto e il contrario di tutto. Essa diviene assoluta quando capisce di essere tutto questo, ed anche il suo passare da una rappresentazione all’altra. E’ tutte le sue rappresentazioni ed anche il suo rappresentarsi. Del mondo essa non può avere che rappresentazioni, ma di se stessa essa può avere conoscenza. In ciò Hegel è fedele a Socrate: io so di me che non so del mondo. Dunque so di me e non so del mondo. La differenza tra Socrate ed Hegel sta nel fatto che il primo fa del non sapere il contenuto e il risultato del sapere, il secondo dice che la conoscenza non è solo il risultato, ma anche il processo che ad esso conduce: è la totalità. L’uomo può avere di sé conoscenza definitiva (“vera scienza”), mentre del mondo può avere solo conoscenza che resta sempre aperta, incompiuta (quindi non può essere vera conoscenza, una conoscenza ipotetica, dunque solo “opinione”). La coscienza divenuta sciolta da ogni pressione che il mondo esercita su di lei, che la fa essere specchio deformato di se stessa e della realtà, risulta infine principio di sé, potenza liberata (Spirito assoluto). Essa può così accettare totalmente il mondo così come è, perché non interferisce più con il suo rapporto con se stessa: non ha perciò nessuna necessità di cambiarlo. Ma proprio per questo può davvero cambiarlo. Lo Spirito assoluto è allo stesso tempo del tutto conservatore e del tutto rivoluzionario. Trasforma il mondo perché non ne ha alcuna necessità: ogni trasformazione obbligata del mondo sarebbe in realtà una conferma dell’immodificabilità di esso. Ciò che per lui è bene è il rapporto incondizionato con se stesso. Lo spirito è rivoluzionario perché è libero: AlbertoMadricardo–Lacoscienzamoderna2015‐20161di2 L’uomo non è né pura negazione (Negativität), né pura posizione (Identität), bensì totalità (Totalität)” A. Kojewe, “Introduzione alla lettura di Hegel” Adelphi, Milano, 1996, p.67). Il divenire naturale in cui l’uomo è immerso è intrinsecamente dispersivo e caotico (la natura è caos, l’ordine, il senso, è solo umano), per questo lo spirito deve “disimpigliarsi” da esso, assumendolo come proprio “Calvario” (ripeterlo nel pensiero). Ecco perché la Fenomenologia è “rito della ragione” (dello Spirito) e non “rito del mondo” come quello arcaico. Cioè non rappresenta (ri – presenta) la potenza del mondo, ma solo il modo con cui lo spirito “si recupera” (libera la sua potenza) sciogliendosi dal mondo essendo in se steso null’altro che questo sciogliersi. Ma il rito non è una semplice rappresentazione o racconto di qualcosa che è avvenuto. Ma di qualcosa che è avvenuto, avviene e avverrà sempre. Qualcosa di necessario. Offre una conoscenza che è diversa sia da quella storica, che dice come le cose “sono andate”, e da quella scientifica, che dice come le cose “dovrebbero sempre andare” (salvo prova sperimentale che smentisce). Né la storia, né la scienza offrono una conoscenza piena (necessaria) della Totalità (che non solo è, ma in quanto totalità, è necessariamente perché comprende anche il suo non essere): la storia perché dà conoscenza solo del passato, la scienza è sì conoscenza della totalità (le leggi della scienza dicono ciò che è accaduto, accade e accadrà sempre), ma non è anche conoscenza totale. Sempre ipotetica (con riserva, salvo smentite sperimentali sempre possibili) ha fuori di sé la sua negazione. Perché il rito sia arcaico che della ragione manifestano questa necessità? Il rito manifesta la necessità come suprema potenza divina che fa essere il mondo (necessità ontologica). La Fenomenologia esprime invece la necessità che ha la Totalità come tale di affermare se stessa, di farsi, da implicita, esplicita (necessità logica). La Fenomenologia è essa stessa necessaria: racconto necessario (nel senso che è la Totalità stessa che lo impone) della Totalità che, da dispersa e schiacciata dalla pressione del divenire caotico del mondo, scrollandosi di dosso i suoi errori (le sue autorappresentazioni parziali) viene a capo di se stessa, per cui la Fenomenologia è la Totalità stessa, in quanto racconto del riappropriarsi di sé della Totalità. Il rito tradizionale è necessario perché celebra la “strapotenza del mondo”. La strapotenza del mondo (è questa l’essenza del divino) sta nel fatto che il mondo è, si impone. Come dice Wittgenstein: “che il mondo è, è il mistico”, cioè non si discute, bisogna subire. Ma se si ripete volontariamente qualcosa che è imposto, quel qualcosa non è più solo imposto. Il rito della ragione è necessario in senso diverso. La potenza della Totalità è che deve necessariamente (logicamente) essere Totalità, recuperare se stessa dalla dispersione in cui giace. La potenza divina è creatrice, quella della ragione è ricreatrice. La Totalità è identità con se stessa? Sì, ma anche no: essa è sì identità, ma anche il processo attraverso il quale essa si ricerca. E’ identità e differenza. La necessità che muove la totalità non è esteriore (ontologica), ma sua interiore: è dialettica, nel senso che la Totalità si scuote per sua necessità interna (logica) continuamente scoprendo di non essere davvero totalità ma rappresentazione parziale del mondo. Il passaggio dalla necessità ontologica a quella logica è la libertà dello spirito. La coscienza libera è quella che si contempla – si racconta - nel suo divenire libera. AlbertoMadricardo–Lacoscienzamoderna2015‐20162di2