Rassegna stampa 11 maggio 2016

Transcript

Rassegna stampa 11 maggio 2016
RASSEGNA STAMPA di mercoledì 11 maggio 2016
SOMMARIO
Ricorre domani - giovedì 12 maggio - il secondo anniversario della morte del
Patriarca emerito card. Marco Cè. La Diocesi di Venezia lo ricorderà, nel
pomeriggio, con un doppio appuntamento previsto nella basilica cattedrale di S.
Marco: alle ore 18.00 verrà presentato il libro “Il volto di Dio è amore
misericordioso”, che raccoglie alcune sue meditazioni, mentre alle 18.45 ci sarà la S.
Messa presieduta dal Patriarca Francesco Moraglia. Il volume è stato voluto e
promosso dall’Ufficio catechistico diocesano, è edito da Marcianum Press, curato da
Luisa Bienati e impreziosito dalle riproduzioni di alcune icone realizzate da Maria
Cristina Ghitti, monaca di Montesole (nel Bolognese) e figlia spirituale del Patriarca
Marco. Raccoglie le intense meditazioni del card. Cè direttamente tratte dai testi
originali - manoscritti e inediti - da lui preparati in occasione del corso di esercizi
spirituali diocesani condotto sul tema “I misteri della vita di Cristo” e predicato dal
28 aprile al 1 maggio 2012 nella Casa Maria Assunta di Cavallino. “E’ provvidenziale
– racconta don Valter Perini, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano – che
questa serie di meditazioni sull'adorabile figura di Cristo esca nel cuore dell'Anno
della Misericordia. Cè è stato un testimone esemplare della misericordia di Cristo e
il libro è davvero molto bello. A me piace molto soprattutto il capitolo sui trent'anni
di Gesù trascorsi a Nazaret; nella contemplazione di questo sprofondamento di Gesù
nel silenzio emerge la spiritualità del Patriarca Marco, che amava la vita
“nascosta", il silenzio, l'umiltà, i gesti semplici e quotidiani”. La prefazione è stata
scritta dal Patriarca Francesco Moraglia che osserva tra l’altro: “Il cardinale Marco
Cè, giunto al termine del suo servizio episcopale, si diede toto corde al ministero
della predicazione e, in particolare, alla predicazione degli esercizi spirituali. Il
ministero della Parola era diventato per lui impegno prioritario; era la modalità
concreta per continuare a servire con dedizione e amore di padre - da autentico
patriarca - la Chiesa di Venezia. E così il Cardinale ha potuto vivere fino alla fine la
pienezza del suo sacerdozio, l’esser prete e vescovo per la gente”. E, riprendendo il
titolo del libro, annota ancora che il card. Cè “ha sempre amato quel Volto, l’unico
in grado di donare agli uomini la pace e la salvezza e, proprio indicando quel Volto,
il Patriarca intendeva dischiudere a tutti, ma in particolare ai fedeli laici per i quali
ha sempre nutrito grande attenzione e affetto, la dignità sublime della loro
vocazione e missione battesimale”.
“Ci vogliono fede e coraggio, oggi, in Pakistan per portare la croce da cristiani - scrive
il direttore Marco Tarquinio sulla prima pagina odierna di Avvenire -. Un coraggio che
si fa enorme per abbracciare la croce in pubblico. I cristiani pachistani mostrano la
loro fede e trovano questo coraggio ogni giorno, da uomini e da donne che non
intendono rinunciare a essere se stessi. Credenti e cittadini, cittadini e credenti:
l’una e l’altra cosa insieme, non senza timore e sofferenza, ma senza esitazioni.
Perché venga il tempo in cui la convivenza tra uguali e il rispetto di ogni differenza
siano finalmente regola salda, e pacifica. Ci vogliono fede e coraggio in Pakistan per
portare la croce da cristiani. E ce ne vogliono persino di più per farlo da non cristiani.
Eppure accade. Il musulmano Khurram Zaki, giornalista e attivista per i diritti umani,
uomo buono, lo ha fatto. Domenica scorsa è morto per questo, assassinato. Aveva
letteralmente alzato e mostrato la croce, manifestando fianco a fianco nel 2014 con i
cristiani attaccati e massacrati nelle loro chiese da fanatici islamici legati al
movimento taleban. E si era idealmente caricato sulle spalle la croce della battaglia
per la difesa dei diritti delle minoranze, reclamando soltanto di poter onorare il
dovere di «costruire il Pakistan», secondo libertà, giustizia, rispetto reciproco,
fraternità. Abbiamo tutti bisogno di conoscere e ascoltare uomini come Khurram il
costruttore, perché ci sono di esempio. Sono persone che a loro volta sanno
conoscere e ascoltare. Tutti i veri costruttori sono così, e sono aperti, sereni, fedeli,
amanti delle buone regole e perciò determinanti nella battaglia per cambiare le leggi
ingiuste come quella che in Pakistan viene chiamata «anti-blasfemia », ma bestemmia
la vita dei pachistani di ogni fede e di ogni pensiero. I distruttori, invece, in Pakistan e
in ogni altra terra, compresa la nostra italiana ed europea, non conoscono e non
vogliono che ci si conosca, non ascoltano e non vogliono che ci si ascolti, coltivano
ogni chiusura e alzano ogni tipo di barriera, insultano e imbavagliano, demoliscono i
ponti e odiano gli uomini- ponte, fino a ucciderli. Come è toccato a Khurram Zaki. E
prima di lui a Shahbaz Bhatti, lucido e generoso ministro cristiano per le minoranze,
martire per il suo impegno. E a Salman Taseer, musulmano, che da politico coraggioso
seppe schierarsi subito a difesa di Asia Bibi, condannata a morte solo perché fedele a
Cristo. I distruttori disseminano sofferenze e lutti, accumulano rancori e sembrano
sempre avere la meglio, ma alla fine non vincono, non vincono mai. Continueranno a
essere sconfitti sino a quando ci saranno uomini e donne capaci di buona fede, di
buona volontà e di memoria. Questa è la parte che tocca a tutti noi, senza distinzioni
di origine e di fede. Perché la memoria degli uomini giusti, che i distruttori vogliono
sporcare e cancellare, vince anche la morte ed è la madre dei costruttori di giustizia e
di pace” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
AVVENIRE
Pag 17 Venezia, una Messa e un libro ricordano il patriarca Cè
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 8 Vittime di una violenza inaudita
Il Papa torna a denunciare le persecuzioni contro i cristiani e le minoranze religiose
Pag 8 Gioventù bruciata
Messa a Santa Marta
AVVENIRE
Pag 2 Vite da bruciare di Riccardo Maccioni
L’invito alla missionarietà rivolto dal Papa ai giovani
LA NAZIONE
Tutti gli uomini di Papa Francesco di Nina Fabrizio
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Esercizi di lettura. La "Amoris laetitia" del cardinale Müller di Sandro Magister
In un monumentale discorso in Spagna, il prefetto della dottrina della fede riconduce
l'esortazione postsinodale nell'alveo della disciplina precedente della Chiesa. Troppo
tardi. Perché ormai Francesco l'ha scritta in modo da far capire il contrario
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La scuola senza storia di Ernesto Galli della Loggia
Il Concorsone
Pag 5 Unioni civili, che cosa cambia? di Alessandra Arachi e Luigi Ferrarella
Welfare, decreti attuativi e rito. “Bigamia” consentita e altri vuoti del testo
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 11 Mestre, la città più colpita dalla crisi. In centro un negozio su 5 è chiuso
di Gloria Bertasi
Vetrine con le ruote, traslochi di pochi metri per risparmiare affitto
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XXI Nel centro islamico non si potrà pregare di Giuseppe Babbo
Jesolo, lo ribadisce ai fedeli il sindaco Zoggia: “Potranno solo fare incontri culturali,
eseguiremo controlli”
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 7 Da Belluno all’esercito dell’Isis. “Pagato 200 dollari al mese. Vivo solo, è
difficile tornare” di Andrea Priante
LA NUOVA
Pag 1 Autonomia, voto storico per il Veneto di Mario Bertolissi
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La riforma non è perfetta ma i suoi nemici hanno torto di Angelo Panebianco
LA REPUBBLICA
Pag 1 Matteo Renzi, la sinistra e l’Europa immaginata da Francesco di Eugenio
Scalfari
Pag 1 Quando Roma val bene una messa di Stefano Folli
Pag 3 Ira dei vescovi sulla maggioranza: “Una forzatura votare così la legge” di
Giovanna Casadio, Carmelo Lopapa, Giovanna Vitale e Paolo Rodari
Alla Camera fiducia sulle unioni civili. Marchini attacca: “Non le celebrerò”. L’arcivescovo
Pennisi: “Fascismo strisciante, metà del Paese è contro”
LA STAMPA
Due nuovi fronti aperti per il governo Renzi di Marcello Sorgi
AVVENIRE
Pag 1 Ricordate Khurram Zaki di Marco Tarquinio
Uno giusto, e ucciso per questo
Pag 3 I 14 giorni dell’embrione e la ricerca senza “autovelox” di Assuntina
Morresi
Dove porta la richiesta di infrangere un nuovo limite
Pag 5 Pakistan, fa paura agli estremisti la faccia dell’islam che sa dialogare di
Stefano Vecchia e Lucia Capuzzi
Tutti testimoni della convivenza, il loro sacrificio nel nome del pluralismo
Pag 9 Quella voglia di nozze gay che torna a galla
IL GAZZETTINO
Pag 1 Gran Bretagna, mancano i leader e la Ue è a rischio di Alessandro Campi
LA NUOVA
Pag 1 Minaccia specifica, ora siamo nel mirino di Renzo Guolo
Torna al sommario
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
AVVENIRE
Pag 17 Venezia, una Messa e un libro ricordano il patriarca Cè
Ricorre il 12 maggio il secondo anniversario della morte del patriarca emerito di Venezia,
il cardinale Marco Cè (19252014). La diocesi lo ricorderà domani con un doppio
appuntamento nella basilica di San Marco: alle 18 verrà presentato il libro “Il volto di Dio
è amore misericordioso”, che raccoglie alcune meditazioni di Cè (gli Esercizi spirituali
diocesani tenuti dal 28 aprile al 1 maggio 2012), mentre alle 18.45 il patriarca Francesco
Moraglia presiederà la Messa. Il volume, promosso dall’Ufficio catechistico diocesano, è
edito da Marcianum Press, curato da Luisa Bienati, con le riproduzioni di alcune icone
realizzate da Maria Cristina Ghitti, monaca di Montesole e figlia spirituale di Cè, patriarca
di Venezia dal 1978 al 2002.
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 8 Vittime di una violenza inaudita
Il Papa torna a denunciare le persecuzioni contro i cristiani e le minoranze religiose
Nuovo appello di Francesco per i cristiani e le minoranze religiose vittime di persecuzioni
in Egitto e in Medio oriente. In una lettera inviata a Tawadros II, Papa di Alessandria e
Patriarca della sede di San Marco, in occasione della giornata dell’amicizia coptocattolica - che si celebra nel terzo anniversario del fraterno incontro svoltosi in Vaticano
nel 2013 a quarant’anni da quello tra Paolo VI e Shenouda III - il Pontefice ricorda le
«grandi difficoltà» e le «situazioni tragiche» che stanno vivendo i credenti in molti Paesi.
E chiede alla comunità internazionale di «rispondere in modo saggio e giusto a questa
inaudita violenza».
A Sua Santità Tawadros II Papa di Alessandria e Patriarca della Sede di San Marco
Ricordando con piacere il terzo anniversario del nostro incontro fraterno a Roma il 10
maggio 2013, le porgo, Santità, i miei cordiali buoni auspici di pace e salute, ed esprimo
la mia gioia per i vincoli spirituali sempre più profondi che uniscono la Sede di Pietro e la
Sede di Marco.
È con gratitudine nel Signore nostro Dio che ricordo i passi che abbiamo compiuto
insieme sul cammino della riconciliazione e dell’amicizia. Dopo secoli di silenzio,
malinteso e perfino ostilità, cattolici e copti si stanno incontrando sempre più spesso,
dialogando e cooperando nel proclamare il Vangelo e servire l’umanità. In questo
rinnovato spirito di amicizia, il Signore ci aiuta a vedere che il vincolo che ci unisce nasce
dalla stessa chiamata e missione che abbiamo ricevuto dal Padre nel giorno del nostro
battesimo. Di fatto, è attraverso il battesimo che diventiamo membri dell’unico Corpo di
Cristo che è la Chiesa (cfr. 1 Cor 12, 13), il popolo di Dio, che proclama le sue lodi (cfr.
1 Pt 2, 9). Che lo Spirito Santo, motivo e portatore di tutti i doni, ci unisca sempre più
nel vincolo di amore cristiano e ci guidi nel nostro pellegrinaggio comune, in verità e
carità, verso la piena comunione. Desidero anche esprimerle, Santità, il mio profondo
apprezzamento per la generosa ospitalità offerta durante il tredicesimo incontro della
Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e le
Chiese Ortodosse Orientali, che si è tenuta al Cairo su invito del Patriarcato della Sede di
San Marco. Le sono grato per aver ricevuto i membri della Commissione Mista nel
monastero di San Bishoy a Wadi Natrum, e sono certo che condividiamo l’ardente
speranza che questo importante dialogo possa continuare per progredire e dare
abbondanti frutti. Pur essendo ancora in cammino verso quel giorno in cui ci riuniremo
come una cosa sola alla stessa mensa eucaristica, possiamo già adesso rendere visibile
la comunione che ci unisce. Copti e cattolici possono testimoniare insieme valori
importanti come la sacralità e la dignità di ogni vita umana, la santità del matrimonio e
della vita familiare, il rispetto del creato che ci è stato affidato da Dio. Dinanzi a tante
sfide contemporanee, copti e cattolici sono chiamati a dare una risposta comune fondata
sul Vangelo. Mentre continuiamo il nostro pellegrinaggio terreno, se impareremo a
portare i fardelli gli uni degli altri e a scambiarci il ricco patrimonio delle nostre rispettive
tradizioni, vedremo con maggiore chiarezza che ciò che ci unisce è più grande di ciò che
ci divide. Santità, ogni giorno i miei pensieri e le mie preghiere sono con le comunità
cristiane in Egitto e in Medio Oriente, molte delle quali stanno vivendo grandi difficoltà e
situazioni tragiche. Sono ben consapevole della vostra seria preoccupazione per la
situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria, dove i nostri fratelli e sorelle
cristiani e altre comunità religiose devono affrontare prove quotidiane. Possa Dio nostro
Padre concedere pace e consolazione a tutti coloro che soffrono, e ispirare la comunità
internazionale a rispondere in modo saggio e giusto a questa inaudita violenza. In
questa occasione, che giustamente è ormai conosciuta come giornata dell’amicizia
copto-cattolica, scambio volentieri con lei, Santità, un abbraccio fraterno di pace in
Cristo il Signore Risorto.
Dal Vaticano, 10 maggio 2016
Francesco
Pag 8 Gioventù bruciata
Messa a Santa Marta
«Bruciare la vita per le cause nobili»: ecco un’opportunità offerta ai ragazzi di oggi, che
immersi in una «cultura del consumismo» e «del narcisismo» sono spesso insoddisfatti e
poco felici. Nella messa celebrata martedì 10 maggio a Santa Marta, Papa Francesco ha
messo al centro della propria riflessione la testimonianza dei missionari - «la gloria della
nostra Chiesa» - proponendola come modello per i giovani. L’omelia del Pontefice ha
preso spunto dalla prima lettura del giorno tratta dagli Atti degli apostoli (20, 17-27),
nella quale si legge quello che - ha detto il Papa - «potremmo chiamare il “congedo di un
apostolo”». È il brano in cui «Paolo fa venire a Mileto i presbiteri di Efeso e dice loro che
non li vedrà più, perché deve andarsene, perché lo Spirito lo costringe ad andare a
Gerusalemme». Analizzando questo testo, si vede come, prima di tutto, l’apostolo faccia
«un esame di coscienza: “Voi sapete come mi sono comportato con voi in tutto questo
tempo”». È una disamina in cui Paolo «fa un racconto di come si è comportato» e, in un
primo momento, sembra anche «che si vanti un po’». In realtà «non è così», tant’è che
egli stesso aggiunge: «Semplicemente è stato lo Spirito che mi ha portato a questo». Poi
continua: «Costretto dallo Spirito io vado a Gerusalemme. Lo Spirito mi ha mandato qui
ad annunziare Gesù e lo Spirito adesso mi chiama ad andare a Gerusalemme». Dopo
l’esame di coscienza emerge cioè un altro elemento: la «docilità» allo Spirito Santo. È un
congedo in cui Paolo esprime sia «una nostalgia nel guardare indietro a quello che il
Signore ha fatto con lui», sia «un sentimento di ringraziamento al Signore». Questo
passo della Scrittura, ha notato Francesco, fa venire alla mente «il bel brano letterario
dello spagnolo Pemán» nel quale si legge «la descrizione del congedo dalla vita di san
Francesco Saverio davanti alle spiagge della Cina. Anche lui fa un esame di coscienza:
solo, davanti a Dio». Significativo è anche il seguito della narrazione, perché ci si può
chiedere: «Cosa aspetta a Paolo?». Infatti l’apostolo scrive che «va a Gerusalemme
“senza sapere ciò che là mi accadrà”». Come un missionario che parte «senza sapere
cosa lo aspetta». Di un’unica cosa è certo: «So soltanto che lo Spirito Santo, di città in
città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni». E, ha commentato il Pontefice,
anche «il missionario sa che non sarà facile la vita, ma va avanti». Infine Paolo aggiunge
«un’altra verità, che fa piangere i presbiteri di Efeso: “E ora, ecco, io so che non vedrete
più il mio volto. Mai ci vedremo qui”». Quindi «dà alcuni consigli. Lo accompagnano fino
alla nave e sulla spiaggia gli si gettano al collo, piangono... E così si congeda» dalla
comunità di Efeso, nella città di Mileto. «Il fine dell’apostolo è il fine dei missionari» ha
commentato il Papa. «Credo - ha spiegato - che questo brano» evochi «la vita dei nostri
missionari: tanti giovani, ragazze e ragazzi, che hanno lasciato la patria, la famiglia e
sono andati lontano, in altri continenti, ad annunciare Gesù Cristo». Anche loro
«andavano “costretti” dallo Spirito Santo», era la loro «vocazione». E oggi, quando in
quei posti «andiamo nei cimiteri» e «vediamo le loro lapidi», ci rendiamo conto che
«tanti sono morti giovani, a meno di quarant’anni», spesso perché non erano preparati a
sopportare le malattie locali. Capiamo che questi giovani «hanno dato la vita», hanno
«bruciato la vita». Significativa la riflessione di Francesco: «Io penso che loro, in
quell’ultimo momento, lontani dalla loro patria, dalla loro famiglia, dai loro cari, hanno
detto: “Valeva la pena, fare quello che ho fatto!”». Nel ricordo di questi giovani, «eroi
dell’evangelizzazione dei nostri tempi», ripensando a come l’Europa abbia riempito altri
continenti di missionari che partivano senza tornare - e che probabilmente, nel loro
«ultimo momento», quello del «congedo», hanno detto come Saverio: «Ho lasciato
tutto, ma valeva la pena!» - il Papa ha affermato: «Credo sia giusto che noi ringraziamo
il Signore per la loro testimonianza». Alcuni sono morti «anonimi», altri come «martiri e
cioè offrendo la vita per il Vangelo»: sono, ha detto Francesco, «la nostra gloria questi
missionari! La gloria della nostra Chiesa!». Di fronte a tali esempi, il Pontefice ha rivolto
un pensiero «ai ragazzi e alle ragazze di oggi», spesso a disagio nella «cultura del
consumismo, del narcisismo». E a loro ha detto: «Ma guardate l’orizzonte! Guardate là,
guardate a questi nostri missionari!». Per questo, ha aggiunto, occorre «pregare lo
Spirito Santo che li costringa ad andare lontano, a “bruciare” la vita». Ha usato proprio
questa espressione forte precisando: «È una parola un po’ dura, ma la vita vale la pena
viverla; ma per viverla bene» bisogna «“bruciarla” nel servizio, nell’annunzio; e andare
avanti. E questa è la gioia dell’annuncio del Vangelo». Concludendo l’omelia, il Papa ha
esortato tutti a ringraziare il Signore «per Paolo, per la sua capacità di andare in un
posto e lasciare quel posto quando lo Spirito Santo lo chiama da un’altra parte», ma
anche «per i tanti missionari della Chiesa» che, nel passato come ancora oggi, hanno
avuto il coraggio di partire. Dal Pontefice anche l’invito a pregare affinché lo Spirito vada
«dentro il cuore dei nostri giovani», dove «c’è qualcosa di insoddisfazione», e «li
costringa ad andare oltre, a bruciare la vita per le cause nobili». Probabilmente, ha
detto, di questo rimarrà solo «una lapide, col nome, la data della nascita, la data della
morte; e passati alcuni anni nessuno si ricorderà di loro», ma loro si saranno «congedati
dal mondo in servizio. E questa è una cosa bella!». Da qui l’invocazione finale: «Che lo
Spirito Santo, che viene adesso, semini nel cuore dei giovani questa voglia di andare ad
annunziare Gesù Cristo, “bruciando” la propria vita».
AVVENIRE
Pag 2 Vite da bruciare di Riccardo Maccioni
L’invito alla missionarietà rivolto dal Papa ai giovani
Più spericolati delle rock star. Più creativi degli artisti. Più coraggiosi degli atleti di sport
estremi. Ma anche umili al punto da dimenticare se stessi. Così amanti della vita da
spenderla per gli altri. Talmente liberi da accettare anche luoghi sconosciuti per
annunciare la Buona Notizia. È una vocazione affascinante, per certi versi irresistibile
quella che, nelle parole del Papa, caratterizza i missionari. Ognuno diverso dagli altri ma
uniti da un dato comune, la «docilità alla voce dello Spirito» che per così dire
«costringe» a prendere la propria esistenza e offrirla a Cristo. Di più, a «bruciarla» per
Lui. Un’immagine, quella del fuoco, che mentre evoca la Pentecoste, richiama la
radicalità delle scelte di fondo, il rifiuto delle mezze misure, la bellezza di consegnarsi
totalmente a chi ci è Padre. «Il missionario – ha sottolineato ieri Francesco nell’omelia
della Messa in Santa Marta – va senza sapere cosa lo aspetta». Ma il suo andare non
evoca incoscienza o temerarietà, è sinonimo di fiducia piena, è fame di eternità, è
consapevolezza che esiste qualcosa che ci supera, in amore e bellezza. Più importante
dei titoli, del successo, del conto in banca, del sorriso degli specchi. Per questo i primi
destinatari delle parole del Papa non possono che essere i giovani, chiamati a «bruciare»
la vita con il loro entusiasmo. Ad andare, con la forza del fuoco che hanno dentro, oltre il
consumismo e il narcisismo, in una parola oltre l’effimero. Una volta di più, come già nei
messaggi delle Gmg, come in decine di incontri avuti con gli adulti di domani, Francesco
chiama i ragazzi e le ragazze ad andare controcorrente, a non essere schiavi della
comodità, della bella vita, dei vizi. Ad avere un cuore libero, come chi si spende fino in
fondo per gli altri, come i missionari. Che sono al tempo stesso benefattori e beneficiati.
Perché l’annuncio del Vangelo prima di essere un bisogno per coloro che non lo
conoscono, è una necessità per chi ama Gesù. È scuola di comunione, è educazione alla
gioia, è testimonianza della carità divina. È vita che brucia sotto l’azione dello Spirito,
che diventa strumento della misericordia di Dio, della sua tenerezza, del suo amore,
soprattutto per i poveri, gli ultimi, i dimenticati.
LA NAZIONE
Tutti gli uomini di Papa Francesco di Nina Fabrizio
Chiamarlo cerchio magico considerata la personalità di base solitaria di papa Francesco,
è forse un po' troppo. Ma certo l'espressione è quanto di più utile per descrivere i nuovi
equilibri disegnatisi attorno a papa Francesco e alla sua struttura di comando nella Curia.
Bergoglio, dopo l'avvio del pontificato con la creazione di commissioni in serie e con
qualche nomina non esattamente azzeccata, anche alla luce della vicenda Vatileaks,
appare ora volersi più appoggiare a pochi, fidati collaboratori. Nel quadro di un
pontificato che da una parte esprime scelte anche rivoluzionarie sul ruolo della Chiesa,
non senza forti contrasti interni, e che dall'altra tende a volersi concretizzare con gesti
pastorali forti, dalle missioni-lampo sui luoghi di frontiera alle docce e bagni per i
senzatetto intorno al Vaticano, Francesco col tempo ha messo insieme le figure che
meglio possono sia assecondare, sia suggerire le sue mosse. Ma chi sono gli "happy few"
attorno al Pontefice? In testa c'è sicuramente il Segretario di Stato, il cardinale veneto
Pietro Parolin, cui il Papa ha affidato la gestione di tutti i grandi dossier internazionali e il
coordinamento della diplomazia pontificia, ma che all'interno della curia ha saputo
gestire in maniera non traumatica l'uscita di scena di Bertone, parando al tempo stesso i
colpi delle possibili nuove lotte di potere. Braccio operativo del Papa è sempre più il
sostituto alla Segreteria di Stato, il sardo Angelo Becciu, portato in Vaticano da Cuba
dove era nunzio dal cardinale Bertone, è diventato un punto di riferimento continuo nelle
attività del Papa. Cruciale il suo ruolo nella missione nell'isola greca di Lesbo da dove
Bergoglio è rientrato portando dodici profughi siriani. Un tratto umano pacato, una lunga
esperienza diplomatica, con la sua capacità di gestire i rapporti umani anche all'interno
della Curia vaticana, Becciu ha saputo conquistarsi l'apprezzamento e la fiducia del Papa.
Con il Giubileo in forte ascesa è l'astro di monsignor Rino Fisichella, cui Francesco ha
affidato la regia degli eventi dell'Anno Santo ed è sempre più una figura presente
accanto al Papa nelle sue uscite, dai Venerdì della Misericordia ai blitz a sorpresa come
quello alla Mariapoli a Villa Borghese per un evento sulla Terra. Nella "squadra" del
Pontefice c'è anche il cardinale toscano Lorenzo Baldisseri, che come segretario del
sinodo ha tenuto dritta la barra nelle acque agitatissime del sinodo sulla Famiglia
conducendo in porto il lavoro da cui è nato il documento "Amoris Laetitae". Un
fidatissimo del Papa è ormai anche il capo dei cerimonieri, monsignor Guido Marini,
diversissimo da lui sia per carattere, sia per impostazione liturgica ma che ha stretto
ormai con Bergoglio un rapporto umano di grande vicinanza. Saldo rimane il legame con
l'ex cerimoniere Konrad Krajewski che Bergoglio ha voluto come Elemosiniere, così come
con il laico Domenico Giani, comandante della Gendarmeria, nel ruolo di altissima
responsabilità, non solo "angelo custode" del Pontefice in epoca di minacce terroristiche,
ma anche preparatore del terreno nei viaggi spesso non semplici di Francesco all'estero,
vedi il Sudafrica. Una new entry nel cerchio magico può essere considerato il prefetto
della Comunicazione, monsignor Dario Edoardo Viganò cui il Papa ha affidato uno dei
capitoli potenzialmente più dolorosi della riforma come il riassetto dei media vaticani.
Presidente e segretario del Governatorato, il cardinale Giuseppe Bertello, membro del C9
come Parolin, e monsignor Fernando Vérgez Alzaga, vecchia conoscenza di Bergoglio dai
tempi del cardinale Pironio, di cui era segretario, stanno invece, dietro mandato del
Papa, lavorando in questi giorni alla riscrittura della Legge fondamentale dello Stato del
Vaticano. Pur bersagliato dalle polemiche infine, uomo fidato del Papa è anche
monsignor Battista Ricca, suoi occhi e orecchie nello Ior come prelato della banca
vaticana, tanto da determinare le ultime nomine che Bergoglio ha sigillato andandole ad
annunciare di persona al Torrione Niccolò V, indicando come direttore generale
Gianfranco Mammì e suo vice Giulio Mattietti. Figure ripescate nella vecchia guardia
dell'istituto.
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Esercizi di lettura. La "Amoris laetitia" del cardinale Müller di Sandro Magister
In un monumentale discorso in Spagna, il prefetto della dottrina della fede riconduce
l'esortazione postsinodale nell'alveo della disciplina precedente della Chiesa. Troppo
tardi. Perché ormai Francesco l'ha scritta in modo da far capire il contrario
Con la "Amoris laetitia" sta accadendo nella Chiesa cattolica qualcosa di simile a quanto
accadde mezzo secolo fa con la "Humanae vitae". A parti rovesciate. L'enciclica di Paolo
VI sulla procreazione era chiarissima. Ma teologi, vescovi e conferenze episcopali
dissenzienti ne diffusero interpretazioni artificiose e fumose, al fine di far apparire lecito
ciò che il papa proibiva. L'esortazione postsinodale di Francesco sulla famiglia è stata
scritta invece in forma volutamente vaga, consentendo a chiunque di leggervi ciò che
desidera, in particolare sulla questione cruciale della comunione ai divorziati risposati. E
tocca a teologi, vescovi e cardinali volonterosi affaticarsi a darne una lettura chiara ed
univoca, in accordo con il magistero della Chiesa di sempre. Tra questi, il più alto
d'autorità è il cardinale Gerhard L. Müller, già vescovo di Ratisbona, editore dell'opera
omnia di Joseph Ratzinger e dal 2012 prefetto della congregazione per la dottrina della
fede. Già pochi giorni prima della pubblicazione della "Amoris laetitia" Müller aveva
ribadito i punti fermi dai quali il magistero della Chiesa non si poteva discostare, in un
libro uscito in Spagna dal titolo: "Informe sobre la esperanza". Ma ai primi di maggio, ad
"Amoris laetitia" pubblicata, egli è tornato in Spagna, prima a Madrid poi a Oviedo, non
solo per presentare il suo libro, ma soprattutto per dettare una lettura dell'esortazione
papale rigorosamente aderente a ciò che vi si trova scritto. Il cardinale Müller ha tenuto
il suo lungo e argomentato discorso di illustrazione della "Amoris laetitia" nel seminario
di Oviedo, il 4 maggio. E in quest'altra pagina web si può leggerlo integralmente così
come l'ha pronunciato, in lingua spagnola. Qui di seguito sono riprodotte le parti centrale
e finale del discorso. Leggendolo, si vedrà come Müller interpreta le ambiguità della
"Amoris laetitia" non come un via libera a cambiamenti della dottrina e della prassi, ma
al contrario come la prova che papa Francesco non ha inteso in alcun modo rompere con
la precedente disciplina, perché se davvero "avesse voluto cancellare una disciplina
tanto radicata e di tanta rilevanza l'avrebbe detto con chiarezza e presentando ragioni a
sostegno", cosa che non ha fatto. Quanto all'ormai famosa nota 351, su cui fanno leva i
fautori della comunione ai divorziati risposati, Müller mostra come essa non tocchi
affatto il caso specifico. E quanto al "discernimento" per esaminare se una persona è o
no colpevole soggettivamente e grazie a ciò ammetterla o no alla comunione, dice:
"L'economia dei sacramenti è un'economia di segni visibili, non di disposizioni interne o
di colpevolezza soggettiva. Una privatizzazione dell'economia sacramentale certamente
non sarebbe cattolica". Ma l'elemento portante dell'intero discorso è la sua architettura
dottrinale e teologica. Dice il cardinale: "Il principio di fondo è che nessuno può
veramente desiderare un sacramento, quello dell'eucaristia, senza desiderare anche di
vivere in accordo con gli altri sacramenti, tra cui quello del matrimonio. […] Cambiare la
disciplina in questo punto concreto, ammettendo una contraddizione tra l'eucaristia e il
matrimonio, significherebbe necessariamente cambiare la professione di fede della
Chiesa, che insegna e realizza l'armonia tra tutti i sacramenti, tale e quale l'ha ricevuta
da Gesù. Su questa fede nel matrimonio indissolubile, non come ideale lontano ma come
realtà concreta, è stato versato sangue di martiri". Colpisce che un discorso di tale
portata il cardinale Müller l'abbia pronunciato non a Roma ma in Spagna e senza che
abbia avuto particolare pubblicità. "L'Osservatore Romano" l'ha del tutto ignorato.
Perché agli effetti pratici il suo impatto è minimo. Come marginale, irrilevante, è ormai il
ruolo del prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Con Francesco è
cambiata infatti la forma del magistero papale. La chiarissima "Humanae vitae" di Paolo
VI fu travolta dalle fumosità di vescovi e cardinali dissenzienti. Mentre invece la "Amoris
laetitia" è vittoriosa proprio grazie alla sua calcolata vaghezza. Perché a tutti i livelli della
Chiesa come nella pubblica opinione è ormai passato ciò che non vi è scritto a chiare
lettere, ma solo fatto intuire.
Che cosa possiamo aspettarci dalla famiglia? Una cultura di speranza per la famiglia,
partendo dalla "Amoris laetitia" di Gerhard L. Müller
Introduzione
[…]
1. Chiesa e famiglia: l'arca di Noè
[…]
2. L'architettura dell'arca: l'amore di Cristo vissuto nella famiglia
[…] Il papa insiste sul fatto che la pastorale matrimoniale deve essere “una pastorale del
vincolo” (AL 211). Dinanzi a una pastorale emotiva, che cerchi soltanto di incoraggiare i
sentimenti o accontentarsi di esperienze intimiste dell'incontro con Dio, una pastorale
del vincolo è una pastorale che prepara al “sì per sempre”. La preparazione al
matrimonio prende luce da qui: accompagnando le tappe del fidanzamento affinché i
giovani imparino a dire "sì, voglio" e accolgano il progetto che Dio ha per loro.
Coltivando il vincolo, l'amore esce da sé stesso, supera il sentimento fluttuante, diventa
forte per sostenere la società ed accogliere i figli. Si tratta di dare una dimora alla
famiglia, della quale il vincolo matrimoniale è la chiave di volta. Nel vincolo si supera
l'individualismo degli sposi o della coppia e si crea una cultura della famiglia, un
ambiente dove l'amore può fiorire, l'arca di Noè per navigare insieme nel diluvio della
postmodernità liquida. Agli sposi la Chiesa garantisce che, in ogni occasione, in qualsiasi
situazione si trovino, veglierà su questo vincolo, lo renderà stabile e lo proteggerà
affinché resti vivo, affinché possiate sempre tornare ad esso, perché in esso sta la vostra
più profonda vocazione. Bisogna capire da qui l'insistenza di papa Francesco su quello
che lui chiama "ideale cristiano". Alcuni hanno interpretato questo ideale come un
obiettivo lontano, solo per pochi. Ma non è questo il pensiero di Francesco. Il papa non è
platonico! Tutto il contrario, per lui il cristianesimo tocca la carne dell'uomo (cf.
"Evangelii gaudium" 88, 233). Lo si vede chiaramente quando Francesco ci avverte che
non dobbiamo presentare "un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi
artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità
delle famiglie così come sono" (AL 36). Qui il papa stesso nega che l'ideale sia astratto e
artificioso. Di che cosa ci parla allora il papa quando fa riferimento all'ideale del
matrimonio? Nella Chiesa l'ideale è sempre l'ideale incarnato, perché il Verbo, il Logos, si
è fatto carne e accompagna la sua vita nei sacramenti. Questa presenza viva e
trasformatrice dell'amore pieno di Gesù si trova precisamente nei sacramenti, che
contengono in sé l'architettura dell'arca di Noè. La "Amoris laetitia", infatti, parla in
diverse occasioni del rapporto tra l'iniziazione cristiana e la vita matrimoniale (AL 84,
192, 206-207, 279) e del nesso tra eucaristia e matrimonio (AL 318). Potremmo
concludere che ogni famiglia e tutta la Chiesa si fondano su questa cultura dell'amore di
Gesù, che è custodita nell'economia dei sacramenti. Questi rimangono segno vivo di
Cristo per generare la sua stessa vita tra gli uomini. Costituiscono l'architettura dell'arca,
quell'arca le cui misure furono dettate da Dio. Il nostro tempo, pieno di desideri liquidi,
ha bisogno, come dicevo prima, di una dimora dell'amore, di una cultura dell'amore. La
Chiesa promuove questa cultura dell'amore precisamente nei suoi sacramenti, che la
costituiscono. Essa potrà offrire speranza agli uomini, a tutti, anche ai lontani, se si
mantiene fedele a questa dimora che ha ricevuto da Dio e mentre promuove questa
cultura comune dell'amore di Cristo, confessata nei segni sacramentali, che sono
l'architettura della nave che ci fa approdare nel buon porto. L'immagine dell'arca di Noè,
della Chiesa che naviga e porta la speranza in mezzo al mondo, è unita al numero otto
che simboleggiava sin dai primi tempi l'ottavo giorno, il giorno della risurrezione di
Cristo, l'inizio del mondo futuro. In questo modo si insisteva sul fatto che la Chiesa non
cammina soltanto verso una lontana pienezza, bensì che in lei questa pienezza
dell'amore è già stata inaugurata. Si, è possibile vivere l'amore di cui ci parla san Paolo
nel suo inno e per questo non dobbiamo aspettare la fine dei tempi. Questo amore
possiamo viverlo adesso, perché la Chiesa, nei suoi sacramenti, mantiene viva ed
efficace, come dono originario di Cristo, la dimora che accoglie, sostiene e dona vigore
alle nostre povere forze.
3. Accogliere nell'arca i più lontani: accompagnare, discernere, integrare
Partendo da questo grande orizzonte della cultura dell'amore, possiamo affrontare una
domanda alla quale il papa ha dedicato la sua attenzione nella "Amoris laetitia": come
dare speranza a quanti vivono lontani e, specialmente, a quanti hanno vissuto il dramma
e la ferita di una seconda unione civile dopo un divorzio? Sono quelli che, per dirla così,
sono naufragati nel diluvio della postmodernità liquida e hanno dimenticato quella
promessa sponsale per la quale sigillarono in Cristo un amore per sempre. Possono
ritornare nell'arca di Noè, costruita sull'amore di Cristo, e sfuggire al diluvio? In tre
parole il papa ci ha indicato la via per questo compito della Chiesa: accompagnare,
discernere, integrare (AL 291-292). Partendo da esse si può leggere il capitolo ottavo
della "Amoris laetitia".
3.1. Accompagnare: l'arca che galleggia e naviga
Si tratta, anzitutto, di accompagnare. Questi battezzati non sono esclusi dalla Chiesa. Al
contrario, la Chiesa, nuova arca di Noè, li accoglie, anche se la loro vita non corrisponde
alle parole di Gesù. Questa capacità di accoglienza è descritta da sant'Agostino
stabilendo una distinzione, sempre riguardo all'arca di Noè come immagine della Chiesa.
In primo luogo, nell'arca non furono ammessi soltanto gli animali puri secondo la Legge.
Questo significava per Agostino che la Chiesa accoglie nel suo seno giusti e peccatori
sotto un medesimo tetto; che è fatta di uomini che cadono e si rialzano, che devono
pronunciare, all'inizio di ogni messa: “Io confesso”. In questo modo, la Chiesa cattolica
si distacca dalla visione donatista, che prospettava una "Chiesa dei puri", nella quale non
c'era posto per il peccatore. Dio separerà il grano dalla zizzania soltanto alla fine dei
tempi, compresa la zizzania che germoglia in ogni credente. Ebbene, dice sant'Agostino,
tutti questi animali, puri ed impuri, passarono sotto la stessa porta ed abitarono in una
stessa dimora, con le stesse pareti e lo stesso tetto. Qui il vescovo d'Ippona fa
riferimento ai sacramenti, con il battesimo come porta, e con il cambiamento di vita che
chiedono a quanti vogliono riceverli, abbandonando il peccato. In questa armonia tra i
sacramenti e la vita visibile dei cristiani, dice sant'Agostino, la Chiesa pone davanti al
mondo la testimonianza non soltanto di come visse Gesù, ma di come sono chiamati a
vivere i membri del corpo di Gesù. La coerenza tra i sacramenti e il modo di vita dei
cristiani assicura, dunque, che la cultura sacramentale nella quale vive la Chiesa e che
essa propone al mondo resti abitabile. Soltanto così può ricevere i peccatori,
accogliendoli con premura ed invitandoli a un cammino concreto affinché superino il
peccato. Ciò che la Chiesa non deve mai abbandonare è l'architettura dei sacramenti,
pena la perdita del dono originario che la sostiene e l'oscuramento dell'amore di Gesù e
del modo con cui questo amore trasforma la vita cristiana. È proprio assimilando questa
struttura sacramentale che la Chiesa evita i due modi possibili di diventare una "Chiesa
dei puri", l'esclusione dei peccatori e l'esclusione del peccato. Dunque, il primo elemento
chiave per questo cammino di accompagnamento è l'armonia tra la celebrazione
sacramentale e la vita cristiana. Questa è la ragione della disciplina eucaristica che la
Chiesa ha mantenuto sin dalle sue origini. Grazie ad essa la Chiesa può essere una
comunità che accompagna, accoglie il peccatore senza per questo benedire il peccato e
così offre la base affinché sia possibile un percorso di discernimento ed integrazione. San
Giovanni Paolo II confermò questa disciplina nella "Familiaris consortio" 84 e nella
"Reconciliatio et poenitentia" 34; la congregazione per la dottrina della fede, a sua volta,
lo affermò nel suo documento del 1994; Benedetto XVI l'approfondì nella "Sacramentum
caritatis" 29. Si tratta di un insegnamento magisteriale consolidato, appoggiato sulla
Scrittura e fondato su una ragione dottrinale: l'armonia salvifica dei sacramenti, cuore
della "cultura del vincolo" che vive la Chiesa. Alcuni hanno affermato che la "Amoris
laetitia" ha eliminato questa disciplina e ha permesso, almeno in alcuni casi, che i
divorziati risposati possano ricevere l'eucaristia senza la necessità di trasformare il loro
modo di vita secondo quanto indicato in FC 84, cioè abbandonando la nuova unione o
vivendo in essa come fratello e sorella. A questo bisogna rispondere che se la "Amoris
laetitia" avesse voluto cancellare una disciplina tanto radicata e di tanta rilevanza
l'avrebbe detto con chiarezza e presentando ragioni a sostegno. Invece non vi è alcuna
affermazione in questo senso; né il papa mette in dubbio, in nessun momento, gli
argomenti presentati dai suoi predecessori, che non si basano sulla colpevolezza
soggettiva di questi nostri fratelli, bensì sul loro modo visibile, oggettivo, di vita,
contrario alla parole di Cristo. Ma non si trova questa svolta – obiettano alcuni – in una
nota a piè di pagina in cui si dice che, in alcuni casi, la Chiesa potrebbe offrire l'aiuto dei
sacramenti a chi vive in situazione oggettiva di peccato (n. 351)? Senza entrare in
un'analisi dettagliata, basta dire che questa nota fa riferimento a situazioni oggettive di
peccato in generale, senza citare il caso specifico dei divorziati in nuova unione civile. La
situazione di questi ultimi, effettivamente, ha caratteristiche particolari che la
distinguono da altre situazioni. Questi divorziati vivono in contrasto con il sacramento
del matrimonio e, dunque, con l'economia dei sacramenti, il cui centro è l'eucaristia.
Questa è, infatti, la ragione richiamata dal precedente magistero per giustificare la
disciplina eucaristica di FC 84; un argomento che non è presente nella nota né nel suo
contesto. Ciò che afferma, dunque, la nota 351 non tocca la disciplina precedente: è
sempre valida la norma di FC 84 e di SC 29 e la sua applicazione in ogni caso. Il
principio di fondo è che nessuno può veramente desiderare un sacramento, quello
dell'eucaristia, senza desiderare anche di vivere in accordo con gli altri sacramenti, tra
cui quello del matrimonio. Chi vive in contrasto col vincolo matrimoniale si oppone al
segno visibile del sacramento del matrimonio; in ciò che tocca la sua esistenza corporea,
anche se dopo soggettivamente non fosse colpevole, egli si rende "anti-segno"
dell'indissolubilità. E precisamente perché la sua vita corporea è contraria al segno, non
può formare parte, ricevendo la comunione, del supremo segno eucaristico, dove si
rivela l'amore incarnato di Gesù. La Chiesa, se lo ammettesse, cadrebbe in quello che
san Tommaso d'Aquino chiamava la "falsità nei segni sacramentali". E non siamo dinanzi
a una conclusione dottrinale eccessiva, bensì dinanzi alla base stessa della costituzione
sacramentale della Chiesa, che abbiamo paragonato all'architettura dell'arca di Noè. È
un'architettura che la Chiesa non può modificare perché viene da Gesù stesso; perché
essa, la Chiesa, nasce da qui, e qui si appoggia per navigare nelle acque del diluvio.
Cambiare la disciplina in questo punto concreto, ammettendo una contraddizione tra
l'eucaristia e il matrimonio, significherebbe necessariamente cambiare la professione di
fede della Chiesa, che insegna e realizza l'armonia tra tutti i sacramenti, tale e quale l'ha
ricevuta da Gesù. Su questa fede nel matrimonio indissolubile, non come ideale lontano
ma come realtà concreta, è stato versato sangue di martiri. Qualcuno potrebbe
insistere: non ha poca misericordia Francesco se non compie questo passo? Non è
troppo chiedere a queste persone che camminino verso una vita conforme alla Parola di
Gesù? Succede piuttosto il contrario. Diremmo, utilizzando l'immagine dell'arca, che
Francesco, sensibile alla situazione di diluvio vissuta dal mondo attuale, ha aperto tutte
le finestre possibili della nave e ci ha tutti invitati a lanciare corde dalle finestre per
trarre dentro nella barca l'uomo naufrago. Ma permettere, sia pure soltanto in alcuni
casi, che si dia la comunione a chi tiene visibilmente un modo di vita contrario al
sacramento del matrimonio non sarebbe aprire una finestra in più, ma aprire una breccia
nel fondo della nave, lasciando che vi entri il mare e mettendo in pericolo la navigazione
di tutti e il servizio della Chiesa alla società. Più che una via d'integrazione sarebbe una
via di disintegrazione dell'arca ecclesiale, una via d'acqua. Nel rispettare questa
disciplina, quindi, non solo non si pone un limite alla capacità della Chiesa di salvare la
famiglie, ma si assicura anche la stabilità della nave e la sua capacità per portarci in un
buon porto. L'architettura dell'arca è necessaria proprio perché la Chiesa non permetta
che nessuno si blocchi in una condizione contraria alla parola di vita eterna di Gesù,
cioè, perché la Chiesa non condanni “eternamente nessuno” (cf. AL 296-297). Nel
preservare l'architettura dell'arca si preserva, potremmo dire, la nostra casa comune che
è la Chiesa, stabilita sull'amore di Gesù; si preserva la cultura o l'ambiente della
famiglia, decisiva per tutta la sua pastorale familiare e il suo servizio alla società. In
questo modo ritorniamo a quello che abbiamo considerato il punto centrale della
speranza della Chiesa per la famiglia: la necessità di creare una cultura della famiglia, di
offrire una dimora al desiderio e all'amore. Si tratta di animare una “cultura del vincolo”,
parallela alla “pastorale del vincolo” di cui parla il papa; cultura che oggi, nella società
postmoderna, soltanto la Chiesa cattolica genera. Qui vediamo che questa disciplina
della Chiesa ha un enorme valore pastorale. Abbiamo discusso molto in questi anni sulla
possibilità di dare la comunione ai divorziati in una nuova unione civile. All'inizio della
"Amoris laetitia" il papa ha ricordato alcune posizioni eccessive che sono state affacciate.
Gli argomenti sono stati molti e molto vari, con il rischio di perdersi in selve intricate di
casistiche. Cerchiamo per un attimo di prendere un poco di distanza e guardare la
questione in prospettiva, dimenticando i dettagli. Se la Chiesa ammettesse alla
comunione i divorziati che vivono in una nuova unione senza chiedere loro un cambio di
vita, lasciando che continuino nella loro situazione, non dovrebbe dire semplicemente
che ha accettato il divorzio in certi casi? Certamente, non lo avrà accettato per iscritto,
continuerà ad affermare [l'indissolubilità] come ideale, ma non la ammette come ideale
anche la nostra società? In che cosa la Chiesa sarebbe diversa allora? Potrebbe dire che
è ancora fedele alle parole di Gesù, parole chiare, che allora suonarono dure? Non
furono queste parole contrarie alla cultura e alla prassi del suo tempo, permissive con un
divorzio caso per caso per adattarsi alla fragilità dell'uomo? In pratica, l'indissolubilità
del matrimonio rimarrebbe come un bel principio, perché comunque non sarebbe
confessata nell'eucaristia, il vero luogo dove si professano le verità cristiane che toccano
la vita e danno forma alla testimonianza pubblica della Chiesa. Dobbiamo chiederci: non
abbiamo considerato questo problema troppo dal punto di vista dei singoli individui?
Tutti possiamo capire il desiderio di accedere alla comunione di questi nostri fratelli e le
difficoltà che hanno ad abbandonare la loro unione o a vivere in essa in un altro modo.
Dal punto di vista di ognuna di queste storie, potremmo pensare: che cosa ci costa, in
fondo, lasciare che si comunichino? Abbiamo dimenticato, mi sembra, di guardare le
cose da un più ampio orizzonte, dalla Chiesa come comunione, dal suo bene comune.
Perché da una parte il matrimonio ha un carattere intrinsecamente sociale. Cambiare il
matrimonio per alcuni casi significa cambiarlo per tutti. Se vi sono alcuni casi in cui non
è importante vivere contro il vincolo sacramentale, non bisognerebbe dire ai giovani che
vogliono sposarsi che queste eccezioni valgono anche per loro? Non penetrerà poi questa
idea anche in quelle coppie che lottano per rimanere unite ma soffrono il peso del
cammino e la tentazione di abbandonare? Inoltre, da un altro lato, l'eucaristia ha anche
una struttura sociale (cf. AL 185-186), non dipende soltanto dalle mie condizioni
soggettive, ma anche da come mi relaziono con gli altri dentro il corpo della Chiesa,
perché la Chiesa nasce dall'eucaristia. Intendere il matrimonio e l'eucaristia come atti
individuali, senza prendere in considerazione il bene comune della Chiesa, finisce per
dissolvere la cultura della famiglia, come se Noè, nel vedere tanti naufraghi attorno alla
nave, smontasse fondo e pareti per dare a ciascuno una tavola. La Chiesa perderebbe la
sua essenza comunionale, fondata nell'ontologia dei sacramenti, e diventerebbe una
congerie di individui che galleggiano senza meta in balia delle onde. In realtà, i divorziati
in una nuova unione civile che si astengono dall'accostarsi all'eucaristia e camminano
per poter rigenerare il loro desiderio in conformità ad essa, stanno proteggendo la
dimora della Chiesa, la nostra casa comune. E anche per loro stessi è un bene
mantenere intatte le pareti dell'arca, della dimora dove è contenuto il segno dell'amore
di Gesù. Così la Chiesa può ricordare loro: "Non ti fermare, c'è possibilità anche per te,
non sei escluso dal ritorno all'alleanza sacramentale che hai contratto, anche se ci vorrà
tempo; puoi vivere, con la forza di Dio, in fedeltà ad essa". E se qualcuno dice che
questo è impossibile, ricordiamo le parole della "Amoris laetitia": “Sicuramente è
possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo” (AL 102). Dunque, nessuno si senta
escluso dal cammino verso la vita grande di Gesù. Il desiderio di ricevere la comunione
può condurre, con l'aiuto del pastore (e qui si apre la via del discernimento) a una
rigenerazione del desiderio, affinché ritroviamo in noi la sete di vivere secondo le parole
del Signore. Insomma, il papa nell'esortazione ci avverte contro due deviazioni. Ci sono
quelli che vogliono condannare e si accontentano di un immobilismo che non apre nuove
vie affinché queste persone possano rigenerare il loro cuore. E dell'altra parte ci sono
quelli che vedono la soluzione nel trovare eccezioni in diversi casi, rinunciando a
rigenerare il cuore delle persone. Non sarebbe necessario elevarsi sopra tutto questo e
prendere un altro punto di vista? Questo punto di vista è quello della comunione
ecclesiale, quello del bene comune della Chiesa, quello di mantenere vivo nel suo centro,
come cultura della famiglia, la vita stessa di Cristo che ci anima nei sacramenti. Se
demoliamo la struttura dell'arca di Noè, come possiamo essere sicuri che si manterrà a
galla e che non colerà a picco la speranza cristiana per tutte la famiglie?
3.2. Discernere e integrare
Dentro questa cultura della famiglia, che si poggia sull'architettura dell'arca, possiamo
allora chiederci: quali sono le nuove vie che la "Amoris laetitia" ci invita ad aprire? Il
papa riflette su di esse esortandoci a discernere e integrare. Interroghiamoci anzitutto
sul discernimento. Alcuni hanno interpretato che il papa, dicendo che bisogna tener più
conto delle circostanze attenuanti, stia chiedendo che il discernimento si fondi su queste,
come se ciò consistesse nell'esaminare se la persona è o no colpevole soggettivamente.
Ma questo discernimento sarebbe alla fin fine impossibile, poiché soltanto Dio scruta i
cuori. Inoltre, l'economia dei sacramenti è un'economia di segni visibili, non di
disposizioni interne o di colpevolezza soggettiva. Una privatizzazione dell'economia
sacramentale certamente non sarebbe cattolica. Non si tratta di discernere una mera
disposizione interiore, bensì, come dice san Paolo, di "discernere il corpo" (cf. AL 185186), le visibili relazioni concrete nelle quali viviamo. E ciò significa che la Chiesa non ci
lascia da soli dinanzi a questo discernimento. Il testo della "Amoris laetitia" ci indica i
criteri chiave per arrivarne a capo. Il primo consiste nella meta che si vuole nel
discernere. È la meta che la Chiesa annuncia per tutti, in qualsiasi caso e situazione, e
che non deve essere taciuta per rispetto umano né per paura di scontrarsi con la
mentalità del mondo, come ricorda il papa (AL 307). Consiste nel tornare alla fedeltà del
vincolo matrimoniale, rientrando così di nuovo in quella dimora o arca che la
misericordia di Dio ha offerto all'amore e al desiderio dell'uomo. Tutto il processo si
indirizza, passo dopo passo, con pazienza e misericordia, a rinascere e a guarire la ferita
della quale soffrono questi fratelli, che non è il fallimento del matrimonio precedente,
bensì la nuova unione stabilita. Il discernimento è necessario, quindi, non per scegliere
la meta, ma per scegliere il cammino. Avendo chiaramente in mente dove vogliamo
portare la persona (la vita piena che Gesù ci ha promesso) si possono discernere le vie
affinché ognuno, nel suo caso particolare, possa arrivare li. E qui entra, come secondo
criterio, la logica dei piccoli passi di crescita, dei quali anche il papa parla (AL 305). La
chiave è che questi divorziati rinuncino a stabilirsi nella loro situazione, che non facciamo
pace con la nuova unione nella quale vivono, che siano pronti ad illuminarla alla luce
delle parole di Gesù. Tutto ciò che porti ad abbandonare questo modo di vivere è un
piccolo passo di crescita che bisogna promuovere e animare. Veramente, chi desidera
cibarsi di Gesù nell'eucaristia avrà anche il desiderio, usando l'immagine biblica, di
cibarsi delle sue parole, di assimilarle nella sua vita. O meglio, come dice Sant'Agostino,
avrà il desiderio di essere assimilato ad esse. Perché non è Gesù che si adegua al nostro
desiderio, ma è il nostro desiderio che è chiamato a conformarsi a Gesù, per trovare in
lui la sua piena realizzazione. Da qui possiamo passare alla terza parola, "integrare", ed
esaminare le nuove vie che la "Amoris laetitia" apre per i divorziati in una nuova unione.
Il papa ci chiede, seguendo il sinodo, di sviluppare un percorso che deve essere
realizzato in ogni diocesi sotto la guida del vescovo e secondo l'insegnamento della
Chiesa (AL 300). Questo dovrebbe farsi, se possibile, con una équipe di pastori
qualificati ed esperti. È essenziale che nel percorso si annunci la parola di Dio,
specialmente in ciò che riguarda il matrimonio (AL 297). Così, questi battezzati faranno
man mano luce su questa seconda unione che hanno iniziato e nella quale vivono. Si
aprirebbe qui anche la possibilità di rivedere un'eventuale nullità del matrimonio
sacramentale, secondo le nuove norme emanate dal papa. In questo cammino troviamo
anche un'altra novità, aperta dal Papa nella "Amoris laetitia". Senza cambiare la
normativa canonica generale, il papa ammette che possano esservi eccezioni riguardo
all'assunzione da parte di questi divorziati di alcune cariche pubbliche ecclesiali. Il
criterio è, come ho indicato prima, il cammino di crescita concreta della persona verso la
guarigione. Lungo tutto questo percorso è bene ricordare che i sacramenti non sono
soltanto una celebrazione puntuale, bensì un cammino: chi inizia a muoversi verso la
penitenza si trova già in un processo sacramentale, non è escluso dalla struttura
sacramentale della Chiesa, già riceve in un certo modo l'aiuto dei sacramenti. Di nuovo,
l'importante è essere disponibili a lasciarsi trasformare da Gesù, anche se si sa che il
cammino sarà lungo, e a lasciarsi accompagnare in questo cammino. Ciò che muove il
pastore è il desiderio di introdurre la persona nella cultura del vincolo, offrendo una
dimora al suo desiderio, affinché possa rigenerarsi secondo le parole del Signore. Il papa
ci invita a intraprendere un percorso; questa è la chiave. La comunione eucaristica sarà
nell'orizzonte finale e arriverà nel momento voluto da Dio, poiché è Lui che agisce nella
vita dei battezzati, aiutandoli a rigenerare i loro desideri in conformità al Vangelo.
Iniziamo passo per passo, aiutandoli a partecipare alla vita della Chiesa, finché
raggiungano “la pienezza del piano di Dio in loro” (AL 297).
Concludo. Nelle acque della postmodernità liquida, la Chiesa può offrire una speranza a
tutte la famiglie e a tutta la società, come l'arca di Noè. Essa riconosce la debolezza e la
necessità di conversione dei suoi membri. Appunto per questo è chiamata a mantenere,
nel medesimo tempo, la concreta presenza in essa dell'amore di Gesù, vivo ed efficace
nei sacramenti, che danno all'arca la sua struttura e dinamismo, facendola capace di
solcare le acque. La chiave è sviluppare, e la sfida non è piccola, una “cultura ecclesiale
della famiglia” che sia “cultura del vincolo sacramentale”. San Giovanni Crisostomo dice
che l'arca di Noè si differenzia dalla Chiesa in un dettaglio importante. L'antica arca
accolse nel suo seno gli animali irrazionali, "alogos", e li ha
mantenuti sempre
irrazionali. La Chiesa, invece, riceve anche l'uomo che, a causa del peccato, ha perso il
Logos, la ragione, ed è pertanto "irrazionale", cammina senza la luce dell'amore. Ma
precisamente perché la Chiesa ha l'ambiente vitale del corpo di Cristo, perché preserva
l'armonia dei sacramenti, essa, a differenza dell'arca di Noè, è capace di rigenerare
l'uomo, di conformare il cuore umano al Verbo (Logos) di Gesù. In essa gli uomini
entrano "irrazionali" ed escono "razionali", cioè pronti a vivere secondo la luce di Cristo,
secondo il suo amore che "tutto spera" e "che dura per sempre".
Torna al sommario
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La scuola senza storia di Ernesto Galli della Loggia
Il Concorsone
Vige in Italia, per quel che riguarda l’istruzione scolastica, una singolare schizofrenia. Un
giorno sì e l’altro pure tutto il mondo politico, dal presidente del Consiglio all’ultimo
assessore, e al loro seguito i mass media all’unisono, sottolineano la sua assoluta
importanza,la sua crucialità. Poi però sembra che in pratica i problemi dell’istruzione si
riducano - oltre a qualche generico allarme per i risultati solitamente non brillantissimi
ottenuti dagli studenti italiani nei confronti internazionali (vedi valutazioni Pisa) - a
niente altro che all’immissione in ruolo delle decine di migliaia di aspiranti insegnanti.
Cosa certo importante, ma forse non meno di qualcun’altra, circa la quale l’interesse è
invece minimo. Per esempio il contenuto di molti programmi, e di conseguenza i valori
diciamo così generali a cui l’insegnamento delle nostre scuole s’ispira e che cerca a sua
volta di trasmettere. I tre quesiti di storia ai quali sono stati sottoposti i candidati del
recente «concorsone», di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, consentono di farsi
un’idea abbastanza precisa - sul versante della preparazione degli insegnanti - di quella
che il ministero dell’Istruzione e i suoi funzionari considerano la prospettiva con la quale
i giovani italiani devono essere invitati/addestrati a guardare al mondo. Nel primo di tali
quesiti il candidato professore è invitato a progettare per una classe di scuola media la
lettura di alcuni testi con relativi collegamenti tra i medesimi «sul tema del diverso, il
profugo, l’estraneo». Nel secondo l’esaminando è chiamato a delineare lo schema di una
lezione di due ore «sul tema della demografia»: così, sulla demografia in generale,
senza alcuna indicazione di tempo e di luogo. Infine, il terzo quesito lo invita, sempre
per la scuola media, a «progettare una unità didattica di due ore sulla Costituzione
italiana». Questa è dunque l’idea della storia universale che ha nella testa il Miur e che
viene indirettamente ma autorevolmente suggerita alla scuola italiana. Un’idea della
storia che non sembra molto interessata a che un adolescente italiano, uscendo dal ciclo
dell’istruzione obbligatoria, abbia qualche nozione, che so, di che cosa siano il
Protestantesimo o l’Islam e di che cosa abbiano voluto dire le loro vicende, al fatto che
egli sappia dell’esistenza di una Rivoluzione francese o di una cosa chiamata capitalismo,
o che ci sia stata una Prima guerra mondiale - al Risorgimento o all’Unità d’Italia non
oso neppur pensare. No, ai suoi insegnanti il ministero dell’Istruzione della Repubblica ai cui vertici, non bisogna mai dimenticarlo siede un sottosegretario democrat esaltatore
a suo tempo del rilevante contributo educativo apportato alla sua formazione dalle
occupazioni scolastiche - il ministero dell’Istruzione, dicevo, fa capire che altre sono le
cose che contano e alle quali essi debbono soprattutto porre mente. Per l’appunto, al
«diverso» nelle sue varie accezioni e alla Costituzione (anche se mi chiedo quale: quella
«più bella del mondo» o quella in edizione Renzi?). Immagino il risultato nelle aule
scolastiche. Quasi sempre, ci si può scommettere, il politicamente corretto più
desolante, il più piatto conformismo buonista in obbedienza al vigente discorso pubblico
ufficiale. È significativo infatti che nell’ottica del Miur non si invitino i futuri insegnanti a
pensare a letture sulle migrazioni come grande fatto storico, sulle sue conseguenze nei
secoli, ai giganteschi problemi connessi. Forse a qualcosa del genere si pensava anche,
ma con questo taglio il discorso rischiava di risultare troppo spinoso, ed ecco allora che
si preferisce parlare, invece, di letture sul «diverso, il profugo, l’estraneo». Insomma, le
tragedie del mondo vengono espulse dalla storia e dalla sua dura realtà (e si pensi che si
tratta di quesiti per la classe di concorso di storia!) per venire cloroformizzate dalle
tranquillanti disquisizioni della sociologia edificante, dai fervorini etno-antropologici
intrisi di buoni sentimenti. Consegnate al tema del «profugo» e dell’«estraneo»,
appunto: mentre la demografia è chiamata a conferire al tutto un opportuno tocco di
scientificità. Anche l’idea di fare della Costituzione, tra tutti gli argomenti possibili,
l’oggetto di un quesito per una prova di storia obbedisce alla medesima volontà di una
destoricizzazione di fatto della scena contemporanea. In questo caso a vantaggio di un
approccio non più sociologico ma di tipo giuridico astrattamente prescrittivo ed evocando
uno strumento, la Costituzione, anche in questo caso, come si sa, carissimo al più bolso
discorso pubblico ufficiale. Impossibile comunque non collegare i due quesiti, e non
leggerli come l’implicita affermazione di un presunto obbligo costituzionale
all’accoglienza del «profugo», dell’«estraneo», eccetera eccetera. È con questi criteri
interamente schiacciati sul presente, su un’immediata contemporaneità declinata
eticamente, è con questa idea di storia che con la storia in verità non ha più quasi nulla
a che fare, che i nuovi insegnanti e per loro tramite i giovani italiani dovrebbero
addestrarsi a stare nella loro epoca. Cioè ad affrontare un futuro di cui ignorano ogni
passato, armati di una benevola sociologia, di appropriate nozioni demografiche, e
naturalmente di sani principi costituzionali. Con tali premesse bisogna solo augurarsi che
riescano a uscirne vivi.
Pag 5 Unioni civili, che cosa cambia? di Alessandra Arachi e Luigi Ferrarella
Welfare, decreti attuativi e rito. “Bigamia” consentita e altri vuoti del testo
Nella legge sulle unioni civili c’è una seconda parte tutta dedicata alle convivenze, sia
omosessuali sia eterosessuali. È una legge che l’Italia aspetta da ventotto anni e che per
la prima volta vedrà la luce oggi (al più tardi domani, se non si fa in tempo per il voto
finale). Questa seconda parte della legge prevede che le convivenze registrate abbiano
molti diritti simili a quelli del matrimonio: parliamo dell’assistenza in carcere, ma anche
l’assistenza per la malattia e, inoltre, che il convivente sia il rappresentante con pieni
poteri rispetto alla malattia e alla morte. È previsto anche il subentro dell’affitto e quello
agli alloggi popolari. Sono invece esclusi i diritti di tipo patrimoniale e previdenziale,
come la pensione di reversibilità e la successione. Diritti che sono previsti invece nella
normativa per le unioni civili omosessuali che hanno molti punti in comune con il
matrimonio, con l’eccezione della possibilità di adottare in generale e anche la possibilità
di adottare il figlio biologico del partner, la cosiddetta stepchild adoption, stralciata in
Senato alla fine dell’iter. Nell’ultima versione della legge è stato tolto dal testo anche
l’obbligo di fedeltà, che è previsto invece tra i coniugi.
La legge sulle unioni civili verrà applicata grazie ad alcuni decreti attuativi proposti dal
ministro della Giustizia di concerto con - tra gli altri - i ministri dell’Interno e degli Esteri.
Le unioni civili per coppie omosessuali sono un istituto giuridico del tutto nuovo e
avranno bisogno di indicazioni per gli ufficiali dell’anagrafe circa le iscrizioni, le
trascrizioni, le annotazioni. Si dovranno stabilire anche cose pratiche e quotidiane come,
ad esempio, dove decidere di celebrare le unioni civili nel Comune: nella stessa sala dei
matrimoni? E con quale rito? Il sindaco, o chi per lui, dovrà indossare la fascia tricolore?
Altre questioni saranno legate al diritto internazionale: come e dove si dovranno
trascrivere le cerimonie già celebrate all’estero? In ballo anche la questione dei cognomi:
a differenza del matrimonio, una coppia che si unisce civilmente ha la possibilità di
scegliere se unire il cognome, aggiungerlo, invertirlo. La legge dà fino a sei mesi di
tempo per scrivere i decreti attuativi, e poi altri due alle Camere per valutarli: se
quest’ultimo termine non verrà rispettato, la legge sarà operativa. Entreranno comunque
in vigore norme transitorie con un decreto del presidente del Consiglio entro 30 giorni.
Quando verrà approvata la legge sulle unioni civili non sarà possibile per un sindaco non
celebrare nel suo comune questo nuovo istituto giuridico. La legge, infatti, non ammette
obiezione di coscienza, come forse avrebbe voluto il candidato sindaco a Roma Alfio
Marchini, sostenuto anche da Forza Italia. Nella nuova legge, infatti, il sindaco è
obbligato a celebrare le unioni civili o, in subordine, a delegare qualcuno per suo conto
come succede anche per i matrimoni, in comuni grandi come Roma o Milano. Se ci si
rifiuta si incappa nel codice penale con il reato di omissione di atti d’ufficio ma,
soprattutto, si va incontro al commissariamento. La legge è molto chiara: se il primo
cittadino non vuole che nel proprio comune vengano unite civilmente coppie
omosessuali, in quel comune verrà inviato un commissario ad acta. Sono già molte le
coppie omosessuali pronte ad aspettare l’approvazione della legge per potersi unire
civilmente, le prime sono quelle più anziane, coppie che stanno insieme anche da
quarant’anni. L’Istat stima che in Italia le coppie omosessuali siano circa 200 mila, ma
secondo le associazioni gay questo è un dato molto sottostimato per via del sommerso e
le coppie sarebbero almeno un milione.
E gli effetti collaterali nel penale della nuova legge sulle unioni civili? Amnesia. Con esiti
paradossali, nella corsa del governo a blindare il voto con la fiducia. Il testo Cirinnà,
infatti, premette che le disposizioni che contengono la parola «coniuge» si applicano
«anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma «al
solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli
obblighi derivanti dall’unione civile». Il riflesso più evidente è sull’omicidio, la cui pena
base 21-24 anni sale a 24-30 anni se si uccide il coniuge: ma poiché l’omicidio non è
certo norma a rafforzamento «degli obblighi derivanti dall’unione civile», l’aggravante
non potrà pesare su assassini legati da unioni civili alla persona assassinata, mentre
continuerà a valere per mariti e mogli. Stesso schema nei sequestri di persona: quando
il pm blocca i beni utilizzabili dal coniuge per pagare il riscatto, il blocco non potrebbe
essere imposto al coniuge legato da unione civile con il rapito. Curiosa anche la
situazione dell’abuso d’ufficio commesso da pubblici ufficiali che non si astengano in
presenza di un interesse di un prossimo congiunto come il coniuge: continuerà a essere
reato per mariti e mogli, ma non potrà incriminare i partner di una unione civile. Idem la
«bigamia», che finirebbe per non avere rilevanza penale in relazione alle unioni civili tra
lo stesso sesso, mentre la manterrebbe solo tra coniugi uomo e donna. Discriminazioni
al contrario, cioè più sfavorevoli per le unioni civili, parrebbero crearsi per tutta una
serie di condizioni che il codice continuerebbe a concedere solo a marito e moglie: la non
punibilità per chi fa falsa testimonianza, mente al pm o compie favoreggiamento
personale del prossimo congiunto; la non punibilità di chi a favore di un prossimo
congiunto commette reato di assistenza ai partecipi di associazioni per delinquere o con
finalità di terrorismo; la non punibilità del furto o della truffa ai danni del partner non
legalmente separato. E qualche paradosso si creerebbe anche nei tribunali, dove oggi un
giudice deve astenersi se il coniuge fa il pm o è persona offesa dal reato: sbarramenti
che non varrebbero per partner dello stesso sesso legati da unioni civili. Il fatto poi che
«l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione» sia stabilito
dalla nuova legge solo per le unioni civili e non anche per le convivenze di fatto,
discriminerà i partner della prima categoria che, diversamente da quelli della seconda,
nel penale rischieranno l’accusa di omicidio o lesioni personali per l’eventuale medesima
condotta di «mancata prestazione di cure o di alimentazione». A questa montagna di
effetti indiretti c’è alla Camera un solo cenno nel parere del «Comitato per la
legislazione» il 12 aprile sul solo tema dell’omicidio aggravato. Come rimediare se oggi
la fiducia impedirà correttivi? Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di
Milano, arrivato in uno studio per penalecontemporaneo.it a contare 29 effetti penalistici
«indiretti e inconsapevoli» delle nuove norme, indica come ultimo treno forse «il decreto
delegato di coordinamento che il Governo dovrà adottare entro 6 mesi sulle unioni civili.
Ma sulle convivenze di fatto manca un’analoga delega legislativa».
Torna al sommario
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pag 11 Mestre, la città più colpita dalla crisi. In centro un negozio su 5 è chiuso
di Gloria Bertasi
Vetrine con le ruote, traslochi di pochi metri per risparmiare affitto
Mestre. Sulle vetrine impolverate dell’ex agenzia viaggi di via Caneve si intravedono
ancora i poster ingialliti di spiagge circondate da palme e mari trasparenti e di capitali
europee piene di vita. Sotto la torre di Mestre, sulle vetrine di Quadrelli ci sono ancora i
manifesti degli sconti, «per cessata attività» e sono identici a quelli affissi al Donatello
Outlet di piazzale Candiani che ha annunciato di voler chiudere l’attività. In calle del Sale
sulle vetrine oscurate dell’ex boutique Pane e Miele c’è invece la comunicazione: «Ci
siamo trasferiti in via Rosa». Non c’è via del centro città senza vetrine oscurate e cartelli
«affittasi» e «vendesi» e il problema riguarda oltre il 21 per cento dei negozi. Mestre è la
città veneta più colpita dalla crisi e quella in cui la ripresa fatica a farsi sentire, a parte
qualche timido segnale. Abbiamo mappato il centro di Mestre via per via, vetrina per
vetrina per capire i numeri di una situazione diventata «normale», ma che di normale
non ha niente: 622 locali tra piazza Barche e riviera XX settembre, da via Palazzo a via
Carducci e 132 sono chiusi. Persino in piazza Ferretto ci sono 8 negozi vuoti su un totale
di 57 e brand come Furla e Mandarina Duck hanno rinunciato ad avere una vetrina nel
cuore della città. Non è chi parte, ma anche chi arriva a dare il segno del grado di
attrazione di una piazza: a breve aprirà Dentix, catena spagnola di dentisti low cost che
ha già restaurato gli spazi tra Golden lady e Clarks’. Nel resto del centro la situazione
migliora o peggiora a seconda dell’area, del lato di via, della stagione. In via Caneve i
negozi chiusi sono 8 su 31 (1 su quattro), in via Manin 7 su 35 (uno su cinque), in
riviera XX Settembre si arriva a 9 su 30 (poco più di uno su tre). Ci sono anche le
eccezioni, positive e negative. Come via Fapanni dove solo una vetrina è spenta o calle
Barcella dove un locale su due è senza gestione e dove c’è un solo negozio aperto nel
tratto di Galleria. «Gli affitti sono troppo alti», protestano i negozianti. In piazza e nelle
vie adiacenti, le locazioni vanno dai 3.500 euro al mese ai 7 mila a seconda della
dimensione. Gli spazi vuoti di calle Barcella oscillano tra i 4 mila e un massimo di 6 mila
euro, che è quanto viene chiesto anche in corte Legrenzi, che è stata in questi anni il
cuore dei negozi di qualità, ma ora vede molte vetrine vuote. Non tutto il centro è così
caro e si vede. In via Rosa e via Carducci dove i proprietari hanno accordato contratti,
almeno durante l’avvio dell’attività, più vantaggiosi, c’è un via via di nuovi arrivi. Ma non
basta. Da anni, le associazioni di categoria chiedono agli amministratori un sostegno al
commercio locale e in alcuni casi (via Poerio, piazzale Donatori di sangue, via Rosa e
l’asse della vicina riviera) i progetti di riqualificazione sono stati finanziati con fondi
statali. Durante il periodo di commissariamento del Comune, però, la città ha perso fondi
europei stanziati con bandi regionali che, a Padova e Treviso, hanno finanziato azioni e
interventi a sostegno del commercio, come l’esenzione dalla tassa per occupazione di
suolo pubblico in zone degradate o in cambio dell’organizzazioni di iniziative e
manifestazioni pubbliche. Sempre Treviso è arrivata prima nella distribuzione di
contributi per un progetto di distretto in cui l’amministrazione agevola e favorisce
l’occupazione di immobili vuoti. A breve saranno pubblicati i bandi europei per progetti
che mettono insieme pubblico e privato nel tentativo di ridare vitalità ai centri città,
tutelando attività storiche e di vicinato. Pubblico e privato significa sinergia e
collaborazione tra Comune e imprenditori.
Mestre. La boutique «Franca» a inizio anno, da via Caneve si è spostata in via Cesare
Battisti. Il negozio di caramelle e cioccolatini ha lasciato via Torre Belfredo per via
Caneve, i tatuatori di via Paruta arriveranno a breve in via Manin, i vestiti di «Pane e
Miele» hanno detto addio alla bottega storica di calle del Sale a favore di via Rosa dove
si è spostato anche il panettiere da gourmet di calle Legrenzi, che non ha mai avuto
problemi di clientela ma pagava un affitto, a sua detta, troppo elevato. Negozi con le
ruote. E’ il fenomeno di questi mesi: commercianti alla ricerca di affitti inferiori senza
lasciare il centro, grazie anche alla vasta offerta che c’è. Il panificio, ad esempio, non
nasconde ai clienti che oggi risparmia mille euro al mese nel nuovo punto vendita. Il
rovescio della medaglia di questo fenomeno dei negozi che traslocano in spazi magari
più piccoli e più periferici rispetto a piazza Ferretto per risparmiare sulla locazione, sono
le vetrine vuote in alcune vie pedonali più pregiate . Pochi rischiano di avviare una
nuova società in un momento di crisi dei consumi e, quando gli affitti sono alle stelle,
per chi chiude non c’è più un nuovo investitore. L’altra conseguenza dei traslochi
dell’ultimo periodo è il fatto che stanno ridisegnando la passeggiata dello shopping
mestrino. Da quando via Rosa è stata pedonalizzata e riqualificata, hanno aperto cinque
nuove attività e in via Carducci, sul lato del colonnato tra villa Erizzo e via Cappuccina
non c’è più una vetrina con l’insegna «affittasi». Tutto merito di contratti migliori di
affitto. Un cambio nell’altra metà del mercato (quello dei proprietari dei muri) destinato
a reggere? Nessuno fa scommesse, anche perché sulla carta nel cuore di Mestre nei
prossimi dieci anni potrebbero arrivare decine e decine di nuovi spazi disponibili. Sono
quello del museo M9 (tempo previsto due anni) quelli dell’area dell’ex Umberto I (nessun
tempo previsto) e quelli dell’ex cinema Excelsior (idem). Il timore di qualcuno è che
restino cattedrali nel deserto o spostino gli assi degli acquisti.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XXI Nel centro islamico non si potrà pregare di Giuseppe Babbo
Jesolo, lo ribadisce ai fedeli il sindaco Zoggia: “Potranno solo fare incontri culturali,
eseguiremo controlli”
«Nel centro culturale non potranno pregare: non è un luogo di culto». Lo precisa il
sindaco Valerio Zoggia che, dopo la diffida inviata dal Comune all'associazione "Incontro"
del Bangladesh, chiarisce il futuro del centro culturale di via Aquileia. Un immobile preso
in affitto dai fedeli islamici, nelle ultime settimane finito al centro di aspre polemiche. Il
punto è che non potrà trasformarsi in moschea. A stabilirlo è la differente destinazione
urbanistica che prevede l'uso per scopi culturali e scolastici, ma anche la recente
normativa regionale i cui effetti potrebbero farsi sentire per la prima volta proprio a
Jesolo. In caso di violazioni delle regole il Comune è pronto a fare tutti i controlli del
caso, comprese le relative segnalazioni alle autorità competenti. «Attualmente è in corso
l'iter per sanare alcuni abusi riscontrati all'interno dell'immobile - sottolinea il sindaco poi potrà essere richiesta l'agibilità, che sarà valida solo come centro culturale al cui
interno si potrà discutere o fare incontri, ma non pregare perché questo non è un luogo
di culto. Ad impedirlo è anche la nuova legge regionale, che stabilisce come gli stessi
luoghi di culto debbano sorgere nelle aree ’F’, vale a dire nelle zone di servizio fuori dai
centri urbani». Per questo, quando verrà rilasciata l'agibilità, non mancheranno i
controlli per accertare il tipo di attività che verrà condotta all'interno del fabbricato. «Se
pregheranno lo segnaleremo alle autorità - conclude Zoggia - controlli a parte, sono gli
stessi cittadini, come accade per tante altre circostanze, a presentare segnalazioni». A
chiedere che venga verificata l'attività svolta nel centro è anche la Lega Nord con Alberto
Carli e Giorgio Pomiato: «Se vogliono creare un polo di preghiera - ribadiscono - lo
facciano rispettando la legge e non usando sotterfugi». A promettere battaglia è però
Salvatore Esposito di Sinistra e Libertà: «Con il nostro legale stiamo valutando la
legittimità delle sanzioni e se contestare la legge regionale, anche presentando un
eventuale risarcimento danni. Nei prossimi giorni organizzeremo una manifestazione in
piazza Mazzini».
Torna al sommario
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 7 Da Belluno all’esercito dell’Isis. “Pagato 200 dollari al mese. Vivo solo, è
difficile tornare” di Andrea Priante
L’annuncio di Ismar: «Per me è giunto il momento. È Dio che ci dice di combattere il
Jihad». Munifer che dalla Siria scrive alla sorella e le racconta: «Prendo 200 dollari al
mese. Non pago l’affitto, né la corrente elettrica, solo il cibo…». Voci dall’inferno.
Intercettazioni, interrogatori, che raccontano la vita dei tagliagole partiti da Belluno per
arruolarsi nell’Isis. Sono le carte dell’inchiesta «Borac», coordinata dal capo
dell’antiterrorismo di Venezia, Adelchi d’Ippolito, e dalla sua sostituta Francesca Crupi, e
portata avanti per oltre due anni dai carabinieri del Ros di Padova, diretti dal
comandante Elvio Labagnara. Il bilancio è di due persone arrestate («il reclutatore» di
Azzano Decimo, Ajhan Veapi, e «l’addestratore» sloveno Rok Zavbi), diversi espulsi, una
richiesta di estradizione per l’imam del terrore Husein «Bilal» Bosnic, e un mandato di
arresto per Munifer Karamaleski, l’unico dei due foreign fighter partiti dalle Dolomiti che
ancora combatte in Siria. Il suo amico di Longarone, Ismar Mesinovic, è stato ucciso a
fine dicembre 2013 in un’imboscata. E l’inchiesta è partita proprio dalla morte
dell’imbianchino, che in Medio Oriente era arrivato portandosi dietro il figlioletto di due
anni, Ismail, costretto a crescere in un teatro di guerra, probabilmente affidato alle cure
della famiglia di un mujaheddin bosniaco. L’ordinanza con la quale il gip Alberto
Scaramuzza ordina l’arresto di Karamaleski (nell’improbabile eventualità che dovesse
tornare dal fronte) non si limita a ricostruire come la cellula dell’Isis si è mossa in
Veneto per reclutare aspiranti jihadisti, ma svela l’aspetto più umano di quei ragazzi
travolti dal carisma e dalle promesse di un imam fanatico. La moglie di Ismar Mesinovic
racconta che, all’inizio del loro rapporto, suo marito «era di religione musulmana ma di
orientamento moderato», tant’è vero che fumava, beveva alcolici e andava in discoteca.
La svolta arrivò nel 2009, quando conobbe Karamaleski e altri componenti della
comunità islamica di Ponte nelle Alpi. «Iniziò a studiare e a praticare con maggiore
assiduità la religione». Si fece crescere la barba e, nel luglio del 2012, arrivò a proporle
di trasferirsi «in un villaggio dove le donne indossavano il burqa, vivevano separate dagli
uomini e dove non c’è la tv e tutto ciò che è riconducibile allo stile di vita occidentale».
Trascorreva ore davanti al computer. «Si metteva la cuffie e ascoltava le prediche degli
imam». Nell’inverno del 2012 le chiese cosa avrebbe fatto se lui fosse partito in guerra e
lei cercò di distrarlo, dicendogli che non ci aveva mai pensato «perché aveva una
famiglia». Quando non era incollato al pc, passava il tempo a pregare con il suo
gruppetto di amici. Nel 2012, Ismar e Munifer conobbero Adjian Veapi, uno dei referenti
del centro islamico di Pordenone, arrestato poche settimane fa. Fu lui a presentargli
ufficialmente una star della predicazione via internet: l’imam Bilal Bosnic. Lo
incontrarono nella moschea di Pordenone e poi Mesinovic andò fino in Bosnia. «Ci andò
più volte, anche a fine ottobre 2013; una volta addirittura ospite di Bosnic per una
settimana intera con il figlio Ismail,in occasione della festa del sacrificio dell’agnello»,
racconta un amico bellunese. Anche lui, per un certo periodo, era incerto se partire per
la Siria, ma alla fine decise di non farlo e la sua testimonianza è risultata molto utile agli
investigatori. «Dopo tutti questi incontri Ismar mi confidò: “Per me è arrivato il
momento!” riferendosi al fatto che ora poteva partire per combattere, esaudendo il
sogno della sua vita». Poi, quella frase risoluta: «È Dio che ci dice di combattere il
Jihad». Bosnic aveva portato a termine la sua missione: convincere altri musulmani a
raggiungere lo Stato Islamico. A Mesinovic e Karamaleski non restava che sistemare le
ultime cose e acquistare ciò che gli avevano ordinato di portare al fronte: un drone, un
visore notturno e un furgone. Ismar mostrava la cartina con il percorso del viaggio da
fare assieme a Munifer: «Sarebbero dovuti passare per la Macedonia, Bulgaria, Turchia e
Siria, dovendo pagare al confine turco un soggetto bosniaco che, per circa 700 dollari, li
condusse nel villaggio dove dovevano essere dislocati». Nel frattempo, era apparso lo
sloveno Rok Zavbi (arrestato venerdì a Lubiana), un ex combattente che l’imam del
terrore aveva inviato a Belluno. A casa di Ismar si presentò nel novembre 2013 - a
poche settimane dalla partenza - con una pistola Beretta e una miriade di racconti dal
fronte. «Doveva dare entusiasmo al gruppo - racconta l’amico - spiegare come
funzionano logisticamente le cose in quei territori e come raggiungerli». Il magistrato le
definisce «lezioni fornite ai due futuri foreign fighters dal reduce combattente». Ismar e
Munifer erano molto impauriti, Zavbi tentò di rincuorarli. Anche mentendo. «Garantiva
che le donne e i bambini stavano lontani dalle zone di guerra... raccontava aneddoti
divertenti, diceva che dove erano stati destinati erano assolutamente sicuri... Ci riferiva
che sul posto si sarebbero trovate diverse armi di provenienza russa, Kalashnikov, altre
mitragliatrici di tutte le dimensioni». A Belluno lo sloveno tornò nel gennaio 2014, dopo
che i due amici erano giunti in Siria e Ismar era stato ammazzato quasi subito. Si
presentò nel negozio di kebab in cui lavora la sorella di Karamaleski («Era vestito con
una tuta da lavoro sporca e portava una barba media con i baffi rasati», racconta la
ragazza) per ritirare 2.700 euro «da destinare alla tutela della famiglia del Munifer in
caso di un suo prevedibile decesso in battaglia». Se ne andò e con lui sparirono anche i
soldi, mai consegnati al bellunese. È l’ultima beffa per quell’operaio di Chies d’Alpago
che, dopo aver portato nell’Isis anche moglie e figli, ha scoperto che la situazione era
molto diversa da quella che gli era stata prospettata. Una foto lo mostra ferito a una
mano, proprio nei giorni del suo arrivo. Per questo, almeno inizialmente, è stato
assegnato alla vigilanza del ghanima, il deposito del bottino di guerra. Le intercettazioni
sono pennellate d’inferno. La madre che gli chiede come va, lui che risponde «Tutto
bene, anche i bimbi... Lavoro un po’, studio un po’». Lei è disperata: «Devi tornare a
casa! La nonna sta male, è in ospedale, vieni qui!». «È difficile, è difficile... Papà come
sta?». Infine, proprio suo padre: «Figlio mio, guarda... qualsiasi cosa sia... qualsiasi cosa
tu faccia, torna! Ti prego, ti supplico...». A un amico spiega di trovarsi ad «Al-Busra
(circa 500 chilometri da Aleppo, ndr ), è una città enorme» e nel giugno 2014, chattando
con la sorella, dice: «Sono solo, i bambini sono a casa, io in città. Noi stiamo bene.
Prendo 200 dollari al mese. E ci bastano».
LA NUOVA
Pag 1 Autonomia, voto storico per il Veneto di Mario Bertolissi
Sulla carta e non solo, pare proprio che aspirare ad una maggiore autonomia sia
irrealistico o quasi. È un’opinione diffusa sia tra quanti la osteggiano sia la auspicano sia
ritengono che l’obiettivo vero debba essere l’indipendenza del Veneto. Ma eventi non
lontani da noi ci ricordano che, proprio quando la soluzione opposta a quella desiderata
sembra la più salda, nel breve periodo essa crolla. Perché era salda in apparenza, non
nella realtà. Si pensi, per limitarsi ad un unico esempio, al crollo del Muro di Berlino.
C’era chi in Italia, poco prima, aveva creduto nell’inevitabile abbraccio tra masse
comuniste e masse cattoliche, visto che le sinistre (dure e pure) avrebbero
inevitabilmente trionfato. È avvenuto l’esatto contrario. Come può accadere che lo Stato
italiano, centralista per definizione, proprio quando si prepara a completare il varo di una
riforma costituzionale che lo rafforza, si avveda della propria congenita debolezza e si
convinca che è saggio dare spazio a chi lo può alleggerire da responsabilità. Il potere,
nel tempo delle crisi, è essenzialmente responsabilità, che prima o poi si pagano. È una
premessa opportuna, che aiuta a comprendere quale è la rilevanza politico-istituzionale
della partita che si è aperta tra lo Stato e la Regione Veneto. Entrambi sono enti di
eguale dignità, che “costituiscono” la Repubblica. La quale rappresenta il più vasto e
articolato insieme di soggetti, cui è chiesto “l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale” (si esprimono così, nell’ordine, gli articoli 114 e
2 della Costituzione). Di fronte stanno, dunque, l’uno e il molteplice; l’autorità e la
libertà; l’imperatività e l’autonomia. Da un lato, l’interesse nazionale; dall’altro,
l’interesse regionale: l’interesse di tutti e l’interesse di una parte degli italiani. Parrebbe
un contrasto radicalmente insanabile, se ci si limitasse a riscontri testuali e formali,
conditi di costituzionalismo giacobino, che ignora la dialettica: il confronto tra idee.
Atteggiamento, quest’ultimo, che è reso esplicito da quanti ritengono la consultazione
referendaria sull’autonomia fonte di uno spreco inutile di risorse, tanto più dannoso ora
che imperversa una crisi economica e finanziaria di eccezionale gravità. Ma, se si
prescinde dalle motivazioni politiche che possono aver ispirato ed ispirano questa critica
e si guarda alla storia ormai non breve della Repubblica - tutto è cominciato il 1°
gennaio del 1948 - e ci si chiede: quale è il suo stato di salute? si è costretti ad
ammettere che la Repubblica è una malata grave. E che lo è anche perché ha evitato di
effettuare “controlli” circa la sua forza e la sua debolezza. Ha evitato di rivolgersi agli
elettori, utilizzando gli strumenti di democrazia diretta, per conoscere i loro pensieri e le
loro attese. Anche per questo la politica è delegittimata e le istituzioni lo sono
altrettanto. È necessario chiarire, quindi, quale è il significato profondo, oggettivamente
proprio, del referendum consultivo, che verosimilmente si celebrerà nel prossimo
autunno. Certo, il quesito e la data possono essere un problema, dal momento che i
punti di vista di Stato e Regione, come accade il più delle volte, non coincidono.
Tuttavia, il dato su cui riflettere è il seguente: dopo ripetute richieste in passato
respinte, finalmente la Regione Veneto potrà rivolgersi ai cittadini-elettori, porre loro
una domanda e conoscere il loro orientamento. Per i superficiali è una banalità. Per chi
non lo è ed è stato, comunque, protagonista di tutti e tre i giudizi svoltisi dinanzi alla
Corte costituzionale - ho rappresentato e difeso la Regione Veneto nel 1992, nel 2000 e
nel 2015 - la vicenda assume un “tono istituzionale” di innegabile rilievo. È
un’opportunità, riconosciuta dal Giudice delle leggi, che non va sprecata, perché sarebbe
un danno per tutti. Lo si comprende se si leggono, con la dovuta attenzione, le tre
sentenze, che offrono le coordinate essenziali per capire. a)Con la sentenza 24
novembre 1992, n. 470, la Corte costituzionale ha escluso che la Regione Veneto
potesse chiedere ai propri cittadini-elettori se fossero favorevoli o no ad una maggiore
autonomia perché “un referendum consultivo … - per quanto sprovvisto di efficacia
vincolante - non può non esercitare la sua influenza, di indirizzo e di orientamento, oltre
che nei confronti del potere di iniziativa spettante al Consiglio regionale, anche nei
confronti delle successive fasi del procedimento di formazione della legge statale, fino a
condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva competenza di organi centrali
dello Stato”. Commentando quella pronuncia, si è scritto di una “solitudine” del
Parlamento nella decisione della forma dell’unità nazionale (M. Dogliani e F. Cassella).
L’idea di fondo, sottostante, è che “nei referendum c’è come ‘un’apparizione di potere
costituente’” (così, M. Ainis, nel riprendere un’opinione di C. Mezzanotte). b)Con la
sentenza 14 novembre 2000, n. 496, la Corte è stata ancor più drastica. Ha concluso,
infatti, affermando come “l’iniziativa revisionale della Regione, pur formalmente
ascrivibile al Consiglio regionale, appaia nella sostanza poco più che un involucro nel
quale la volontà del corpo elettorale viene raccolta e orientata contro la Costituzione
vigente, ponendone in discussione le stesse basi di consenso. Ed è appunto ciò che non
può essere permesso al corpo elettorale regionale”. Quel che veniva chiesto non era
l’indipendenza del Veneto, ma che ad esso fossero accordate - come oggi si chiede “forme e condizioni particolari di autonomia”, ai sensi dell’articolo 116, da stabilire allora
con legge costituzionale. Tutto il contrario di un atto eversivo, considerato comunque
tale, perché l’iniziativa aveva di mira l’attivazione di un referendum consultivo. Si parlò
in senso critico, rispetto a quanto sostenuto dalla Corte, di referendum consultivo quale
“strumento di dialogo democratico”, negato dalla sentenza n. 496/2000, da ritenere “il
prodotto di un approccio reazionario alle problematiche del regionalismo” (G. Bognetti).
c)Questi erano i principi, con i quali ci si è dovuti misurare nel corso dell’udienza
pubblica del 28 aprile 2015, che la Corte costituzionale ha superato, ignorandoli, con la
sentenza 25 giugno 2015, n. 118. Il referendum consultivo è stato reputato non lesivo,
sul piano formale, di alcun precetto costituzionale né in contrasto, sul piano sostanziale,
con prerogative dello Stato riguardanti l’indirizzo politico. Con la conseguenza, che la
Regione Veneto può ora chiedere ai propri cittadini-elettori se sono favorevoli o no
all’ottenimento di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, da accordare
con legge non costituzionale, ai sensi dell’articolo 116, 3° comma, della Costituzione
ancora vigente. Poca cosa, dirà ancora qualcuno. Invece, il cambio di rotta è drastico.
Concettualmente, una piccola rivoluzione. Per la prima volta, la Corte dà spazio alla
dialettica democratica, che si radica sul principio del pluralismo autonomistico, destinato
a tradursi in scelte concrete e puntuali mediante il ricorso al negoziato. Di esso hanno
parlato Riccardo Illy e Luca Zaia (su questo giornale, rispettivamente il 7 e l’8 maggio).
Il primo, in nome di un’esperienza conclusa. Il secondo, di una soltanto avviata. L’ex
Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia ha potuto valorizzare, tra l’altro, le
prerogative del regionalismo speciale e i meriti acquisiti con la ricostruzione post
terremoto del 1976. Buone leggi, una buona amministrazione, buone prassi, frutto di
costumi consolidati nel tempo. Il negoziato non aveva alle spalle alcun pronunciamento
del corpo referendario regionale. Gli esiti sono stati positivi. Il Presidente in carica della
Regione Veneto può far valere i risultati conseguiti, che non vanno mai confrontati con
un modello ideale, ma con quello che altri fa nelle stesse o in analoghe condizioni. Dalla
sua avrà un responso popolare, che corrisponderà a un sì o a un no, coerente con
quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 118/2015. Che il quesito
sia, alla lettera, quello relativo alle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”
oppure più circostanziato, poco importa a mio parere. In entrambi i casi il messaggio è
identico: si aspira a qualcosa di cui si sente bisogno e di cui si renderà conto. Ecco,
quest’ultimo inciso è quello che dovrebbe fare la differenza ed essere condiviso dalle
nuove generazioni, vere destinatarie di ogni innovazione.
Torna al sommario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La riforma non è perfetta ma i suoi nemici hanno torto di Angelo Panebianco
Sarà l’ennesima, tristissima, dimostrazione di quanto possa scadere il dibattito pubblico
nei momenti in cui il conflitto raggiunge la massima intensità. Se così non fosse,
potremmo fin d’ora divertirci pensando alle scenette involontariamente comiche a cui
assisteremo durante la campagna per il referendum costituzionale di ottobre. Come
quella in cui qualche nemico della riforma, travolto da insana passione politica, accuserà
il Presidente emerito, Giorgio Napolitano, di tradimento della Costituzione,di essere
complice del«progetto autoritario» concepito dal perfido Erdogan-Renzi. Nell’intervista al
Corriere del 3 maggio, Napolitano ha detto il vero. Se la riforma del Senato non passerà,
quella sarà la fine di ogni speranza di rinnovamento della democrazia italiana.
Napolitano ha ricordato i tentativi passati, sempre falliti, per fare dell’Italia una vera
democrazia governante. Ha anche osservato che l’eterogenea coalizione che dice «no»
alla riforma è composta da tre gruppi. C’è il gruppo dei contrari, sempre e comunque, a
toccare la Costituzione, quelli per cui (persino) il «bicameralismo paritetico» (due
Camere con uguali poteri) è una componente imprescindibile della democrazia. C’è poi il
gruppo di quelli a cui non importa molto della Costituzione, quelli che vogliono «fare
fuori» Renzi. Il terzo gruppo, infine, è composto dai perfezionisti, quelli favorevoli, in
linea di principio, a riformare la Costituzione ma la cui contrarietà dipende dall’esistenza
di sbavature e difetti vari del testo approvato dal Parlamento. Con i primi due gruppi,
che chiameremo gli «irriducibili», è inutile discutere. Non possono essere convinti (oltre
a tutto, come vedremo, sono tenuti insieme non solo da ragioni ideali ma anche da
interessi politici e corporativi). Si può solo mostrare al pubblico la debolezza di molte
delle loro argomentazioni. Il gruppo con cui vale la pena di discutere è quello dei
perfezionisti, ostili alla riforma a causa di certi suoi difetti attinenti alla composizione del
Senato (come la presenza di una quota di sindaci) e ad alcune delle previste
competenze. Sono anche gli unici sinceramente interessati a confrontarsi pacatamente
(come ha fatto Valerio Onida sul Corriere di ieri). Ai perfezionisti occorre dire che, sì, la
riforma ha qualche difetto ma che questo è inevitabile, si verifica sempre quando un
«comitato» in cui sono presenti tante teste e tante sensibilità diverse (un Parlamento è
proprio questo) deve deliberare su un provvedimento complesso. Le mediazioni
parlamentari, inevitabilmente, «sporcano», almeno un po’, qualsiasi progetto, anche
quello che in origine sembrava ottimo, perfetto. L’unica possibilità alternativa alle
mediazioni parlamentari (con i loro tira e molla e i compromessi necessari per formare
una maggioranza) è una riforma imposta dall’alto, dal De Gaulle di turno, e confezionata
per lui da un consigliere di fiducia. Se si preferisce la prima soluzione (e penso che
siamo d’accordo nel preferirla), quella della mediazione parlamentare, della decisione
collettiva assunta da un comitato, allora bisogna rassegnarsi alle imperfezioni. Solo una
leggenda ha fatto credere ad alcuni che la stessa sorte non fosse toccata alla
Costituzione vigente quando venne confezionata dall’apposito comitato (la Costituente).
Sabino Cassese ( Corriere del 6 maggio) ha mostrato la debolezza degli argomenti dei
contrari alla riforma del Senato. Non c’è nessuna «democrazia autoritaria» alle porte. Il
governo sarà un po’ più forte (e un po’ più stabile ed efficiente) ma continuerà ad essere
bilanciato da contropoteri che esistono oggi ma non esistevano agli albori della
Repubblica: le istituzioni europee, la Corte costituzionale, le Regioni. Si rimedierà però a
due gravi errori: il bicameralismo paritetico, appunto, che ha reso sempre debole e
incerta la navigazione dei governi, e gli effetti della sciagurata riforma del Titolo V che
spostò dal governo centrale alle Regioni poteri e competenze che non avrebbero mai
dovuto prendere quella strada e che mise i governi nella impossibilità di attuare politiche
nazionali in alcuni ambiti cruciali. Piuttosto, è giusto ricordare, come ha fatto Antonio
Polito sul Corriere del 9 maggio, che la riforma del Senato è strettamente collegata alla
legge elettorale (Italicum). Chi vota (in un senso o nell’altro) sul Senato vota anche, di
fatto, su quella legge. Ci sono interessi, politici e corporativi, che, motivi ideali a parte,
alimentano la «coalizione del no». In primo luogo, sono ostili diverse Regioni le quali
preferiscono di gran lunga tenersi poteri e competenze regalate loro dalla riforma del
Titolo V, fonti di tante «insane» politiche clientelari, piuttosto che puntare su
quell’influenza sana, pulita, che il costituendo Senato delle Regioni consentirebbe loro di
esercitare in difesa dei rispettivi territori. Poi ci sono alcuni settori della magistratura
(Magistratura democratica fa parte del comitati per il no, e diversi magistrati stanno
facendo campagna contro la riforma). Verosimilmente, temono il rafforzamento del
governo, temono che, per effetto di quel rafforzamento, la loro posizione di preminenza
entro il sistema politico possa, col tempo, indebolirsi. Ci sono poi gli interessi politicopartitici, quelli dei nemici di Renzi, interni al suo partito ed esterni, di coloro che vogliono
affossare la riforma per sbarazzarsi del premier. Nulla da eccepire: è la politica, bellezza.
Si può solo concordare con Il Foglio quando rileva una stranezza: Silvio Berlusconi (che
ha appena ribadito la sua contrarietà alla riforma) si ritrova ora alleato dei propri storici
nemici, di una coalizione che usa contro Renzi gli stessi argomenti che per venti anni ha
usato contro di lui. Non c’è alcun progetto autoritario. E Renzi non è Erdogan. Ma il buon
senso è una merce rara. Soprattutto in politica.
LA REPUBBLICA
Pag 1 Matteo Renzi, la sinistra e l’Europa immaginata da Francesco di Eugenio
Scalfari
Matteo Renzi è molto attivo in questi giorni come capopartito più che come capo di
governo e la ragione è chiara: sta per affrontare due prove elettorali. Tra pochi giorni
una amministrativa in molti Comuni italiani, alcuni dei quali di notevole importanza.
L'altra, tra cinque mesi, è il referendum che dovrebbe approvare le riforme costituzionali
già votate dal Parlamento. Alle spalle del referendum c'è la legge elettorale già
esistente, che con la riforma costituzionale ha strettissimi legami. Questa situazione
Renzi la conosce bene e quindi la sta affrontando con l'abilità che deve essergli
ampiamente riconosciuta. Domenica sera l'ha esibita in una trasmissione su Rai-Tre,
"Che tempo che fa" di Fabio Fazio. È stato bravissimo e credo abbia convinto molte
persone incerte su come votare. Il giorno dopo ha riunito la direzione del partito e anche
lì ha posto il problema referendario. Sapeva che gran parte della sua dissidenza era
tentata di votare "no", ma ha convinto molti, anzi quasi tutti, che un referendum
promesso da un partito e dal governo di cui quel partito è il nerbo non può vederli divisi.
Ha illustrato i grandi vantaggi d'una riforma che elimina il bicameralismo perfetto, ha
ricordato che la tesi del monocameralismo era sempre stata sostenuta dalla sinistra
comunista e soprattutto da Napolitano e da Macaluso; infine ha offerto come
contropartita alla sua dissidenza la convocazione immediata del congresso del Pd a
referendum avvenuto e approvato. A quanto pare questa offerta ha funzionato e la
direzione sembra aver sancito l'accordo sulle basi da lui proposte. Non c'è che dire, è
bravo, ha un carisma che eguaglia e forse supera quello che ebbe Craxi ai suoi tempi. Gli
italiani sono sempre stati affascinati dal carisma, che può produrre ottimi o pessimi
frutti. Il più dotato nel carisma demagogico fu Benito Mussolini, con i risultati che
conosciamo. Penso e spero che non sia il nostro caso attuale. Personalmente non mi
oppongo affatto al monocameralismo, esiste in quasi tutti i Paesi d'Europa. Non mi
oppongo neppure a chi comanda da solo, con un ristretto cerchio magico di devoti:
anche questa, in una società complessa come quella in cui viviamo, è diventata di fatto
una necessità. Salvo un punto che tuttavia è fondamentale: ci dovrebbe essere una
oligarchia invece del cerchio magico dei devoti. Nella Prima Repubblica l'oligarchia
democristiana comprendeva De Gasperi, Scelba, Fanfani, Moro, Andreotti, Colombo, De
Mita, Piccoli, Rumor, Bisaglia, Segni, Gronchi, Dossetti, La Pira e molti altri. Nel Partito
socialista c'erano Nenni, Mancini, Giolitti, Pertini, De Martino, Lombardi, Brodolini, Craxi,
Miriam Mafai, Signorile, De Michelis, Martelli. Nel Pci Togliatti, Amendola, Longo, Ingrao,
Barca, Terracini, Scoccimarro, Negarville, Napolitano, Reichlin, Pajetta, Nilde Iotti,
Tortorella, Rodano, Occhetto, e infine Berlinguer e poi D'Alema e poi Fassino, e poi
Veltroni. Il Pci non fu mai un partito dittatoriale e tantomeno guidato dai devoti del
capo; fu oligarchico e costituzionale, con il solo ma drammatico errore d'essere per
lunghi anni legato alla dittatura leninista- stalinista. I piccoli partiti contavano molto
poco ma alcuni dei loro esponenti ebbero un'importanza di grande peso nella storia del
Paese: Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini, Malagodi, Calvi, Storoni, Mario
Pannunzio, Cattani, Corbino, Valiani. Ho fatto questo lungo elenco per dimostrare che la
democrazia italiana negli anni tra il 1946 e il 1975-'80 aveva un personale politico molto
qualificato e una struttura operativa che furono gli elementi essenziali della libertà
democratica. E se volete dare a quel tipo di architettura gli artefici che la descrissero
filosoficamente e politicamente dovrete ricordare i nomi di Platone, di Aristotele e in
campo propriamente politico di Pericle. Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta;
quello dei Masaniello e dei Cola di Rienzo ancor meno. Lo tengano a mente i giovani se
riusciranno ad emergere dall'indifferenza verso il bene pubblico che, non solo in Italia
ma in tutto il mondo, sembra averli colpiti. Se aspirano alla politica alta, ebbene è quella
qui descritta. Altra fine fa prevedere l'interesse particolare e non quello generale ed è
proprio l'interesse particolare che crea la corruzione e la diffonde ovunque. Comunque
Renzi è bravo e allo stato dei fatti non sembra avere alternative. Vuole il comando;
ebbene così sia. Vuole comandare da solo, e così sia. Se il referendum avrà una
maggioranza di "sì" il successivo congresso del Pd lo confermerà nella carica di
segretario del partito. Non si è mai visto un capo di governo boicottato da un partito del
quale è segretario. Sarebbe battuto al congresso. S'è visto appunto con la coltellata
inflitta da Renzi ad Enrico Letta, l'uno segretario e l'altro premier. Quella coltellata getta
ancora sangue e non vi è stato posto alcun riparo. Quando si dimenticano i torti inflitti è
un pessimo segno verso l'onestà politica. Renzi - lo ripeto con verità e senza ironia - ha
carisma e l'intelligenza di saperlo usare. Quindi così sia. Ma, secondo il mio personale
punto di vista, così sia soltanto ad alcune condizioni. 1. Modificare la pessima legge
elettorale già esistente e adottare invece quella di De Gasperi del 1953, fondata sul
sistema proporzionale. 2. Ammettere l'apparentamento tra varie liste, cioè un'alleanza
pre-elettorale. 3. Introdurre un premio previsto ad una maggioranza che ottenga un
voto del 50 per cento più uno. Una maggioranza talmente esigua da rischiare
l'ingovernabilità. Il premio dovrebbe arrivare al massimo ai 55 seggi ottenuti dai partiti
che hanno vinto. Questa legge, ingiustamente definita "legge truffa", conserva la
stabilità ad un governo sostenuto dai partiti che hanno ottenuto una maggioranza troppo
esigua per assicurare una linea che duri almeno per l'intera legislatura. La legge non
dette la vittoria alla Dc e ai suoi alleati, ma sia pure cambiando spesso il titolare del
governo, assicurò una linea di fondo che la Dc mantenne per molto tempo fino a quando
dovette estendere le alleanze al Partito socialista intorno agli anni Sessanta e una
quindicina di anni dopo addirittura al Pci di Berlinguer proprio nel giorno in cui le Brigate
Rosse rapirono Aldo Moro e dopo cinquantacinque giorni lo uccisero. Il seguito lo
conoscete. Questi contenuti della legge elettorale vanno emendati prima del voto
referendario. Quando non ci fosse il tempo procedurale (ma c'è) si dovrebbe varare un
documento ufficiale che s'impegna a modificarla nei modi suddetti e venga recapitato
ufficialmente a tutte le Alte Autorità dello Stato in modo da evitare che l'impegno
assunto sia tradito. Questi temi e i segnali che ne derivano riguardano soltanto l'Italia.
Problemi per noi assai importanti, ma per il resto dell'Europa abbastanza trascurabili.
D'altra parte il problema europeo ci riguarda direttamente e vorrei dire
drammaticamente e Renzi se ne rende conto forse anche più degli altri. Infatti si è
messo abilmente in posizione. Il suo vero ed essenziale compito da assumere è proprio
quello di battersi per rafforzare l'unità europea nella direzione imboccata cinquant'anni
fa da Adenauer, Schuman e De Gasperi e anticipata da Altiero Spinelli e dai suoi due
compagni confinati a Ventotene ai tempi del fascismo: Europa unita, Europa federata. Lo
chiede perfino papa Francesco che l'ha invocata venerdì scorso in occasione del Premio
Carlo Magno che gli è stato conferito dalla fondazione che porta quel nome ed ha sede
ad Aquisgrana. Francesco lo ha accettato proprio per cogliere quell'occasione e quella
dell'Europa. Non solo dell'affratellamento di tutte le religioni sotto il simbolo dell'unico
Dio. Quell'affratellamento è inevitabile a cominciare dalle tre religioni monoteistiche in
particolare dai cristiani e dai musulmani che sono i più numerosi residenti in Europa. Il
fondamentalismo non può e non deve esistere né tantomeno il terrorismo orribile che ne
deriva. Ma ben oltre questo piano religioso, Francesco ha affrontato la necessità di
unificare, le istituzioni, la poetica e la cultura di uno dei continenti più importanti del
nostro pianeta. Vale la pena di leggere quelle parole nella loro precisa letteralità: "Che
cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell'uomo, della democrazia e
della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti,
letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi
uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro
fratelli?". Se esaminate a fondo queste parole vedete che esse contengono i tre valori
che a tutti noi, europeisti moderni ispirano l'opera nostra: libertà, eguaglianza,
fraternità. Implicano scelte politiche, sociali, economiche e perfino (fraternità) religiose
di quel tipo di religione che anche i non credenti propugnano e che riguarda soprattutto
l'accoglienza dei poveri, degli immigrati e degli esclusi. Ama il prossimo tuo più di te
stesso, questa è l'esortazione di Francesco e questo a me sembra che anche Renzi abbia
ascoltato, o almeno che alcune sue mosse sul rafforzamento di un'Europa più forte e più
unita possano avergli suggerito di assumere nuove posizioni in proposito. Vada avanti
coraggiosamente su questa strada e su di essa i suoi dissenzienti spostino la loro
battaglia perché un'Europa federata con quei valori ideali e politici è la vera sinistra
moderna. Un'Europa federata avrebbe come primo compito quello di praticare una
politica sociale che elimini le più intollerabili diseguaglianze, crei nuovi investimenti e
nuovi posti di lavoro, nuove tecnologie, nuovi diritti insieme a nuovi doveri. Francesco a
chi gli obiettava d'essere un Papa comunista ha risposto: "Io predico il Vangelo. Se ai
comunisti piace il Vangelo ben vengano e siano loro a venire da noi". Caro Matteo, tu
non sei un Papa e soprattutto non sei questo Papa. Ma devi essere il leader di un partito
di sinistra. Ebbene sposta la sinistra e te stesso su questa battaglia che ti eleva ad un
livello diverso e nuovo: adeguato almeno in parte a quello della Germania di Angela
Merkel. Se farai questo, gli europeisti d'ogni Paese del nostro continente saranno al tuo
fianco. Altrimenti crollerai sotto il peso di errori economici, demagogici e politici che
diffonderanno gli illeciti profitti d'una corruzione che ormai già minaccia profondamente
l'interesse dello Stato, cioè di noi tutti.
Pag 1 Quando Roma val bene una messa di Stefano Folli
C'è un filo sottile che collega la legge da tempo attesa sulle unioni civili e la campagna
per le amministrative: specie a Roma, dove la città laica e la città vaticana s'intrecciano
e il Tevere è più largo o più stretto a seconda delle circostanze. Il filo è costituito dal
voto cattolico e dal peso della Santa Sede. Entrambi non sono più decisivi come un
tempo, ma esistono ed è rischioso sottovalutare sia l'uno sia l'altro. La coincidenza vuole
che la Camera si appresti a esprimere il voto finale sulle unioni civili proprio mentre la
campagna elettorale entra nel vivo. Sappiamo che non si tratta di un vero e proprio
matrimonio omosessuale, bensì di un punto di compromesso raggiunto con fatica al
Senato. Un compromesso che si teme possa essere incrinato da un qualsiasi incidente di
percorso, ossia dal primo emendamento che in aula supera il filtro governativo. Di qui il
ricorso immediato al voto di fiducia: un'iniziativa sempre sgradevole, soprattutto quando
il governo ne fa un uso eccessivo e in questo caso addirittura preventivo. Ma il dibattito
di merito aveva dato tutto quello che poteva dare nelle due letture precedenti a
Montecitorio e a Palazzo Madama. Riaprire il vaso di Pandora rischiava di mandare
all'aria il castello di carte. Nessuno nella maggioranza renziana, fra i laici non meno che
fra i cattolici, aveva voglia di tentare la sorte. Tantomeno di offrire alle opposizioni un
argomento per la campagna elettorale. L'aver posto la questione di fiducia disinnesca il
pericolo e lo riduce a qualche ora di nervosismo e di polemiche in Parlamento. Tuttavia,
come si diceva, esiste il voto cattolico. Per meglio dire, esiste il voto di quella parte
dell'opinione pubblica che non considera le unioni gay una priorità ed è anzi contraria a
tutto ciò che le assimila al matrimonio tradizionale, anche nella scenografia. A Roma
questo stato d' animo è rafforzato dalla contiguità con il Vaticano. La Chiesa, attraverso
la Cei, non ha fatto mancare le sue critiche al testo in via di approvazione. Prima con il
cardinale Bagnasco e ancora ieri con il "bergogliano" monsignor Galantino. Si è capito
che almeno nella capitale la questione resta calda e quindi potrebbe spostare un certo
numero di voti. Quanti, è difficile dirlo. Ma Alfio Marchini ritiene che possano essere
parecchi, a giudicare dalla tempestività con cui è balzato sulla materia. Anche a costo di
qualche incoerenza con il se stesso di qualche tempo fa, quando usava toni molto più
amichevoli verso il mondo gay. «Da sindaco non celebrerò le unioni civili», ha detto il
candidato del centrodestra "moderato". Frase ambigua, ma utile a mandare un
messaggio oltre Tevere. Marchini è e vuole restare in futuro il candidato più vicino al
Vaticano, nonché il più capace di riunire l'opinione cattolica e quella conservatrice. Cosa
poi voglia dire in concreto quell'affermazione, è abbastanza chiaro. Escluso che Marchini
voglia infrangere la norma, visto che come sindaco sarebbe ovviamente tenuto a
registrare le nuove unioni civili, rimane una sola spiegazione. Saranno i funzionari del
Campidoglio a effettuare le registrazioni e senza la cornice para-matrimoniale (musiche,
fiori, confetti, eccetera). Il sindaco se ne tirerà fuori, salvo che per gli obblighi di legge.
Ne deriva che siamo sul sentiero stretto dell'ipocrisia, cosa che in campagna elettorale
non sorprende nessuno. Roma val bene una messa. Tanto più che di tutti i candidati in
campo Marchini è il più idoneo a raccogliere il favore del Vaticano. Esiste in proposito un
precedente che molti ricordano. Le sventure di Ignazio Marino cominciarono un anno fa,
proprio quando egli volle celebrare sotto le luci dei riflettori un certo numero di unioni
civili per lo più omosessuali. La sua era una provocazione, o se si preferisce un sollecito
al Parlamento perché accelerasse l'iter della legge che solo adesso sta per essere
approvata. Ma l'iniziativa, peraltro piuttosto sfarzosa già nel titolo: "Celebration day",
irritò non poco il Vaticano e in particolare il Papa Francesco. Il quale di lì a poco avrà
modo di manifestare pubblicamente il suo fastidio nei confronti del sindaco. Con le
conseguenze note a tutti. Ovvio che i "matrimoni" celebrati da Marino non furono ritenuti
validi, in assenza di una legge. Oggi Marchini o qualunque altro sindaco si troverebbe ad
agire in un contesto del tutto diverso. Non ci sarebbe motivo di forzature "laiche" e
nemmeno di "obiezioni di coscienza" cattoliche. Al più c'è margine per conquistare una
fetta di opinione pubblica, mentre sullo sfondo il Parlamento si accinge a scrivere l'ultima
parola di una lunga storia.
Pag 3 Ira dei vescovi sulla maggioranza: “Una forzatura votare così la legge” di
Giovanna Casadio, Carmelo Lopapa, Giovanna Vitale e Paolo Rodari
Alla Camera fiducia sulle unioni civili. Marchini attacca: “Non le celebrerò”. L’arcivescovo
Pennisi: “Fascismo strisciante, metà del Paese è contro”
Roma. «Questa qua mette la fiducia, alza il sedere e se ne va, ma chi si crede di
essere...». Maurizio Bianconi, avvocato aretino, ex berlusconiano ora con Fitto, si sgola
più forte del leghista Massimiliano Fedriga contro la concittadina Maria Elena Boschi. La
ministra delle Riforme ha appena annunciato la fiducia sulle unioni civili. La numero 22
alla Camera posta dal governo Renzi, la 53esima nel complesso. E a Montecitorio si
scatena la bagarre. La Lega insulta e chiama i parlamentari dem «servi della gleba,
applaudono alla fiducia nella speranza di essere ricandidati». Fedriga urla: «Vergogna».
Bianconi fa il gesto dell' ombrello. Il grillino Alfonso Bonafede accusa: «Per il governo il
Parlamento è uno zerbino su cui pulirsi i piedi, nessun governo su una legge sui diritti
civili ha mai messo la fiducia, figuriamoci una doppia». Le unioni civili sono passate
anche al Senato blindate con la fiducia. Boschi è andata via dall'aula subito dopo la
richiesta. Replicherà però in serata. Perché a contestare la scelta della fiducia è anche il
segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino. «Il voto di fiducia può rappresentare
una sconfitta per tutti», ammonisce Galantino. Il Vaticano avrebbe sperato in modifiche
che non permettano sovrapposizioni tra unioni gay e il matrimonio. Non considera
sufficiente lo stralcio della stepchild adoption, l'adozione del figlio del partner in una
coppia gay. Boschi respinge le critiche: «Dopo decenni di attesa, la legge sulle unioni
civili è un risultato storico e la fiducia ha un valore politico». In Parlamento la polemica
si accende anche sulle parole del candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini appoggiato
dagli alfaniani e dai forzisti. Marchini ha annunciato che non unirà mai in matrimonio in
Campidoglio coppie gay: «Non celebrerò mai unioni omosessuali». «I sindaci rispettino
la legge», ribatte Boschi. D'altra parte i centristi sono sul piede di guerra e minacciano
un referendum abrogativo. Ncd stamani prima del voto di fiducia farà una riunione per
placare gli animi dei più contrari che con Maurizio Sacconi e Alessandro Pagano hanno
chiesto l'intervento del presidente Mattarella. I centristi sono in fibrillazione, Paola
Binetti potrebbe astenersi. Un referendum abrogativo lo annuncia il portavoce del Family
day, Massimo Gandolfini, immaginando un'altra manifestazione in piazza San Giovanni.
Sinistra Italiana dirà no alla fiducia ma sì nel voto finale alla legge. Arturo Scotto, il
capogruppo, si sfoga: «Insopportabile la visione proprietaria delle istituzioni». Brunetta,
presidente dei deputati di FI, spara alzo zero: «Fiducia squadristica, intervenga il
Quirinale». Tra il voto di fiducia e quello finale al provvedimento, ci sarà la battaglia
degli ordini del giorno. La tentazione a fare ostruzionismo è molto forte da parte delle
opposizioni che presenteranno ordini del giorno di tutti i tipi: la sinistra per
raccomandare di introdurre la stepchild nella legge sulle adozioni da approvare al più
presto. Tra i dem dissenso di Michela Marzano che giudica la legge un' occasione persa e
potrebbe lasciare il Pd. Le Famiglie Arcobaleno ricordano la mancanza di tutele dei
bambini e chiedono la stepchild.
Roma. Il rammarico maturato in questi mesi in poche ore si è trasformato in
"irritazione". La cautela e le pazienza che ha caratterizzato questi due anni di convivenza
tra la Curia romana e il governo Renzi lascia il posto a una insoddisfazione. La fiducia
sulle unioni civili, già da giorni preannunciata e infine imposta ieri dal ministro Boschi ha
rotto in qualche modo gli indugi e spazzato via le cautele d'Oltretevere. Non si tratta di
osservazioni sul merito, ma sul metodo. Ma se ne è fatto portavoce monsignor Nunzio
Galantino, uno degli interpreti più diretti del Pontificato Bergoglio. Già in occasione
dell'approvazione della legge Cirinnà al Senato, il 25 febbraio, dalle gerarchie cattoliche
italiane era trapelato un certo «rammarico». I commenti e le indiscrezioni tuttavia non si
erano spinte oltre, nella consapevolezza che il governo Renzi e la sua esigua
maggioranza a Palazzo Madama per ragion politica (e di sopravvivenza) non aveva avuto
alternativa. La richiesta del voto di fiducia che spianerà oggi pomeriggio la strada al ddl
sulle unioni civili ha segnato invece una svolta. Tra i vescovi italiani, stando a quanto
trapela proprio dagli ambienti della Cei, si è generato un vero e proprio «fastidio».
Perché a Montecitorio i numeri per la maggioranza ci sono eccome, lì Matteo Renzi e il
suo governo non corrono rischi. E la sua strategia appare ispirata da una sorta di
«arroganza», una «forzatura» dettata quasi dalla voglia di voler procedere in «assenza
di dialogo». Questo clima non fa dormire affatto sonni tranquilli a quella buona fetta di
Partito democratico vicino al mondo cattolico e che sta vivendo con preoccupazione il
lento ma progressivo logoramento dei ponti che con tanta fatica sono stati costruiti in
questi anni con Oltretevere. Tanto più che questo accade a meno di un mese dalle
elezioni amministrative che non saranno pure decisive per le sorti del governo come non
si stanca di ripetere il presidente del Consiglio - ma riguardano le cinque principali città
italiane. E tra queste Roma, con tutto il carico di significati che la capitale, anche del
cristianesimo, si porta dietro. Ci sono campanelli d'allarme che in Largo del Nazareno
non sono passati inosservati. Come quando pochi giorni fa, il 3 maggio scorso, il
cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, stuzzicato dai giornalisti che gli
chiedevano un giudizio su Virginia Raggi, candidata a sindaco di Roma per il movimento
Cinque Stelle e considerata in testa dai sondaggi, si è sbilanciata in un «le auguro ogni
successo, di diventare quello che vuole diventare». Detto col sorriso, per carità,
impensabile uno schieramento pro M5S della Chiesa romana, ma sono piccoli segnali.
Spie di un rapporto tra Palazzo Chigi e Santa Sede vengono ora definiti «formali»,
improntati cioè a una sostanziale «neutralità». E tanto basta per accendere i
lampeggianti del "pericolo" in casa Pd. Ed è in questo clima di silenzioso deterioramento
che si inserisce la sortita tutt'altro che casuale di ieri del candidato sindaco del
centrodestra forzista e dei centristi Ncd, Alfio Marchini. Il cattolico Marchini, cresciuto
nella scuola dei Gesuiti del Massimo a Roma, in ottimi rapporti con gli uffici dell'Opus
Dei, l'aspirante sindaco che frequenta ogni giorno le parrocchie e che ai suoi amici
racconta di un rapporto personale con Papa Bergoglio. Certo è che la sua mossa - dicono
ispirata anche dall'amico Gianni Letta, che in quel che resta della Curia di Camillo Ruini e
Giovan Battista Re vanta ancora solidi legami - ha il chiaro intento di accreditarsi su
quella sponda del Tevere e con l'associazionismo cattolico. Dopo essere uscito dal
pranzo con Guido Bertolaso a casa di Silvio Berlusconi per concordare strategie e
comunicazione, Marchini spiega: «Sono contrario alle unioni civili ma non sono un
bacchettone, né un moralista. Io dico sempre quello che penso senza calcoli politici,
magari a volte sbaglio, ma sono fatto così». Detto questo, «quel che ho detto è una cosa
che penso realmente, sono contrario ai matrimoni gay e ho pensato di dirlo come
quando ho detto che mio figlio si è svegliato dal coma anche grazie al fatto che non si è
mai fatto le canne». Musica per le orecchie degli Giovanardi e delle Binetti che già
plaudono. Per Berlusconi un jolly per accreditarsi in mondi che per lui erano ormai
perduti.
Roma. «Credo davvero che aver posto la fiducia sia un fatto del tutto negativo per la
nostra democrazia. Argomenti così delicati e importanti necessiterebbero infatti di altri
approcci. Con la fiducia, piuttosto, il Parlamento viene imbavagliato. E in questo modo
non si tiene conto che esiste una grande fetta del Paese che questa legge non la vuole.
A mio avviso questo modo di fare è fascismo strisciante, un qualcosa che in nessun
modo condivido». Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale e per diverso tempo delegato
della Cei per la scuola e l'educazione, parla a titolo personale seppure è evidente che
nella Cei vi sia chi la pensa come lui.
Alfio Marchini ha detto che se venisse eletto sindaco di Roma non escluderebbe di
esercitare il diritto all'obiezione di coscienza. Non le sembra troppo?
«Di fronte a una legge ingiusta è lecito esercitare questo diritto. Se dall'alto lo Stato
impone leggi che non si condividono, si può obiettare. Non vedo per quale motivo non si
potrebbe fare».
Da anni l'Italia aspetta questa legge, anche per garantire diritti sacrosanti alle coppie di
fatto. Perché adesso tornare a fare le barricate?
«Non si tratta di fare le barricate. Semplicemente di dire che i diritti delle persone
conviventi si possono tutelare in altro modo».
Ad esempio come?
«Con un testo unico sui diritti. Un testo che elenchi e ribadisca quanto l'ordinamento
italiano già prevede, esplicitamente o implicitamente, per le persone impegnate in
convivenze. Invece questa legge a mio avviso ha un portato ideologico».
A cosa si riferisce esattamente?
«Mi sembra che dietro questa legge, dietro le forze che l'hanno sostenuta e portata in
Parlamento, vi sia una cultura specificatamente contraria alla famiglia naturale. Quando,
infatti, attraverso una decisione politica, vengono giuridicamente equiparate forme di
vita differenti - come la relazione tra l'uomo e la donna e quella tra due persone dello
stesso sesso - non si riconosce la specificità della famiglia. Questo è il punto, a mio
avviso».
Roma. «Un calcolo elettorale bieco, basso, e persino politicamente sbagliato. Davvero mi
sorprende Marchini. Per blandire i partiti che lo appoggiano è costretto a fare
dichiarazioni omofobe! Che tristezza!». Monica Cirinnà si agita, si indigna a modo suo,
senza cadere nel volgare, ma picchiando sempre a dovere l'avversario. Alla vigilia
dell'approvazione della «sua» legge, ecco la fiammata non prevista. Per la gioia dell'
alleato Francesco Storace, Marchini fa sapere che non celebrerà unioni gay.
Senatrice, sortita ad effetto no?
«Sortita pessima, direi. Conosco Alfio Marchini da anni, conosco la sua famiglia, le loro
radici liberali, conosco la sua storia. Mi chiedo: come si fa a discriminare gli esseri umani
nel giorno più importante della loro vita? Evidentemente i partiti di centrodestra che lo
appoggiano, da Forza Italia all'Udc, quelli che più strenuamente si sono battuti contro le
unioni civili, sono andati all' incasso.
Marchini ormai è il loro candidato».
Preoccupata?
«E di cosa? Tanto le unioni civili le celebrerà il nuovo sindaco di Roma che sarà Roberto
Giachetti. Nella Sala Rossa si diranno sì Paolo e Carlo e subito dopo Paolo e Giovanna.
Nessuna discriminazione. Vorrei comunque ricordare a Marchini che quando ti
proclamano sindaco giuri sulla Costituzione. Non puoi fare il sindaco fuorilegge. Esiste
l'articolo 328 del codice penale sull'omissione degli atti d'ufficio. Se domani (oggi per chi
legge, ndr) le unioni civili diventeranno legge dello Stato, il primo cittadino di Roma sarà
chiamato a celebrarle esattamente come i matrimoni».
Ha detto che non lo farà.
«Allora sappia che in questi casi, cioè quando un sindaco non rispetta una norma di
legge, e non concede deroghe ad altri per farla rispettare, subentra la figura del
commissario ad acta. Di solito mandano un prefetto...».
Il deputato di Area Popolare Alessandro Pagano dice che le sue sono intimidazioni vere e
proprie, tipica arroganza Pd, sotto ricatto delle lobby Lgbt.
«Se Marchini si spaventa per le parole di una senatrice laica, democratica, eterosessuale
sposata, che ama la sua famiglia allargata, cioè i 4 figli avuti da mio marito Esterino con
la prima moglie, allora è messo proprio male. Sarebbe stato meglio non candidarsi
perché di intimidazioni purtroppo ne potrà ricevere di vere e molto più pesanti».
Marchini esibisce un programma attento sugli animali...
«A me lo dice! Questo è un tema che abbiamo sempre condiviso. Se sei in grado, come
Marchini, di avere un legame profondo con il tuo cavallo, come fai, passando a ranghi
elevatissimi, a negare dignità all'amore tra due uomini e due donne?».
Avrà fatto i suoi calcoli elettorali.
«Davvero un bel biglietto da visita per promuoversi! Secondo me è un autogol pazzesco.
Tra l'originale e il facsimile, meglio l'originale, cioè la Meloni che si è già presa la
medaglia andando al Family Day. E poi c'è un'ala liberal di Forza Italia che non si
riconosce in queste posizioni. Marchini la sottovaluta. E ci sono i cittadini romani che
sono molto più avanti della politica. Chi si prende nel 2016 un sindaco che non rispetta
la legge e fa discriminazioni sull'orientamento sessuale?».
LA STAMPA
Due nuovi fronti aperti per il governo Renzi di Marcello Sorgi
Due nuovi fronti si sono aperti ieri all’improvviso sulla strada del governo: il Vaticano e
l’Europa. Alla vigilia del voto di fiducia e dell’approvazione finale della legge sulle unioni
civili alla Camera, il segretario della Conferenza episcopale italiana monsignor Galantino,
le cui esternazioni quasi sempre coincidono con il pensiero del Papa, ha detto che la
scelta della fiducia rappresenta «una sconfitta», quasi a dire una rinuncia a un’ulteriore
fase di confronto che la Chiesa avrebbe voluto più lunga (qualcuno dice: lunga
all’infinito, pur di evitare la legge). Politicamente, visto anche il ruolo istituzionale che
Galantino ricopre nella gerarchia, si tratta di un’ingerenza negli affari italiani, non
diversa, purtroppo, da quella che lo stesso Francesco volle fare quando la legge era
ancora in discussione al Senato, e prima che Renzi decidesse di rinunciare alla parte più
contestata del testo, la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner nelle coppie
omosessuali, con le implicazioni che poteva portare in materia di utero in affitto. Ma per
le parole adoperate e per il momento scelto per esternarle, l’uscita di Galantino può
anche essere interpretata come una sorta di atto dovuto. Un estremo tributo all’ala più
tradizionalista della Chiesa, la quale mai e poi mai avrebbe accettato il silenzio di fronte
alla nuova legge italiana che, pur differenziandole dal matrimonio, introduce il
riconoscimento per le coppie di fatto. Insomma una presa d’atto critica che ribadisce il
dissenso, ma in nessun modo punta a impedire l’approvazione del testo, anzi perfino ne
prende atto. Il secondo fronte riguarda il negoziato con la Commissione europea: anche
in questo caso, non di effettiva novità si tratta, dal momento che la trattativa con i
severi censori di Bruxelles sulla legge di stabilità e sul grado di flessibilità rispetto ai
canoni del rigore imposto dal trattato di Maastricht va avanti da mesi, con aperture e
chiusure che si susseguono spesso senza una logica comprensibile. Il nuovo rinvio di una
settimana non dovrebbe mettere in discussione il via libera definitivo sui conti italiani,
semmai imporre un lavoro straordinario al ministro dell’Economia Padoan che ha
condotto fin qui un complicato tira e molla, puntando a convincere la Commissione che
un rinvio degli obiettivi più impossibili da raggiungere non vuol dire che l’Italia non
accetti la disciplina che le è imposta. Al di là della sorpresa per due imprevisti che non
erano stati messi in conto, le conseguenze non dovrebbero dunque essere irreparabili.
Inevitabile però sarà un ulteriore appesantimento di una campagna elettorale che, a
mano a mano che la data del voto s’avvicina, diventa ogni giorno più tormentata. Come
ha capito il furbo Marchini, candidato civico e berlusconiano a Roma, che dopo un
incontro con il Papa destinato a restare riservato, non ha atteso Galantino per dire che,
se diventasse sindaco, si rifiuterebbe, malgrado la legge, di celebrare unioni civili. Cosa
non si fa per cercare fino all’ultimo di accaparrarsi voti cattolici.
AVVENIRE
Pag 1 Ricordate Khurram Zaki di Marco Tarquinio
Uno giusto, e ucciso per questo
Ci vogliono fede e coraggio, oggi, in Pakistan per portare la croce da cristiani. Un
coraggio che si fa enorme per abbracciare la croce in pubblico. I cristiani pachistani
mostrano la loro fede e trovano questo coraggio ogni giorno, da uomini e da donne che
non intendono rinunciare a essere se stessi. Credenti e cittadini, cittadini e credenti:
l’una e l’altra cosa insieme, non senza timore e sofferenza, ma senza esitazioni. Perché
venga il tempo in cui la convivenza tra uguali e il rispetto di ogni differenza siano
finalmente regola salda, e pacifica. Ci vogliono fede e coraggio in Pakistan per portare la
croce da cristiani. E ce ne vogliono persino di più per farlo da non cristiani. Eppure
accade. Il musulmano Khurram Zaki, giornalista e attivista per i diritti umani, uomo
buono, lo ha fatto. Domenica scorsa è morto per questo, assassinato. Aveva
letteralmente alzato e mostrato la croce, manifestando fianco a fianco nel 2014 con i
cristiani attaccati e massacrati nelle loro chiese da fanatici islamici legati al movimento
taleban. E si era idealmente caricato sulle spalle la croce della battaglia per la difesa dei
diritti delle minoranze, reclamando soltanto di poter onorare il dovere di «costruire il
Pakistan», secondo libertà, giustizia, rispetto reciproco, fraternità. Abbiamo tutti bisogno
di conoscere e ascoltare uomini come Khurram il costruttore, perché ci sono di esempio.
Sono persone che a loro volta sanno conoscere e ascoltare. Tutti i veri costruttori sono
così, e sono aperti, sereni, fedeli, amanti delle buone regole e perciò determinanti nella
battaglia per cambiare le leggi ingiuste come quella che in Pakistan viene chiamata
«anti-blasfemia», ma bestemmia la vita dei pachistani di ogni fede e di ogni pensiero. I
distruttori, invece, in Pakistan e in ogni altra terra, compresa la nostra italiana ed
europea, non conoscono e non vogliono che ci si conosca, non ascoltano e non vogliono
che ci si ascolti, coltivano ogni chiusura e alzano ogni tipo di barriera, insultano e
imbavagliano, demoliscono i ponti e odiano gli uomini-ponte, fino a ucciderli. Come è
toccato a Khurram Zaki. E prima di lui a Shahbaz Bhatti, lucido e generoso ministro
cristiano per le minoranze, martire per il suo impegno. E a Salman Taseer, musulmano,
che da politico coraggioso seppe schierarsi subito a difesa di Asia Bibi, condannata a
morte solo perché fedele a Cristo. I distruttori disseminano sofferenze e lutti,
accumulano rancori e sembrano sempre avere la meglio, ma alla fine non vincono, non
vincono mai. Continueranno a essere sconfitti sino a quando ci saranno uomini e donne
capaci di buona fede, di buona volontà e di memoria. Questa è la parte che tocca a tutti
noi, senza distinzioni di origine e di fede. Perché la memoria degli uomini giusti, che i
distruttori vogliono sporcare e cancellare, vince anche la morte ed è la madre dei
costruttori di giustizia e di pace.
Pag 3 I 14 giorni dell’embrione e la ricerca senza “autovelox” di Assuntina Morresi
Dove porta la richiesta di infrangere un nuovo limite
È facile rispettare un limite quando è impossibile superarlo. Per esempio quello dei 14
giorni di vita dell’embrione umano, una soglia da non oltrepassare nella ricerca sugli
embrioni stessi: finora il loro record di sopravvivenza in laboratorio era stato di nove
giorni, e di solito non superiore alla settimana. Periodi sempre abbondantemente
inferiori alle due settimane indicate dagli scienziati fin dal 1979. La scelta dei 14 giorni è
stata posta convenzionalmente, adottando uno dei tanti criteri possibili: è lo stadio di
sviluppo oltre il quale un singolo embrione non si può più dividere, né due si possono
fondere, ed è segnato dalla comparsa di una struttura, la stria primitiva, facilmente
individuabile dagli studiosi. Ma soprattutto si tratta di un criterio che finora ha consentito
di fare ricerca per tutto il tempo in cui un embrione riesce a sopravvivere al di fuori del
ventre materno: un confine invalicabile per una ricerca praticamente illimitata. C ome se
nelle nostre strade si fissasse il limite di velocità a 600 Km orari, compiacendosi poi del
fatto che tutti lo rispettano. Suona quindi un po’ ipocrita ribadire che finora la comunità
scientifica si è attenuta a tale indicazione, mostrando di essere in grado di autoregolarsi,
e neppure si può parlare di utile compromesso al fine di «ricavare uno spazio per
l’indagine scientifica rispettando allo stesso tempo le diverse opinioni sulla ricerca sugli
embrioni umani», come scritto recentemente su Nature da tre studiosi del settore. I 14
giorni di ricerca libera non hanno significato alcun compromesso, non hanno posto alcun
limite effettivo. La ricerca che distrugge gli embrioni umani la si fa o non la si fa: questo
è il vero discrimine. Di poche settimane fa la controprova: appena pubblicati due lavori
in cui embrioni umani sono sopravvissuti 13 giorni in colture e supporti dedicati, è
scattata subito la richiesta di modificare il vincolo, ovviamente in avanti, per poter
continuare senza condizionamenti. I fatti sono noti: con i rispettivi articoli in due
prestigiose riviste scientifiche, Nature e Nature Cell Biology, due diversi gruppi di
studiosi hanno mostrato che embrioni umani 'sovrannumerari', cioè formati per la
fecondazione assistita, successivamente crioconservati e ceduti alla ricerca dalle coppie
che li avevano generati, una volta scongelati e trasferiti su appositi supporti su cui
hanno attecchito, hanno continuato a svilupparsi in vitro quasi per due settimane,
permettendo di osservare per la prima volta la loro crescita nelle fasi finora celate ad
occhi umani, perché possibili solamente in utero, durante e dopo l’impianto. I due gruppi
di ricercatori – uno americano, guidato da Ali Brivanlou della Rockefeller University e
l’altro inglese, di Magdalena Zernicka-Goetz di Cambridge – hanno evidenziato
differenze e somiglianze con i modelli animali mammiferi, sottolineando soprattutto la
capacità degli embrioni osservati di autoorganizzarsi anche in mancanza di input e
tessuti materni. Un grado di autonomia inaspettato per gli studiosi, e l’ennesima
indicazione del fatto che un embrione umano è un essere umano radicalmente altro dalla
madre che gli consente di crescere in grembo e venire alla luce: ma non è stata questa
l’osservazione degli addetti ai lavori, per cui la strada è solo all’inizio. Innanzitutto gli
embrioni lasciati crescere su supporti piani non si sono sviluppati su tre dimensioni ma
su due, restando fortemente appiattiti, e l’identificazione di cavità, strutture e tipologie
cellulari nel corso dello sviluppo embrionale va certamente raffinata. D’altra parte –
sottolineano gli scienziati nel ribadire la necessità di continuare questo tipo di ricerche –
è proprio lo stadio dell’impianto in utero dell’embrione quello in cui molte gravidanze
falliscono, e al tempo stesso si tratta di un momento fondamentale per la
differenziazione cellulare: l’obiettivo dichiarato di questo tipo di studi è la comprensione
dei processi biologici di base. Ma se il fine è conoscere meglio tutto il conoscibile, a
prescindere dall’oggetto della ricerca e senza altre condizioni, ogni limite che si vorrà
proporre sarà inevitabilmente visto come un danno, una intollerabile mutilazione della
conoscenza. «È veramente imbarazzante all’inizio del ventunesimo secolo conoscere di
più su pesci, topi e rane che su noi stessi. È un po’ difficile spiegarlo ai miei studenti», è
il commento insofferente di Ali Brivanou, a capo del gruppo americano, che rende bene
l’idea della seccatura che si prova a dover procedere per gradi. Eppure ogni tipo di
ricerca su esseri senzienti – dagli animali alle sperimentazioni cliniche sugli umani –
pone limiti e restrizioni, senza i quali sicuramente si avrebbero risultati più significativi
dal punto di vista della mera conoscenza. Sugli embrioni umani, però, vale un altro
registro. I due esperimenti che hanno simulato l’impianto embrionale in utero hanno
contribuito a riaccendere i riflettori sulla ricerca sugli embrioni umani, dopo che il Nobel
per le 'staminali etiche' di Yamanaka sembrava averne assopito la vis polemica. Sta
infatti lavorando a un report dedicato, da concludere nell’anno in corso, il team
internazionale istituito lo scorso dicembre durante il 'Summit delle Accademie' – le
Accademie nazionali americane di Medicina e di Scienze, l’Accademia delle Scienze
cinese e quella inglese – interamente rivolto al gene editing: la nuova tecnica 'taglia e
cuci' di manipolazione genetica che sta rivoluzionando la terapia genica, per la quale è
stata chiesta una moratoria limitatamente alle sue applicazioni cliniche su embrioni e
cellule germinali. Ma nell’attesa che gli esperti internazionali concludano il loro lavoro, è
partita la corsa al gene editing sugli embrioni: dopo la Gran Bretagna, che ha
autorizzato studi in tal senso al Francis Crick Institute a Londra, anche la Svezia si
appresta a 'editare' embrioni al Karolinska Institute, a Stoccolma. Ed è ancora una volta
cinese il secondo lavoro (dello scorso 6 aprile, sul J. Assist. Reprod. Genet.) sul gene
editing su embrioni umani, stavolta per cercare di indurre mutazioni che rendano
resistenti all’HIV. A nche per il gene editing gli esperti vogliono usare subito embrioni
umani e non animali, e possibilmente non anomali ma sani, ovviamente per 'migliorare i
risultati'. Nei prossimi giorni la International Society for Stem Cell Research renderà
pubbliche le nuove linee guida per la ricerca sulle cellule staminali, che si pongono come
obiettivo quello di dare un quadro di riferimento agli scienziati, «alla luce delle nuove
forme di ricerca sugli embrioni». Gli esperti che ne hanno dato notizia, su Nature,
auspicano che si possano evitare limiti restrittivi alla ricerca. Una ricerca che nella sua –
legittima – impazienza di svelare i misteri della vita umana, sembra ormai non essere
più in grado neppure di riconoscerla mentre, per scrutarla, la distrugge.
Pag 5 Pakistan, fa paura agli estremisti la faccia dell’islam che sa dialogare di
Stefano Vecchia e Lucia Capuzzi
Tutti testimoni della convivenza, il loro sacrificio nel nome del pluralismo
L’omicidio, domenica, nella maggiore città pachistana, Karachi, di Khurram Zaki ha
privato il Paese di uno dei maggiori attivisti per i diritti umani che, come aveva scritto
nella sua pagina di Facebook, intendeva «diffondere idee religiose liberali e condannare
l’estremismo in ogni sua forma». Questo è bastato perché Zaki, musulmano sciita,
venisse freddato a colpi di arma da fuoco da taleban ispirati da Maulana Abdul Aziz,
leader religioso sunnita della Moschea Rossa di Islamabad, diventata ricettacolo di
estremismo anche terrorista, in particolare, ma non solo, rivolto proprio contro la
minoranza sciita. Difficile oggi avere un’idea diversa del Pakistan che non sia quella di un
Paese attraversato da una profonda crisi di identità, sociale, economica, da violenza di
molteplice origine. Un Paese che potrebbe cadere in mano all’estremismo religioso,
peggio ancora diventare centrale del terrorismo con il rischio che una deriva integralista
spazzi via società civile e politica, ne faccia il nucleo di un “califfato” con un retroterra
pressoché inesauribile, ma soprattutto dotato degli ordigni nucleari di cui il Paese
dispone nell’inquietudine internazionale. Eppure, nell’immensità di quasi 200 milioni di
abitanti, nella varietà culturale, etnica e religiosa di un Paese vasto tre volte l’Italia,
restano tante realtà, esperienze a indicare una strada diversa, una spe- ranza per la
nazione nel suo complesso, senza distinzioni e discriminazioni. Nemmeno la malattia,
invalidante e senza cura che lo costringe al 2013 a una vita tra le mura del minuscolo
appartamento che condivide con la moglie sopra il primo dei centri da lui fondati, ha
abbattuto la caparbietà di Abdul Sattar Edhi, musulmano di fede, che oggi 88enne da
oltre mezzo secolo indica alla sua gente una strada di solidarietà senza confini. La sua
“missione” è essenzialmente quella di garantire una dignità che passi dall’educazione,
dallo sviluppo e – per le attività più note e meritorie – dalla salute. Cure mediche,
riabilitazione di malati, tossicodipendenti, progetti di sviluppo e cucine per i poveri.
Un’attività, quella organizzata dalla Edhi Foundation, che ha sostenuto 100mila bambini
e che coordina oltre 300 centri nel Paese, con il maggiore servizio di ambulanze
disponibile per chiunque. Un’immensa opera finanziata dai benefattori che si è estesa
anche in alcune realtà estere, ma il cui cuore continua a battere in un vecchio edificio
perso nella megalopoli di Karachi. Le donne sono parte consistente di coloro che hanno
beneficiato delle iniziative di Edhi e va sottolineato che proprio le donne hanno oggi un
ruolo di primo piano per rilanciare uguaglianza e diritti propri, ma anche di tutti e
ciascuno. La giovane Malala Yousufzai, con il suo impegno soprattutto per l’educazione
delle bambine e delle giovani ha avuto un riferimento forte in Edhi, di cui suo padre ha
guidato la raccolta di firme per la proposta al Nobel, ma anche in Hina Jilani e Asma
Jehangir. Queste ultime sorelle e per molto tempo sulla strada parallela della carriera
legale e dell’impegno a dar vita nel 1986 alla Commissione nazionale per i Diritti umani
del Pakistan, oggi tra le voci più forti a indicare insieme problematiche di forte impatto
sociale e a proporre soluzioni. La signora Jilani ha scelto una via più diretta di attivismo
a favore delle donne, utilizzando le sue capacità, sia di avvocato presso la Corte
Suprema del Pakistan negli anni Novanta, sia come Rappresentante speciale dell’Onu per
la Difesa dei diritti umani. «Ho sempre pensato che se si è testimoni di un’ingiustizia
occorre contrastarla, altrimenti non si è in diritto di lamentarsi» è una frase che esprime
il suo carattere Asma Jahangir si è distinta a sua volta più sul fronte dei diritti delle
minoranze e in generale dei “senza voce”, fornendo assistenza legale a casi anche
famosi per la loro arbitrarietà e il sostegno a condannati per casi di blasfemia. Nota la
sua dura opposizione al presidente Musharraf, sotto il cui regime si avviò la deriva
integralista attuale che ha accentuato la persecuzione verso le minoranze religiose.
Anch’essa ha avuto dall’Onu un incarico significativo, quello di Relatore per le esecuzioni
extragiudiziarie, una responsabilità che ha portato alla Jahangir minacce di morte e
anche detenzione domiciliare, senza imbavagliarla.
Le istituzioni governative delegate alla tutela dei gruppi minoritari, in particolare quelle
religiose, hanno avuto in Pakistan una vita travagliata. Dopo varie iniziative all’interno di
dicasteri diversi, un ministero delle Minoranze a pieno titolo venne creato nel 2008 nel
governo del Partito del popolo pachistano e affidato all’esponente cattolico dello stesso
partito, Shahbaz Bhatti. Dopo la sua uccisione, il ministero venne chiuso, formalmente
nel contesto di una decentralizzazione di diverse competenze alle province. Tuttavia, nel
governo centrale venne creata una istituzione con nome e in parte prerogative diverse, il
ministero per l’Armonia nazionale, affidato al fratello di Shahbaz Bhatti, il medico Paul
Bhatti, formalmente con un ruolo di “consulente speciale” del primo ministro. Nel giugno
2013, con la vittoria della Lega musulmana del Pakistan, il ministero venne assorbito in
un dicastero più ampio, quello per gli Affari religiosi. Le interpretazioni riguardo questi
cambiamenti variano e per alcuni sono un segno integrazione che eviterebbe una
ulteriore emarginazione, per altri indicano invece una volontà politica di non riconoscere
pieni diritti ai non musulmani. Attualmente, i vari governi provinciali hanno al loro
interno un ministero specifico per le Minoranze. Un percorso altrettanto accidentato è
toccato al ministero per i Diritti umani, da pochi mesi pienamente ripristinato nella
capitale Islamabad.
Hanno incarnato con le loro vite – fino al sacrificio estremo – la possibilità di una via
diversa, alternativa, praticabile di convivenza e di pace in un Paese nel quale il groviglio
di modernità e violenza atavica appare, a volte, inestricabile. È la strada dei «martiri».
Individui con alle esperienze e origini diverse e che hanno vissuto con coerenza e pagato
con la vita. Per molti la capostipite è Benazir Bhutto, il cui padre – pur tra le
contraddizioni che poi furono anche parte del vissuto della figlia – aveva indicato al
Paese una strada di partecipazione e di democratizzazione che non a caso venne
interrotta con la sua impiccagione e molti anni di dittatura militare. Dopo varie
esperienze di governo e di esilio, la morte di Benazir Bhutto a 54 anni, vittima di un
attentato devastante il 27 dicembre 2007 a Rawalpindi, impedì a lei e al suo Partito del
Popolo pachistano, di riprendere il potere, ma la sua eredità, che è anche di
emancipazione femminile è proseguita e non a caso, proprio del suo partito sono stati
esponenti di rilievo due vittime della violenza estremista di matrice religiosa. Pochi giorni
dopo avere incontrato nel carcere di Sheikhupura la cattolica Asia Bibi, condannata nel
novembre 2010 alla pena capitale e ancor oggi in attesa della sentenza finale della Corte
suprema, il 4 gennaio 2011 il governatore della provincia del Punjab, Salman Taseer,
musulmano, veniva assassinato a Islamabad da una sua guardia del corpo vicina al
movimento taleban. Non un obiettivo casuale, ovviamente, e non solo per l’impegno a
favore della cattolica accusata pretestuosamente di blasfemia, ma anche per l’intenzione
di cercare la modifica della legge che è diventata centrale nella situazione di incertezza e
di paura delle minoranze, come pure dei musulmani non allineati con le tesi e le azioni
degli estremisti. Un omicidio, quello di Taseer, che doveva precedere di soli due mesi
quello altrettanto violento e altrettanto simbolico di Shahbaz Bhatti, primo ministro per
le Minoranze religiose del Paese. Un cattolico mite ma coraggioso che aveva accolto per
fede ma anche per convincimento politico il peso di una carica che lo portava in rotta di
collisione con la politica che cerca il sostegno dei radicali islamici e, ancor più, con i
militanti armati. Contrariamente forse alle attese degli islamisti, queste morti non hanno
però relegato il Paese nella paura, ma hanno incentivato anzi – anche per la loro
visibilità e per la reazione internazionale – una resistenza verso un settarismo che ha
tanti motivi ed è sostenuto da tanti interessi ma che ha come vittima prima il Pakistan,
nato per offrire una “casa” ai musulmani dell’India dopo la separazione nel 1947 ma che
sembra incapace di liberare maggioranza islamica e minoranze dal ricatto della violenza.
«Se volete rendermi onore non chiamatemi eroe. Ma unitevi alla mia lotta per la libertà
dell’essere umano ». In questa frase si riassume l’esperienza di Khurram Zaki, l’attivista
assassinato domenica a Karachi. «Era il suo leit motiv. Ricordo di aver letto vari
interventi in cui lo ripeteva. Khurram Zaki credeva nella dignità di ogni uomo e donna, al
di là del credo religioso o dell’appartenenza politica. Ed era pronto a giocarsi la vita per
difendere tale principio, premessa della democrazia, in Pakistan e nel mondo». Paul
Bhatti, presidente dell’All Pakistan Minorities Alliance (Apma) ed ex ministro per
l’Armonia religiosa, conosce sulla propria pelle il prezzo di una simile scelta. Il fratello,
Shahbaz, ministro e difensore delle minoranze, è stato assassinato dagli estremisti il 2
marzo 2011. Lui stesso ha subito pesanti minacce. Eppure va avanti.
Perché lo fa? Ne vale davvero la pena?
Come credente non posso fare diversamente. Sono cattolico e ritengo la difesa della
dignità umana un dovere inderogabile. Proprio come Zaki che, però, era islamico e
sciita. Spesso si enfatizzano le differenze tra fedi. Si dimentica, però, che non si può
adorare Dio – comunque lo si chiami – calpestando gli altri. Né si può essere davvero
umani se non si riconosce l’umanità di chi ci sta di fronte. In Pakistan esistono tanti non
credenti, musulmani, indù, cristiani, uniti da tale consapevolezza. E pronti a lottare
insieme.
A volte si sottolinea il radicalismo islamico ma non le voci interne all’islam combattono in
prima linea l’estremismo.
Posso dire che come Apma collaboriamo con tantissimi musulmani, impegnati nel
contrasto al fondamentalismo. E, anzi, direi che la loro testimonianza è ancora più
importante. Soprattutto nei confronti di quel 50 per cento della popolazione pachistana
tuttora analfabeta. Quest’ultima è facilmente influenzabile dalla predicazione radicale. Se
è un cristiano a rivelare l’infondatezza di certi proclami estremisti, può pensare che lo
dica per proprio interesse. Se ad affermarlo è un altro musulmano ha molta più
possibilità di essere ascoltato. Ecco, perché ripeto spesso che contro l’estremismo l’arma
più efficace è l’educazione, intellettuale e religiosa
Cosa intende?
Tanti, spesso, seguono gli imam radicali perché non solo non conoscono le altre religioni,
bensì perché non conoscono davvero l’islam. È necessario promuovere uno studio serio
del Corano e della religione musulmana, chiarendo quei passaggi che, ad una prima
lettura, sembrerebbero giustificare la violenza. Tali affermazioni devono essere
interpretate nella giusta prospettiva, altrimenti si finisce per fraintendere e dare
un’immagine totalmente falsata.
Negli ultimi tempi, il Pakistan sta compiendo dei passi concreti , in particolare nella lotta
al fondamentalismo.
Il processo è ancora lungo. La chiusura delle madrasse più estremiste, però, è un buon
inizio.
Pag 9 Quella voglia di nozze gay che torna a galla
La levata di scudi contro Alfio Marchini, il quale annuncia che non 'celebrerà' unioni gay
se eletto al Campidoglio, suona come rivelatrice. Il candidato civico, in realtà, ha detto
solo di voler rispettare la legge. Spiegando che, con lui, se sarà eletto, non ci sarà da
aspettarsi le cerimonie spot alle quali ci aveva abituato il predecessore, prive peraltro di
effetti legali, in assenza di una legge, al tempo. Se da domani, invece, ci sarà una norma
dello Stato che regola le unioni gay, a Roma come altrove – una volta istituito un
apposito registro – si potrà costituire un’unione civile «mediante dichiarazione di fronte
all’ufficiale dello stato civile e alla presenza di due testimoni». Punto. Chi più ha
patrocinato questa legge ha spiegato per mesi che non si tratterà di un similmatrimonio ma di una nuova formazione sociale. Tutta questa voglia di cerimonie
pubbliche e di sindaci in fascia tricolore, invece, rivela il pensiero recondito, che
qualcuno non ha mancato di rendere anche palese: dar vita al matrimonio gay
egualitario, puntando a stravolgere una legge persino prima della sua approvazione
definitiva.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Gran Bretagna, mancano i leader e la Ue è a rischio di Alessandro Campi
Il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è stato annunciato da
David Cameron per la prima volta il 23 gennaio 2013, pochi giorni dopo i festeggiamenti,
in verità assai sotto tono, per il quarantennale dall’ingresso ufficiale del suo Paese nella
Cee. Ingresso avvenuto nel 1973, quando alla guida del governo sedeva un altro
conservatore, Edward Heath. E seguito nel 1975 da un referendum consultivo, voluto dal
laburista Harold Wilson, nel frattempo arrivato a Downing Street, che confermò la scelta
dell’adesione con il 67% dei voti favorevoli. Vinte le elezioni nel maggio 2015 e ottenuta
una larga maggioranza parlamentare, dopo la precedente e faticosa coabitazione al
governo con i liberal-democratici, Cameron ha mantenuto l’impegno con i suoi elettori e
ha formalmente indetto il referendum, convinto di poterne agevolmente orientare l’esito.
In realtà, stando ai sondaggi, agli umori collettivi e all’opinione di diversi osservatori, la
consultazione del prossimo 23 giugno - il quarto referendum della storia costituzionale
inglese, se si includono anche quello del maggio 2011 sul sistema elettorale
maggioritario e quello dell’ottobre 2014 sulla devoluzione della Scozia - potrebbe
decidere la fine traumatica di una relazione tra l’isola e il continente che è stata spesso
difficile e non priva di ambiguità. Per scongiurare un simile esito, fino all’altro ieri
considerato dall’establishment britannico alla stregua di un’eventualità remota, Cameron
negli ultimi giorni è dovuto correre ai ripari. Non si è limitato, come aveva fatto all’epoca
del referendum scozzese, a paventare la fuga dal Paese degli investitori esteri e il rischio
di una crescente disoccupazione. Ha evocato più crudamente lo spettro di una nuova
guerra civile europea. Alcuni canali televisivi lo hanno seguito in questa sinistra profezia
mandando in onda le testimonianze drammatiche dei veterani del Secondo conflitto
mondiale. Ma ci si è messa anche la diplomazia americana, affermando che fuori
dall’Europa la Gran Bretagna dovrebbe affrontare da sola le minacce alla sua sicurezza.
Si tratta di una drammatizzazione che spaventa e va oltre i toni forti tipici delle
campagne elettorali. Un conto infatti è prospettare contraccolpi economici negativi,
tutt’altro prevedere lo scoppio di un conflitto armato. A Cameron non sono
evidentemente bastati i successi diplomatici ottenuti lo scorso febbraio a Bruxelles. In
quell’occasione, dopo estenuanti trattative con gli altri Stati europei, aveva negoziato un
nuovo accordo con l’Ue che prevedeva drastiche limitazioni per l’accesso ai benefici del
welfare britannico da parte degli altri cittadini comunitari. In vista della futura revisione
dei Trattati europei aveva inoltre ottenuto il riconoscimento formale che il mercato
europeo non possiede un sistema valutario unico (la Gran Bretagna, come è noto, non
ha adottato l’euro come moneta legale) e l’esenzione di Londra dalla clausola di una
“Unione sempre più stretta” su cui si fonda l’Europa sin dal Trattato di Roma del 1957,
considerata l’anticamera di quel “superstato” europeo, burocratico e oppressivo, che agli
inglesi effettivamente non è mai piaciuto. Dovevano essere, proprio perché razionali,
argomenti sufficienti per convincere i suoi concittadini a votare contro l’uscita
dall’Europa, ma evidentemente c’è stato qualcosa di sbagliato nei calcoli di Cameron,
buttatosi nell’avventura di questo referendum con una leggerezza e una sicumera forse
eccessive. Una consultazione popolare voluta per neutralizzare l’ascesa del populismo
ostile a Bruxelles rischia così di risolversi nella vittoria di quest’ultimo, viste anche le
profonde divisioni interne al mondo conservatore e il diffondersi di una vena fortemente
euroscettica anche nell’elettorato laburista. Il caso di Cameron, un leader che non riesce
a calcolare in modo ragionevolmente prevedibile gli effetti politici delle proprie scelte, e
che dunque si trova costretto a utilizzare gli stessi toni allarmistici e demagogici degli
avversari che tanto disprezza, è indicativo del problema che attanaglia oggi l’Europa e
probabilmente tutte le grandi democrazie occidentali. Nell’epoca della massima
personalizzazione del potere, nella quale non si fa altro che parlare di carisma e del
ruolo delle grandi personalità politiche, ciò che mancano sono esattamente i leader. È
questo il paradosso storico che spiega, naturalmente accanto ad altri fattori, la crisi della
politica, la perdita di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e l’ascesa della
protesta populista. All’apparenza la scena pubblica abbonda di capi politici in grado di
mobilitare un grande consenso elettorale e di toccare, con le loro parole, i sentimenti dei
cittadini. La crisi dei partiti politici tradizionali, con i loro pesanti apparati organizzativi, e
il ruolo crescente della comunicazione politica, che per definizione deve essere
immediata e alla portata di tutti, hanno facilitato l’ascesa di personaggi dotati di una
grande presenza scenica e di un’indubbia capacità dialettica. Il problema è capire se
costoro siano dotati, oltre che di un certo magnetismo e di una personalità debordante,
anche di una qualche capacità o virtù politica. L’impressione, infatti, è che il successo
mediatico sia cosa diversa dall’esercizio responsabile del potere. Così come fiutare gli
umori cangianti e superficiali del popolo non è la stessa cosa che comprenderne gli stati
d’animo profondi e più radicati. Per vincere alle urne, magari sfruttando il
disorientamento e le ansie che in certi momenti storici circolano nel corpo sociale,
spesso bastano un fisico aitante, una buona parlantina, una discreta padronanza degli
strumenti di comunicazione (dalla televisione ai nuovi media elettronici) e il fiuto innato
per il potere che ogni politico per definizione deve possedere. Ma conoscere i problemi,
saperli analizzare, prospettare per essi soluzioni pragmatiche e adeguate, fare (se
necessario) scelte controcorrente, guardare lontano, avere una visione e un progetto,
mantenere la lucidità nei momenti difficili, non farsi catturare dall’ebbrezza della
popolarità e del potere, perseguire con tenacia i propri obiettivi andando oltre le
contingenze, possedere dei valori e farsi guidare da essi nei propri comportamenti,
precedere le masse invece di seguirle: tutto questo è ciò che tradizionalmente definisce
un leader o capo politico, esattamente come erano coloro che l’Europa l’hanno fatta
nascere e prosperare. Ma tutto questo è esattamente ciò che sembra mancare alla gran
parte degli odierni governanti e capipopolo europei, coloro che l’Europa rischiano di farla
seriamente morire.
LA NUOVA
Pag 1 Minaccia specifica, ora siamo nel mirino di Renzo Guolo
L’emergere, per effetto di indagini o di azioni, di gruppi jihadisti in Europa genera paura.
Il timore non riguarda solo atti eclatanti che colpiscano bersagli dall’alto valore
simbolico, ma anche quello di una jihad della vita quotidiana che mette a rischio la vita
delle persone in ambiti che un tempo si potevano ritenere sicuri. Del resto è questo
l’obiettivo jihadista: far sentire tutti possibili bersagli. Si tratti dell’azione di individui o
piccoli gruppi che non hanno legami organici con l’Is o Al Qaeda o di veri e propri
spezzoni di quelle organizzazioni. Per entrare in azione, ai primi è sufficiente, oltre che
avere armi e esplosivi, l’adesione all’ideologia islamista radicale che, nella sua
tassonomia del Nemico, definisce chiaramente quali sono gli obiettivi da colpire, spesso
indistinti: purché corrispondano a una delle molte categorie ideologiche che classificano
il grado di ostilità radicale verso il Nemico stesso. I secondi, invece, agiscono
pianificando con cura i loro bersagli. Un rischio sempre più elevato mentre l’Is si avvia a
una sconfitta sul piano della statualità, con un notevole ridimensionamento della sua
forza territoriale in Siria e Iraq. Una prospettiva che può spingere i vertici
dell’organizzazione a volgersi ancora una volta contro il Nemico lontano. In Occidente in
generale, in Europa, più vicina logisticamente ai teatri di conflitto, in particolare. È in
questo quadro che l’inchiesta di Bari, che ha condotto all’arresto di alcuni afghani
sospettati di progettare azioni terroristiche o, comunque, di raccogliere immagini e fare
sopralluoghi in aree sensibili, così come gli arresti a fine aprile in Lombardia di
simpatizzanti in procinto di trasformarsi in foreign fighters e partire per la Siria, così
come, qualche giorno fa l’arresto di un convertito sloveno che reclutava jihadisti nel
territorio nazionale, sono tutti episodi che fanno salire l’allarme. L’intensificarsi delle
operazioni, pur coronate da successo, fa lievitare la sensazione che l’Italia sia passata da
un rischio, alto ma generico, a una minaccia specifica. Del resto, sebbene la situazione
politica e militare in Libia non consenta ancora a Roma di guidare una missione
internazionale che tutti danno per imminente, l’Italia è parte fondativa dello
schieramento che si prefigge di sconfiggere il radicalismo islamista. La nostra presenza
in Iraq, sia pure con compiti di addestramento, ma nell’imminenza di quella che si
annuncia la battaglia per la riconquista di Mosul, la capitale del Califfato Nero, e di
presidio della grande diga vicina alla città irachena, non attenua certo, agli occhi degli
ideologi radicali, la responsabilità italiana nel campo “crociato”. Come ogni paese
occidentale, l’Italia può essere colpita: dall’interno o dall’esterno. Nel tempo della guerra
globale, la distinzione tra zone di guerra e zone indenni dal conflitto, lascia il tempo che
trova: tanto più quando in campo uno degli attori teorizza e mette in pratica forme di
guerra asimmetrica. Non ci sono zone sicure: anche perché la concentrazione della
sorveglianza attorno a luoghi e strutture simbolo lascia, inevitabilmente, sguarniti altri
bersagli, più “soft”: quelli che possono diventare teatro della jihad della vita quotidiana.
Producendo, per impatto e vittime, un effetto altrettanto forte di quello che si
verificherebbe nel caso fossero colpiti siti politicamente sensibili. Anche se, è ovvio, che
vi sono luoghi in cui è meno probabile che avvengano attentati. Da questo punto di vista
l’Italia si trova nella stessa situazione di altri paesi europei. Con una particolarità, che
riguarda il suo confine a Nordest. In quell’area vi sono condizioni particolari: la grande
disponibilità di armi e esplosivi appena oltre confine, prodotto delle guerre balcaniche;
l’insediamento, in particolare in Bosnia ma non solo, di elementi radicali wahhabiti,
giunti nella regione nei frangenti della dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, che hanno legami
con residenti in quella parte del paese. Fattori che favoriscono la creazione di un
ambiente che, per ora, ha agito dentro e fuori dai nostri confini, come retrorerra
logistico e bacino di reclutamento per il teatro mesopotamico, ma che in futuro,
potrebbe diventare la porta d’ingresso di nuclei, organicamente legati alla filiera
jihadista, decisi a colpire l’Italia.
Torna al sommario