Rassegna stampa 11 maggio 2016
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Rassegna stampa 11 maggio 2016
RASSEGNA STAMPA di mercoledì 11 maggio 2016 SOMMARIO Ricorre domani - giovedì 12 maggio - il secondo anniversario della morte del Patriarca emerito card. Marco Cè. La Diocesi di Venezia lo ricorderà, nel pomeriggio, con un doppio appuntamento previsto nella basilica cattedrale di S. Marco: alle ore 18.00 verrà presentato il libro “Il volto di Dio è amore misericordioso”, che raccoglie alcune sue meditazioni, mentre alle 18.45 ci sarà la S. Messa presieduta dal Patriarca Francesco Moraglia. Il volume è stato voluto e promosso dall’Ufficio catechistico diocesano, è edito da Marcianum Press, curato da Luisa Bienati e impreziosito dalle riproduzioni di alcune icone realizzate da Maria Cristina Ghitti, monaca di Montesole (nel Bolognese) e figlia spirituale del Patriarca Marco. Raccoglie le intense meditazioni del card. Cè direttamente tratte dai testi originali - manoscritti e inediti - da lui preparati in occasione del corso di esercizi spirituali diocesani condotto sul tema “I misteri della vita di Cristo” e predicato dal 28 aprile al 1 maggio 2012 nella Casa Maria Assunta di Cavallino. “E’ provvidenziale – racconta don Valter Perini, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano – che questa serie di meditazioni sull'adorabile figura di Cristo esca nel cuore dell'Anno della Misericordia. Cè è stato un testimone esemplare della misericordia di Cristo e il libro è davvero molto bello. A me piace molto soprattutto il capitolo sui trent'anni di Gesù trascorsi a Nazaret; nella contemplazione di questo sprofondamento di Gesù nel silenzio emerge la spiritualità del Patriarca Marco, che amava la vita “nascosta", il silenzio, l'umiltà, i gesti semplici e quotidiani”. La prefazione è stata scritta dal Patriarca Francesco Moraglia che osserva tra l’altro: “Il cardinale Marco Cè, giunto al termine del suo servizio episcopale, si diede toto corde al ministero della predicazione e, in particolare, alla predicazione degli esercizi spirituali. Il ministero della Parola era diventato per lui impegno prioritario; era la modalità concreta per continuare a servire con dedizione e amore di padre - da autentico patriarca - la Chiesa di Venezia. E così il Cardinale ha potuto vivere fino alla fine la pienezza del suo sacerdozio, l’esser prete e vescovo per la gente”. E, riprendendo il titolo del libro, annota ancora che il card. Cè “ha sempre amato quel Volto, l’unico in grado di donare agli uomini la pace e la salvezza e, proprio indicando quel Volto, il Patriarca intendeva dischiudere a tutti, ma in particolare ai fedeli laici per i quali ha sempre nutrito grande attenzione e affetto, la dignità sublime della loro vocazione e missione battesimale”. “Ci vogliono fede e coraggio, oggi, in Pakistan per portare la croce da cristiani - scrive il direttore Marco Tarquinio sulla prima pagina odierna di Avvenire -. Un coraggio che si fa enorme per abbracciare la croce in pubblico. I cristiani pachistani mostrano la loro fede e trovano questo coraggio ogni giorno, da uomini e da donne che non intendono rinunciare a essere se stessi. Credenti e cittadini, cittadini e credenti: l’una e l’altra cosa insieme, non senza timore e sofferenza, ma senza esitazioni. Perché venga il tempo in cui la convivenza tra uguali e il rispetto di ogni differenza siano finalmente regola salda, e pacifica. Ci vogliono fede e coraggio in Pakistan per portare la croce da cristiani. E ce ne vogliono persino di più per farlo da non cristiani. Eppure accade. Il musulmano Khurram Zaki, giornalista e attivista per i diritti umani, uomo buono, lo ha fatto. Domenica scorsa è morto per questo, assassinato. Aveva letteralmente alzato e mostrato la croce, manifestando fianco a fianco nel 2014 con i cristiani attaccati e massacrati nelle loro chiese da fanatici islamici legati al movimento taleban. E si era idealmente caricato sulle spalle la croce della battaglia per la difesa dei diritti delle minoranze, reclamando soltanto di poter onorare il dovere di «costruire il Pakistan», secondo libertà, giustizia, rispetto reciproco, fraternità. Abbiamo tutti bisogno di conoscere e ascoltare uomini come Khurram il costruttore, perché ci sono di esempio. Sono persone che a loro volta sanno conoscere e ascoltare. Tutti i veri costruttori sono così, e sono aperti, sereni, fedeli, amanti delle buone regole e perciò determinanti nella battaglia per cambiare le leggi ingiuste come quella che in Pakistan viene chiamata «anti-blasfemia », ma bestemmia la vita dei pachistani di ogni fede e di ogni pensiero. I distruttori, invece, in Pakistan e in ogni altra terra, compresa la nostra italiana ed europea, non conoscono e non vogliono che ci si conosca, non ascoltano e non vogliono che ci si ascolti, coltivano ogni chiusura e alzano ogni tipo di barriera, insultano e imbavagliano, demoliscono i ponti e odiano gli uomini- ponte, fino a ucciderli. Come è toccato a Khurram Zaki. E prima di lui a Shahbaz Bhatti, lucido e generoso ministro cristiano per le minoranze, martire per il suo impegno. E a Salman Taseer, musulmano, che da politico coraggioso seppe schierarsi subito a difesa di Asia Bibi, condannata a morte solo perché fedele a Cristo. I distruttori disseminano sofferenze e lutti, accumulano rancori e sembrano sempre avere la meglio, ma alla fine non vincono, non vincono mai. Continueranno a essere sconfitti sino a quando ci saranno uomini e donne capaci di buona fede, di buona volontà e di memoria. Questa è la parte che tocca a tutti noi, senza distinzioni di origine e di fede. Perché la memoria degli uomini giusti, che i distruttori vogliono sporcare e cancellare, vince anche la morte ed è la madre dei costruttori di giustizia e di pace” (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 17 Venezia, una Messa e un libro ricordano il patriarca Cè 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Vittime di una violenza inaudita Il Papa torna a denunciare le persecuzioni contro i cristiani e le minoranze religiose Pag 8 Gioventù bruciata Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 2 Vite da bruciare di Riccardo Maccioni L’invito alla missionarietà rivolto dal Papa ai giovani LA NAZIONE Tutti gli uomini di Papa Francesco di Nina Fabrizio WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Esercizi di lettura. La "Amoris laetitia" del cardinale Müller di Sandro Magister In un monumentale discorso in Spagna, il prefetto della dottrina della fede riconduce l'esortazione postsinodale nell'alveo della disciplina precedente della Chiesa. Troppo tardi. Perché ormai Francesco l'ha scritta in modo da far capire il contrario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La scuola senza storia di Ernesto Galli della Loggia Il Concorsone Pag 5 Unioni civili, che cosa cambia? di Alessandra Arachi e Luigi Ferrarella Welfare, decreti attuativi e rito. “Bigamia” consentita e altri vuoti del testo 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Mestre, la città più colpita dalla crisi. In centro un negozio su 5 è chiuso di Gloria Bertasi Vetrine con le ruote, traslochi di pochi metri per risparmiare affitto IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXI Nel centro islamico non si potrà pregare di Giuseppe Babbo Jesolo, lo ribadisce ai fedeli il sindaco Zoggia: “Potranno solo fare incontri culturali, eseguiremo controlli” 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Da Belluno all’esercito dell’Isis. “Pagato 200 dollari al mese. Vivo solo, è difficile tornare” di Andrea Priante LA NUOVA Pag 1 Autonomia, voto storico per il Veneto di Mario Bertolissi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La riforma non è perfetta ma i suoi nemici hanno torto di Angelo Panebianco LA REPUBBLICA Pag 1 Matteo Renzi, la sinistra e l’Europa immaginata da Francesco di Eugenio Scalfari Pag 1 Quando Roma val bene una messa di Stefano Folli Pag 3 Ira dei vescovi sulla maggioranza: “Una forzatura votare così la legge” di Giovanna Casadio, Carmelo Lopapa, Giovanna Vitale e Paolo Rodari Alla Camera fiducia sulle unioni civili. Marchini attacca: “Non le celebrerò”. L’arcivescovo Pennisi: “Fascismo strisciante, metà del Paese è contro” LA STAMPA Due nuovi fronti aperti per il governo Renzi di Marcello Sorgi AVVENIRE Pag 1 Ricordate Khurram Zaki di Marco Tarquinio Uno giusto, e ucciso per questo Pag 3 I 14 giorni dell’embrione e la ricerca senza “autovelox” di Assuntina Morresi Dove porta la richiesta di infrangere un nuovo limite Pag 5 Pakistan, fa paura agli estremisti la faccia dell’islam che sa dialogare di Stefano Vecchia e Lucia Capuzzi Tutti testimoni della convivenza, il loro sacrificio nel nome del pluralismo Pag 9 Quella voglia di nozze gay che torna a galla IL GAZZETTINO Pag 1 Gran Bretagna, mancano i leader e la Ue è a rischio di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Minaccia specifica, ora siamo nel mirino di Renzo Guolo Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 17 Venezia, una Messa e un libro ricordano il patriarca Cè Ricorre il 12 maggio il secondo anniversario della morte del patriarca emerito di Venezia, il cardinale Marco Cè (19252014). La diocesi lo ricorderà domani con un doppio appuntamento nella basilica di San Marco: alle 18 verrà presentato il libro “Il volto di Dio è amore misericordioso”, che raccoglie alcune meditazioni di Cè (gli Esercizi spirituali diocesani tenuti dal 28 aprile al 1 maggio 2012), mentre alle 18.45 il patriarca Francesco Moraglia presiederà la Messa. Il volume, promosso dall’Ufficio catechistico diocesano, è edito da Marcianum Press, curato da Luisa Bienati, con le riproduzioni di alcune icone realizzate da Maria Cristina Ghitti, monaca di Montesole e figlia spirituale di Cè, patriarca di Venezia dal 1978 al 2002. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Vittime di una violenza inaudita Il Papa torna a denunciare le persecuzioni contro i cristiani e le minoranze religiose Nuovo appello di Francesco per i cristiani e le minoranze religiose vittime di persecuzioni in Egitto e in Medio oriente. In una lettera inviata a Tawadros II, Papa di Alessandria e Patriarca della sede di San Marco, in occasione della giornata dell’amicizia coptocattolica - che si celebra nel terzo anniversario del fraterno incontro svoltosi in Vaticano nel 2013 a quarant’anni da quello tra Paolo VI e Shenouda III - il Pontefice ricorda le «grandi difficoltà» e le «situazioni tragiche» che stanno vivendo i credenti in molti Paesi. E chiede alla comunità internazionale di «rispondere in modo saggio e giusto a questa inaudita violenza». A Sua Santità Tawadros II Papa di Alessandria e Patriarca della Sede di San Marco Ricordando con piacere il terzo anniversario del nostro incontro fraterno a Roma il 10 maggio 2013, le porgo, Santità, i miei cordiali buoni auspici di pace e salute, ed esprimo la mia gioia per i vincoli spirituali sempre più profondi che uniscono la Sede di Pietro e la Sede di Marco. È con gratitudine nel Signore nostro Dio che ricordo i passi che abbiamo compiuto insieme sul cammino della riconciliazione e dell’amicizia. Dopo secoli di silenzio, malinteso e perfino ostilità, cattolici e copti si stanno incontrando sempre più spesso, dialogando e cooperando nel proclamare il Vangelo e servire l’umanità. In questo rinnovato spirito di amicizia, il Signore ci aiuta a vedere che il vincolo che ci unisce nasce dalla stessa chiamata e missione che abbiamo ricevuto dal Padre nel giorno del nostro battesimo. Di fatto, è attraverso il battesimo che diventiamo membri dell’unico Corpo di Cristo che è la Chiesa (cfr. 1 Cor 12, 13), il popolo di Dio, che proclama le sue lodi (cfr. 1 Pt 2, 9). Che lo Spirito Santo, motivo e portatore di tutti i doni, ci unisca sempre più nel vincolo di amore cristiano e ci guidi nel nostro pellegrinaggio comune, in verità e carità, verso la piena comunione. Desidero anche esprimerle, Santità, il mio profondo apprezzamento per la generosa ospitalità offerta durante il tredicesimo incontro della Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali, che si è tenuta al Cairo su invito del Patriarcato della Sede di San Marco. Le sono grato per aver ricevuto i membri della Commissione Mista nel monastero di San Bishoy a Wadi Natrum, e sono certo che condividiamo l’ardente speranza che questo importante dialogo possa continuare per progredire e dare abbondanti frutti. Pur essendo ancora in cammino verso quel giorno in cui ci riuniremo come una cosa sola alla stessa mensa eucaristica, possiamo già adesso rendere visibile la comunione che ci unisce. Copti e cattolici possono testimoniare insieme valori importanti come la sacralità e la dignità di ogni vita umana, la santità del matrimonio e della vita familiare, il rispetto del creato che ci è stato affidato da Dio. Dinanzi a tante sfide contemporanee, copti e cattolici sono chiamati a dare una risposta comune fondata sul Vangelo. Mentre continuiamo il nostro pellegrinaggio terreno, se impareremo a portare i fardelli gli uni degli altri e a scambiarci il ricco patrimonio delle nostre rispettive tradizioni, vedremo con maggiore chiarezza che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide. Santità, ogni giorno i miei pensieri e le mie preghiere sono con le comunità cristiane in Egitto e in Medio Oriente, molte delle quali stanno vivendo grandi difficoltà e situazioni tragiche. Sono ben consapevole della vostra seria preoccupazione per la situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria, dove i nostri fratelli e sorelle cristiani e altre comunità religiose devono affrontare prove quotidiane. Possa Dio nostro Padre concedere pace e consolazione a tutti coloro che soffrono, e ispirare la comunità internazionale a rispondere in modo saggio e giusto a questa inaudita violenza. In questa occasione, che giustamente è ormai conosciuta come giornata dell’amicizia copto-cattolica, scambio volentieri con lei, Santità, un abbraccio fraterno di pace in Cristo il Signore Risorto. Dal Vaticano, 10 maggio 2016 Francesco Pag 8 Gioventù bruciata Messa a Santa Marta «Bruciare la vita per le cause nobili»: ecco un’opportunità offerta ai ragazzi di oggi, che immersi in una «cultura del consumismo» e «del narcisismo» sono spesso insoddisfatti e poco felici. Nella messa celebrata martedì 10 maggio a Santa Marta, Papa Francesco ha messo al centro della propria riflessione la testimonianza dei missionari - «la gloria della nostra Chiesa» - proponendola come modello per i giovani. L’omelia del Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura del giorno tratta dagli Atti degli apostoli (20, 17-27), nella quale si legge quello che - ha detto il Papa - «potremmo chiamare il “congedo di un apostolo”». È il brano in cui «Paolo fa venire a Mileto i presbiteri di Efeso e dice loro che non li vedrà più, perché deve andarsene, perché lo Spirito lo costringe ad andare a Gerusalemme». Analizzando questo testo, si vede come, prima di tutto, l’apostolo faccia «un esame di coscienza: “Voi sapete come mi sono comportato con voi in tutto questo tempo”». È una disamina in cui Paolo «fa un racconto di come si è comportato» e, in un primo momento, sembra anche «che si vanti un po’». In realtà «non è così», tant’è che egli stesso aggiunge: «Semplicemente è stato lo Spirito che mi ha portato a questo». Poi continua: «Costretto dallo Spirito io vado a Gerusalemme. Lo Spirito mi ha mandato qui ad annunziare Gesù e lo Spirito adesso mi chiama ad andare a Gerusalemme». Dopo l’esame di coscienza emerge cioè un altro elemento: la «docilità» allo Spirito Santo. È un congedo in cui Paolo esprime sia «una nostalgia nel guardare indietro a quello che il Signore ha fatto con lui», sia «un sentimento di ringraziamento al Signore». Questo passo della Scrittura, ha notato Francesco, fa venire alla mente «il bel brano letterario dello spagnolo Pemán» nel quale si legge «la descrizione del congedo dalla vita di san Francesco Saverio davanti alle spiagge della Cina. Anche lui fa un esame di coscienza: solo, davanti a Dio». Significativo è anche il seguito della narrazione, perché ci si può chiedere: «Cosa aspetta a Paolo?». Infatti l’apostolo scrive che «va a Gerusalemme “senza sapere ciò che là mi accadrà”». Come un missionario che parte «senza sapere cosa lo aspetta». Di un’unica cosa è certo: «So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni». E, ha commentato il Pontefice, anche «il missionario sa che non sarà facile la vita, ma va avanti». Infine Paolo aggiunge «un’altra verità, che fa piangere i presbiteri di Efeso: “E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto. Mai ci vedremo qui”». Quindi «dà alcuni consigli. Lo accompagnano fino alla nave e sulla spiaggia gli si gettano al collo, piangono... E così si congeda» dalla comunità di Efeso, nella città di Mileto. «Il fine dell’apostolo è il fine dei missionari» ha commentato il Papa. «Credo - ha spiegato - che questo brano» evochi «la vita dei nostri missionari: tanti giovani, ragazze e ragazzi, che hanno lasciato la patria, la famiglia e sono andati lontano, in altri continenti, ad annunciare Gesù Cristo». Anche loro «andavano “costretti” dallo Spirito Santo», era la loro «vocazione». E oggi, quando in quei posti «andiamo nei cimiteri» e «vediamo le loro lapidi», ci rendiamo conto che «tanti sono morti giovani, a meno di quarant’anni», spesso perché non erano preparati a sopportare le malattie locali. Capiamo che questi giovani «hanno dato la vita», hanno «bruciato la vita». Significativa la riflessione di Francesco: «Io penso che loro, in quell’ultimo momento, lontani dalla loro patria, dalla loro famiglia, dai loro cari, hanno detto: “Valeva la pena, fare quello che ho fatto!”». Nel ricordo di questi giovani, «eroi dell’evangelizzazione dei nostri tempi», ripensando a come l’Europa abbia riempito altri continenti di missionari che partivano senza tornare - e che probabilmente, nel loro «ultimo momento», quello del «congedo», hanno detto come Saverio: «Ho lasciato tutto, ma valeva la pena!» - il Papa ha affermato: «Credo sia giusto che noi ringraziamo il Signore per la loro testimonianza». Alcuni sono morti «anonimi», altri come «martiri e cioè offrendo la vita per il Vangelo»: sono, ha detto Francesco, «la nostra gloria questi missionari! La gloria della nostra Chiesa!». Di fronte a tali esempi, il Pontefice ha rivolto un pensiero «ai ragazzi e alle ragazze di oggi», spesso a disagio nella «cultura del consumismo, del narcisismo». E a loro ha detto: «Ma guardate l’orizzonte! Guardate là, guardate a questi nostri missionari!». Per questo, ha aggiunto, occorre «pregare lo Spirito Santo che li costringa ad andare lontano, a “bruciare” la vita». Ha usato proprio questa espressione forte precisando: «È una parola un po’ dura, ma la vita vale la pena viverla; ma per viverla bene» bisogna «“bruciarla” nel servizio, nell’annunzio; e andare avanti. E questa è la gioia dell’annuncio del Vangelo». Concludendo l’omelia, il Papa ha esortato tutti a ringraziare il Signore «per Paolo, per la sua capacità di andare in un posto e lasciare quel posto quando lo Spirito Santo lo chiama da un’altra parte», ma anche «per i tanti missionari della Chiesa» che, nel passato come ancora oggi, hanno avuto il coraggio di partire. Dal Pontefice anche l’invito a pregare affinché lo Spirito vada «dentro il cuore dei nostri giovani», dove «c’è qualcosa di insoddisfazione», e «li costringa ad andare oltre, a bruciare la vita per le cause nobili». Probabilmente, ha detto, di questo rimarrà solo «una lapide, col nome, la data della nascita, la data della morte; e passati alcuni anni nessuno si ricorderà di loro», ma loro si saranno «congedati dal mondo in servizio. E questa è una cosa bella!». Da qui l’invocazione finale: «Che lo Spirito Santo, che viene adesso, semini nel cuore dei giovani questa voglia di andare ad annunziare Gesù Cristo, “bruciando” la propria vita». AVVENIRE Pag 2 Vite da bruciare di Riccardo Maccioni L’invito alla missionarietà rivolto dal Papa ai giovani Più spericolati delle rock star. Più creativi degli artisti. Più coraggiosi degli atleti di sport estremi. Ma anche umili al punto da dimenticare se stessi. Così amanti della vita da spenderla per gli altri. Talmente liberi da accettare anche luoghi sconosciuti per annunciare la Buona Notizia. È una vocazione affascinante, per certi versi irresistibile quella che, nelle parole del Papa, caratterizza i missionari. Ognuno diverso dagli altri ma uniti da un dato comune, la «docilità alla voce dello Spirito» che per così dire «costringe» a prendere la propria esistenza e offrirla a Cristo. Di più, a «bruciarla» per Lui. Un’immagine, quella del fuoco, che mentre evoca la Pentecoste, richiama la radicalità delle scelte di fondo, il rifiuto delle mezze misure, la bellezza di consegnarsi totalmente a chi ci è Padre. «Il missionario – ha sottolineato ieri Francesco nell’omelia della Messa in Santa Marta – va senza sapere cosa lo aspetta». Ma il suo andare non evoca incoscienza o temerarietà, è sinonimo di fiducia piena, è fame di eternità, è consapevolezza che esiste qualcosa che ci supera, in amore e bellezza. Più importante dei titoli, del successo, del conto in banca, del sorriso degli specchi. Per questo i primi destinatari delle parole del Papa non possono che essere i giovani, chiamati a «bruciare» la vita con il loro entusiasmo. Ad andare, con la forza del fuoco che hanno dentro, oltre il consumismo e il narcisismo, in una parola oltre l’effimero. Una volta di più, come già nei messaggi delle Gmg, come in decine di incontri avuti con gli adulti di domani, Francesco chiama i ragazzi e le ragazze ad andare controcorrente, a non essere schiavi della comodità, della bella vita, dei vizi. Ad avere un cuore libero, come chi si spende fino in fondo per gli altri, come i missionari. Che sono al tempo stesso benefattori e beneficiati. Perché l’annuncio del Vangelo prima di essere un bisogno per coloro che non lo conoscono, è una necessità per chi ama Gesù. È scuola di comunione, è educazione alla gioia, è testimonianza della carità divina. È vita che brucia sotto l’azione dello Spirito, che diventa strumento della misericordia di Dio, della sua tenerezza, del suo amore, soprattutto per i poveri, gli ultimi, i dimenticati. LA NAZIONE Tutti gli uomini di Papa Francesco di Nina Fabrizio Chiamarlo cerchio magico considerata la personalità di base solitaria di papa Francesco, è forse un po' troppo. Ma certo l'espressione è quanto di più utile per descrivere i nuovi equilibri disegnatisi attorno a papa Francesco e alla sua struttura di comando nella Curia. Bergoglio, dopo l'avvio del pontificato con la creazione di commissioni in serie e con qualche nomina non esattamente azzeccata, anche alla luce della vicenda Vatileaks, appare ora volersi più appoggiare a pochi, fidati collaboratori. Nel quadro di un pontificato che da una parte esprime scelte anche rivoluzionarie sul ruolo della Chiesa, non senza forti contrasti interni, e che dall'altra tende a volersi concretizzare con gesti pastorali forti, dalle missioni-lampo sui luoghi di frontiera alle docce e bagni per i senzatetto intorno al Vaticano, Francesco col tempo ha messo insieme le figure che meglio possono sia assecondare, sia suggerire le sue mosse. Ma chi sono gli "happy few" attorno al Pontefice? In testa c'è sicuramente il Segretario di Stato, il cardinale veneto Pietro Parolin, cui il Papa ha affidato la gestione di tutti i grandi dossier internazionali e il coordinamento della diplomazia pontificia, ma che all'interno della curia ha saputo gestire in maniera non traumatica l'uscita di scena di Bertone, parando al tempo stesso i colpi delle possibili nuove lotte di potere. Braccio operativo del Papa è sempre più il sostituto alla Segreteria di Stato, il sardo Angelo Becciu, portato in Vaticano da Cuba dove era nunzio dal cardinale Bertone, è diventato un punto di riferimento continuo nelle attività del Papa. Cruciale il suo ruolo nella missione nell'isola greca di Lesbo da dove Bergoglio è rientrato portando dodici profughi siriani. Un tratto umano pacato, una lunga esperienza diplomatica, con la sua capacità di gestire i rapporti umani anche all'interno della Curia vaticana, Becciu ha saputo conquistarsi l'apprezzamento e la fiducia del Papa. Con il Giubileo in forte ascesa è l'astro di monsignor Rino Fisichella, cui Francesco ha affidato la regia degli eventi dell'Anno Santo ed è sempre più una figura presente accanto al Papa nelle sue uscite, dai Venerdì della Misericordia ai blitz a sorpresa come quello alla Mariapoli a Villa Borghese per un evento sulla Terra. Nella "squadra" del Pontefice c'è anche il cardinale toscano Lorenzo Baldisseri, che come segretario del sinodo ha tenuto dritta la barra nelle acque agitatissime del sinodo sulla Famiglia conducendo in porto il lavoro da cui è nato il documento "Amoris Laetitae". Un fidatissimo del Papa è ormai anche il capo dei cerimonieri, monsignor Guido Marini, diversissimo da lui sia per carattere, sia per impostazione liturgica ma che ha stretto ormai con Bergoglio un rapporto umano di grande vicinanza. Saldo rimane il legame con l'ex cerimoniere Konrad Krajewski che Bergoglio ha voluto come Elemosiniere, così come con il laico Domenico Giani, comandante della Gendarmeria, nel ruolo di altissima responsabilità, non solo "angelo custode" del Pontefice in epoca di minacce terroristiche, ma anche preparatore del terreno nei viaggi spesso non semplici di Francesco all'estero, vedi il Sudafrica. Una new entry nel cerchio magico può essere considerato il prefetto della Comunicazione, monsignor Dario Edoardo Viganò cui il Papa ha affidato uno dei capitoli potenzialmente più dolorosi della riforma come il riassetto dei media vaticani. Presidente e segretario del Governatorato, il cardinale Giuseppe Bertello, membro del C9 come Parolin, e monsignor Fernando Vérgez Alzaga, vecchia conoscenza di Bergoglio dai tempi del cardinale Pironio, di cui era segretario, stanno invece, dietro mandato del Papa, lavorando in questi giorni alla riscrittura della Legge fondamentale dello Stato del Vaticano. Pur bersagliato dalle polemiche infine, uomo fidato del Papa è anche monsignor Battista Ricca, suoi occhi e orecchie nello Ior come prelato della banca vaticana, tanto da determinare le ultime nomine che Bergoglio ha sigillato andandole ad annunciare di persona al Torrione Niccolò V, indicando come direttore generale Gianfranco Mammì e suo vice Giulio Mattietti. Figure ripescate nella vecchia guardia dell'istituto. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Esercizi di lettura. La "Amoris laetitia" del cardinale Müller di Sandro Magister In un monumentale discorso in Spagna, il prefetto della dottrina della fede riconduce l'esortazione postsinodale nell'alveo della disciplina precedente della Chiesa. Troppo tardi. Perché ormai Francesco l'ha scritta in modo da far capire il contrario Con la "Amoris laetitia" sta accadendo nella Chiesa cattolica qualcosa di simile a quanto accadde mezzo secolo fa con la "Humanae vitae". A parti rovesciate. L'enciclica di Paolo VI sulla procreazione era chiarissima. Ma teologi, vescovi e conferenze episcopali dissenzienti ne diffusero interpretazioni artificiose e fumose, al fine di far apparire lecito ciò che il papa proibiva. L'esortazione postsinodale di Francesco sulla famiglia è stata scritta invece in forma volutamente vaga, consentendo a chiunque di leggervi ciò che desidera, in particolare sulla questione cruciale della comunione ai divorziati risposati. E tocca a teologi, vescovi e cardinali volonterosi affaticarsi a darne una lettura chiara ed univoca, in accordo con il magistero della Chiesa di sempre. Tra questi, il più alto d'autorità è il cardinale Gerhard L. Müller, già vescovo di Ratisbona, editore dell'opera omnia di Joseph Ratzinger e dal 2012 prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Già pochi giorni prima della pubblicazione della "Amoris laetitia" Müller aveva ribadito i punti fermi dai quali il magistero della Chiesa non si poteva discostare, in un libro uscito in Spagna dal titolo: "Informe sobre la esperanza". Ma ai primi di maggio, ad "Amoris laetitia" pubblicata, egli è tornato in Spagna, prima a Madrid poi a Oviedo, non solo per presentare il suo libro, ma soprattutto per dettare una lettura dell'esortazione papale rigorosamente aderente a ciò che vi si trova scritto. Il cardinale Müller ha tenuto il suo lungo e argomentato discorso di illustrazione della "Amoris laetitia" nel seminario di Oviedo, il 4 maggio. E in quest'altra pagina web si può leggerlo integralmente così come l'ha pronunciato, in lingua spagnola. Qui di seguito sono riprodotte le parti centrale e finale del discorso. Leggendolo, si vedrà come Müller interpreta le ambiguità della "Amoris laetitia" non come un via libera a cambiamenti della dottrina e della prassi, ma al contrario come la prova che papa Francesco non ha inteso in alcun modo rompere con la precedente disciplina, perché se davvero "avesse voluto cancellare una disciplina tanto radicata e di tanta rilevanza l'avrebbe detto con chiarezza e presentando ragioni a sostegno", cosa che non ha fatto. Quanto all'ormai famosa nota 351, su cui fanno leva i fautori della comunione ai divorziati risposati, Müller mostra come essa non tocchi affatto il caso specifico. E quanto al "discernimento" per esaminare se una persona è o no colpevole soggettivamente e grazie a ciò ammetterla o no alla comunione, dice: "L'economia dei sacramenti è un'economia di segni visibili, non di disposizioni interne o di colpevolezza soggettiva. Una privatizzazione dell'economia sacramentale certamente non sarebbe cattolica". Ma l'elemento portante dell'intero discorso è la sua architettura dottrinale e teologica. Dice il cardinale: "Il principio di fondo è che nessuno può veramente desiderare un sacramento, quello dell'eucaristia, senza desiderare anche di vivere in accordo con gli altri sacramenti, tra cui quello del matrimonio. […] Cambiare la disciplina in questo punto concreto, ammettendo una contraddizione tra l'eucaristia e il matrimonio, significherebbe necessariamente cambiare la professione di fede della Chiesa, che insegna e realizza l'armonia tra tutti i sacramenti, tale e quale l'ha ricevuta da Gesù. Su questa fede nel matrimonio indissolubile, non come ideale lontano ma come realtà concreta, è stato versato sangue di martiri". Colpisce che un discorso di tale portata il cardinale Müller l'abbia pronunciato non a Roma ma in Spagna e senza che abbia avuto particolare pubblicità. "L'Osservatore Romano" l'ha del tutto ignorato. Perché agli effetti pratici il suo impatto è minimo. Come marginale, irrilevante, è ormai il ruolo del prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Con Francesco è cambiata infatti la forma del magistero papale. La chiarissima "Humanae vitae" di Paolo VI fu travolta dalle fumosità di vescovi e cardinali dissenzienti. Mentre invece la "Amoris laetitia" è vittoriosa proprio grazie alla sua calcolata vaghezza. Perché a tutti i livelli della Chiesa come nella pubblica opinione è ormai passato ciò che non vi è scritto a chiare lettere, ma solo fatto intuire. Che cosa possiamo aspettarci dalla famiglia? Una cultura di speranza per la famiglia, partendo dalla "Amoris laetitia" di Gerhard L. Müller Introduzione […] 1. Chiesa e famiglia: l'arca di Noè […] 2. L'architettura dell'arca: l'amore di Cristo vissuto nella famiglia […] Il papa insiste sul fatto che la pastorale matrimoniale deve essere “una pastorale del vincolo” (AL 211). Dinanzi a una pastorale emotiva, che cerchi soltanto di incoraggiare i sentimenti o accontentarsi di esperienze intimiste dell'incontro con Dio, una pastorale del vincolo è una pastorale che prepara al “sì per sempre”. La preparazione al matrimonio prende luce da qui: accompagnando le tappe del fidanzamento affinché i giovani imparino a dire "sì, voglio" e accolgano il progetto che Dio ha per loro. Coltivando il vincolo, l'amore esce da sé stesso, supera il sentimento fluttuante, diventa forte per sostenere la società ed accogliere i figli. Si tratta di dare una dimora alla famiglia, della quale il vincolo matrimoniale è la chiave di volta. Nel vincolo si supera l'individualismo degli sposi o della coppia e si crea una cultura della famiglia, un ambiente dove l'amore può fiorire, l'arca di Noè per navigare insieme nel diluvio della postmodernità liquida. Agli sposi la Chiesa garantisce che, in ogni occasione, in qualsiasi situazione si trovino, veglierà su questo vincolo, lo renderà stabile e lo proteggerà affinché resti vivo, affinché possiate sempre tornare ad esso, perché in esso sta la vostra più profonda vocazione. Bisogna capire da qui l'insistenza di papa Francesco su quello che lui chiama "ideale cristiano". Alcuni hanno interpretato questo ideale come un obiettivo lontano, solo per pochi. Ma non è questo il pensiero di Francesco. Il papa non è platonico! Tutto il contrario, per lui il cristianesimo tocca la carne dell'uomo (cf. "Evangelii gaudium" 88, 233). Lo si vede chiaramente quando Francesco ci avverte che non dobbiamo presentare "un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono" (AL 36). Qui il papa stesso nega che l'ideale sia astratto e artificioso. Di che cosa ci parla allora il papa quando fa riferimento all'ideale del matrimonio? Nella Chiesa l'ideale è sempre l'ideale incarnato, perché il Verbo, il Logos, si è fatto carne e accompagna la sua vita nei sacramenti. Questa presenza viva e trasformatrice dell'amore pieno di Gesù si trova precisamente nei sacramenti, che contengono in sé l'architettura dell'arca di Noè. La "Amoris laetitia", infatti, parla in diverse occasioni del rapporto tra l'iniziazione cristiana e la vita matrimoniale (AL 84, 192, 206-207, 279) e del nesso tra eucaristia e matrimonio (AL 318). Potremmo concludere che ogni famiglia e tutta la Chiesa si fondano su questa cultura dell'amore di Gesù, che è custodita nell'economia dei sacramenti. Questi rimangono segno vivo di Cristo per generare la sua stessa vita tra gli uomini. Costituiscono l'architettura dell'arca, quell'arca le cui misure furono dettate da Dio. Il nostro tempo, pieno di desideri liquidi, ha bisogno, come dicevo prima, di una dimora dell'amore, di una cultura dell'amore. La Chiesa promuove questa cultura dell'amore precisamente nei suoi sacramenti, che la costituiscono. Essa potrà offrire speranza agli uomini, a tutti, anche ai lontani, se si mantiene fedele a questa dimora che ha ricevuto da Dio e mentre promuove questa cultura comune dell'amore di Cristo, confessata nei segni sacramentali, che sono l'architettura della nave che ci fa approdare nel buon porto. L'immagine dell'arca di Noè, della Chiesa che naviga e porta la speranza in mezzo al mondo, è unita al numero otto che simboleggiava sin dai primi tempi l'ottavo giorno, il giorno della risurrezione di Cristo, l'inizio del mondo futuro. In questo modo si insisteva sul fatto che la Chiesa non cammina soltanto verso una lontana pienezza, bensì che in lei questa pienezza dell'amore è già stata inaugurata. Si, è possibile vivere l'amore di cui ci parla san Paolo nel suo inno e per questo non dobbiamo aspettare la fine dei tempi. Questo amore possiamo viverlo adesso, perché la Chiesa, nei suoi sacramenti, mantiene viva ed efficace, come dono originario di Cristo, la dimora che accoglie, sostiene e dona vigore alle nostre povere forze. 3. Accogliere nell'arca i più lontani: accompagnare, discernere, integrare Partendo da questo grande orizzonte della cultura dell'amore, possiamo affrontare una domanda alla quale il papa ha dedicato la sua attenzione nella "Amoris laetitia": come dare speranza a quanti vivono lontani e, specialmente, a quanti hanno vissuto il dramma e la ferita di una seconda unione civile dopo un divorzio? Sono quelli che, per dirla così, sono naufragati nel diluvio della postmodernità liquida e hanno dimenticato quella promessa sponsale per la quale sigillarono in Cristo un amore per sempre. Possono ritornare nell'arca di Noè, costruita sull'amore di Cristo, e sfuggire al diluvio? In tre parole il papa ci ha indicato la via per questo compito della Chiesa: accompagnare, discernere, integrare (AL 291-292). Partendo da esse si può leggere il capitolo ottavo della "Amoris laetitia". 3.1. Accompagnare: l'arca che galleggia e naviga Si tratta, anzitutto, di accompagnare. Questi battezzati non sono esclusi dalla Chiesa. Al contrario, la Chiesa, nuova arca di Noè, li accoglie, anche se la loro vita non corrisponde alle parole di Gesù. Questa capacità di accoglienza è descritta da sant'Agostino stabilendo una distinzione, sempre riguardo all'arca di Noè come immagine della Chiesa. In primo luogo, nell'arca non furono ammessi soltanto gli animali puri secondo la Legge. Questo significava per Agostino che la Chiesa accoglie nel suo seno giusti e peccatori sotto un medesimo tetto; che è fatta di uomini che cadono e si rialzano, che devono pronunciare, all'inizio di ogni messa: “Io confesso”. In questo modo, la Chiesa cattolica si distacca dalla visione donatista, che prospettava una "Chiesa dei puri", nella quale non c'era posto per il peccatore. Dio separerà il grano dalla zizzania soltanto alla fine dei tempi, compresa la zizzania che germoglia in ogni credente. Ebbene, dice sant'Agostino, tutti questi animali, puri ed impuri, passarono sotto la stessa porta ed abitarono in una stessa dimora, con le stesse pareti e lo stesso tetto. Qui il vescovo d'Ippona fa riferimento ai sacramenti, con il battesimo come porta, e con il cambiamento di vita che chiedono a quanti vogliono riceverli, abbandonando il peccato. In questa armonia tra i sacramenti e la vita visibile dei cristiani, dice sant'Agostino, la Chiesa pone davanti al mondo la testimonianza non soltanto di come visse Gesù, ma di come sono chiamati a vivere i membri del corpo di Gesù. La coerenza tra i sacramenti e il modo di vita dei cristiani assicura, dunque, che la cultura sacramentale nella quale vive la Chiesa e che essa propone al mondo resti abitabile. Soltanto così può ricevere i peccatori, accogliendoli con premura ed invitandoli a un cammino concreto affinché superino il peccato. Ciò che la Chiesa non deve mai abbandonare è l'architettura dei sacramenti, pena la perdita del dono originario che la sostiene e l'oscuramento dell'amore di Gesù e del modo con cui questo amore trasforma la vita cristiana. È proprio assimilando questa struttura sacramentale che la Chiesa evita i due modi possibili di diventare una "Chiesa dei puri", l'esclusione dei peccatori e l'esclusione del peccato. Dunque, il primo elemento chiave per questo cammino di accompagnamento è l'armonia tra la celebrazione sacramentale e la vita cristiana. Questa è la ragione della disciplina eucaristica che la Chiesa ha mantenuto sin dalle sue origini. Grazie ad essa la Chiesa può essere una comunità che accompagna, accoglie il peccatore senza per questo benedire il peccato e così offre la base affinché sia possibile un percorso di discernimento ed integrazione. San Giovanni Paolo II confermò questa disciplina nella "Familiaris consortio" 84 e nella "Reconciliatio et poenitentia" 34; la congregazione per la dottrina della fede, a sua volta, lo affermò nel suo documento del 1994; Benedetto XVI l'approfondì nella "Sacramentum caritatis" 29. Si tratta di un insegnamento magisteriale consolidato, appoggiato sulla Scrittura e fondato su una ragione dottrinale: l'armonia salvifica dei sacramenti, cuore della "cultura del vincolo" che vive la Chiesa. Alcuni hanno affermato che la "Amoris laetitia" ha eliminato questa disciplina e ha permesso, almeno in alcuni casi, che i divorziati risposati possano ricevere l'eucaristia senza la necessità di trasformare il loro modo di vita secondo quanto indicato in FC 84, cioè abbandonando la nuova unione o vivendo in essa come fratello e sorella. A questo bisogna rispondere che se la "Amoris laetitia" avesse voluto cancellare una disciplina tanto radicata e di tanta rilevanza l'avrebbe detto con chiarezza e presentando ragioni a sostegno. Invece non vi è alcuna affermazione in questo senso; né il papa mette in dubbio, in nessun momento, gli argomenti presentati dai suoi predecessori, che non si basano sulla colpevolezza soggettiva di questi nostri fratelli, bensì sul loro modo visibile, oggettivo, di vita, contrario alla parole di Cristo. Ma non si trova questa svolta – obiettano alcuni – in una nota a piè di pagina in cui si dice che, in alcuni casi, la Chiesa potrebbe offrire l'aiuto dei sacramenti a chi vive in situazione oggettiva di peccato (n. 351)? Senza entrare in un'analisi dettagliata, basta dire che questa nota fa riferimento a situazioni oggettive di peccato in generale, senza citare il caso specifico dei divorziati in nuova unione civile. La situazione di questi ultimi, effettivamente, ha caratteristiche particolari che la distinguono da altre situazioni. Questi divorziati vivono in contrasto con il sacramento del matrimonio e, dunque, con l'economia dei sacramenti, il cui centro è l'eucaristia. Questa è, infatti, la ragione richiamata dal precedente magistero per giustificare la disciplina eucaristica di FC 84; un argomento che non è presente nella nota né nel suo contesto. Ciò che afferma, dunque, la nota 351 non tocca la disciplina precedente: è sempre valida la norma di FC 84 e di SC 29 e la sua applicazione in ogni caso. Il principio di fondo è che nessuno può veramente desiderare un sacramento, quello dell'eucaristia, senza desiderare anche di vivere in accordo con gli altri sacramenti, tra cui quello del matrimonio. Chi vive in contrasto col vincolo matrimoniale si oppone al segno visibile del sacramento del matrimonio; in ciò che tocca la sua esistenza corporea, anche se dopo soggettivamente non fosse colpevole, egli si rende "anti-segno" dell'indissolubilità. E precisamente perché la sua vita corporea è contraria al segno, non può formare parte, ricevendo la comunione, del supremo segno eucaristico, dove si rivela l'amore incarnato di Gesù. La Chiesa, se lo ammettesse, cadrebbe in quello che san Tommaso d'Aquino chiamava la "falsità nei segni sacramentali". E non siamo dinanzi a una conclusione dottrinale eccessiva, bensì dinanzi alla base stessa della costituzione sacramentale della Chiesa, che abbiamo paragonato all'architettura dell'arca di Noè. È un'architettura che la Chiesa non può modificare perché viene da Gesù stesso; perché essa, la Chiesa, nasce da qui, e qui si appoggia per navigare nelle acque del diluvio. Cambiare la disciplina in questo punto concreto, ammettendo una contraddizione tra l'eucaristia e il matrimonio, significherebbe necessariamente cambiare la professione di fede della Chiesa, che insegna e realizza l'armonia tra tutti i sacramenti, tale e quale l'ha ricevuta da Gesù. Su questa fede nel matrimonio indissolubile, non come ideale lontano ma come realtà concreta, è stato versato sangue di martiri. Qualcuno potrebbe insistere: non ha poca misericordia Francesco se non compie questo passo? Non è troppo chiedere a queste persone che camminino verso una vita conforme alla Parola di Gesù? Succede piuttosto il contrario. Diremmo, utilizzando l'immagine dell'arca, che Francesco, sensibile alla situazione di diluvio vissuta dal mondo attuale, ha aperto tutte le finestre possibili della nave e ci ha tutti invitati a lanciare corde dalle finestre per trarre dentro nella barca l'uomo naufrago. Ma permettere, sia pure soltanto in alcuni casi, che si dia la comunione a chi tiene visibilmente un modo di vita contrario al sacramento del matrimonio non sarebbe aprire una finestra in più, ma aprire una breccia nel fondo della nave, lasciando che vi entri il mare e mettendo in pericolo la navigazione di tutti e il servizio della Chiesa alla società. Più che una via d'integrazione sarebbe una via di disintegrazione dell'arca ecclesiale, una via d'acqua. Nel rispettare questa disciplina, quindi, non solo non si pone un limite alla capacità della Chiesa di salvare la famiglie, ma si assicura anche la stabilità della nave e la sua capacità per portarci in un buon porto. L'architettura dell'arca è necessaria proprio perché la Chiesa non permetta che nessuno si blocchi in una condizione contraria alla parola di vita eterna di Gesù, cioè, perché la Chiesa non condanni “eternamente nessuno” (cf. AL 296-297). Nel preservare l'architettura dell'arca si preserva, potremmo dire, la nostra casa comune che è la Chiesa, stabilita sull'amore di Gesù; si preserva la cultura o l'ambiente della famiglia, decisiva per tutta la sua pastorale familiare e il suo servizio alla società. In questo modo ritorniamo a quello che abbiamo considerato il punto centrale della speranza della Chiesa per la famiglia: la necessità di creare una cultura della famiglia, di offrire una dimora al desiderio e all'amore. Si tratta di animare una “cultura del vincolo”, parallela alla “pastorale del vincolo” di cui parla il papa; cultura che oggi, nella società postmoderna, soltanto la Chiesa cattolica genera. Qui vediamo che questa disciplina della Chiesa ha un enorme valore pastorale. Abbiamo discusso molto in questi anni sulla possibilità di dare la comunione ai divorziati in una nuova unione civile. All'inizio della "Amoris laetitia" il papa ha ricordato alcune posizioni eccessive che sono state affacciate. Gli argomenti sono stati molti e molto vari, con il rischio di perdersi in selve intricate di casistiche. Cerchiamo per un attimo di prendere un poco di distanza e guardare la questione in prospettiva, dimenticando i dettagli. Se la Chiesa ammettesse alla comunione i divorziati che vivono in una nuova unione senza chiedere loro un cambio di vita, lasciando che continuino nella loro situazione, non dovrebbe dire semplicemente che ha accettato il divorzio in certi casi? Certamente, non lo avrà accettato per iscritto, continuerà ad affermare [l'indissolubilità] come ideale, ma non la ammette come ideale anche la nostra società? In che cosa la Chiesa sarebbe diversa allora? Potrebbe dire che è ancora fedele alle parole di Gesù, parole chiare, che allora suonarono dure? Non furono queste parole contrarie alla cultura e alla prassi del suo tempo, permissive con un divorzio caso per caso per adattarsi alla fragilità dell'uomo? In pratica, l'indissolubilità del matrimonio rimarrebbe come un bel principio, perché comunque non sarebbe confessata nell'eucaristia, il vero luogo dove si professano le verità cristiane che toccano la vita e danno forma alla testimonianza pubblica della Chiesa. Dobbiamo chiederci: non abbiamo considerato questo problema troppo dal punto di vista dei singoli individui? Tutti possiamo capire il desiderio di accedere alla comunione di questi nostri fratelli e le difficoltà che hanno ad abbandonare la loro unione o a vivere in essa in un altro modo. Dal punto di vista di ognuna di queste storie, potremmo pensare: che cosa ci costa, in fondo, lasciare che si comunichino? Abbiamo dimenticato, mi sembra, di guardare le cose da un più ampio orizzonte, dalla Chiesa come comunione, dal suo bene comune. Perché da una parte il matrimonio ha un carattere intrinsecamente sociale. Cambiare il matrimonio per alcuni casi significa cambiarlo per tutti. Se vi sono alcuni casi in cui non è importante vivere contro il vincolo sacramentale, non bisognerebbe dire ai giovani che vogliono sposarsi che queste eccezioni valgono anche per loro? Non penetrerà poi questa idea anche in quelle coppie che lottano per rimanere unite ma soffrono il peso del cammino e la tentazione di abbandonare? Inoltre, da un altro lato, l'eucaristia ha anche una struttura sociale (cf. AL 185-186), non dipende soltanto dalle mie condizioni soggettive, ma anche da come mi relaziono con gli altri dentro il corpo della Chiesa, perché la Chiesa nasce dall'eucaristia. Intendere il matrimonio e l'eucaristia come atti individuali, senza prendere in considerazione il bene comune della Chiesa, finisce per dissolvere la cultura della famiglia, come se Noè, nel vedere tanti naufraghi attorno alla nave, smontasse fondo e pareti per dare a ciascuno una tavola. La Chiesa perderebbe la sua essenza comunionale, fondata nell'ontologia dei sacramenti, e diventerebbe una congerie di individui che galleggiano senza meta in balia delle onde. In realtà, i divorziati in una nuova unione civile che si astengono dall'accostarsi all'eucaristia e camminano per poter rigenerare il loro desiderio in conformità ad essa, stanno proteggendo la dimora della Chiesa, la nostra casa comune. E anche per loro stessi è un bene mantenere intatte le pareti dell'arca, della dimora dove è contenuto il segno dell'amore di Gesù. Così la Chiesa può ricordare loro: "Non ti fermare, c'è possibilità anche per te, non sei escluso dal ritorno all'alleanza sacramentale che hai contratto, anche se ci vorrà tempo; puoi vivere, con la forza di Dio, in fedeltà ad essa". E se qualcuno dice che questo è impossibile, ricordiamo le parole della "Amoris laetitia": “Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo” (AL 102). Dunque, nessuno si senta escluso dal cammino verso la vita grande di Gesù. Il desiderio di ricevere la comunione può condurre, con l'aiuto del pastore (e qui si apre la via del discernimento) a una rigenerazione del desiderio, affinché ritroviamo in noi la sete di vivere secondo le parole del Signore. Insomma, il papa nell'esortazione ci avverte contro due deviazioni. Ci sono quelli che vogliono condannare e si accontentano di un immobilismo che non apre nuove vie affinché queste persone possano rigenerare il loro cuore. E dell'altra parte ci sono quelli che vedono la soluzione nel trovare eccezioni in diversi casi, rinunciando a rigenerare il cuore delle persone. Non sarebbe necessario elevarsi sopra tutto questo e prendere un altro punto di vista? Questo punto di vista è quello della comunione ecclesiale, quello del bene comune della Chiesa, quello di mantenere vivo nel suo centro, come cultura della famiglia, la vita stessa di Cristo che ci anima nei sacramenti. Se demoliamo la struttura dell'arca di Noè, come possiamo essere sicuri che si manterrà a galla e che non colerà a picco la speranza cristiana per tutte la famiglie? 3.2. Discernere e integrare Dentro questa cultura della famiglia, che si poggia sull'architettura dell'arca, possiamo allora chiederci: quali sono le nuove vie che la "Amoris laetitia" ci invita ad aprire? Il papa riflette su di esse esortandoci a discernere e integrare. Interroghiamoci anzitutto sul discernimento. Alcuni hanno interpretato che il papa, dicendo che bisogna tener più conto delle circostanze attenuanti, stia chiedendo che il discernimento si fondi su queste, come se ciò consistesse nell'esaminare se la persona è o no colpevole soggettivamente. Ma questo discernimento sarebbe alla fin fine impossibile, poiché soltanto Dio scruta i cuori. Inoltre, l'economia dei sacramenti è un'economia di segni visibili, non di disposizioni interne o di colpevolezza soggettiva. Una privatizzazione dell'economia sacramentale certamente non sarebbe cattolica. Non si tratta di discernere una mera disposizione interiore, bensì, come dice san Paolo, di "discernere il corpo" (cf. AL 185186), le visibili relazioni concrete nelle quali viviamo. E ciò significa che la Chiesa non ci lascia da soli dinanzi a questo discernimento. Il testo della "Amoris laetitia" ci indica i criteri chiave per arrivarne a capo. Il primo consiste nella meta che si vuole nel discernere. È la meta che la Chiesa annuncia per tutti, in qualsiasi caso e situazione, e che non deve essere taciuta per rispetto umano né per paura di scontrarsi con la mentalità del mondo, come ricorda il papa (AL 307). Consiste nel tornare alla fedeltà del vincolo matrimoniale, rientrando così di nuovo in quella dimora o arca che la misericordia di Dio ha offerto all'amore e al desiderio dell'uomo. Tutto il processo si indirizza, passo dopo passo, con pazienza e misericordia, a rinascere e a guarire la ferita della quale soffrono questi fratelli, che non è il fallimento del matrimonio precedente, bensì la nuova unione stabilita. Il discernimento è necessario, quindi, non per scegliere la meta, ma per scegliere il cammino. Avendo chiaramente in mente dove vogliamo portare la persona (la vita piena che Gesù ci ha promesso) si possono discernere le vie affinché ognuno, nel suo caso particolare, possa arrivare li. E qui entra, come secondo criterio, la logica dei piccoli passi di crescita, dei quali anche il papa parla (AL 305). La chiave è che questi divorziati rinuncino a stabilirsi nella loro situazione, che non facciamo pace con la nuova unione nella quale vivono, che siano pronti ad illuminarla alla luce delle parole di Gesù. Tutto ciò che porti ad abbandonare questo modo di vivere è un piccolo passo di crescita che bisogna promuovere e animare. Veramente, chi desidera cibarsi di Gesù nell'eucaristia avrà anche il desiderio, usando l'immagine biblica, di cibarsi delle sue parole, di assimilarle nella sua vita. O meglio, come dice Sant'Agostino, avrà il desiderio di essere assimilato ad esse. Perché non è Gesù che si adegua al nostro desiderio, ma è il nostro desiderio che è chiamato a conformarsi a Gesù, per trovare in lui la sua piena realizzazione. Da qui possiamo passare alla terza parola, "integrare", ed esaminare le nuove vie che la "Amoris laetitia" apre per i divorziati in una nuova unione. Il papa ci chiede, seguendo il sinodo, di sviluppare un percorso che deve essere realizzato in ogni diocesi sotto la guida del vescovo e secondo l'insegnamento della Chiesa (AL 300). Questo dovrebbe farsi, se possibile, con una équipe di pastori qualificati ed esperti. È essenziale che nel percorso si annunci la parola di Dio, specialmente in ciò che riguarda il matrimonio (AL 297). Così, questi battezzati faranno man mano luce su questa seconda unione che hanno iniziato e nella quale vivono. Si aprirebbe qui anche la possibilità di rivedere un'eventuale nullità del matrimonio sacramentale, secondo le nuove norme emanate dal papa. In questo cammino troviamo anche un'altra novità, aperta dal Papa nella "Amoris laetitia". Senza cambiare la normativa canonica generale, il papa ammette che possano esservi eccezioni riguardo all'assunzione da parte di questi divorziati di alcune cariche pubbliche ecclesiali. Il criterio è, come ho indicato prima, il cammino di crescita concreta della persona verso la guarigione. Lungo tutto questo percorso è bene ricordare che i sacramenti non sono soltanto una celebrazione puntuale, bensì un cammino: chi inizia a muoversi verso la penitenza si trova già in un processo sacramentale, non è escluso dalla struttura sacramentale della Chiesa, già riceve in un certo modo l'aiuto dei sacramenti. Di nuovo, l'importante è essere disponibili a lasciarsi trasformare da Gesù, anche se si sa che il cammino sarà lungo, e a lasciarsi accompagnare in questo cammino. Ciò che muove il pastore è il desiderio di introdurre la persona nella cultura del vincolo, offrendo una dimora al suo desiderio, affinché possa rigenerarsi secondo le parole del Signore. Il papa ci invita a intraprendere un percorso; questa è la chiave. La comunione eucaristica sarà nell'orizzonte finale e arriverà nel momento voluto da Dio, poiché è Lui che agisce nella vita dei battezzati, aiutandoli a rigenerare i loro desideri in conformità al Vangelo. Iniziamo passo per passo, aiutandoli a partecipare alla vita della Chiesa, finché raggiungano “la pienezza del piano di Dio in loro” (AL 297). Concludo. Nelle acque della postmodernità liquida, la Chiesa può offrire una speranza a tutte la famiglie e a tutta la società, come l'arca di Noè. Essa riconosce la debolezza e la necessità di conversione dei suoi membri. Appunto per questo è chiamata a mantenere, nel medesimo tempo, la concreta presenza in essa dell'amore di Gesù, vivo ed efficace nei sacramenti, che danno all'arca la sua struttura e dinamismo, facendola capace di solcare le acque. La chiave è sviluppare, e la sfida non è piccola, una “cultura ecclesiale della famiglia” che sia “cultura del vincolo sacramentale”. San Giovanni Crisostomo dice che l'arca di Noè si differenzia dalla Chiesa in un dettaglio importante. L'antica arca accolse nel suo seno gli animali irrazionali, "alogos", e li ha mantenuti sempre irrazionali. La Chiesa, invece, riceve anche l'uomo che, a causa del peccato, ha perso il Logos, la ragione, ed è pertanto "irrazionale", cammina senza la luce dell'amore. Ma precisamente perché la Chiesa ha l'ambiente vitale del corpo di Cristo, perché preserva l'armonia dei sacramenti, essa, a differenza dell'arca di Noè, è capace di rigenerare l'uomo, di conformare il cuore umano al Verbo (Logos) di Gesù. In essa gli uomini entrano "irrazionali" ed escono "razionali", cioè pronti a vivere secondo la luce di Cristo, secondo il suo amore che "tutto spera" e "che dura per sempre". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La scuola senza storia di Ernesto Galli della Loggia Il Concorsone Vige in Italia, per quel che riguarda l’istruzione scolastica, una singolare schizofrenia. Un giorno sì e l’altro pure tutto il mondo politico, dal presidente del Consiglio all’ultimo assessore, e al loro seguito i mass media all’unisono, sottolineano la sua assoluta importanza,la sua crucialità. Poi però sembra che in pratica i problemi dell’istruzione si riducano - oltre a qualche generico allarme per i risultati solitamente non brillantissimi ottenuti dagli studenti italiani nei confronti internazionali (vedi valutazioni Pisa) - a niente altro che all’immissione in ruolo delle decine di migliaia di aspiranti insegnanti. Cosa certo importante, ma forse non meno di qualcun’altra, circa la quale l’interesse è invece minimo. Per esempio il contenuto di molti programmi, e di conseguenza i valori diciamo così generali a cui l’insegnamento delle nostre scuole s’ispira e che cerca a sua volta di trasmettere. I tre quesiti di storia ai quali sono stati sottoposti i candidati del recente «concorsone», di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, consentono di farsi un’idea abbastanza precisa - sul versante della preparazione degli insegnanti - di quella che il ministero dell’Istruzione e i suoi funzionari considerano la prospettiva con la quale i giovani italiani devono essere invitati/addestrati a guardare al mondo. Nel primo di tali quesiti il candidato professore è invitato a progettare per una classe di scuola media la lettura di alcuni testi con relativi collegamenti tra i medesimi «sul tema del diverso, il profugo, l’estraneo». Nel secondo l’esaminando è chiamato a delineare lo schema di una lezione di due ore «sul tema della demografia»: così, sulla demografia in generale, senza alcuna indicazione di tempo e di luogo. Infine, il terzo quesito lo invita, sempre per la scuola media, a «progettare una unità didattica di due ore sulla Costituzione italiana». Questa è dunque l’idea della storia universale che ha nella testa il Miur e che viene indirettamente ma autorevolmente suggerita alla scuola italiana. Un’idea della storia che non sembra molto interessata a che un adolescente italiano, uscendo dal ciclo dell’istruzione obbligatoria, abbia qualche nozione, che so, di che cosa siano il Protestantesimo o l’Islam e di che cosa abbiano voluto dire le loro vicende, al fatto che egli sappia dell’esistenza di una Rivoluzione francese o di una cosa chiamata capitalismo, o che ci sia stata una Prima guerra mondiale - al Risorgimento o all’Unità d’Italia non oso neppur pensare. No, ai suoi insegnanti il ministero dell’Istruzione della Repubblica ai cui vertici, non bisogna mai dimenticarlo siede un sottosegretario democrat esaltatore a suo tempo del rilevante contributo educativo apportato alla sua formazione dalle occupazioni scolastiche - il ministero dell’Istruzione, dicevo, fa capire che altre sono le cose che contano e alle quali essi debbono soprattutto porre mente. Per l’appunto, al «diverso» nelle sue varie accezioni e alla Costituzione (anche se mi chiedo quale: quella «più bella del mondo» o quella in edizione Renzi?). Immagino il risultato nelle aule scolastiche. Quasi sempre, ci si può scommettere, il politicamente corretto più desolante, il più piatto conformismo buonista in obbedienza al vigente discorso pubblico ufficiale. È significativo infatti che nell’ottica del Miur non si invitino i futuri insegnanti a pensare a letture sulle migrazioni come grande fatto storico, sulle sue conseguenze nei secoli, ai giganteschi problemi connessi. Forse a qualcosa del genere si pensava anche, ma con questo taglio il discorso rischiava di risultare troppo spinoso, ed ecco allora che si preferisce parlare, invece, di letture sul «diverso, il profugo, l’estraneo». Insomma, le tragedie del mondo vengono espulse dalla storia e dalla sua dura realtà (e si pensi che si tratta di quesiti per la classe di concorso di storia!) per venire cloroformizzate dalle tranquillanti disquisizioni della sociologia edificante, dai fervorini etno-antropologici intrisi di buoni sentimenti. Consegnate al tema del «profugo» e dell’«estraneo», appunto: mentre la demografia è chiamata a conferire al tutto un opportuno tocco di scientificità. Anche l’idea di fare della Costituzione, tra tutti gli argomenti possibili, l’oggetto di un quesito per una prova di storia obbedisce alla medesima volontà di una destoricizzazione di fatto della scena contemporanea. In questo caso a vantaggio di un approccio non più sociologico ma di tipo giuridico astrattamente prescrittivo ed evocando uno strumento, la Costituzione, anche in questo caso, come si sa, carissimo al più bolso discorso pubblico ufficiale. Impossibile comunque non collegare i due quesiti, e non leggerli come l’implicita affermazione di un presunto obbligo costituzionale all’accoglienza del «profugo», dell’«estraneo», eccetera eccetera. È con questi criteri interamente schiacciati sul presente, su un’immediata contemporaneità declinata eticamente, è con questa idea di storia che con la storia in verità non ha più quasi nulla a che fare, che i nuovi insegnanti e per loro tramite i giovani italiani dovrebbero addestrarsi a stare nella loro epoca. Cioè ad affrontare un futuro di cui ignorano ogni passato, armati di una benevola sociologia, di appropriate nozioni demografiche, e naturalmente di sani principi costituzionali. Con tali premesse bisogna solo augurarsi che riescano a uscirne vivi. Pag 5 Unioni civili, che cosa cambia? di Alessandra Arachi e Luigi Ferrarella Welfare, decreti attuativi e rito. “Bigamia” consentita e altri vuoti del testo Nella legge sulle unioni civili c’è una seconda parte tutta dedicata alle convivenze, sia omosessuali sia eterosessuali. È una legge che l’Italia aspetta da ventotto anni e che per la prima volta vedrà la luce oggi (al più tardi domani, se non si fa in tempo per il voto finale). Questa seconda parte della legge prevede che le convivenze registrate abbiano molti diritti simili a quelli del matrimonio: parliamo dell’assistenza in carcere, ma anche l’assistenza per la malattia e, inoltre, che il convivente sia il rappresentante con pieni poteri rispetto alla malattia e alla morte. È previsto anche il subentro dell’affitto e quello agli alloggi popolari. Sono invece esclusi i diritti di tipo patrimoniale e previdenziale, come la pensione di reversibilità e la successione. Diritti che sono previsti invece nella normativa per le unioni civili omosessuali che hanno molti punti in comune con il matrimonio, con l’eccezione della possibilità di adottare in generale e anche la possibilità di adottare il figlio biologico del partner, la cosiddetta stepchild adoption, stralciata in Senato alla fine dell’iter. Nell’ultima versione della legge è stato tolto dal testo anche l’obbligo di fedeltà, che è previsto invece tra i coniugi. La legge sulle unioni civili verrà applicata grazie ad alcuni decreti attuativi proposti dal ministro della Giustizia di concerto con - tra gli altri - i ministri dell’Interno e degli Esteri. Le unioni civili per coppie omosessuali sono un istituto giuridico del tutto nuovo e avranno bisogno di indicazioni per gli ufficiali dell’anagrafe circa le iscrizioni, le trascrizioni, le annotazioni. Si dovranno stabilire anche cose pratiche e quotidiane come, ad esempio, dove decidere di celebrare le unioni civili nel Comune: nella stessa sala dei matrimoni? E con quale rito? Il sindaco, o chi per lui, dovrà indossare la fascia tricolore? Altre questioni saranno legate al diritto internazionale: come e dove si dovranno trascrivere le cerimonie già celebrate all’estero? In ballo anche la questione dei cognomi: a differenza del matrimonio, una coppia che si unisce civilmente ha la possibilità di scegliere se unire il cognome, aggiungerlo, invertirlo. La legge dà fino a sei mesi di tempo per scrivere i decreti attuativi, e poi altri due alle Camere per valutarli: se quest’ultimo termine non verrà rispettato, la legge sarà operativa. Entreranno comunque in vigore norme transitorie con un decreto del presidente del Consiglio entro 30 giorni. Quando verrà approvata la legge sulle unioni civili non sarà possibile per un sindaco non celebrare nel suo comune questo nuovo istituto giuridico. La legge, infatti, non ammette obiezione di coscienza, come forse avrebbe voluto il candidato sindaco a Roma Alfio Marchini, sostenuto anche da Forza Italia. Nella nuova legge, infatti, il sindaco è obbligato a celebrare le unioni civili o, in subordine, a delegare qualcuno per suo conto come succede anche per i matrimoni, in comuni grandi come Roma o Milano. Se ci si rifiuta si incappa nel codice penale con il reato di omissione di atti d’ufficio ma, soprattutto, si va incontro al commissariamento. La legge è molto chiara: se il primo cittadino non vuole che nel proprio comune vengano unite civilmente coppie omosessuali, in quel comune verrà inviato un commissario ad acta. Sono già molte le coppie omosessuali pronte ad aspettare l’approvazione della legge per potersi unire civilmente, le prime sono quelle più anziane, coppie che stanno insieme anche da quarant’anni. L’Istat stima che in Italia le coppie omosessuali siano circa 200 mila, ma secondo le associazioni gay questo è un dato molto sottostimato per via del sommerso e le coppie sarebbero almeno un milione. E gli effetti collaterali nel penale della nuova legge sulle unioni civili? Amnesia. Con esiti paradossali, nella corsa del governo a blindare il voto con la fiducia. Il testo Cirinnà, infatti, premette che le disposizioni che contengono la parola «coniuge» si applicano «anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile». Il riflesso più evidente è sull’omicidio, la cui pena base 21-24 anni sale a 24-30 anni se si uccide il coniuge: ma poiché l’omicidio non è certo norma a rafforzamento «degli obblighi derivanti dall’unione civile», l’aggravante non potrà pesare su assassini legati da unioni civili alla persona assassinata, mentre continuerà a valere per mariti e mogli. Stesso schema nei sequestri di persona: quando il pm blocca i beni utilizzabili dal coniuge per pagare il riscatto, il blocco non potrebbe essere imposto al coniuge legato da unione civile con il rapito. Curiosa anche la situazione dell’abuso d’ufficio commesso da pubblici ufficiali che non si astengano in presenza di un interesse di un prossimo congiunto come il coniuge: continuerà a essere reato per mariti e mogli, ma non potrà incriminare i partner di una unione civile. Idem la «bigamia», che finirebbe per non avere rilevanza penale in relazione alle unioni civili tra lo stesso sesso, mentre la manterrebbe solo tra coniugi uomo e donna. Discriminazioni al contrario, cioè più sfavorevoli per le unioni civili, parrebbero crearsi per tutta una serie di condizioni che il codice continuerebbe a concedere solo a marito e moglie: la non punibilità per chi fa falsa testimonianza, mente al pm o compie favoreggiamento personale del prossimo congiunto; la non punibilità di chi a favore di un prossimo congiunto commette reato di assistenza ai partecipi di associazioni per delinquere o con finalità di terrorismo; la non punibilità del furto o della truffa ai danni del partner non legalmente separato. E qualche paradosso si creerebbe anche nei tribunali, dove oggi un giudice deve astenersi se il coniuge fa il pm o è persona offesa dal reato: sbarramenti che non varrebbero per partner dello stesso sesso legati da unioni civili. Il fatto poi che «l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione» sia stabilito dalla nuova legge solo per le unioni civili e non anche per le convivenze di fatto, discriminerà i partner della prima categoria che, diversamente da quelli della seconda, nel penale rischieranno l’accusa di omicidio o lesioni personali per l’eventuale medesima condotta di «mancata prestazione di cure o di alimentazione». A questa montagna di effetti indiretti c’è alla Camera un solo cenno nel parere del «Comitato per la legislazione» il 12 aprile sul solo tema dell’omicidio aggravato. Come rimediare se oggi la fiducia impedirà correttivi? Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di Milano, arrivato in uno studio per penalecontemporaneo.it a contare 29 effetti penalistici «indiretti e inconsapevoli» delle nuove norme, indica come ultimo treno forse «il decreto delegato di coordinamento che il Governo dovrà adottare entro 6 mesi sulle unioni civili. Ma sulle convivenze di fatto manca un’analoga delega legislativa». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Mestre, la città più colpita dalla crisi. In centro un negozio su 5 è chiuso di Gloria Bertasi Vetrine con le ruote, traslochi di pochi metri per risparmiare affitto Mestre. Sulle vetrine impolverate dell’ex agenzia viaggi di via Caneve si intravedono ancora i poster ingialliti di spiagge circondate da palme e mari trasparenti e di capitali europee piene di vita. Sotto la torre di Mestre, sulle vetrine di Quadrelli ci sono ancora i manifesti degli sconti, «per cessata attività» e sono identici a quelli affissi al Donatello Outlet di piazzale Candiani che ha annunciato di voler chiudere l’attività. In calle del Sale sulle vetrine oscurate dell’ex boutique Pane e Miele c’è invece la comunicazione: «Ci siamo trasferiti in via Rosa». Non c’è via del centro città senza vetrine oscurate e cartelli «affittasi» e «vendesi» e il problema riguarda oltre il 21 per cento dei negozi. Mestre è la città veneta più colpita dalla crisi e quella in cui la ripresa fatica a farsi sentire, a parte qualche timido segnale. Abbiamo mappato il centro di Mestre via per via, vetrina per vetrina per capire i numeri di una situazione diventata «normale», ma che di normale non ha niente: 622 locali tra piazza Barche e riviera XX settembre, da via Palazzo a via Carducci e 132 sono chiusi. Persino in piazza Ferretto ci sono 8 negozi vuoti su un totale di 57 e brand come Furla e Mandarina Duck hanno rinunciato ad avere una vetrina nel cuore della città. Non è chi parte, ma anche chi arriva a dare il segno del grado di attrazione di una piazza: a breve aprirà Dentix, catena spagnola di dentisti low cost che ha già restaurato gli spazi tra Golden lady e Clarks’. Nel resto del centro la situazione migliora o peggiora a seconda dell’area, del lato di via, della stagione. In via Caneve i negozi chiusi sono 8 su 31 (1 su quattro), in via Manin 7 su 35 (uno su cinque), in riviera XX Settembre si arriva a 9 su 30 (poco più di uno su tre). Ci sono anche le eccezioni, positive e negative. Come via Fapanni dove solo una vetrina è spenta o calle Barcella dove un locale su due è senza gestione e dove c’è un solo negozio aperto nel tratto di Galleria. «Gli affitti sono troppo alti», protestano i negozianti. In piazza e nelle vie adiacenti, le locazioni vanno dai 3.500 euro al mese ai 7 mila a seconda della dimensione. Gli spazi vuoti di calle Barcella oscillano tra i 4 mila e un massimo di 6 mila euro, che è quanto viene chiesto anche in corte Legrenzi, che è stata in questi anni il cuore dei negozi di qualità, ma ora vede molte vetrine vuote. Non tutto il centro è così caro e si vede. In via Rosa e via Carducci dove i proprietari hanno accordato contratti, almeno durante l’avvio dell’attività, più vantaggiosi, c’è un via via di nuovi arrivi. Ma non basta. Da anni, le associazioni di categoria chiedono agli amministratori un sostegno al commercio locale e in alcuni casi (via Poerio, piazzale Donatori di sangue, via Rosa e l’asse della vicina riviera) i progetti di riqualificazione sono stati finanziati con fondi statali. Durante il periodo di commissariamento del Comune, però, la città ha perso fondi europei stanziati con bandi regionali che, a Padova e Treviso, hanno finanziato azioni e interventi a sostegno del commercio, come l’esenzione dalla tassa per occupazione di suolo pubblico in zone degradate o in cambio dell’organizzazioni di iniziative e manifestazioni pubbliche. Sempre Treviso è arrivata prima nella distribuzione di contributi per un progetto di distretto in cui l’amministrazione agevola e favorisce l’occupazione di immobili vuoti. A breve saranno pubblicati i bandi europei per progetti che mettono insieme pubblico e privato nel tentativo di ridare vitalità ai centri città, tutelando attività storiche e di vicinato. Pubblico e privato significa sinergia e collaborazione tra Comune e imprenditori. Mestre. La boutique «Franca» a inizio anno, da via Caneve si è spostata in via Cesare Battisti. Il negozio di caramelle e cioccolatini ha lasciato via Torre Belfredo per via Caneve, i tatuatori di via Paruta arriveranno a breve in via Manin, i vestiti di «Pane e Miele» hanno detto addio alla bottega storica di calle del Sale a favore di via Rosa dove si è spostato anche il panettiere da gourmet di calle Legrenzi, che non ha mai avuto problemi di clientela ma pagava un affitto, a sua detta, troppo elevato. Negozi con le ruote. E’ il fenomeno di questi mesi: commercianti alla ricerca di affitti inferiori senza lasciare il centro, grazie anche alla vasta offerta che c’è. Il panificio, ad esempio, non nasconde ai clienti che oggi risparmia mille euro al mese nel nuovo punto vendita. Il rovescio della medaglia di questo fenomeno dei negozi che traslocano in spazi magari più piccoli e più periferici rispetto a piazza Ferretto per risparmiare sulla locazione, sono le vetrine vuote in alcune vie pedonali più pregiate . Pochi rischiano di avviare una nuova società in un momento di crisi dei consumi e, quando gli affitti sono alle stelle, per chi chiude non c’è più un nuovo investitore. L’altra conseguenza dei traslochi dell’ultimo periodo è il fatto che stanno ridisegnando la passeggiata dello shopping mestrino. Da quando via Rosa è stata pedonalizzata e riqualificata, hanno aperto cinque nuove attività e in via Carducci, sul lato del colonnato tra villa Erizzo e via Cappuccina non c’è più una vetrina con l’insegna «affittasi». Tutto merito di contratti migliori di affitto. Un cambio nell’altra metà del mercato (quello dei proprietari dei muri) destinato a reggere? Nessuno fa scommesse, anche perché sulla carta nel cuore di Mestre nei prossimi dieci anni potrebbero arrivare decine e decine di nuovi spazi disponibili. Sono quello del museo M9 (tempo previsto due anni) quelli dell’area dell’ex Umberto I (nessun tempo previsto) e quelli dell’ex cinema Excelsior (idem). Il timore di qualcuno è che restino cattedrali nel deserto o spostino gli assi degli acquisti. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXI Nel centro islamico non si potrà pregare di Giuseppe Babbo Jesolo, lo ribadisce ai fedeli il sindaco Zoggia: “Potranno solo fare incontri culturali, eseguiremo controlli” «Nel centro culturale non potranno pregare: non è un luogo di culto». Lo precisa il sindaco Valerio Zoggia che, dopo la diffida inviata dal Comune all'associazione "Incontro" del Bangladesh, chiarisce il futuro del centro culturale di via Aquileia. Un immobile preso in affitto dai fedeli islamici, nelle ultime settimane finito al centro di aspre polemiche. Il punto è che non potrà trasformarsi in moschea. A stabilirlo è la differente destinazione urbanistica che prevede l'uso per scopi culturali e scolastici, ma anche la recente normativa regionale i cui effetti potrebbero farsi sentire per la prima volta proprio a Jesolo. In caso di violazioni delle regole il Comune è pronto a fare tutti i controlli del caso, comprese le relative segnalazioni alle autorità competenti. «Attualmente è in corso l'iter per sanare alcuni abusi riscontrati all'interno dell'immobile - sottolinea il sindaco poi potrà essere richiesta l'agibilità, che sarà valida solo come centro culturale al cui interno si potrà discutere o fare incontri, ma non pregare perché questo non è un luogo di culto. Ad impedirlo è anche la nuova legge regionale, che stabilisce come gli stessi luoghi di culto debbano sorgere nelle aree ’F’, vale a dire nelle zone di servizio fuori dai centri urbani». Per questo, quando verrà rilasciata l'agibilità, non mancheranno i controlli per accertare il tipo di attività che verrà condotta all'interno del fabbricato. «Se pregheranno lo segnaleremo alle autorità - conclude Zoggia - controlli a parte, sono gli stessi cittadini, come accade per tante altre circostanze, a presentare segnalazioni». A chiedere che venga verificata l'attività svolta nel centro è anche la Lega Nord con Alberto Carli e Giorgio Pomiato: «Se vogliono creare un polo di preghiera - ribadiscono - lo facciano rispettando la legge e non usando sotterfugi». A promettere battaglia è però Salvatore Esposito di Sinistra e Libertà: «Con il nostro legale stiamo valutando la legittimità delle sanzioni e se contestare la legge regionale, anche presentando un eventuale risarcimento danni. Nei prossimi giorni organizzeremo una manifestazione in piazza Mazzini». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Da Belluno all’esercito dell’Isis. “Pagato 200 dollari al mese. Vivo solo, è difficile tornare” di Andrea Priante L’annuncio di Ismar: «Per me è giunto il momento. È Dio che ci dice di combattere il Jihad». Munifer che dalla Siria scrive alla sorella e le racconta: «Prendo 200 dollari al mese. Non pago l’affitto, né la corrente elettrica, solo il cibo…». Voci dall’inferno. Intercettazioni, interrogatori, che raccontano la vita dei tagliagole partiti da Belluno per arruolarsi nell’Isis. Sono le carte dell’inchiesta «Borac», coordinata dal capo dell’antiterrorismo di Venezia, Adelchi d’Ippolito, e dalla sua sostituta Francesca Crupi, e portata avanti per oltre due anni dai carabinieri del Ros di Padova, diretti dal comandante Elvio Labagnara. Il bilancio è di due persone arrestate («il reclutatore» di Azzano Decimo, Ajhan Veapi, e «l’addestratore» sloveno Rok Zavbi), diversi espulsi, una richiesta di estradizione per l’imam del terrore Husein «Bilal» Bosnic, e un mandato di arresto per Munifer Karamaleski, l’unico dei due foreign fighter partiti dalle Dolomiti che ancora combatte in Siria. Il suo amico di Longarone, Ismar Mesinovic, è stato ucciso a fine dicembre 2013 in un’imboscata. E l’inchiesta è partita proprio dalla morte dell’imbianchino, che in Medio Oriente era arrivato portandosi dietro il figlioletto di due anni, Ismail, costretto a crescere in un teatro di guerra, probabilmente affidato alle cure della famiglia di un mujaheddin bosniaco. L’ordinanza con la quale il gip Alberto Scaramuzza ordina l’arresto di Karamaleski (nell’improbabile eventualità che dovesse tornare dal fronte) non si limita a ricostruire come la cellula dell’Isis si è mossa in Veneto per reclutare aspiranti jihadisti, ma svela l’aspetto più umano di quei ragazzi travolti dal carisma e dalle promesse di un imam fanatico. La moglie di Ismar Mesinovic racconta che, all’inizio del loro rapporto, suo marito «era di religione musulmana ma di orientamento moderato», tant’è vero che fumava, beveva alcolici e andava in discoteca. La svolta arrivò nel 2009, quando conobbe Karamaleski e altri componenti della comunità islamica di Ponte nelle Alpi. «Iniziò a studiare e a praticare con maggiore assiduità la religione». Si fece crescere la barba e, nel luglio del 2012, arrivò a proporle di trasferirsi «in un villaggio dove le donne indossavano il burqa, vivevano separate dagli uomini e dove non c’è la tv e tutto ciò che è riconducibile allo stile di vita occidentale». Trascorreva ore davanti al computer. «Si metteva la cuffie e ascoltava le prediche degli imam». Nell’inverno del 2012 le chiese cosa avrebbe fatto se lui fosse partito in guerra e lei cercò di distrarlo, dicendogli che non ci aveva mai pensato «perché aveva una famiglia». Quando non era incollato al pc, passava il tempo a pregare con il suo gruppetto di amici. Nel 2012, Ismar e Munifer conobbero Adjian Veapi, uno dei referenti del centro islamico di Pordenone, arrestato poche settimane fa. Fu lui a presentargli ufficialmente una star della predicazione via internet: l’imam Bilal Bosnic. Lo incontrarono nella moschea di Pordenone e poi Mesinovic andò fino in Bosnia. «Ci andò più volte, anche a fine ottobre 2013; una volta addirittura ospite di Bosnic per una settimana intera con il figlio Ismail,in occasione della festa del sacrificio dell’agnello», racconta un amico bellunese. Anche lui, per un certo periodo, era incerto se partire per la Siria, ma alla fine decise di non farlo e la sua testimonianza è risultata molto utile agli investigatori. «Dopo tutti questi incontri Ismar mi confidò: “Per me è arrivato il momento!” riferendosi al fatto che ora poteva partire per combattere, esaudendo il sogno della sua vita». Poi, quella frase risoluta: «È Dio che ci dice di combattere il Jihad». Bosnic aveva portato a termine la sua missione: convincere altri musulmani a raggiungere lo Stato Islamico. A Mesinovic e Karamaleski non restava che sistemare le ultime cose e acquistare ciò che gli avevano ordinato di portare al fronte: un drone, un visore notturno e un furgone. Ismar mostrava la cartina con il percorso del viaggio da fare assieme a Munifer: «Sarebbero dovuti passare per la Macedonia, Bulgaria, Turchia e Siria, dovendo pagare al confine turco un soggetto bosniaco che, per circa 700 dollari, li condusse nel villaggio dove dovevano essere dislocati». Nel frattempo, era apparso lo sloveno Rok Zavbi (arrestato venerdì a Lubiana), un ex combattente che l’imam del terrore aveva inviato a Belluno. A casa di Ismar si presentò nel novembre 2013 - a poche settimane dalla partenza - con una pistola Beretta e una miriade di racconti dal fronte. «Doveva dare entusiasmo al gruppo - racconta l’amico - spiegare come funzionano logisticamente le cose in quei territori e come raggiungerli». Il magistrato le definisce «lezioni fornite ai due futuri foreign fighters dal reduce combattente». Ismar e Munifer erano molto impauriti, Zavbi tentò di rincuorarli. Anche mentendo. «Garantiva che le donne e i bambini stavano lontani dalle zone di guerra... raccontava aneddoti divertenti, diceva che dove erano stati destinati erano assolutamente sicuri... Ci riferiva che sul posto si sarebbero trovate diverse armi di provenienza russa, Kalashnikov, altre mitragliatrici di tutte le dimensioni». A Belluno lo sloveno tornò nel gennaio 2014, dopo che i due amici erano giunti in Siria e Ismar era stato ammazzato quasi subito. Si presentò nel negozio di kebab in cui lavora la sorella di Karamaleski («Era vestito con una tuta da lavoro sporca e portava una barba media con i baffi rasati», racconta la ragazza) per ritirare 2.700 euro «da destinare alla tutela della famiglia del Munifer in caso di un suo prevedibile decesso in battaglia». Se ne andò e con lui sparirono anche i soldi, mai consegnati al bellunese. È l’ultima beffa per quell’operaio di Chies d’Alpago che, dopo aver portato nell’Isis anche moglie e figli, ha scoperto che la situazione era molto diversa da quella che gli era stata prospettata. Una foto lo mostra ferito a una mano, proprio nei giorni del suo arrivo. Per questo, almeno inizialmente, è stato assegnato alla vigilanza del ghanima, il deposito del bottino di guerra. Le intercettazioni sono pennellate d’inferno. La madre che gli chiede come va, lui che risponde «Tutto bene, anche i bimbi... Lavoro un po’, studio un po’». Lei è disperata: «Devi tornare a casa! La nonna sta male, è in ospedale, vieni qui!». «È difficile, è difficile... Papà come sta?». Infine, proprio suo padre: «Figlio mio, guarda... qualsiasi cosa sia... qualsiasi cosa tu faccia, torna! Ti prego, ti supplico...». A un amico spiega di trovarsi ad «Al-Busra (circa 500 chilometri da Aleppo, ndr ), è una città enorme» e nel giugno 2014, chattando con la sorella, dice: «Sono solo, i bambini sono a casa, io in città. Noi stiamo bene. Prendo 200 dollari al mese. E ci bastano». LA NUOVA Pag 1 Autonomia, voto storico per il Veneto di Mario Bertolissi Sulla carta e non solo, pare proprio che aspirare ad una maggiore autonomia sia irrealistico o quasi. È un’opinione diffusa sia tra quanti la osteggiano sia la auspicano sia ritengono che l’obiettivo vero debba essere l’indipendenza del Veneto. Ma eventi non lontani da noi ci ricordano che, proprio quando la soluzione opposta a quella desiderata sembra la più salda, nel breve periodo essa crolla. Perché era salda in apparenza, non nella realtà. Si pensi, per limitarsi ad un unico esempio, al crollo del Muro di Berlino. C’era chi in Italia, poco prima, aveva creduto nell’inevitabile abbraccio tra masse comuniste e masse cattoliche, visto che le sinistre (dure e pure) avrebbero inevitabilmente trionfato. È avvenuto l’esatto contrario. Come può accadere che lo Stato italiano, centralista per definizione, proprio quando si prepara a completare il varo di una riforma costituzionale che lo rafforza, si avveda della propria congenita debolezza e si convinca che è saggio dare spazio a chi lo può alleggerire da responsabilità. Il potere, nel tempo delle crisi, è essenzialmente responsabilità, che prima o poi si pagano. È una premessa opportuna, che aiuta a comprendere quale è la rilevanza politico-istituzionale della partita che si è aperta tra lo Stato e la Regione Veneto. Entrambi sono enti di eguale dignità, che “costituiscono” la Repubblica. La quale rappresenta il più vasto e articolato insieme di soggetti, cui è chiesto “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (si esprimono così, nell’ordine, gli articoli 114 e 2 della Costituzione). Di fronte stanno, dunque, l’uno e il molteplice; l’autorità e la libertà; l’imperatività e l’autonomia. Da un lato, l’interesse nazionale; dall’altro, l’interesse regionale: l’interesse di tutti e l’interesse di una parte degli italiani. Parrebbe un contrasto radicalmente insanabile, se ci si limitasse a riscontri testuali e formali, conditi di costituzionalismo giacobino, che ignora la dialettica: il confronto tra idee. Atteggiamento, quest’ultimo, che è reso esplicito da quanti ritengono la consultazione referendaria sull’autonomia fonte di uno spreco inutile di risorse, tanto più dannoso ora che imperversa una crisi economica e finanziaria di eccezionale gravità. Ma, se si prescinde dalle motivazioni politiche che possono aver ispirato ed ispirano questa critica e si guarda alla storia ormai non breve della Repubblica - tutto è cominciato il 1° gennaio del 1948 - e ci si chiede: quale è il suo stato di salute? si è costretti ad ammettere che la Repubblica è una malata grave. E che lo è anche perché ha evitato di effettuare “controlli” circa la sua forza e la sua debolezza. Ha evitato di rivolgersi agli elettori, utilizzando gli strumenti di democrazia diretta, per conoscere i loro pensieri e le loro attese. Anche per questo la politica è delegittimata e le istituzioni lo sono altrettanto. È necessario chiarire, quindi, quale è il significato profondo, oggettivamente proprio, del referendum consultivo, che verosimilmente si celebrerà nel prossimo autunno. Certo, il quesito e la data possono essere un problema, dal momento che i punti di vista di Stato e Regione, come accade il più delle volte, non coincidono. Tuttavia, il dato su cui riflettere è il seguente: dopo ripetute richieste in passato respinte, finalmente la Regione Veneto potrà rivolgersi ai cittadini-elettori, porre loro una domanda e conoscere il loro orientamento. Per i superficiali è una banalità. Per chi non lo è ed è stato, comunque, protagonista di tutti e tre i giudizi svoltisi dinanzi alla Corte costituzionale - ho rappresentato e difeso la Regione Veneto nel 1992, nel 2000 e nel 2015 - la vicenda assume un “tono istituzionale” di innegabile rilievo. È un’opportunità, riconosciuta dal Giudice delle leggi, che non va sprecata, perché sarebbe un danno per tutti. Lo si comprende se si leggono, con la dovuta attenzione, le tre sentenze, che offrono le coordinate essenziali per capire. a)Con la sentenza 24 novembre 1992, n. 470, la Corte costituzionale ha escluso che la Regione Veneto potesse chiedere ai propri cittadini-elettori se fossero favorevoli o no ad una maggiore autonomia perché “un referendum consultivo … - per quanto sprovvisto di efficacia vincolante - non può non esercitare la sua influenza, di indirizzo e di orientamento, oltre che nei confronti del potere di iniziativa spettante al Consiglio regionale, anche nei confronti delle successive fasi del procedimento di formazione della legge statale, fino a condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva competenza di organi centrali dello Stato”. Commentando quella pronuncia, si è scritto di una “solitudine” del Parlamento nella decisione della forma dell’unità nazionale (M. Dogliani e F. Cassella). L’idea di fondo, sottostante, è che “nei referendum c’è come ‘un’apparizione di potere costituente’” (così, M. Ainis, nel riprendere un’opinione di C. Mezzanotte). b)Con la sentenza 14 novembre 2000, n. 496, la Corte è stata ancor più drastica. Ha concluso, infatti, affermando come “l’iniziativa revisionale della Regione, pur formalmente ascrivibile al Consiglio regionale, appaia nella sostanza poco più che un involucro nel quale la volontà del corpo elettorale viene raccolta e orientata contro la Costituzione vigente, ponendone in discussione le stesse basi di consenso. Ed è appunto ciò che non può essere permesso al corpo elettorale regionale”. Quel che veniva chiesto non era l’indipendenza del Veneto, ma che ad esso fossero accordate - come oggi si chiede “forme e condizioni particolari di autonomia”, ai sensi dell’articolo 116, da stabilire allora con legge costituzionale. Tutto il contrario di un atto eversivo, considerato comunque tale, perché l’iniziativa aveva di mira l’attivazione di un referendum consultivo. Si parlò in senso critico, rispetto a quanto sostenuto dalla Corte, di referendum consultivo quale “strumento di dialogo democratico”, negato dalla sentenza n. 496/2000, da ritenere “il prodotto di un approccio reazionario alle problematiche del regionalismo” (G. Bognetti). c)Questi erano i principi, con i quali ci si è dovuti misurare nel corso dell’udienza pubblica del 28 aprile 2015, che la Corte costituzionale ha superato, ignorandoli, con la sentenza 25 giugno 2015, n. 118. Il referendum consultivo è stato reputato non lesivo, sul piano formale, di alcun precetto costituzionale né in contrasto, sul piano sostanziale, con prerogative dello Stato riguardanti l’indirizzo politico. Con la conseguenza, che la Regione Veneto può ora chiedere ai propri cittadini-elettori se sono favorevoli o no all’ottenimento di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, da accordare con legge non costituzionale, ai sensi dell’articolo 116, 3° comma, della Costituzione ancora vigente. Poca cosa, dirà ancora qualcuno. Invece, il cambio di rotta è drastico. Concettualmente, una piccola rivoluzione. Per la prima volta, la Corte dà spazio alla dialettica democratica, che si radica sul principio del pluralismo autonomistico, destinato a tradursi in scelte concrete e puntuali mediante il ricorso al negoziato. Di esso hanno parlato Riccardo Illy e Luca Zaia (su questo giornale, rispettivamente il 7 e l’8 maggio). Il primo, in nome di un’esperienza conclusa. Il secondo, di una soltanto avviata. L’ex Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia ha potuto valorizzare, tra l’altro, le prerogative del regionalismo speciale e i meriti acquisiti con la ricostruzione post terremoto del 1976. Buone leggi, una buona amministrazione, buone prassi, frutto di costumi consolidati nel tempo. Il negoziato non aveva alle spalle alcun pronunciamento del corpo referendario regionale. Gli esiti sono stati positivi. Il Presidente in carica della Regione Veneto può far valere i risultati conseguiti, che non vanno mai confrontati con un modello ideale, ma con quello che altri fa nelle stesse o in analoghe condizioni. Dalla sua avrà un responso popolare, che corrisponderà a un sì o a un no, coerente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 118/2015. Che il quesito sia, alla lettera, quello relativo alle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” oppure più circostanziato, poco importa a mio parere. In entrambi i casi il messaggio è identico: si aspira a qualcosa di cui si sente bisogno e di cui si renderà conto. Ecco, quest’ultimo inciso è quello che dovrebbe fare la differenza ed essere condiviso dalle nuove generazioni, vere destinatarie di ogni innovazione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La riforma non è perfetta ma i suoi nemici hanno torto di Angelo Panebianco Sarà l’ennesima, tristissima, dimostrazione di quanto possa scadere il dibattito pubblico nei momenti in cui il conflitto raggiunge la massima intensità. Se così non fosse, potremmo fin d’ora divertirci pensando alle scenette involontariamente comiche a cui assisteremo durante la campagna per il referendum costituzionale di ottobre. Come quella in cui qualche nemico della riforma, travolto da insana passione politica, accuserà il Presidente emerito, Giorgio Napolitano, di tradimento della Costituzione,di essere complice del«progetto autoritario» concepito dal perfido Erdogan-Renzi. Nell’intervista al Corriere del 3 maggio, Napolitano ha detto il vero. Se la riforma del Senato non passerà, quella sarà la fine di ogni speranza di rinnovamento della democrazia italiana. Napolitano ha ricordato i tentativi passati, sempre falliti, per fare dell’Italia una vera democrazia governante. Ha anche osservato che l’eterogenea coalizione che dice «no» alla riforma è composta da tre gruppi. C’è il gruppo dei contrari, sempre e comunque, a toccare la Costituzione, quelli per cui (persino) il «bicameralismo paritetico» (due Camere con uguali poteri) è una componente imprescindibile della democrazia. C’è poi il gruppo di quelli a cui non importa molto della Costituzione, quelli che vogliono «fare fuori» Renzi. Il terzo gruppo, infine, è composto dai perfezionisti, quelli favorevoli, in linea di principio, a riformare la Costituzione ma la cui contrarietà dipende dall’esistenza di sbavature e difetti vari del testo approvato dal Parlamento. Con i primi due gruppi, che chiameremo gli «irriducibili», è inutile discutere. Non possono essere convinti (oltre a tutto, come vedremo, sono tenuti insieme non solo da ragioni ideali ma anche da interessi politici e corporativi). Si può solo mostrare al pubblico la debolezza di molte delle loro argomentazioni. Il gruppo con cui vale la pena di discutere è quello dei perfezionisti, ostili alla riforma a causa di certi suoi difetti attinenti alla composizione del Senato (come la presenza di una quota di sindaci) e ad alcune delle previste competenze. Sono anche gli unici sinceramente interessati a confrontarsi pacatamente (come ha fatto Valerio Onida sul Corriere di ieri). Ai perfezionisti occorre dire che, sì, la riforma ha qualche difetto ma che questo è inevitabile, si verifica sempre quando un «comitato» in cui sono presenti tante teste e tante sensibilità diverse (un Parlamento è proprio questo) deve deliberare su un provvedimento complesso. Le mediazioni parlamentari, inevitabilmente, «sporcano», almeno un po’, qualsiasi progetto, anche quello che in origine sembrava ottimo, perfetto. L’unica possibilità alternativa alle mediazioni parlamentari (con i loro tira e molla e i compromessi necessari per formare una maggioranza) è una riforma imposta dall’alto, dal De Gaulle di turno, e confezionata per lui da un consigliere di fiducia. Se si preferisce la prima soluzione (e penso che siamo d’accordo nel preferirla), quella della mediazione parlamentare, della decisione collettiva assunta da un comitato, allora bisogna rassegnarsi alle imperfezioni. Solo una leggenda ha fatto credere ad alcuni che la stessa sorte non fosse toccata alla Costituzione vigente quando venne confezionata dall’apposito comitato (la Costituente). Sabino Cassese ( Corriere del 6 maggio) ha mostrato la debolezza degli argomenti dei contrari alla riforma del Senato. Non c’è nessuna «democrazia autoritaria» alle porte. Il governo sarà un po’ più forte (e un po’ più stabile ed efficiente) ma continuerà ad essere bilanciato da contropoteri che esistono oggi ma non esistevano agli albori della Repubblica: le istituzioni europee, la Corte costituzionale, le Regioni. Si rimedierà però a due gravi errori: il bicameralismo paritetico, appunto, che ha reso sempre debole e incerta la navigazione dei governi, e gli effetti della sciagurata riforma del Titolo V che spostò dal governo centrale alle Regioni poteri e competenze che non avrebbero mai dovuto prendere quella strada e che mise i governi nella impossibilità di attuare politiche nazionali in alcuni ambiti cruciali. Piuttosto, è giusto ricordare, come ha fatto Antonio Polito sul Corriere del 9 maggio, che la riforma del Senato è strettamente collegata alla legge elettorale (Italicum). Chi vota (in un senso o nell’altro) sul Senato vota anche, di fatto, su quella legge. Ci sono interessi, politici e corporativi, che, motivi ideali a parte, alimentano la «coalizione del no». In primo luogo, sono ostili diverse Regioni le quali preferiscono di gran lunga tenersi poteri e competenze regalate loro dalla riforma del Titolo V, fonti di tante «insane» politiche clientelari, piuttosto che puntare su quell’influenza sana, pulita, che il costituendo Senato delle Regioni consentirebbe loro di esercitare in difesa dei rispettivi territori. Poi ci sono alcuni settori della magistratura (Magistratura democratica fa parte del comitati per il no, e diversi magistrati stanno facendo campagna contro la riforma). Verosimilmente, temono il rafforzamento del governo, temono che, per effetto di quel rafforzamento, la loro posizione di preminenza entro il sistema politico possa, col tempo, indebolirsi. Ci sono poi gli interessi politicopartitici, quelli dei nemici di Renzi, interni al suo partito ed esterni, di coloro che vogliono affossare la riforma per sbarazzarsi del premier. Nulla da eccepire: è la politica, bellezza. Si può solo concordare con Il Foglio quando rileva una stranezza: Silvio Berlusconi (che ha appena ribadito la sua contrarietà alla riforma) si ritrova ora alleato dei propri storici nemici, di una coalizione che usa contro Renzi gli stessi argomenti che per venti anni ha usato contro di lui. Non c’è alcun progetto autoritario. E Renzi non è Erdogan. Ma il buon senso è una merce rara. Soprattutto in politica. LA REPUBBLICA Pag 1 Matteo Renzi, la sinistra e l’Europa immaginata da Francesco di Eugenio Scalfari Matteo Renzi è molto attivo in questi giorni come capopartito più che come capo di governo e la ragione è chiara: sta per affrontare due prove elettorali. Tra pochi giorni una amministrativa in molti Comuni italiani, alcuni dei quali di notevole importanza. L'altra, tra cinque mesi, è il referendum che dovrebbe approvare le riforme costituzionali già votate dal Parlamento. Alle spalle del referendum c'è la legge elettorale già esistente, che con la riforma costituzionale ha strettissimi legami. Questa situazione Renzi la conosce bene e quindi la sta affrontando con l'abilità che deve essergli ampiamente riconosciuta. Domenica sera l'ha esibita in una trasmissione su Rai-Tre, "Che tempo che fa" di Fabio Fazio. È stato bravissimo e credo abbia convinto molte persone incerte su come votare. Il giorno dopo ha riunito la direzione del partito e anche lì ha posto il problema referendario. Sapeva che gran parte della sua dissidenza era tentata di votare "no", ma ha convinto molti, anzi quasi tutti, che un referendum promesso da un partito e dal governo di cui quel partito è il nerbo non può vederli divisi. Ha illustrato i grandi vantaggi d'una riforma che elimina il bicameralismo perfetto, ha ricordato che la tesi del monocameralismo era sempre stata sostenuta dalla sinistra comunista e soprattutto da Napolitano e da Macaluso; infine ha offerto come contropartita alla sua dissidenza la convocazione immediata del congresso del Pd a referendum avvenuto e approvato. A quanto pare questa offerta ha funzionato e la direzione sembra aver sancito l'accordo sulle basi da lui proposte. Non c'è che dire, è bravo, ha un carisma che eguaglia e forse supera quello che ebbe Craxi ai suoi tempi. Gli italiani sono sempre stati affascinati dal carisma, che può produrre ottimi o pessimi frutti. Il più dotato nel carisma demagogico fu Benito Mussolini, con i risultati che conosciamo. Penso e spero che non sia il nostro caso attuale. Personalmente non mi oppongo affatto al monocameralismo, esiste in quasi tutti i Paesi d'Europa. Non mi oppongo neppure a chi comanda da solo, con un ristretto cerchio magico di devoti: anche questa, in una società complessa come quella in cui viviamo, è diventata di fatto una necessità. Salvo un punto che tuttavia è fondamentale: ci dovrebbe essere una oligarchia invece del cerchio magico dei devoti. Nella Prima Repubblica l'oligarchia democristiana comprendeva De Gasperi, Scelba, Fanfani, Moro, Andreotti, Colombo, De Mita, Piccoli, Rumor, Bisaglia, Segni, Gronchi, Dossetti, La Pira e molti altri. Nel Partito socialista c'erano Nenni, Mancini, Giolitti, Pertini, De Martino, Lombardi, Brodolini, Craxi, Miriam Mafai, Signorile, De Michelis, Martelli. Nel Pci Togliatti, Amendola, Longo, Ingrao, Barca, Terracini, Scoccimarro, Negarville, Napolitano, Reichlin, Pajetta, Nilde Iotti, Tortorella, Rodano, Occhetto, e infine Berlinguer e poi D'Alema e poi Fassino, e poi Veltroni. Il Pci non fu mai un partito dittatoriale e tantomeno guidato dai devoti del capo; fu oligarchico e costituzionale, con il solo ma drammatico errore d'essere per lunghi anni legato alla dittatura leninista- stalinista. I piccoli partiti contavano molto poco ma alcuni dei loro esponenti ebbero un'importanza di grande peso nella storia del Paese: Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini, Malagodi, Calvi, Storoni, Mario Pannunzio, Cattani, Corbino, Valiani. Ho fatto questo lungo elenco per dimostrare che la democrazia italiana negli anni tra il 1946 e il 1975-'80 aveva un personale politico molto qualificato e una struttura operativa che furono gli elementi essenziali della libertà democratica. E se volete dare a quel tipo di architettura gli artefici che la descrissero filosoficamente e politicamente dovrete ricordare i nomi di Platone, di Aristotele e in campo propriamente politico di Pericle. Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta; quello dei Masaniello e dei Cola di Rienzo ancor meno. Lo tengano a mente i giovani se riusciranno ad emergere dall'indifferenza verso il bene pubblico che, non solo in Italia ma in tutto il mondo, sembra averli colpiti. Se aspirano alla politica alta, ebbene è quella qui descritta. Altra fine fa prevedere l'interesse particolare e non quello generale ed è proprio l'interesse particolare che crea la corruzione e la diffonde ovunque. Comunque Renzi è bravo e allo stato dei fatti non sembra avere alternative. Vuole il comando; ebbene così sia. Vuole comandare da solo, e così sia. Se il referendum avrà una maggioranza di "sì" il successivo congresso del Pd lo confermerà nella carica di segretario del partito. Non si è mai visto un capo di governo boicottato da un partito del quale è segretario. Sarebbe battuto al congresso. S'è visto appunto con la coltellata inflitta da Renzi ad Enrico Letta, l'uno segretario e l'altro premier. Quella coltellata getta ancora sangue e non vi è stato posto alcun riparo. Quando si dimenticano i torti inflitti è un pessimo segno verso l'onestà politica. Renzi - lo ripeto con verità e senza ironia - ha carisma e l'intelligenza di saperlo usare. Quindi così sia. Ma, secondo il mio personale punto di vista, così sia soltanto ad alcune condizioni. 1. Modificare la pessima legge elettorale già esistente e adottare invece quella di De Gasperi del 1953, fondata sul sistema proporzionale. 2. Ammettere l'apparentamento tra varie liste, cioè un'alleanza pre-elettorale. 3. Introdurre un premio previsto ad una maggioranza che ottenga un voto del 50 per cento più uno. Una maggioranza talmente esigua da rischiare l'ingovernabilità. Il premio dovrebbe arrivare al massimo ai 55 seggi ottenuti dai partiti che hanno vinto. Questa legge, ingiustamente definita "legge truffa", conserva la stabilità ad un governo sostenuto dai partiti che hanno ottenuto una maggioranza troppo esigua per assicurare una linea che duri almeno per l'intera legislatura. La legge non dette la vittoria alla Dc e ai suoi alleati, ma sia pure cambiando spesso il titolare del governo, assicurò una linea di fondo che la Dc mantenne per molto tempo fino a quando dovette estendere le alleanze al Partito socialista intorno agli anni Sessanta e una quindicina di anni dopo addirittura al Pci di Berlinguer proprio nel giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e dopo cinquantacinque giorni lo uccisero. Il seguito lo conoscete. Questi contenuti della legge elettorale vanno emendati prima del voto referendario. Quando non ci fosse il tempo procedurale (ma c'è) si dovrebbe varare un documento ufficiale che s'impegna a modificarla nei modi suddetti e venga recapitato ufficialmente a tutte le Alte Autorità dello Stato in modo da evitare che l'impegno assunto sia tradito. Questi temi e i segnali che ne derivano riguardano soltanto l'Italia. Problemi per noi assai importanti, ma per il resto dell'Europa abbastanza trascurabili. D'altra parte il problema europeo ci riguarda direttamente e vorrei dire drammaticamente e Renzi se ne rende conto forse anche più degli altri. Infatti si è messo abilmente in posizione. Il suo vero ed essenziale compito da assumere è proprio quello di battersi per rafforzare l'unità europea nella direzione imboccata cinquant'anni fa da Adenauer, Schuman e De Gasperi e anticipata da Altiero Spinelli e dai suoi due compagni confinati a Ventotene ai tempi del fascismo: Europa unita, Europa federata. Lo chiede perfino papa Francesco che l'ha invocata venerdì scorso in occasione del Premio Carlo Magno che gli è stato conferito dalla fondazione che porta quel nome ed ha sede ad Aquisgrana. Francesco lo ha accettato proprio per cogliere quell'occasione e quella dell'Europa. Non solo dell'affratellamento di tutte le religioni sotto il simbolo dell'unico Dio. Quell'affratellamento è inevitabile a cominciare dalle tre religioni monoteistiche in particolare dai cristiani e dai musulmani che sono i più numerosi residenti in Europa. Il fondamentalismo non può e non deve esistere né tantomeno il terrorismo orribile che ne deriva. Ma ben oltre questo piano religioso, Francesco ha affrontato la necessità di unificare, le istituzioni, la poetica e la cultura di uno dei continenti più importanti del nostro pianeta. Vale la pena di leggere quelle parole nella loro precisa letteralità: "Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell'uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?". Se esaminate a fondo queste parole vedete che esse contengono i tre valori che a tutti noi, europeisti moderni ispirano l'opera nostra: libertà, eguaglianza, fraternità. Implicano scelte politiche, sociali, economiche e perfino (fraternità) religiose di quel tipo di religione che anche i non credenti propugnano e che riguarda soprattutto l'accoglienza dei poveri, degli immigrati e degli esclusi. Ama il prossimo tuo più di te stesso, questa è l'esortazione di Francesco e questo a me sembra che anche Renzi abbia ascoltato, o almeno che alcune sue mosse sul rafforzamento di un'Europa più forte e più unita possano avergli suggerito di assumere nuove posizioni in proposito. Vada avanti coraggiosamente su questa strada e su di essa i suoi dissenzienti spostino la loro battaglia perché un'Europa federata con quei valori ideali e politici è la vera sinistra moderna. Un'Europa federata avrebbe come primo compito quello di praticare una politica sociale che elimini le più intollerabili diseguaglianze, crei nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro, nuove tecnologie, nuovi diritti insieme a nuovi doveri. Francesco a chi gli obiettava d'essere un Papa comunista ha risposto: "Io predico il Vangelo. Se ai comunisti piace il Vangelo ben vengano e siano loro a venire da noi". Caro Matteo, tu non sei un Papa e soprattutto non sei questo Papa. Ma devi essere il leader di un partito di sinistra. Ebbene sposta la sinistra e te stesso su questa battaglia che ti eleva ad un livello diverso e nuovo: adeguato almeno in parte a quello della Germania di Angela Merkel. Se farai questo, gli europeisti d'ogni Paese del nostro continente saranno al tuo fianco. Altrimenti crollerai sotto il peso di errori economici, demagogici e politici che diffonderanno gli illeciti profitti d'una corruzione che ormai già minaccia profondamente l'interesse dello Stato, cioè di noi tutti. Pag 1 Quando Roma val bene una messa di Stefano Folli C'è un filo sottile che collega la legge da tempo attesa sulle unioni civili e la campagna per le amministrative: specie a Roma, dove la città laica e la città vaticana s'intrecciano e il Tevere è più largo o più stretto a seconda delle circostanze. Il filo è costituito dal voto cattolico e dal peso della Santa Sede. Entrambi non sono più decisivi come un tempo, ma esistono ed è rischioso sottovalutare sia l'uno sia l'altro. La coincidenza vuole che la Camera si appresti a esprimere il voto finale sulle unioni civili proprio mentre la campagna elettorale entra nel vivo. Sappiamo che non si tratta di un vero e proprio matrimonio omosessuale, bensì di un punto di compromesso raggiunto con fatica al Senato. Un compromesso che si teme possa essere incrinato da un qualsiasi incidente di percorso, ossia dal primo emendamento che in aula supera il filtro governativo. Di qui il ricorso immediato al voto di fiducia: un'iniziativa sempre sgradevole, soprattutto quando il governo ne fa un uso eccessivo e in questo caso addirittura preventivo. Ma il dibattito di merito aveva dato tutto quello che poteva dare nelle due letture precedenti a Montecitorio e a Palazzo Madama. Riaprire il vaso di Pandora rischiava di mandare all'aria il castello di carte. Nessuno nella maggioranza renziana, fra i laici non meno che fra i cattolici, aveva voglia di tentare la sorte. Tantomeno di offrire alle opposizioni un argomento per la campagna elettorale. L'aver posto la questione di fiducia disinnesca il pericolo e lo riduce a qualche ora di nervosismo e di polemiche in Parlamento. Tuttavia, come si diceva, esiste il voto cattolico. Per meglio dire, esiste il voto di quella parte dell'opinione pubblica che non considera le unioni gay una priorità ed è anzi contraria a tutto ciò che le assimila al matrimonio tradizionale, anche nella scenografia. A Roma questo stato d' animo è rafforzato dalla contiguità con il Vaticano. La Chiesa, attraverso la Cei, non ha fatto mancare le sue critiche al testo in via di approvazione. Prima con il cardinale Bagnasco e ancora ieri con il "bergogliano" monsignor Galantino. Si è capito che almeno nella capitale la questione resta calda e quindi potrebbe spostare un certo numero di voti. Quanti, è difficile dirlo. Ma Alfio Marchini ritiene che possano essere parecchi, a giudicare dalla tempestività con cui è balzato sulla materia. Anche a costo di qualche incoerenza con il se stesso di qualche tempo fa, quando usava toni molto più amichevoli verso il mondo gay. «Da sindaco non celebrerò le unioni civili», ha detto il candidato del centrodestra "moderato". Frase ambigua, ma utile a mandare un messaggio oltre Tevere. Marchini è e vuole restare in futuro il candidato più vicino al Vaticano, nonché il più capace di riunire l'opinione cattolica e quella conservatrice. Cosa poi voglia dire in concreto quell'affermazione, è abbastanza chiaro. Escluso che Marchini voglia infrangere la norma, visto che come sindaco sarebbe ovviamente tenuto a registrare le nuove unioni civili, rimane una sola spiegazione. Saranno i funzionari del Campidoglio a effettuare le registrazioni e senza la cornice para-matrimoniale (musiche, fiori, confetti, eccetera). Il sindaco se ne tirerà fuori, salvo che per gli obblighi di legge. Ne deriva che siamo sul sentiero stretto dell'ipocrisia, cosa che in campagna elettorale non sorprende nessuno. Roma val bene una messa. Tanto più che di tutti i candidati in campo Marchini è il più idoneo a raccogliere il favore del Vaticano. Esiste in proposito un precedente che molti ricordano. Le sventure di Ignazio Marino cominciarono un anno fa, proprio quando egli volle celebrare sotto le luci dei riflettori un certo numero di unioni civili per lo più omosessuali. La sua era una provocazione, o se si preferisce un sollecito al Parlamento perché accelerasse l'iter della legge che solo adesso sta per essere approvata. Ma l'iniziativa, peraltro piuttosto sfarzosa già nel titolo: "Celebration day", irritò non poco il Vaticano e in particolare il Papa Francesco. Il quale di lì a poco avrà modo di manifestare pubblicamente il suo fastidio nei confronti del sindaco. Con le conseguenze note a tutti. Ovvio che i "matrimoni" celebrati da Marino non furono ritenuti validi, in assenza di una legge. Oggi Marchini o qualunque altro sindaco si troverebbe ad agire in un contesto del tutto diverso. Non ci sarebbe motivo di forzature "laiche" e nemmeno di "obiezioni di coscienza" cattoliche. Al più c'è margine per conquistare una fetta di opinione pubblica, mentre sullo sfondo il Parlamento si accinge a scrivere l'ultima parola di una lunga storia. Pag 3 Ira dei vescovi sulla maggioranza: “Una forzatura votare così la legge” di Giovanna Casadio, Carmelo Lopapa, Giovanna Vitale e Paolo Rodari Alla Camera fiducia sulle unioni civili. Marchini attacca: “Non le celebrerò”. L’arcivescovo Pennisi: “Fascismo strisciante, metà del Paese è contro” Roma. «Questa qua mette la fiducia, alza il sedere e se ne va, ma chi si crede di essere...». Maurizio Bianconi, avvocato aretino, ex berlusconiano ora con Fitto, si sgola più forte del leghista Massimiliano Fedriga contro la concittadina Maria Elena Boschi. La ministra delle Riforme ha appena annunciato la fiducia sulle unioni civili. La numero 22 alla Camera posta dal governo Renzi, la 53esima nel complesso. E a Montecitorio si scatena la bagarre. La Lega insulta e chiama i parlamentari dem «servi della gleba, applaudono alla fiducia nella speranza di essere ricandidati». Fedriga urla: «Vergogna». Bianconi fa il gesto dell' ombrello. Il grillino Alfonso Bonafede accusa: «Per il governo il Parlamento è uno zerbino su cui pulirsi i piedi, nessun governo su una legge sui diritti civili ha mai messo la fiducia, figuriamoci una doppia». Le unioni civili sono passate anche al Senato blindate con la fiducia. Boschi è andata via dall'aula subito dopo la richiesta. Replicherà però in serata. Perché a contestare la scelta della fiducia è anche il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino. «Il voto di fiducia può rappresentare una sconfitta per tutti», ammonisce Galantino. Il Vaticano avrebbe sperato in modifiche che non permettano sovrapposizioni tra unioni gay e il matrimonio. Non considera sufficiente lo stralcio della stepchild adoption, l'adozione del figlio del partner in una coppia gay. Boschi respinge le critiche: «Dopo decenni di attesa, la legge sulle unioni civili è un risultato storico e la fiducia ha un valore politico». In Parlamento la polemica si accende anche sulle parole del candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini appoggiato dagli alfaniani e dai forzisti. Marchini ha annunciato che non unirà mai in matrimonio in Campidoglio coppie gay: «Non celebrerò mai unioni omosessuali». «I sindaci rispettino la legge», ribatte Boschi. D'altra parte i centristi sono sul piede di guerra e minacciano un referendum abrogativo. Ncd stamani prima del voto di fiducia farà una riunione per placare gli animi dei più contrari che con Maurizio Sacconi e Alessandro Pagano hanno chiesto l'intervento del presidente Mattarella. I centristi sono in fibrillazione, Paola Binetti potrebbe astenersi. Un referendum abrogativo lo annuncia il portavoce del Family day, Massimo Gandolfini, immaginando un'altra manifestazione in piazza San Giovanni. Sinistra Italiana dirà no alla fiducia ma sì nel voto finale alla legge. Arturo Scotto, il capogruppo, si sfoga: «Insopportabile la visione proprietaria delle istituzioni». Brunetta, presidente dei deputati di FI, spara alzo zero: «Fiducia squadristica, intervenga il Quirinale». Tra il voto di fiducia e quello finale al provvedimento, ci sarà la battaglia degli ordini del giorno. La tentazione a fare ostruzionismo è molto forte da parte delle opposizioni che presenteranno ordini del giorno di tutti i tipi: la sinistra per raccomandare di introdurre la stepchild nella legge sulle adozioni da approvare al più presto. Tra i dem dissenso di Michela Marzano che giudica la legge un' occasione persa e potrebbe lasciare il Pd. Le Famiglie Arcobaleno ricordano la mancanza di tutele dei bambini e chiedono la stepchild. Roma. Il rammarico maturato in questi mesi in poche ore si è trasformato in "irritazione". La cautela e le pazienza che ha caratterizzato questi due anni di convivenza tra la Curia romana e il governo Renzi lascia il posto a una insoddisfazione. La fiducia sulle unioni civili, già da giorni preannunciata e infine imposta ieri dal ministro Boschi ha rotto in qualche modo gli indugi e spazzato via le cautele d'Oltretevere. Non si tratta di osservazioni sul merito, ma sul metodo. Ma se ne è fatto portavoce monsignor Nunzio Galantino, uno degli interpreti più diretti del Pontificato Bergoglio. Già in occasione dell'approvazione della legge Cirinnà al Senato, il 25 febbraio, dalle gerarchie cattoliche italiane era trapelato un certo «rammarico». I commenti e le indiscrezioni tuttavia non si erano spinte oltre, nella consapevolezza che il governo Renzi e la sua esigua maggioranza a Palazzo Madama per ragion politica (e di sopravvivenza) non aveva avuto alternativa. La richiesta del voto di fiducia che spianerà oggi pomeriggio la strada al ddl sulle unioni civili ha segnato invece una svolta. Tra i vescovi italiani, stando a quanto trapela proprio dagli ambienti della Cei, si è generato un vero e proprio «fastidio». Perché a Montecitorio i numeri per la maggioranza ci sono eccome, lì Matteo Renzi e il suo governo non corrono rischi. E la sua strategia appare ispirata da una sorta di «arroganza», una «forzatura» dettata quasi dalla voglia di voler procedere in «assenza di dialogo». Questo clima non fa dormire affatto sonni tranquilli a quella buona fetta di Partito democratico vicino al mondo cattolico e che sta vivendo con preoccupazione il lento ma progressivo logoramento dei ponti che con tanta fatica sono stati costruiti in questi anni con Oltretevere. Tanto più che questo accade a meno di un mese dalle elezioni amministrative che non saranno pure decisive per le sorti del governo come non si stanca di ripetere il presidente del Consiglio - ma riguardano le cinque principali città italiane. E tra queste Roma, con tutto il carico di significati che la capitale, anche del cristianesimo, si porta dietro. Ci sono campanelli d'allarme che in Largo del Nazareno non sono passati inosservati. Come quando pochi giorni fa, il 3 maggio scorso, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, stuzzicato dai giornalisti che gli chiedevano un giudizio su Virginia Raggi, candidata a sindaco di Roma per il movimento Cinque Stelle e considerata in testa dai sondaggi, si è sbilanciata in un «le auguro ogni successo, di diventare quello che vuole diventare». Detto col sorriso, per carità, impensabile uno schieramento pro M5S della Chiesa romana, ma sono piccoli segnali. Spie di un rapporto tra Palazzo Chigi e Santa Sede vengono ora definiti «formali», improntati cioè a una sostanziale «neutralità». E tanto basta per accendere i lampeggianti del "pericolo" in casa Pd. Ed è in questo clima di silenzioso deterioramento che si inserisce la sortita tutt'altro che casuale di ieri del candidato sindaco del centrodestra forzista e dei centristi Ncd, Alfio Marchini. Il cattolico Marchini, cresciuto nella scuola dei Gesuiti del Massimo a Roma, in ottimi rapporti con gli uffici dell'Opus Dei, l'aspirante sindaco che frequenta ogni giorno le parrocchie e che ai suoi amici racconta di un rapporto personale con Papa Bergoglio. Certo è che la sua mossa - dicono ispirata anche dall'amico Gianni Letta, che in quel che resta della Curia di Camillo Ruini e Giovan Battista Re vanta ancora solidi legami - ha il chiaro intento di accreditarsi su quella sponda del Tevere e con l'associazionismo cattolico. Dopo essere uscito dal pranzo con Guido Bertolaso a casa di Silvio Berlusconi per concordare strategie e comunicazione, Marchini spiega: «Sono contrario alle unioni civili ma non sono un bacchettone, né un moralista. Io dico sempre quello che penso senza calcoli politici, magari a volte sbaglio, ma sono fatto così». Detto questo, «quel che ho detto è una cosa che penso realmente, sono contrario ai matrimoni gay e ho pensato di dirlo come quando ho detto che mio figlio si è svegliato dal coma anche grazie al fatto che non si è mai fatto le canne». Musica per le orecchie degli Giovanardi e delle Binetti che già plaudono. Per Berlusconi un jolly per accreditarsi in mondi che per lui erano ormai perduti. Roma. «Credo davvero che aver posto la fiducia sia un fatto del tutto negativo per la nostra democrazia. Argomenti così delicati e importanti necessiterebbero infatti di altri approcci. Con la fiducia, piuttosto, il Parlamento viene imbavagliato. E in questo modo non si tiene conto che esiste una grande fetta del Paese che questa legge non la vuole. A mio avviso questo modo di fare è fascismo strisciante, un qualcosa che in nessun modo condivido». Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale e per diverso tempo delegato della Cei per la scuola e l'educazione, parla a titolo personale seppure è evidente che nella Cei vi sia chi la pensa come lui. Alfio Marchini ha detto che se venisse eletto sindaco di Roma non escluderebbe di esercitare il diritto all'obiezione di coscienza. Non le sembra troppo? «Di fronte a una legge ingiusta è lecito esercitare questo diritto. Se dall'alto lo Stato impone leggi che non si condividono, si può obiettare. Non vedo per quale motivo non si potrebbe fare». Da anni l'Italia aspetta questa legge, anche per garantire diritti sacrosanti alle coppie di fatto. Perché adesso tornare a fare le barricate? «Non si tratta di fare le barricate. Semplicemente di dire che i diritti delle persone conviventi si possono tutelare in altro modo». Ad esempio come? «Con un testo unico sui diritti. Un testo che elenchi e ribadisca quanto l'ordinamento italiano già prevede, esplicitamente o implicitamente, per le persone impegnate in convivenze. Invece questa legge a mio avviso ha un portato ideologico». A cosa si riferisce esattamente? «Mi sembra che dietro questa legge, dietro le forze che l'hanno sostenuta e portata in Parlamento, vi sia una cultura specificatamente contraria alla famiglia naturale. Quando, infatti, attraverso una decisione politica, vengono giuridicamente equiparate forme di vita differenti - come la relazione tra l'uomo e la donna e quella tra due persone dello stesso sesso - non si riconosce la specificità della famiglia. Questo è il punto, a mio avviso». Roma. «Un calcolo elettorale bieco, basso, e persino politicamente sbagliato. Davvero mi sorprende Marchini. Per blandire i partiti che lo appoggiano è costretto a fare dichiarazioni omofobe! Che tristezza!». Monica Cirinnà si agita, si indigna a modo suo, senza cadere nel volgare, ma picchiando sempre a dovere l'avversario. Alla vigilia dell'approvazione della «sua» legge, ecco la fiammata non prevista. Per la gioia dell' alleato Francesco Storace, Marchini fa sapere che non celebrerà unioni gay. Senatrice, sortita ad effetto no? «Sortita pessima, direi. Conosco Alfio Marchini da anni, conosco la sua famiglia, le loro radici liberali, conosco la sua storia. Mi chiedo: come si fa a discriminare gli esseri umani nel giorno più importante della loro vita? Evidentemente i partiti di centrodestra che lo appoggiano, da Forza Italia all'Udc, quelli che più strenuamente si sono battuti contro le unioni civili, sono andati all' incasso. Marchini ormai è il loro candidato». Preoccupata? «E di cosa? Tanto le unioni civili le celebrerà il nuovo sindaco di Roma che sarà Roberto Giachetti. Nella Sala Rossa si diranno sì Paolo e Carlo e subito dopo Paolo e Giovanna. Nessuna discriminazione. Vorrei comunque ricordare a Marchini che quando ti proclamano sindaco giuri sulla Costituzione. Non puoi fare il sindaco fuorilegge. Esiste l'articolo 328 del codice penale sull'omissione degli atti d'ufficio. Se domani (oggi per chi legge, ndr) le unioni civili diventeranno legge dello Stato, il primo cittadino di Roma sarà chiamato a celebrarle esattamente come i matrimoni». Ha detto che non lo farà. «Allora sappia che in questi casi, cioè quando un sindaco non rispetta una norma di legge, e non concede deroghe ad altri per farla rispettare, subentra la figura del commissario ad acta. Di solito mandano un prefetto...». Il deputato di Area Popolare Alessandro Pagano dice che le sue sono intimidazioni vere e proprie, tipica arroganza Pd, sotto ricatto delle lobby Lgbt. «Se Marchini si spaventa per le parole di una senatrice laica, democratica, eterosessuale sposata, che ama la sua famiglia allargata, cioè i 4 figli avuti da mio marito Esterino con la prima moglie, allora è messo proprio male. Sarebbe stato meglio non candidarsi perché di intimidazioni purtroppo ne potrà ricevere di vere e molto più pesanti». Marchini esibisce un programma attento sugli animali... «A me lo dice! Questo è un tema che abbiamo sempre condiviso. Se sei in grado, come Marchini, di avere un legame profondo con il tuo cavallo, come fai, passando a ranghi elevatissimi, a negare dignità all'amore tra due uomini e due donne?». Avrà fatto i suoi calcoli elettorali. «Davvero un bel biglietto da visita per promuoversi! Secondo me è un autogol pazzesco. Tra l'originale e il facsimile, meglio l'originale, cioè la Meloni che si è già presa la medaglia andando al Family Day. E poi c'è un'ala liberal di Forza Italia che non si riconosce in queste posizioni. Marchini la sottovaluta. E ci sono i cittadini romani che sono molto più avanti della politica. Chi si prende nel 2016 un sindaco che non rispetta la legge e fa discriminazioni sull'orientamento sessuale?». LA STAMPA Due nuovi fronti aperti per il governo Renzi di Marcello Sorgi Due nuovi fronti si sono aperti ieri all’improvviso sulla strada del governo: il Vaticano e l’Europa. Alla vigilia del voto di fiducia e dell’approvazione finale della legge sulle unioni civili alla Camera, il segretario della Conferenza episcopale italiana monsignor Galantino, le cui esternazioni quasi sempre coincidono con il pensiero del Papa, ha detto che la scelta della fiducia rappresenta «una sconfitta», quasi a dire una rinuncia a un’ulteriore fase di confronto che la Chiesa avrebbe voluto più lunga (qualcuno dice: lunga all’infinito, pur di evitare la legge). Politicamente, visto anche il ruolo istituzionale che Galantino ricopre nella gerarchia, si tratta di un’ingerenza negli affari italiani, non diversa, purtroppo, da quella che lo stesso Francesco volle fare quando la legge era ancora in discussione al Senato, e prima che Renzi decidesse di rinunciare alla parte più contestata del testo, la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali, con le implicazioni che poteva portare in materia di utero in affitto. Ma per le parole adoperate e per il momento scelto per esternarle, l’uscita di Galantino può anche essere interpretata come una sorta di atto dovuto. Un estremo tributo all’ala più tradizionalista della Chiesa, la quale mai e poi mai avrebbe accettato il silenzio di fronte alla nuova legge italiana che, pur differenziandole dal matrimonio, introduce il riconoscimento per le coppie di fatto. Insomma una presa d’atto critica che ribadisce il dissenso, ma in nessun modo punta a impedire l’approvazione del testo, anzi perfino ne prende atto. Il secondo fronte riguarda il negoziato con la Commissione europea: anche in questo caso, non di effettiva novità si tratta, dal momento che la trattativa con i severi censori di Bruxelles sulla legge di stabilità e sul grado di flessibilità rispetto ai canoni del rigore imposto dal trattato di Maastricht va avanti da mesi, con aperture e chiusure che si susseguono spesso senza una logica comprensibile. Il nuovo rinvio di una settimana non dovrebbe mettere in discussione il via libera definitivo sui conti italiani, semmai imporre un lavoro straordinario al ministro dell’Economia Padoan che ha condotto fin qui un complicato tira e molla, puntando a convincere la Commissione che un rinvio degli obiettivi più impossibili da raggiungere non vuol dire che l’Italia non accetti la disciplina che le è imposta. Al di là della sorpresa per due imprevisti che non erano stati messi in conto, le conseguenze non dovrebbero dunque essere irreparabili. Inevitabile però sarà un ulteriore appesantimento di una campagna elettorale che, a mano a mano che la data del voto s’avvicina, diventa ogni giorno più tormentata. Come ha capito il furbo Marchini, candidato civico e berlusconiano a Roma, che dopo un incontro con il Papa destinato a restare riservato, non ha atteso Galantino per dire che, se diventasse sindaco, si rifiuterebbe, malgrado la legge, di celebrare unioni civili. Cosa non si fa per cercare fino all’ultimo di accaparrarsi voti cattolici. AVVENIRE Pag 1 Ricordate Khurram Zaki di Marco Tarquinio Uno giusto, e ucciso per questo Ci vogliono fede e coraggio, oggi, in Pakistan per portare la croce da cristiani. Un coraggio che si fa enorme per abbracciare la croce in pubblico. I cristiani pachistani mostrano la loro fede e trovano questo coraggio ogni giorno, da uomini e da donne che non intendono rinunciare a essere se stessi. Credenti e cittadini, cittadini e credenti: l’una e l’altra cosa insieme, non senza timore e sofferenza, ma senza esitazioni. Perché venga il tempo in cui la convivenza tra uguali e il rispetto di ogni differenza siano finalmente regola salda, e pacifica. Ci vogliono fede e coraggio in Pakistan per portare la croce da cristiani. E ce ne vogliono persino di più per farlo da non cristiani. Eppure accade. Il musulmano Khurram Zaki, giornalista e attivista per i diritti umani, uomo buono, lo ha fatto. Domenica scorsa è morto per questo, assassinato. Aveva letteralmente alzato e mostrato la croce, manifestando fianco a fianco nel 2014 con i cristiani attaccati e massacrati nelle loro chiese da fanatici islamici legati al movimento taleban. E si era idealmente caricato sulle spalle la croce della battaglia per la difesa dei diritti delle minoranze, reclamando soltanto di poter onorare il dovere di «costruire il Pakistan», secondo libertà, giustizia, rispetto reciproco, fraternità. Abbiamo tutti bisogno di conoscere e ascoltare uomini come Khurram il costruttore, perché ci sono di esempio. Sono persone che a loro volta sanno conoscere e ascoltare. Tutti i veri costruttori sono così, e sono aperti, sereni, fedeli, amanti delle buone regole e perciò determinanti nella battaglia per cambiare le leggi ingiuste come quella che in Pakistan viene chiamata «anti-blasfemia», ma bestemmia la vita dei pachistani di ogni fede e di ogni pensiero. I distruttori, invece, in Pakistan e in ogni altra terra, compresa la nostra italiana ed europea, non conoscono e non vogliono che ci si conosca, non ascoltano e non vogliono che ci si ascolti, coltivano ogni chiusura e alzano ogni tipo di barriera, insultano e imbavagliano, demoliscono i ponti e odiano gli uomini-ponte, fino a ucciderli. Come è toccato a Khurram Zaki. E prima di lui a Shahbaz Bhatti, lucido e generoso ministro cristiano per le minoranze, martire per il suo impegno. E a Salman Taseer, musulmano, che da politico coraggioso seppe schierarsi subito a difesa di Asia Bibi, condannata a morte solo perché fedele a Cristo. I distruttori disseminano sofferenze e lutti, accumulano rancori e sembrano sempre avere la meglio, ma alla fine non vincono, non vincono mai. Continueranno a essere sconfitti sino a quando ci saranno uomini e donne capaci di buona fede, di buona volontà e di memoria. Questa è la parte che tocca a tutti noi, senza distinzioni di origine e di fede. Perché la memoria degli uomini giusti, che i distruttori vogliono sporcare e cancellare, vince anche la morte ed è la madre dei costruttori di giustizia e di pace. Pag 3 I 14 giorni dell’embrione e la ricerca senza “autovelox” di Assuntina Morresi Dove porta la richiesta di infrangere un nuovo limite È facile rispettare un limite quando è impossibile superarlo. Per esempio quello dei 14 giorni di vita dell’embrione umano, una soglia da non oltrepassare nella ricerca sugli embrioni stessi: finora il loro record di sopravvivenza in laboratorio era stato di nove giorni, e di solito non superiore alla settimana. Periodi sempre abbondantemente inferiori alle due settimane indicate dagli scienziati fin dal 1979. La scelta dei 14 giorni è stata posta convenzionalmente, adottando uno dei tanti criteri possibili: è lo stadio di sviluppo oltre il quale un singolo embrione non si può più dividere, né due si possono fondere, ed è segnato dalla comparsa di una struttura, la stria primitiva, facilmente individuabile dagli studiosi. Ma soprattutto si tratta di un criterio che finora ha consentito di fare ricerca per tutto il tempo in cui un embrione riesce a sopravvivere al di fuori del ventre materno: un confine invalicabile per una ricerca praticamente illimitata. C ome se nelle nostre strade si fissasse il limite di velocità a 600 Km orari, compiacendosi poi del fatto che tutti lo rispettano. Suona quindi un po’ ipocrita ribadire che finora la comunità scientifica si è attenuta a tale indicazione, mostrando di essere in grado di autoregolarsi, e neppure si può parlare di utile compromesso al fine di «ricavare uno spazio per l’indagine scientifica rispettando allo stesso tempo le diverse opinioni sulla ricerca sugli embrioni umani», come scritto recentemente su Nature da tre studiosi del settore. I 14 giorni di ricerca libera non hanno significato alcun compromesso, non hanno posto alcun limite effettivo. La ricerca che distrugge gli embrioni umani la si fa o non la si fa: questo è il vero discrimine. Di poche settimane fa la controprova: appena pubblicati due lavori in cui embrioni umani sono sopravvissuti 13 giorni in colture e supporti dedicati, è scattata subito la richiesta di modificare il vincolo, ovviamente in avanti, per poter continuare senza condizionamenti. I fatti sono noti: con i rispettivi articoli in due prestigiose riviste scientifiche, Nature e Nature Cell Biology, due diversi gruppi di studiosi hanno mostrato che embrioni umani 'sovrannumerari', cioè formati per la fecondazione assistita, successivamente crioconservati e ceduti alla ricerca dalle coppie che li avevano generati, una volta scongelati e trasferiti su appositi supporti su cui hanno attecchito, hanno continuato a svilupparsi in vitro quasi per due settimane, permettendo di osservare per la prima volta la loro crescita nelle fasi finora celate ad occhi umani, perché possibili solamente in utero, durante e dopo l’impianto. I due gruppi di ricercatori – uno americano, guidato da Ali Brivanlou della Rockefeller University e l’altro inglese, di Magdalena Zernicka-Goetz di Cambridge – hanno evidenziato differenze e somiglianze con i modelli animali mammiferi, sottolineando soprattutto la capacità degli embrioni osservati di autoorganizzarsi anche in mancanza di input e tessuti materni. Un grado di autonomia inaspettato per gli studiosi, e l’ennesima indicazione del fatto che un embrione umano è un essere umano radicalmente altro dalla madre che gli consente di crescere in grembo e venire alla luce: ma non è stata questa l’osservazione degli addetti ai lavori, per cui la strada è solo all’inizio. Innanzitutto gli embrioni lasciati crescere su supporti piani non si sono sviluppati su tre dimensioni ma su due, restando fortemente appiattiti, e l’identificazione di cavità, strutture e tipologie cellulari nel corso dello sviluppo embrionale va certamente raffinata. D’altra parte – sottolineano gli scienziati nel ribadire la necessità di continuare questo tipo di ricerche – è proprio lo stadio dell’impianto in utero dell’embrione quello in cui molte gravidanze falliscono, e al tempo stesso si tratta di un momento fondamentale per la differenziazione cellulare: l’obiettivo dichiarato di questo tipo di studi è la comprensione dei processi biologici di base. Ma se il fine è conoscere meglio tutto il conoscibile, a prescindere dall’oggetto della ricerca e senza altre condizioni, ogni limite che si vorrà proporre sarà inevitabilmente visto come un danno, una intollerabile mutilazione della conoscenza. «È veramente imbarazzante all’inizio del ventunesimo secolo conoscere di più su pesci, topi e rane che su noi stessi. È un po’ difficile spiegarlo ai miei studenti», è il commento insofferente di Ali Brivanou, a capo del gruppo americano, che rende bene l’idea della seccatura che si prova a dover procedere per gradi. Eppure ogni tipo di ricerca su esseri senzienti – dagli animali alle sperimentazioni cliniche sugli umani – pone limiti e restrizioni, senza i quali sicuramente si avrebbero risultati più significativi dal punto di vista della mera conoscenza. Sugli embrioni umani, però, vale un altro registro. I due esperimenti che hanno simulato l’impianto embrionale in utero hanno contribuito a riaccendere i riflettori sulla ricerca sugli embrioni umani, dopo che il Nobel per le 'staminali etiche' di Yamanaka sembrava averne assopito la vis polemica. Sta infatti lavorando a un report dedicato, da concludere nell’anno in corso, il team internazionale istituito lo scorso dicembre durante il 'Summit delle Accademie' – le Accademie nazionali americane di Medicina e di Scienze, l’Accademia delle Scienze cinese e quella inglese – interamente rivolto al gene editing: la nuova tecnica 'taglia e cuci' di manipolazione genetica che sta rivoluzionando la terapia genica, per la quale è stata chiesta una moratoria limitatamente alle sue applicazioni cliniche su embrioni e cellule germinali. Ma nell’attesa che gli esperti internazionali concludano il loro lavoro, è partita la corsa al gene editing sugli embrioni: dopo la Gran Bretagna, che ha autorizzato studi in tal senso al Francis Crick Institute a Londra, anche la Svezia si appresta a 'editare' embrioni al Karolinska Institute, a Stoccolma. Ed è ancora una volta cinese il secondo lavoro (dello scorso 6 aprile, sul J. Assist. Reprod. Genet.) sul gene editing su embrioni umani, stavolta per cercare di indurre mutazioni che rendano resistenti all’HIV. A nche per il gene editing gli esperti vogliono usare subito embrioni umani e non animali, e possibilmente non anomali ma sani, ovviamente per 'migliorare i risultati'. Nei prossimi giorni la International Society for Stem Cell Research renderà pubbliche le nuove linee guida per la ricerca sulle cellule staminali, che si pongono come obiettivo quello di dare un quadro di riferimento agli scienziati, «alla luce delle nuove forme di ricerca sugli embrioni». Gli esperti che ne hanno dato notizia, su Nature, auspicano che si possano evitare limiti restrittivi alla ricerca. Una ricerca che nella sua – legittima – impazienza di svelare i misteri della vita umana, sembra ormai non essere più in grado neppure di riconoscerla mentre, per scrutarla, la distrugge. Pag 5 Pakistan, fa paura agli estremisti la faccia dell’islam che sa dialogare di Stefano Vecchia e Lucia Capuzzi Tutti testimoni della convivenza, il loro sacrificio nel nome del pluralismo L’omicidio, domenica, nella maggiore città pachistana, Karachi, di Khurram Zaki ha privato il Paese di uno dei maggiori attivisti per i diritti umani che, come aveva scritto nella sua pagina di Facebook, intendeva «diffondere idee religiose liberali e condannare l’estremismo in ogni sua forma». Questo è bastato perché Zaki, musulmano sciita, venisse freddato a colpi di arma da fuoco da taleban ispirati da Maulana Abdul Aziz, leader religioso sunnita della Moschea Rossa di Islamabad, diventata ricettacolo di estremismo anche terrorista, in particolare, ma non solo, rivolto proprio contro la minoranza sciita. Difficile oggi avere un’idea diversa del Pakistan che non sia quella di un Paese attraversato da una profonda crisi di identità, sociale, economica, da violenza di molteplice origine. Un Paese che potrebbe cadere in mano all’estremismo religioso, peggio ancora diventare centrale del terrorismo con il rischio che una deriva integralista spazzi via società civile e politica, ne faccia il nucleo di un “califfato” con un retroterra pressoché inesauribile, ma soprattutto dotato degli ordigni nucleari di cui il Paese dispone nell’inquietudine internazionale. Eppure, nell’immensità di quasi 200 milioni di abitanti, nella varietà culturale, etnica e religiosa di un Paese vasto tre volte l’Italia, restano tante realtà, esperienze a indicare una strada diversa, una spe- ranza per la nazione nel suo complesso, senza distinzioni e discriminazioni. Nemmeno la malattia, invalidante e senza cura che lo costringe al 2013 a una vita tra le mura del minuscolo appartamento che condivide con la moglie sopra il primo dei centri da lui fondati, ha abbattuto la caparbietà di Abdul Sattar Edhi, musulmano di fede, che oggi 88enne da oltre mezzo secolo indica alla sua gente una strada di solidarietà senza confini. La sua “missione” è essenzialmente quella di garantire una dignità che passi dall’educazione, dallo sviluppo e – per le attività più note e meritorie – dalla salute. Cure mediche, riabilitazione di malati, tossicodipendenti, progetti di sviluppo e cucine per i poveri. Un’attività, quella organizzata dalla Edhi Foundation, che ha sostenuto 100mila bambini e che coordina oltre 300 centri nel Paese, con il maggiore servizio di ambulanze disponibile per chiunque. Un’immensa opera finanziata dai benefattori che si è estesa anche in alcune realtà estere, ma il cui cuore continua a battere in un vecchio edificio perso nella megalopoli di Karachi. Le donne sono parte consistente di coloro che hanno beneficiato delle iniziative di Edhi e va sottolineato che proprio le donne hanno oggi un ruolo di primo piano per rilanciare uguaglianza e diritti propri, ma anche di tutti e ciascuno. La giovane Malala Yousufzai, con il suo impegno soprattutto per l’educazione delle bambine e delle giovani ha avuto un riferimento forte in Edhi, di cui suo padre ha guidato la raccolta di firme per la proposta al Nobel, ma anche in Hina Jilani e Asma Jehangir. Queste ultime sorelle e per molto tempo sulla strada parallela della carriera legale e dell’impegno a dar vita nel 1986 alla Commissione nazionale per i Diritti umani del Pakistan, oggi tra le voci più forti a indicare insieme problematiche di forte impatto sociale e a proporre soluzioni. La signora Jilani ha scelto una via più diretta di attivismo a favore delle donne, utilizzando le sue capacità, sia di avvocato presso la Corte Suprema del Pakistan negli anni Novanta, sia come Rappresentante speciale dell’Onu per la Difesa dei diritti umani. «Ho sempre pensato che se si è testimoni di un’ingiustizia occorre contrastarla, altrimenti non si è in diritto di lamentarsi» è una frase che esprime il suo carattere Asma Jahangir si è distinta a sua volta più sul fronte dei diritti delle minoranze e in generale dei “senza voce”, fornendo assistenza legale a casi anche famosi per la loro arbitrarietà e il sostegno a condannati per casi di blasfemia. Nota la sua dura opposizione al presidente Musharraf, sotto il cui regime si avviò la deriva integralista attuale che ha accentuato la persecuzione verso le minoranze religiose. Anch’essa ha avuto dall’Onu un incarico significativo, quello di Relatore per le esecuzioni extragiudiziarie, una responsabilità che ha portato alla Jahangir minacce di morte e anche detenzione domiciliare, senza imbavagliarla. Le istituzioni governative delegate alla tutela dei gruppi minoritari, in particolare quelle religiose, hanno avuto in Pakistan una vita travagliata. Dopo varie iniziative all’interno di dicasteri diversi, un ministero delle Minoranze a pieno titolo venne creato nel 2008 nel governo del Partito del popolo pachistano e affidato all’esponente cattolico dello stesso partito, Shahbaz Bhatti. Dopo la sua uccisione, il ministero venne chiuso, formalmente nel contesto di una decentralizzazione di diverse competenze alle province. Tuttavia, nel governo centrale venne creata una istituzione con nome e in parte prerogative diverse, il ministero per l’Armonia nazionale, affidato al fratello di Shahbaz Bhatti, il medico Paul Bhatti, formalmente con un ruolo di “consulente speciale” del primo ministro. Nel giugno 2013, con la vittoria della Lega musulmana del Pakistan, il ministero venne assorbito in un dicastero più ampio, quello per gli Affari religiosi. Le interpretazioni riguardo questi cambiamenti variano e per alcuni sono un segno integrazione che eviterebbe una ulteriore emarginazione, per altri indicano invece una volontà politica di non riconoscere pieni diritti ai non musulmani. Attualmente, i vari governi provinciali hanno al loro interno un ministero specifico per le Minoranze. Un percorso altrettanto accidentato è toccato al ministero per i Diritti umani, da pochi mesi pienamente ripristinato nella capitale Islamabad. Hanno incarnato con le loro vite – fino al sacrificio estremo – la possibilità di una via diversa, alternativa, praticabile di convivenza e di pace in un Paese nel quale il groviglio di modernità e violenza atavica appare, a volte, inestricabile. È la strada dei «martiri». Individui con alle esperienze e origini diverse e che hanno vissuto con coerenza e pagato con la vita. Per molti la capostipite è Benazir Bhutto, il cui padre – pur tra le contraddizioni che poi furono anche parte del vissuto della figlia – aveva indicato al Paese una strada di partecipazione e di democratizzazione che non a caso venne interrotta con la sua impiccagione e molti anni di dittatura militare. Dopo varie esperienze di governo e di esilio, la morte di Benazir Bhutto a 54 anni, vittima di un attentato devastante il 27 dicembre 2007 a Rawalpindi, impedì a lei e al suo Partito del Popolo pachistano, di riprendere il potere, ma la sua eredità, che è anche di emancipazione femminile è proseguita e non a caso, proprio del suo partito sono stati esponenti di rilievo due vittime della violenza estremista di matrice religiosa. Pochi giorni dopo avere incontrato nel carcere di Sheikhupura la cattolica Asia Bibi, condannata nel novembre 2010 alla pena capitale e ancor oggi in attesa della sentenza finale della Corte suprema, il 4 gennaio 2011 il governatore della provincia del Punjab, Salman Taseer, musulmano, veniva assassinato a Islamabad da una sua guardia del corpo vicina al movimento taleban. Non un obiettivo casuale, ovviamente, e non solo per l’impegno a favore della cattolica accusata pretestuosamente di blasfemia, ma anche per l’intenzione di cercare la modifica della legge che è diventata centrale nella situazione di incertezza e di paura delle minoranze, come pure dei musulmani non allineati con le tesi e le azioni degli estremisti. Un omicidio, quello di Taseer, che doveva precedere di soli due mesi quello altrettanto violento e altrettanto simbolico di Shahbaz Bhatti, primo ministro per le Minoranze religiose del Paese. Un cattolico mite ma coraggioso che aveva accolto per fede ma anche per convincimento politico il peso di una carica che lo portava in rotta di collisione con la politica che cerca il sostegno dei radicali islamici e, ancor più, con i militanti armati. Contrariamente forse alle attese degli islamisti, queste morti non hanno però relegato il Paese nella paura, ma hanno incentivato anzi – anche per la loro visibilità e per la reazione internazionale – una resistenza verso un settarismo che ha tanti motivi ed è sostenuto da tanti interessi ma che ha come vittima prima il Pakistan, nato per offrire una “casa” ai musulmani dell’India dopo la separazione nel 1947 ma che sembra incapace di liberare maggioranza islamica e minoranze dal ricatto della violenza. «Se volete rendermi onore non chiamatemi eroe. Ma unitevi alla mia lotta per la libertà dell’essere umano ». In questa frase si riassume l’esperienza di Khurram Zaki, l’attivista assassinato domenica a Karachi. «Era il suo leit motiv. Ricordo di aver letto vari interventi in cui lo ripeteva. Khurram Zaki credeva nella dignità di ogni uomo e donna, al di là del credo religioso o dell’appartenenza politica. Ed era pronto a giocarsi la vita per difendere tale principio, premessa della democrazia, in Pakistan e nel mondo». Paul Bhatti, presidente dell’All Pakistan Minorities Alliance (Apma) ed ex ministro per l’Armonia religiosa, conosce sulla propria pelle il prezzo di una simile scelta. Il fratello, Shahbaz, ministro e difensore delle minoranze, è stato assassinato dagli estremisti il 2 marzo 2011. Lui stesso ha subito pesanti minacce. Eppure va avanti. Perché lo fa? Ne vale davvero la pena? Come credente non posso fare diversamente. Sono cattolico e ritengo la difesa della dignità umana un dovere inderogabile. Proprio come Zaki che, però, era islamico e sciita. Spesso si enfatizzano le differenze tra fedi. Si dimentica, però, che non si può adorare Dio – comunque lo si chiami – calpestando gli altri. Né si può essere davvero umani se non si riconosce l’umanità di chi ci sta di fronte. In Pakistan esistono tanti non credenti, musulmani, indù, cristiani, uniti da tale consapevolezza. E pronti a lottare insieme. A volte si sottolinea il radicalismo islamico ma non le voci interne all’islam combattono in prima linea l’estremismo. Posso dire che come Apma collaboriamo con tantissimi musulmani, impegnati nel contrasto al fondamentalismo. E, anzi, direi che la loro testimonianza è ancora più importante. Soprattutto nei confronti di quel 50 per cento della popolazione pachistana tuttora analfabeta. Quest’ultima è facilmente influenzabile dalla predicazione radicale. Se è un cristiano a rivelare l’infondatezza di certi proclami estremisti, può pensare che lo dica per proprio interesse. Se ad affermarlo è un altro musulmano ha molta più possibilità di essere ascoltato. Ecco, perché ripeto spesso che contro l’estremismo l’arma più efficace è l’educazione, intellettuale e religiosa Cosa intende? Tanti, spesso, seguono gli imam radicali perché non solo non conoscono le altre religioni, bensì perché non conoscono davvero l’islam. È necessario promuovere uno studio serio del Corano e della religione musulmana, chiarendo quei passaggi che, ad una prima lettura, sembrerebbero giustificare la violenza. Tali affermazioni devono essere interpretate nella giusta prospettiva, altrimenti si finisce per fraintendere e dare un’immagine totalmente falsata. Negli ultimi tempi, il Pakistan sta compiendo dei passi concreti , in particolare nella lotta al fondamentalismo. Il processo è ancora lungo. La chiusura delle madrasse più estremiste, però, è un buon inizio. Pag 9 Quella voglia di nozze gay che torna a galla La levata di scudi contro Alfio Marchini, il quale annuncia che non 'celebrerà' unioni gay se eletto al Campidoglio, suona come rivelatrice. Il candidato civico, in realtà, ha detto solo di voler rispettare la legge. Spiegando che, con lui, se sarà eletto, non ci sarà da aspettarsi le cerimonie spot alle quali ci aveva abituato il predecessore, prive peraltro di effetti legali, in assenza di una legge, al tempo. Se da domani, invece, ci sarà una norma dello Stato che regola le unioni gay, a Roma come altrove – una volta istituito un apposito registro – si potrà costituire un’unione civile «mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale dello stato civile e alla presenza di due testimoni». Punto. Chi più ha patrocinato questa legge ha spiegato per mesi che non si tratterà di un similmatrimonio ma di una nuova formazione sociale. Tutta questa voglia di cerimonie pubbliche e di sindaci in fascia tricolore, invece, rivela il pensiero recondito, che qualcuno non ha mancato di rendere anche palese: dar vita al matrimonio gay egualitario, puntando a stravolgere una legge persino prima della sua approvazione definitiva. IL GAZZETTINO Pag 1 Gran Bretagna, mancano i leader e la Ue è a rischio di Alessandro Campi Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è stato annunciato da David Cameron per la prima volta il 23 gennaio 2013, pochi giorni dopo i festeggiamenti, in verità assai sotto tono, per il quarantennale dall’ingresso ufficiale del suo Paese nella Cee. Ingresso avvenuto nel 1973, quando alla guida del governo sedeva un altro conservatore, Edward Heath. E seguito nel 1975 da un referendum consultivo, voluto dal laburista Harold Wilson, nel frattempo arrivato a Downing Street, che confermò la scelta dell’adesione con il 67% dei voti favorevoli. Vinte le elezioni nel maggio 2015 e ottenuta una larga maggioranza parlamentare, dopo la precedente e faticosa coabitazione al governo con i liberal-democratici, Cameron ha mantenuto l’impegno con i suoi elettori e ha formalmente indetto il referendum, convinto di poterne agevolmente orientare l’esito. In realtà, stando ai sondaggi, agli umori collettivi e all’opinione di diversi osservatori, la consultazione del prossimo 23 giugno - il quarto referendum della storia costituzionale inglese, se si includono anche quello del maggio 2011 sul sistema elettorale maggioritario e quello dell’ottobre 2014 sulla devoluzione della Scozia - potrebbe decidere la fine traumatica di una relazione tra l’isola e il continente che è stata spesso difficile e non priva di ambiguità. Per scongiurare un simile esito, fino all’altro ieri considerato dall’establishment britannico alla stregua di un’eventualità remota, Cameron negli ultimi giorni è dovuto correre ai ripari. Non si è limitato, come aveva fatto all’epoca del referendum scozzese, a paventare la fuga dal Paese degli investitori esteri e il rischio di una crescente disoccupazione. Ha evocato più crudamente lo spettro di una nuova guerra civile europea. Alcuni canali televisivi lo hanno seguito in questa sinistra profezia mandando in onda le testimonianze drammatiche dei veterani del Secondo conflitto mondiale. Ma ci si è messa anche la diplomazia americana, affermando che fuori dall’Europa la Gran Bretagna dovrebbe affrontare da sola le minacce alla sua sicurezza. Si tratta di una drammatizzazione che spaventa e va oltre i toni forti tipici delle campagne elettorali. Un conto infatti è prospettare contraccolpi economici negativi, tutt’altro prevedere lo scoppio di un conflitto armato. A Cameron non sono evidentemente bastati i successi diplomatici ottenuti lo scorso febbraio a Bruxelles. In quell’occasione, dopo estenuanti trattative con gli altri Stati europei, aveva negoziato un nuovo accordo con l’Ue che prevedeva drastiche limitazioni per l’accesso ai benefici del welfare britannico da parte degli altri cittadini comunitari. In vista della futura revisione dei Trattati europei aveva inoltre ottenuto il riconoscimento formale che il mercato europeo non possiede un sistema valutario unico (la Gran Bretagna, come è noto, non ha adottato l’euro come moneta legale) e l’esenzione di Londra dalla clausola di una “Unione sempre più stretta” su cui si fonda l’Europa sin dal Trattato di Roma del 1957, considerata l’anticamera di quel “superstato” europeo, burocratico e oppressivo, che agli inglesi effettivamente non è mai piaciuto. Dovevano essere, proprio perché razionali, argomenti sufficienti per convincere i suoi concittadini a votare contro l’uscita dall’Europa, ma evidentemente c’è stato qualcosa di sbagliato nei calcoli di Cameron, buttatosi nell’avventura di questo referendum con una leggerezza e una sicumera forse eccessive. Una consultazione popolare voluta per neutralizzare l’ascesa del populismo ostile a Bruxelles rischia così di risolversi nella vittoria di quest’ultimo, viste anche le profonde divisioni interne al mondo conservatore e il diffondersi di una vena fortemente euroscettica anche nell’elettorato laburista. Il caso di Cameron, un leader che non riesce a calcolare in modo ragionevolmente prevedibile gli effetti politici delle proprie scelte, e che dunque si trova costretto a utilizzare gli stessi toni allarmistici e demagogici degli avversari che tanto disprezza, è indicativo del problema che attanaglia oggi l’Europa e probabilmente tutte le grandi democrazie occidentali. Nell’epoca della massima personalizzazione del potere, nella quale non si fa altro che parlare di carisma e del ruolo delle grandi personalità politiche, ciò che mancano sono esattamente i leader. È questo il paradosso storico che spiega, naturalmente accanto ad altri fattori, la crisi della politica, la perdita di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e l’ascesa della protesta populista. All’apparenza la scena pubblica abbonda di capi politici in grado di mobilitare un grande consenso elettorale e di toccare, con le loro parole, i sentimenti dei cittadini. La crisi dei partiti politici tradizionali, con i loro pesanti apparati organizzativi, e il ruolo crescente della comunicazione politica, che per definizione deve essere immediata e alla portata di tutti, hanno facilitato l’ascesa di personaggi dotati di una grande presenza scenica e di un’indubbia capacità dialettica. Il problema è capire se costoro siano dotati, oltre che di un certo magnetismo e di una personalità debordante, anche di una qualche capacità o virtù politica. L’impressione, infatti, è che il successo mediatico sia cosa diversa dall’esercizio responsabile del potere. Così come fiutare gli umori cangianti e superficiali del popolo non è la stessa cosa che comprenderne gli stati d’animo profondi e più radicati. Per vincere alle urne, magari sfruttando il disorientamento e le ansie che in certi momenti storici circolano nel corpo sociale, spesso bastano un fisico aitante, una buona parlantina, una discreta padronanza degli strumenti di comunicazione (dalla televisione ai nuovi media elettronici) e il fiuto innato per il potere che ogni politico per definizione deve possedere. Ma conoscere i problemi, saperli analizzare, prospettare per essi soluzioni pragmatiche e adeguate, fare (se necessario) scelte controcorrente, guardare lontano, avere una visione e un progetto, mantenere la lucidità nei momenti difficili, non farsi catturare dall’ebbrezza della popolarità e del potere, perseguire con tenacia i propri obiettivi andando oltre le contingenze, possedere dei valori e farsi guidare da essi nei propri comportamenti, precedere le masse invece di seguirle: tutto questo è ciò che tradizionalmente definisce un leader o capo politico, esattamente come erano coloro che l’Europa l’hanno fatta nascere e prosperare. Ma tutto questo è esattamente ciò che sembra mancare alla gran parte degli odierni governanti e capipopolo europei, coloro che l’Europa rischiano di farla seriamente morire. LA NUOVA Pag 1 Minaccia specifica, ora siamo nel mirino di Renzo Guolo L’emergere, per effetto di indagini o di azioni, di gruppi jihadisti in Europa genera paura. Il timore non riguarda solo atti eclatanti che colpiscano bersagli dall’alto valore simbolico, ma anche quello di una jihad della vita quotidiana che mette a rischio la vita delle persone in ambiti che un tempo si potevano ritenere sicuri. Del resto è questo l’obiettivo jihadista: far sentire tutti possibili bersagli. Si tratti dell’azione di individui o piccoli gruppi che non hanno legami organici con l’Is o Al Qaeda o di veri e propri spezzoni di quelle organizzazioni. Per entrare in azione, ai primi è sufficiente, oltre che avere armi e esplosivi, l’adesione all’ideologia islamista radicale che, nella sua tassonomia del Nemico, definisce chiaramente quali sono gli obiettivi da colpire, spesso indistinti: purché corrispondano a una delle molte categorie ideologiche che classificano il grado di ostilità radicale verso il Nemico stesso. I secondi, invece, agiscono pianificando con cura i loro bersagli. Un rischio sempre più elevato mentre l’Is si avvia a una sconfitta sul piano della statualità, con un notevole ridimensionamento della sua forza territoriale in Siria e Iraq. Una prospettiva che può spingere i vertici dell’organizzazione a volgersi ancora una volta contro il Nemico lontano. In Occidente in generale, in Europa, più vicina logisticamente ai teatri di conflitto, in particolare. È in questo quadro che l’inchiesta di Bari, che ha condotto all’arresto di alcuni afghani sospettati di progettare azioni terroristiche o, comunque, di raccogliere immagini e fare sopralluoghi in aree sensibili, così come gli arresti a fine aprile in Lombardia di simpatizzanti in procinto di trasformarsi in foreign fighters e partire per la Siria, così come, qualche giorno fa l’arresto di un convertito sloveno che reclutava jihadisti nel territorio nazionale, sono tutti episodi che fanno salire l’allarme. L’intensificarsi delle operazioni, pur coronate da successo, fa lievitare la sensazione che l’Italia sia passata da un rischio, alto ma generico, a una minaccia specifica. Del resto, sebbene la situazione politica e militare in Libia non consenta ancora a Roma di guidare una missione internazionale che tutti danno per imminente, l’Italia è parte fondativa dello schieramento che si prefigge di sconfiggere il radicalismo islamista. La nostra presenza in Iraq, sia pure con compiti di addestramento, ma nell’imminenza di quella che si annuncia la battaglia per la riconquista di Mosul, la capitale del Califfato Nero, e di presidio della grande diga vicina alla città irachena, non attenua certo, agli occhi degli ideologi radicali, la responsabilità italiana nel campo “crociato”. Come ogni paese occidentale, l’Italia può essere colpita: dall’interno o dall’esterno. Nel tempo della guerra globale, la distinzione tra zone di guerra e zone indenni dal conflitto, lascia il tempo che trova: tanto più quando in campo uno degli attori teorizza e mette in pratica forme di guerra asimmetrica. Non ci sono zone sicure: anche perché la concentrazione della sorveglianza attorno a luoghi e strutture simbolo lascia, inevitabilmente, sguarniti altri bersagli, più “soft”: quelli che possono diventare teatro della jihad della vita quotidiana. Producendo, per impatto e vittime, un effetto altrettanto forte di quello che si verificherebbe nel caso fossero colpiti siti politicamente sensibili. Anche se, è ovvio, che vi sono luoghi in cui è meno probabile che avvengano attentati. Da questo punto di vista l’Italia si trova nella stessa situazione di altri paesi europei. Con una particolarità, che riguarda il suo confine a Nordest. In quell’area vi sono condizioni particolari: la grande disponibilità di armi e esplosivi appena oltre confine, prodotto delle guerre balcaniche; l’insediamento, in particolare in Bosnia ma non solo, di elementi radicali wahhabiti, giunti nella regione nei frangenti della dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, che hanno legami con residenti in quella parte del paese. Fattori che favoriscono la creazione di un ambiente che, per ora, ha agito dentro e fuori dai nostri confini, come retrorerra logistico e bacino di reclutamento per il teatro mesopotamico, ma che in futuro, potrebbe diventare la porta d’ingresso di nuclei, organicamente legati alla filiera jihadista, decisi a colpire l’Italia. Torna al sommario