credereste che i tre impeccabili personaggi qui a

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credereste che i tre impeccabili personaggi qui a
L’America delle gang
C R E D E R E S T E C H E I T R E I M P E C C A B I L I P E R S O N AG G I Q U I A D E S T R A
S O N O D U E P O L I Z I OT T I E U N C R I M I NA L E ? E P P U R E È P R O P R I O C O S Ì ,
P E R C H É L A F O T O G R A F I A È S TATA S C AT TATA I N U N ’ E P O C A I N C U I
A N C H E L A M A L AV I T A AV E V A U N C O D I C E D E O N T O L O G I C O . C H E
I M P O N E VA AG L I A F F I L I AT I , T R A L E TA N T E A LT R E C O S E , L’ E L E G A N Z A
UOMINI
d’ONOre
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[ DI
GIANLUCA TENTI
Ho scelto il 14 febbraio per scrivere questo pezzo. San Valentino. Il giorno degli innamorati, ma anche l’anniversario del massacro ordinato da
Al Capone nella Chicago del 1929, il primo grande fatto di cronaca della mafia italo-americana. Quella mattina, poco dopo le 10,20, l’uomo
che sarebbe stato immortalato come «Nemico pubblico numero uno»
vendicò alcuni suoi gangster giustiziati dal rivale Bugs Moran. Ventiquattro ore prima un contatto della Purple gang di Detroit aveva avvisato lo stesso Moran dell’imminente arrivo di un whisky canadese al numero 2122 di North Clark Street, al garage della S.M.C. Cartage
Company. Così quel 14 febbraio ad attendere il carico si trovavano sette persone: Adam Heyer (proprietario del fondo), Frank e Pete Gusenberg (tiratori scelti), John May, Al Weinshank, James Clark e il
dottor Reinhardt H. Schwimmer. Il loro capo, Moran, accompagnato
da due gorilla, arrivò in ritardo e fece appena in tempo ad accorgersi che
una Cadillac nera, di quelle usate dalla polizia per i controlli, era par-
]
cheggiata davanti al garage. Dall’auto erano appena scesi cinque uomini:
due vestiti da facchini, tre da poliziotti. Dopo alcuni minuti furono sentiti rumori come di pneumatici che esplodevano. Pochi istanti dopo i «poliziotti» uscirono con altre due persone. Qualcosa non tornava. Un
passante, entrato nel garage per vedere che cosa fosse successo, uscì gridando: «È pieno di cadaveri». Secondo le cronache, gli uomini, giustiziati con armi Thompson calibro 45, «erano tutti eleganti, con camicie
di seta, cappelli, cravatte vistose. Avevano ancora i cappotti con il tagliando del venditore. Abiti da 1.135 dollari l’uno. Ma erano tutti
morti, distesi davanti al muro nord del garage». Un regolamento di conti. Ecco che cosa fu il San Valentino di Al Capone. Un’esecuzione
spietata, che non vide coinvolgimento alcuno di innocenti, perché questa era, e sarebbe a lungo rimasta, la regola, il codice degli Uomini d’onore. Di questo codice si fa riferimento in molti documenti federali, rintracciati in archivi americani e in vecchie pubblicazioni italiane.
N E L L A PAG I N A A D E S T R A , L U C K Y L U C I A N O V I E N E S C O RTATO DA D U E AG E N T I F E D E R A L I . L A FOTO G R A F I A È S TATA S CAT TATA I L 1 8 L U G L I O 1 9 3 6 , G I O R N O
DELLA CONDANNA DI LUCIANO PER SFRUTTAMENTO DELLA PROSTITUZIONE. DA NOTARE L’ELEGANZA SIA DEL BOSS, IN DOPPIOPETTO, SIA DEGLI AGENTI.
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Questa «carta» è l’origine della malavita organizzata. Dettata dalla tradizione secolare della vecchia mafia nata in Sicilia e sviluppatasi in
America. Quella che dalle lettere della Mano nera, dopo una metamorfosi, è entrata nei salotti dell’alta finanza, complice un esercito di
«colletti bianchi». Una mafia che fino a pochi anni fa non colpiva inermi, donne e bambini in mezzo alla strada (i «disarmati») e neppure i
poliziotti puliti. Poi qualcosa è cambiato. Nel corso degli anni l’organizzazione ha abbandonato progressivamente le origini, aprendosi a forme di violenza sempre più eclatanti. Sparatorie, esecuzioni, vendette
trasversali che inondano i telegiornali raccontando altre mafie: una camorra oggi spietata nel Napoletano, come una dozzina d’anni fa accadeva con la mafia di Capaci e Palermo, dove furono eliminati i giudici Falcone e Borsellino e gli uomini delle scorte. Una mafia capace
di sciogliere il corpo di un fanciullo nell’acido.
Non è mai esistita una mafia «benefica». Anche in principio ci furono
soprusi, pizzi e morti. Ma tutto accadeva secondo un preciso codice.
Niente a che vedere, insomma, con le storie di poliziotti o anche malavitosi uccisi mentre tengono in collo un figlio, di minorenni trucidati per errore o da una pallottola vagante. E che un tempo ci fosse una
regola lo si capisce tornando proprio al San Valentino del 1929. I killer dell’agguato ( John Scalise, Albert Anselmi e «Machine gun» Jack
McGrun) non furono mai identificati. Neppure l’unico sopravvissuto,
Frank Gusenberg, in punto di morte all’Alexian Brothers Hospital, parlò. A un sergente che gli chiese chi aveva sparato, rispose: «Nessuno».
Perché così voleva il codice. Lui, decano di mille scontri, tenne fede alla prima regola di un mafioso che era, ed è ancora oggi, l’omertà.
Per mesi, nel 1998, mentre lavoravo al volume Uomini d’onore sui boss
italo-americani, ho annotato su un taccuino date e nomi di un esercito di killer; la mia scrivania è rimasta occupata dalle loro foto, dalle loro azioni scritte da giornalisti ed ex agenti speciali. Ho effettuato le ricerche per lo più in America, perché lì si è sviluppata non solo la mafia, ma anche il suo mito. Attorno a libri come Il Padrino di Mario Puzo, Gangland di Howard Bloom, Mafia dynasty di John H. Davis e Boss
dei boss, che raccoglie i ricordi degli ex agenti Fbi Joseph O’Brein e Andris Kurins. Molto si è scritto di mafia. In particolare da quando la lotta al crimine è ripresa (dopo la commissione Kefauver degli anni 50 e
il braccio di ferro letale per Bob Kennedy) nel 1981, primo anno della
presidenza Reagan, quando furono create 12 task force contro droga e
crimine organizzato e, tra queste, la Organized Crime Drug Enforcement Task Force di Rudolph Giuliani. Proprio lui, Rudy, il sindaco
dell’11 settembre 2001, all’epoca candidato procuratore per il distretto meridionale di New York. Partendo dalla legge Rico (del 1970) gli
Stati Uniti sono riusciti a stroncare molte attività criminali legate agli
eredi della vecchia Onorata Società, ormai votati al dilagante traffico
di stupefacenti e a guerre di strada sempre più violente. È da quei documenti che si è fatta luce su una realtà idealizzata da pellicole come
Il Padrino di Francis Ford Coppola e C’era una volta in America di Ser-
gio Leone. In realtà, è questa la mafia che seduce, quella di James Cagney, Rod Steiger, Edward G. Robinson, Marlon Brando, Robert De
Niro e Al Pacino. Pensate: quando Il Padrino uscì nelle sale fu adottato, per ammissione degli stessi mafiosi americani, come «immagine» ufficiale. E il fenomeno non si è certo estinto.
Così, mentre in Italia si processano il capo dei servizi segreti e gli
agenti infiltrati che hanno portato all’arresto di un capomafia, negli Stati Uniti i quotidiani indagano la malavita organizzata, arrivando a criticare gli stessi mafiosi (accadrà nel 1992 durante il processo a John Gotti) perché il codice d’onore generato da quella mafia di cui parlava anche Leonardo Sciascia, quando scriveva: «E poi che cos’è la mafia?
Una voce anche. Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa... Voce, voce che vaga: e rintrona le teste più deboli... È anche un’associazione
di segreto mutuo soccorso...», era svanito davanti alla barbarie.
In realtà, il fenomeno mafioso sbarcò nel Nuovo mondo nella seconda
metà dell’800, assieme alle valigie di cartone dei nostri connazionali che
traversarono l’Oceano in cerca di una nuova vita. Partirono da Napoli,
la città violata dai conquistatori che per dieci lunghi secoli mantennero il potere e l’indifferenza ai bisogni del popolo. Per dare una risposta
ai troppi problemi irrisolti, nel XIX secolo venne creata un’organizzazione segreta chiamata «camorra», da una parola spagnola che significa rissa. Il capo-camorrista fu chiamato «guappo», e si incaricò di far rispettare i contratti di contadini e commercianti, del prestito di denaro
a chi non lo otteneva dalle banche, fino alla «protezione» di negozi e fattorie, alla gestione di lotterie e aste del bestiame. Il guappo combinava
matrimoni per ragazze madri, vendicava stupri e tradimenti. Divenne
figura amata e rispettata, temuta dai prepotenti. Indossava un gessato
scuro, a doppio petto, con ampio bavero, e portava il fazzoletto al taschino. Amava le camicie con alti colletti rigidi e polsini francesi. Le scarpe sempre lucidissime, aveva un cappello di feltro nero che amava esibire nella passeggiata per il corso e nella piazza del paese.
E di miseria viveva anche la Sicilia, terra meravigliosa, per secoli lacerata dalle superpotenze: Roma e Cartagine, cristiani e islamici, impero di Spagna e Francia napoleonica. «Siamo vecchi», scrive nel Gattopardo Tomasi di Lampedusa, «sono almeno 25 secoli che portiamo
sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà, tutte venute da
fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui... Il sonno,
un lungo sonno, questo è quello che i siciliani vogliono ed essi odieranno
sempre quelli che vogliono svegliarli. Da noi ogni manifestazione, anche la più violenta, è un desiderio di oblio». Fu da queste terre che i paisà emigrarono, per ritrovarsi sotto una Statua della Libertà che prometteva: «Datemi le vostre folle stanche, povere, oppresse, che anelano
a respirare aria libera, gli sciagurati respinti dalle vostre navi brulicanti. Mandatemi i senza patria sballottati dalle tempeste. Tengo alta la lampada accanto alla porta d’oro». Quella scritta illuse almeno 5 milioni di
italiani, che trovarono in America il peggior incubo mai immaginato.
Prima la quarantena a Ellis Island, poi razzismo, soprusi e violenze.
Al Capone attraversava Chicago con portamento
A New York, nel 1800, un terzo della metropoli viveva nell’indigenza.
In questa realtà nacquero le gang, nel quartiere Five Points il cui nome
indica la confluenza di Cross, Anthony, Water, Orange e Mulberry
Street. Da queste parti la birreria Collect (serbatoio) sprofondò nella palude nel 1837, diventando rifugio per irlandesi, neri, ebrei e mendicanti.
Nel 1849 circa 40mila bambini abbandonati vagavano per le strade della città, rubando, mendicando e vendendosi al miglior offerente. In questo humus nascerà la cultura malavitosa dove gli italiani furono abili a
salire i gradini del potere. Quegli italiani di New York che attorno al 1850
erano circa 700, vent’anni più tardi salirono a 2.700 e a fine ’800, nell’area attorno a Mulberry Street, divenuta la loro seconda patria, crearono Little Italy, sanarono la zona, la resero decorosa e le donarono dignità e rispetto. I 20mila italiani residenti nel 1880 divennero 544.449
nel 1910. Ma nonostante questi grandi numeri, ovunque, in tutte le città americane in cui arrivarono, dovettero vedersela con la criminalità organizzata di ebrei, polacchi e irlandesi, che erano arrivati in America prima di loro. L’unica ancora di salvezza era rappresentata dalla Mano Nera, fondata in Italia per proteggere gli affiliati (la mano nera era disegnata sui fogli con i quali venivano avanzate le minacce e chiesti i riscatti).
Non tutti gli italiani accettarono questo tipo di vita. Molti lavorarono
duramente per un tozzo di pane. Pochi ebbero successo come Fiorello
La Guardia, sbarcato a Ellis Island all’inizio del secolo, che sarebbe diventato sindaco di New York. E Joe Petrosino, il detective newyorchese diventato amico di Theodore Roosevelt. Petrosino verrà eliminato
mentre si trovava in missione a Palermo (12 marzo 1909) in un’azione
che rappresenta la prima violazione del codice d’onore dei mafiosi, secondo il quale i poliziotti «puliti» non dovevano essere toccati.
Certo, Petrosino aveva sfidato gli esponenti della Mano nera (tra questi Giuseppe Morello, Ignazio Lupo detto «The Wolf», Giuseppe Fontana, Tommaso Petto detto «The Bull» e Vito Cascio Ferro), aveva rispedito in Italia circa 500 affiliati dell’organizzazione già ricercati in Sicilia e smantellato la tratta di ragazze da destinare alla prostituzione. Ma
la sua eliminazione fu una violazione del codice d’onore. Per la verità non
era la prima volta che la mafia eliminava un ufficiale della polizia americana (era accaduto a fine ’800, a New Orleans, dove il capitano David Peter Hennessey era stato ucciso in un regolamento di conti). Ma
le regole del codice d’onore della Mano Nera, così come quelle della mafia, erano, e resteranno, fino alla fine degli anni 30, chiare.
Oltre all’omertà e all’intoccabilità dei poliziotti: 1) reciproca assistenza in ogni caso, con qualsiasi fazione, senza domande; 2) totale obbedienza al boss; 3) considerare l’attacco a qualsiasi membro della gang come un attacco a tutta la gang; 4) divieto di mantenere alcun contatto con
le Autorità; 5) codice dell’omertà, pena la morte.
Al Capone. Il mito della mafia iniziò con l’ascesa di un figlio di emigranti napoletani, nato a Brooklyn il 17 gennaio 1899, battezzato col nome di Alphonse Capone. Attorno alla sua figura gravita l’attenzione mediatica più voluminosa a livello mondiale in fatto di malavita organiz-
zata. Il suo stile diventerà «lo stile» per intere generazioni di gangster.
E ancora oggi, nel mondo, alla parola boss corrisponde un solo personaggio: Al Capone. Lui, conosciuto come Scarface (per i colpi di stiletto
infertigli dal fratello di una barista offesa) o Nemico pubblico numero
uno, agirà nella sua lunga carriera rispettando il codice d’onore.
Nonostante decine di fermi della polizia, attentati e regolamenti di
conti, mai Capone si macchierà di delitti con «attori» non coinvolti nelle attività della malavita. Né quando debutta sotto Johnny Torrio, né sui
malfamati marciapiedi di Brooklyn o nella Chicago capitale del crimine organizzato nel 1919. Qui Alphonse Capone affina i propri gusti della vita: l’opera (Verdi), gli abiti sartoriali, le auto costose e i contatti con
la società che conta. Garantirà protezione ai bordelli, sarà un protagonista nel commercio illegale di alcolici che seguì al Proibizionismo, votato il 16 gennaio 1920 dal governo, indicato in tempi recenti come «un
puritanesimo ottuso e farisaico, che dovrebbe trasformare l’America in
un virtuoso Sahara e ne fa invece una manna per distillatori e spacciatori clandestini». Lo zar del crimine partecipò direttamente all’uccisione
del suo capo, James Colosimo assieme al proprio mentore Torrio. Fu considerato tra i mandanti dell’eliminazione di un procuratore (non sarà mai
condannato, per insufficienza di prove). Firmò l’esecuzione del boss irlandese Dion O’Bannion nel suo negozio di fiori (si era appropriato di
proventi destinati a Torrio e Capone e aveva fatto arrestare il socio di
Al). E quando gli irlandesi decisero di reagire, cercarono di eliminare
il Nemico pubblico numero uno (tale era la sua importanza) proprio nel
suo quartier generale, all’Hawthorn Hotel di Cicero (non lontano da
Chicago), il 20 settembre del 1926, nel celebre «Assalto della carovana»
di otto auto nere, che scaricarono una potenza di fuoco di oltre 1.000
colpi calibro 45, ma non riusciranno neppure a ferirlo (tra i mandanti
c’era proprio quel Bugs Moran di San Valentino).
Certo Al Capone uccise (o fece uccidere), ma sempre rispettando un codice. A essere colpite furono persone che parlavano troppo o affiliati che
cercavano di derubarlo. Tutte pratiche interne a Chicago, dove Al Capone si muoveva con un portamento decisamente regale.
regale. Era il numero uno
N ATO A B R O O K LY N I L 1 7 G E N N A I O 1 8 9 9 , A L P H O N S E « A L » CA P O N E ( Q U I S O P R A R I T R AT TO M E N T R E P E S CA A B O R D O D E L S U O YAC H T ) A F F I N A A
C H I CAG O , L A CA P I TA L E D E L C R I M I N E O R GA N I Z Z ATO , I S U O I G US T I . I M PA R A C O S Ì A D A P P R E Z Z A R E L ’ O P E R A ( C O N U N A PA RT I C O L A R E P R E D I L E Z I O N E P E R
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Monsieur uomo elegante uomo
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Uscendo dal Lexington Hotel di
Chicago si faceva precedere da due
McFarland, mentre lui viaggiava su
una Cadillac blindata (pesava 7 tonnellate e valeva 30mila dollari). Sfarzoso nel vestire, amante dei brillanti (ne portava uno al mignolo dal valore di 50mila dollari), era acclamato come benefattore, visto che finanziava 12 mense popolari e sei
orfanotrofi. A capo di un impero
da 50 milioni di dollari l’anno, verrà condannato solo per evasione fiscale (paradossalmente legata ai proventi dell’illegalità). Il 24 ottobre
1931 viene condannato a 11 anni
di reclusione e a 50mila dollari di multa. Morirà malato di sifilide
(contratta in un bordello di New York) nel 1947 nella villa di Palm Island, in Florida. Il suo corpo verrà per sempre protetto in una bara di
bronzo da 9mila dollari, coperta da montagne di fiori, ultimo ricordo per
un boss salutato da un corteo funebre di 100 Cadillac.
1930, l’anno della svolta. A New York i gangster italiani agivano nel Lower East Side e ad Harlem. Ma, per duri che fossero, gli uomini di Paul
Vaccarelli (il primo mafioso della Grande Mela) furono spazzati via da
cinque bande che sarebbero poi diventate le moderne Famiglie. Tutto
accadde nel 1930 per le strade di New York, dove si combattè la Guerra castellammarese che vide soccombere Joe «The Boss» Masseria in favore di Salvatore Maranzano (nato nel 1868 a Castellammare del Golfo, Palermo), arrivato in America nel 1918 per volere del capo di tutti
i capi della Sicilia, don Vito Cascio Ferro, che voleva organizzare la mafia americana e porla sotto il suo controllo. Maranzano aveva un obiettivo: nella mafia italo-americana doveva esserci un solo boss di tutti i
boss, come in Sicilia, e quel boss doveva essere lui. Questa guerra causò la morte di dozzine di uomini, tutti appartenenti alle fazioni in
lotta. Maranzano, vittorioso, convocò una riunione dei mafiosi in una
sala sul Grande Concourse nel Bronx, dove si radunarono 500 killer. Qui
dichiarò: «Ora sarà tutto differente. Sarò il vostro Capo di tutti i capi.
Nuove famiglie saranno organizzate, e ogni famiglia avrà un boss e due
sottoboss. Sotto di loro opereranno i caporegime. Il resto saranno soldati. Tutti voi sarete assegnati a un caporegime».
In quell’incontro vennero puntualizzate nuove regole della mafia: il
rispetto per la gerarchia, che impediva il contatto diretto tra soldati e boss;
un uomo poteva essere giudicato solo da un tribunale interno, che doveva decidere anche sull’espulsione del mafioso; chi uccideva un altro
membro, era condannato a morte; per chi avesse parlato dell’organizzazione, battezzata da Maranzano «la Cosa Nostra», c’era la morte; per
aver disobbedito all’ordine di un capo, la morte. Cosa Nostra, model-
lata sulle legioni di Giulio Cesare,
doveva essere la cosa più importante nella vita di ciascuno dei suoi
membri. Lo rivelò il pentito Joe Valachi, che illustrò altri particolari di
quel codice: ogni membro doveva
chiedere il permesso per intraprendere un’attività, legale o illegale che
fosse; il permesso sarebbe arrivato
dal capitano se a trarne giovamento
fosse stata tutta la Famiglia; solo i
maschi d’origine italiana potevano
far parte di Cosa Nostra.
Da quel momento, a New York ci
sarebbero state cinque famiglie. La
famiglia Maranzano a Brooklyn, affidata a Joe Bonanno. Un’altra famiglia, sempre a Brooklyn, capeggiata da Joe Profaci. Una terza, che controllava il porto di Brooklyn, sotto Vincent Mangano. Poi la quarta famiglia, il cui capo era Lucky Luciano. E la quinta, creata dai membri della banda di Reina.
Lo stesso Maranzano, però, commise un errore: mentre si apprestava a
violare il codice per eliminare alcuni vertici delle famiglie, fu ucciso (settembre 1931) nel suo ufficio, all’Eagle Building, 230 Park Avenue, da
quattro killer inviati da Lucky Luciano (il commando era composto da
Bugsy Siegel, Albert Anastasia, Thomas Lucchese e Joe Adonis). Quella stessa notte 40 uomini fedeli a Maranzano furono uccisi negli Stati
Uniti: nei letti, nei bagni, in cucina, nei ristoranti. Era il primo atto ufficiale della nuova era del crimine moderno. All’indomani di questo terremoto, Cosa Nostra ebbe non più un solo boss, ma una Commissione composta dai capi delle cinque famiglie di New York, più due rappresentanti (uno di Chicago e l’altro di Buffalo).
Da quel giorno molti gangster sono stati descritti come boss mafiosi. Ma
i veri boss sono sempre stati pochi. Uno di loro fu Albert Anastasia, «Sua
Eccellenza il Boia» di New York e New Jersey, una delle menti più diaboliche. Nato in Calabria nel 1903, arrivato bambino in America, partecipò all’eliminazione di Joe Masseria. Ma non fu un boss vecchia maniera: oltre alla gestione dei bordelli, aprì infatti al traffico di narcotici
(il cui spaccio era proibito dai vecchi capimafia). Divenne boss nel
1951, dopo che del suo predecessore Vince Mangano non si seppe più
niente (semplicemente svanì). Potente grazie al controllo di 300 ancoraggi profondi e 40mila portuali a Brooklyn, fu condannato dalla stessa mafia per aver ordinato l’eliminazione di un negoziante che, in tv, si
era vantato di aver fatto arrestare un noto rapinatore di banche (così agendo, Anastasia aveva infranto una regola basilare: «Uccidere solo per una
buona ragione»). Della gang che aveva preso il controllo del territorio
di Mangano, chi apparve immune dal precipitare degli eventi fu Carlo Gambino (vice di Anastasia), ricco, intelligente e ambizioso.
Nell’era di Lucky Luciano nacque la
Commissione
IN ALTO, A SINISTRA, VITO GENOVESE LASCIA IL TRIBUNALE DI FREEHOLD, NEL NEW JERSEY, DOVE SI È RECATO PER IL DIVORZIO DALLA MOGLIE (LA FOTO
È DEL MARZO 1953). A DESTRA, CARLO GAMBINO. NELLA PAGINA A FIANCO, LUCKY LUCIANO (CON GLI OCCHIALI SCURI E LE SCARPE BICOLORI) A CAPRI,
NEL ’51. IL BOSS ERA STATO ESPULSO DAGLI USA NEL ’46 E, A NAPOLI, OPERAVA DIETRO AL PARAVENTO DEL RISTORANTE CHE AVEVA CHIAMATO CALIFORNIA.
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I mass media mutarono John Gotti in una star
Gambino aveva 55 anni, l’età del suo boss. «Quindi», come disse Genovese, «c’era solo un modo per prendere il suo posto». E Carlo Gambino assicurò fedeltà al potente don Vito Genovese. Albert Anastasia
fu freddato nel negozio del barbiere di fiducia, all’Hotel Park Sheraton
sulla 55ª Strada quando, la mattina del 25 ottobre 1957, il panno caldo che gli fu appoggiato sul volto coprì l’ingresso dei sicari.
Un’altra figura di spicco nella New York degli anni 30 fu Vito Genovese, nativo di Risigliano (Napoli), classe 1897, giunto negli Stati Uniti nel 1913. Come molti coetanei, il giovane Vito entrò presto in una gang
della Lower East Side di Manhattan; furto e racket divennero le basi della sua attività finché, negli anni 20, un incontro con Lucky Luciano sancì la nascita di un’alleanza destinata a diventare l’arma letale della malavita. Saranno loro, dopo la fine di Maranzano, a costituire la Commissione. Quando il procuratore distrettuale di Manhattan, Thomas E.
Dewey, lo stava per indagare sull’omicidio di un barista che aveva visto
troppo, Genovese non cercò di farlo eliminare, ma riparò in Italia. Di
lui si persero le tracce fino almeno al 1944 quando, a Napoli, ottenne
un incarico dai servizi segreti americani come traduttore e interprete.
Sarà un ispettore dell’Fbi a scovarlo e a contestargli i conti in sospeso
con la giustizia americana (omicidio, traffico di droga e tratta delle bianche). L’ispettore riuscì ad arrestarlo a Nola, lo riportò negli Usa davanti al tribunale, ma la prematura scomparsa di un testimone d’accusa consentì a don Vito sonni tranquilli. Ormai rientrato a New York, Genovese convocò il vertice di Apalachin per ristabilire alcuni equilibri nella Commissione: in realtà voleva ribadire il primato di un Capo di tutti i capi. Il fallimento di Apalachin (la riunione fu interrotta da un’irruzione della polizia) spinse il governo statunitense a stringere le maglie attorno alla malavita organizzata. Genovese venne accusato di traffico di narcotici e condannato a 15 anni di reclusione. Un giorno disse: «Un uomo d’onore è colui che vive secondo le regole e, se è necessario, muore per loro». Lui morirà nel 1969, per cause naturali.
Quanto al convegno di Apalachin, la riunione segnò un ulteriore spartiacque tra la mafia dei tempi di Al Capone e il nuovo corso legato alla feroce lotta di potere tra Frank Costello e Vito Genovese. In quella
sede, e poi in un luogo segreto, si ristabilì una sorta di tregua tra i contendenti (dopo il ferimento di Costello e l’eliminazione di Anastasia),
vennero strette le maglie del reclutamento dei mafiosi (da mesi poteva
essere affiliato chiunque fosse in grado di versare la cifra di 50mila dollari) e furono divisi i territori per lo spaccio della droga.
Sorte analoga a quella di Genovese spettò a Salvatore Lucania, nato a
Lercara Friddi, in Sicilia, il 24 novembre 1897, considerato un mito della mafia italo-americana pari solo ad Al Capone. Noto col nome di
Lucky («fortunato», perché riuscì a sopravvivere a un attentato), emigrato negli Stati Uniti nel 1907 al seguito dei genitori, lavorò per
Johnny Torrio, assieme ad Alphonse Capone. Fu dopo l’ennesimo arresto che cambiò il nome Salvatore in Charles e il cognome da Lucania in Luciano. Con l’avvento del proibizionismo, si mise a spacciare al-
colici nella Lower East Side di Manhattan. E presto gli fu affidata una
squadra destinata a grandi successi nella malavita, nella quale confluirono un polacco di nome Maier Suchowljianski (Meyer Lansky) e il russo Benjamin «Bugsy» Siegel, oltre a due napoletani: Franco Castiglia (Luciano lo ribattezzò Frank Costello) e Vito Genovese.
Furti, rapine, trasporto e vendita di alcolici furono le attività predilette, grazie alle quali potevano permettersi di oliare alti funzionari della polizia. Il loro giro d’affari nel 1925 fruttava già 12 milioni di dollari annui. Inizialmente Luciano fu un uomo di Masseria (controllava il racket della prostituzione) e conquistò tutto quello che poteva desiderare: gioielli, soldi, abiti costosissimi e belle donne. Ma, poco più
che ventenne, iniziò a contestare il vecchio mondo della mafia. E la legge del padrino, basata su onore e rispetto, non era compatibile con l’unica cosa che contava davvero per lui, il denaro. Raggiunto lo scettro
di Cosa Nostra, dopo l’eliminazione di Maranzano nell’autunno del
1931, fondò il Sindacato della malavita basato sull’omertà: creò un gruppo di 12 membri, che chiamò Commissione, cui veniva demandato il
compito di governare gli affari dell’intero Sindacato del crimine. La
Commissione, composta dai capi delle famiglie, era l’organo legislativo e giudiziario della nuova mafia.
Dalla lussuosa suite 39C del Waldorf Astoria dove viveva, Luciano controllava la prostituzione della Grande Mela, le scommesse clandestine
e il traffico di narcotici. Fedele al principio dell’intoccabilità degli uomini della legge, per evitare inasprimenti nelle indagini, Luciano ordinò l’eliminazione di un malavitoso (Dutch Schultz) che voleva uccidere un procuratore. Lo stesso magistrato Thomas J. Dewey più tardi avrebbe dichiarato: «Luciano è il Nemico pubblico numero uno di New
York, l’uomo che ha sostituito Al Capone». Nel 1936 i più noti esponenti della malavita furono coinvolti nel processo intentato contro
Lucky Luciano, che fu condannato a 35 anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione e spaccio di stupefacenti. Uscì dal carcere grazie a un’intuizione di Frank Costello (il primo ministro della malavita),
che strinse un accordo con i servizi segreti americani quando gli Stati
Uniti entrarono nella Seconda guerra mondiale e dovettero tutelarsi dal
rischio dei sabotaggi nei porti di Brooklyn e Manhattan (controllati dalla mafia). Gli americani sbarcarono in Sicilia nel ’43. Il comando militare alleato nominò sindaci delle città liberate alcuni boss locali; nel 1946
il governo americano decretò l’espulsione di Luciano dagli Stati Uniti. Uscito di prigione e scortato sino al porto di Brooklyn, Luciano vide per l’ultima volta il profilo di New York mentre saliva a bordo della Laura Keene, il 10 febbraio 1946. A salutarlo c’erano Lansky, Costello,
Gambino, Anastasia e Lucchese, che gli consegnarono una busta contenente 165mila dollari come augurio. Luciano, dopo aver dimorato all’Hotel Quirinale e all’Excelsior su via Veneto, a Roma, si stabilì a Napoli, dove agì dietro il paravento di un ristorante di lusso chiamato California: lavorò nel contrabbando di radio, pezzi di ricambio, sigari e
whisky. E quando la Sesta flotta della Marina era nel porto, dalle sue na-
del crimine organizzato
vi scendevano migliaia di militari forniti di soldi, assetati di alcol e sesso. Da New York riceveva mensilmente 25mila dollari garantiti dal Sindacato. Nell’ottobre del 1946 Lucky Luciano si arrischiò fino a Cuba, dove la mafia finanziava il dittatore Fulgencio Batista con 3 milioni di dollari l’anno per controllare hotel e casinò, per presiedere un meeting del
Sindacato cui presero parte Vito Genovese, Joe Adonis, Albert Anastasia, Frank Costello, Tommy Lucchese, Joe Bonanno, Joe Profaci, Tony
Accardo, Carlos Marcello e Santos Trafficante, oltre ai fratelli Fischetti, che arrivarono sullo stesso volo di Frank Sinatra.
Proprio lui, The voice, l’uomo i cui rapporti con la mafia italo-americana sono stati confermati dalla declassificazione di 1.275 pagine dagli archivi dell’Fbi (Sinatra cantò nel Natale del ’46 proprio in onore di
Luciano). In quella conferenza all’Avana, oltre alla spartizione dei proventi del gioco d’azzardo e del mercato della droga, fu decisa l’eliminazione di Bugsy Siegel, il gangster che inventò Las Vegas (nel 1954 costruì l’Hotel-casinò Flamingo in mezzo al deserto) con i soldi della mafia, reo di non voler restituire i 3 milioni investiti dalle famiglie. Nel gennaio del 1962 Luciano ordinò l’esecuzione di Benjamin «Bugsy» Siegel (solo cinque persone parteciparono al suo funerale).
Carlo Gambino. Solo i capi della mafia dotati di diplomazia godono
del lusso di morire nel proprio letto. Carlo Gambino fu uno di questi. Nato nel 1900 in una Palermo dominata dalla mafia, si abituò ben
presto a vedere gli uomini d’onore che passeggiavano, elegantemente
vestiti, per le vie ricevendo l’omaggio della gente. Essere mafioso significava essere «un vero uomo», pronto a difendere l’onore, i diritti e
la famiglia dalle offese. La madre di Carlo era una Castellano e, attraverso i parenti, il giovane entrò ventenne nell’Onorata società. Poi,
una volta raggiunta New York, fu avviato al commercio illegale di alcolici, distillerie sotterranee, spacci clandestini, contrabbando.
Quando aveva trent’anni, sposò Kathryn Castellano, una prima cugina (secondo la tradizione dell’epoca). Ma ciò che lo rese unico nel mondo della malavita fu la scelta di reinvestire tutti i proventi dei traffici
illegali. Così, Carlo Gambino entrò in affari nel mercato della carne,
in istituti finanziari, compagnie per l’importazione di olio d’oliva e formaggi, panetterie, ristoranti e night club, compagnie d’assicurazione,
imprese edili, ditte per la distribuzione del carburante, compagnie di
auto e ferro-trasporti, fabbriche di abiti e pizzerie. Dopo varie vicissitudini, che culminarono con la morte di Anastasia, all’età di 57 anni Carlo Gambino divenne finalmente «don».
Non si macchiò mai, direttamente, di omicidio. Non violò mai il codice d’onore. Per anni governò senza problemi. Fu poi Robert Kennedy
a inserirlo nei registri dei malavitosi da tenere sotto controllo, nel 1963,
dopo che un agente federale era stato pestato (non era mai successo prima che la mafia attaccasse un federale). Gli inquirenti posero in evidenza un coinvolgimento di Gambino nel traffico di stupefacenti sin
dagli anni 40, assieme a Lucky Luciano, in un giro che univa Turchia,
Sicilia e Stati Uniti. Ma, nonostante i ripetuti tentativi della polizia,
Gambino superò indenne varie imputazioni. Finì in prigione solo
per poche ore, quando fu arrestato in un meeting malavitoso in un ristorante del Queens dove 13 capimafia si erano dati appuntamento per
discutere di traffico di stupefacenti e gioco d’azzardo a New Orleans,
Atlanta, Tampa e Miami. Nominò il successore di Lucchese e iniziò
a interessarsi anche degli affari di questa seconda famiglia. Lui, che già
esercitava una notevole influenza sulla famiglia Colombo (ne aveva nominato il boss), allargò il controllo sulla famiglia Genovese alla morte di don Vito. E, all’alba degli anni 70, era il boss più potente di New
York, amato dagli italo-americani di Little Italy, dove ogni settimana
riceveva i «paisà» con le loro richieste, fossero essi anziani con i cappelli neri, vecchie velate di nero, formose donne di mezza età con indosso grembiuli e maniche arrotolate, giovani bulli con i capelli imbrillantinati, padri di ragazze madri e gestori. Simili udienze conquistarono a don Carlo un esercito di migliaia di seguaci devoti, sui quali governava attraverso i suoi 27 capiregime.
Nel 1974, mentre il governo ancora cercava prove per condannarlo, pianificò la propria successione. Il ruolo di boss sarebbe spettato ad
Aniello Dellacroce, assassino duro e spietato; ma don Carlo designò
Paul Castellano, sangue del suo sangue. Carlo Gambino si spense il 15
ottobre 1976, nella residenza estiva di Massapequa a Long Island. Morì nel sonno, nel proprio letto. Il funerale fu seguito da un corteo di 100
auto e dalla fiumana di persone che erano state aiutate dal boss, tra le
quali anche politici e ufficiali di polizia. Qualche anno più tardi, don
Carlo venne commemorato nel film L’onore dei Prizzi.
Con lui tramontò l’era dei grandi padrini. Alla guida della famiglia
Gambino salì «Big» Paul Castellano, un boss che pure amava starsene al riparo da occhi indiscreti, dirigendo le proprie attività dalla villa di Staten Island, nota come la Casa Bianca di Todt Hill. Apparentemente inviolabile, la roccaforte fu espugnata nel 1983 dall’Fbi nel corso di un’operazione di spionaggio che portò a collocare una spia elettronica nella lampada della cucina di Big Paul (questi anni sono mirabilmente narrati nel volume degli ex agenti speciali Joseph O’ Brein
e Andris Kurins). Paul Castellano era un uomo diplomatico, raffinato e vestiva elegante, con doppiopetti e soprabiti di mohair. Venne
coinvolto nel 1984 in un’inchiesta su 51 attività illegali dal procuratore
Rudolph Giuliani, come dimostrarono gli agenti dell’Fbi.
IN ALTO, JOHN GOTTI FOTOGRAFATO NEL 1987. QUALCHE ANNO DOPO, AL MOMENTO DI LASCIARE L’AULA DOPO ESSERE STATO CONDANNATO ALL’ERGASTOLO,
IL BOSS SI ALZÒ CON LA TESTA ALTA, ELEGANTISSIMO, AGGIUSTANDOSI LA CRAVATTA E LISCIANDOSI LA GIACCA. PER LUI, CHE AVEVA IMPARATO IL «MESTIERE»
DA U N CA P O S I C I L I A N O T R A D I Z I O N A L E , L ’ A P PA RT E N E N Z A A C O SA N O S T R A I M P L I CAVA A N C O R A U N O S T I L E D I V I TA I M P R O N TATO A U N C O D I C E D ’ O N O R E .
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L’America delle gang
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Castellano fu eliminato il 16 dicembre 1985, davanti alla Sparks Steak
House, al 210 della 46ª Est, da un commando di dieci uomini guidati da John Gotti. Il cardinale John O’Connor non permise alla famiglia Castellano una messa funebre. La sua eliminazione, secondo il parere degli investigatori, fu decisa proprio da Gotti, l’ultimo «don»
della mafia, che non tollerava la mancanza di spina dorsale di Castellano (Big Paul non partecipò ai funerali di Dellacroce e questo, per Gotti, rappresentava un’intollerabile mancanza di rispetto).
Quanto a Gotti, «don Teflon», come lo ribattezzarono i media, è l’ultima grande immagine della mafia italo-americana. Nato il 27 ottobre
1940 nel Bronx da una famiglia proveniente da San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli, cresciuto nei circoli frequentati dai mafiosi che bevevano espresso e parlavano d’affari, vestiti con doppiopetti
gessati, Johnny Boy ha salito tutti i gradini di Cosa Nostra vestendo,
secondo le accuse federali, anche i panni del killer. Fu lui a sistemare
per sempre un gangster irlandese che, dopo aver rapito un nipote di
Gambino e aver intascato i soldi del riscatto (350mila dollari), lo eliminò. E quando, nel 1990, verrà processato mentre era giunto all’apice
della sua carriera criminake, John Gotti offrirà di sé un’immagine e uno
stile eleganti, fatti di costosi abiti di sartoria italiana.
Anche per questo la sua presenza nel tribunale di New York ebbe un
effetto mediatico senza precedenti. Perché lui, il boss della famiglia
Gambino i cui interessi si erano moltiplicati nel corso degli anni, arrivando a toccare, oltre a Manhattan, Connecticut, New Jersey, Atlantic
City, Philadelphia, Las Vegas e Fort Lauderdale, viene descritto come
il nuovo Al Capone. Gotti diventa così una star. Entra nelle case di milioni di telespettatori. Viene processato, ma alla fine è sempre assol-
Monsieur uomo elegante uomo
to. Appare sulle copertine di Time ritratto da Andy Warhol, di People
e del New York Times Magazine. Legalmente la sua storia finisce con
una pesante condanna legata proprio all’omicidio di Paul Castellano.
È il suo vice, Sammy «The bull» Gravano, a tradirlo.
«Il 2 marzo 1992 Gravano», scrivono i giornali, «contatta l’Fbi e scende a patti, accettando di confessare tutti i delitti di cui è accusato e la
sua partecipazione all’omicidio Castellano». I nastri che vengono fatti ascoltare in aula dimostrano l’esistenza di una famiglia Gambino, diretta da John Gotti. «John era il boss, io il sottocapo», ammette Gravano, confermando di aver partecipato a 19 omicidi, 11 dei quali ordinati personalmente da Gotti. Il contro-interrogatorio viene interrotto
da minacce di bombe in aula. La tensione sale alle stelle. Il sesto
giorno di dibattimento, una sparatoria turba il clima: viene colpita due
volte una donna, sorella di un caporegime dei Lucchese. È la prima volta che Cosa Nostra colpisce un’innocente. Il New York Post titola:
«L’unica regola è che non ci sono più regole».
La notizia del complotto ordito dalla famiglia Gambino, che voleva uccidere la moglie e i figli del «traditore» Gravano, tiene desta l’attenzione
dei cronisti, al pari dell’apparizione in aula di star come Cindy Adams,
Jay Black, Mickey Rourke e Anthony Queen. L’aula del giudice Glasser, al quarto piano del tribunale, è piena solo a metà alle ore 9,35 di
mercoledì 1 aprile. Alle 13,13 Gotti entra nel tribunale. Ad attenderlo c’è l’ultimo verdetto: «Capo d’imputazione numero uno: cospirazione
per l’omicidio Castellano e omicidio dello stesso. Provato». «Capo d’imputazione numero uno: omicidio di Thomas Bilotti. Provato». «Capo
d’imputazione numero uno: cospirazione per l’omicidio di Di Bernardo
e omicidio dello stesso. Provato». E così via. Il finale è scontato: John
Gotti viene condannato all’ergastolo, da scontarsi nella prigione federale
di massima sicurezza a Marion, Illinois.
Al momento di lasciare l’aula, il boss si alza col petto in fuori e la testa alta, si aggiusta la cravatta, si liscia la giacca, scuote le manette ed
esce pieno di vanità e orgoglio. Per Gotti, che aveva imparato il mestiere da un capo siciliano tradizionale come Aniello Dellacroce, l’appartenenza a Cosa Nostra implicava ancora uno stile di vita secondo
un codice, una fede e un insieme di regole immutabili nel tempo.
Quand’era ancora un soldato semplice, non aveva mai disobbedito al
suo capitano. E quand’era stato a sua volta nominato capitano, non aveva mai disubbidito al sottocapo della famiglia, Dellacroce, suo diretto superiore. E mai, nel corso di tutta la sua carriera, aveva denunciato qualcuno. John Gotti aveva sempre tenuto alta la propria fede.
Era probabilmente l’ultimo a credere in uno stile di vita che si era evoluto in America a partire dalla vecchia Onorata Società siciliana. È morto qualche anno fa, per una malattia, chiedendo di essere sepolto vicino al figlio Frank, morto all’età di 12 anni investito da un’auto mentre giocava in bicicletta sotto casa. Quanto al grande accusatore, oggi è un uomo libero e vive sotto il programma di protezione dell’Fbi
con nuove generalità, in un posto sconosciuto.
Il vecchio codice mafioso vietava ai picciotti lo
spaccio di sostanze stupefacenti
IN ALTO, BENJAMIN «BUGSY» SIEGEL (A DESTRA NELLA FOTO) CON IL SUO AVVOCATO, JERRY GIESLER. SIEGEL SPENDEVA MOLTO PER IL SUO GUARDAROBA,
C H E G L I C O S TAVA M I G L I A I A D I D O L L A R I A L G I O R N O . A D E S T R A , L U C K Y L U C I A N O , N E L 1 9 4 9 , A PA S S E G G I O I N V I A V E N E TO I N S I E M E A L G I O R N A L I S TA
A L C O H N ( C O N I L CA P P E L LO ) . L E I M M AG I N I D I QU E S TO S E RV I Z I O S O N O T R AT T E DA L L I B R O « U O M I N I D ’ O N O R E » D I G I A N L U CA T E N T I ( O CTAVO E D I TO R E ) .
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