Introduzione

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Introduzione
Capitolo 1
IntroduzIone: pochIssImI avevano prevIsto
e forse pochI hanno capIto
Ancora poche settimane prima che scoppiassero le prime rivolte in
Tunisia il Fondo Monetario Internazionale aveva pubblicato un rapporto nel quale si mostrava quanto i paesi del Nord Africa e Medio
Oriente (MENA Middle East and North Africa) avessero superato agevolmente la crisi economica e finanziaria, che nei due anni precedenti
aveva duramente colpito i paesi occidentali. Nel 2010 l’economia egiziana e quella siriana erano cresciute a tassi superiori al 5 per cento, mentre quelle tunisina e marocchina avevano sfiorato il 4 per cento, quasi
il doppio della crescita americana e soprattutto europea. Così il tasso
di disoccupazione di molti paesi arabi importatori di petrolio stava
calando, seppure lentamente, dai valori alti, tradizionalmente osservati. La risalita dei prezzi del petrolio, che alla fine dell’anno aveva sfiorato i 100 dollari al barile, rendeva eccellenti le prospettive di sviluppo dei paesi del Golfo, che dipendono in maniera rilevantissima dalle
quotazioni del greggio. Certo l’aumento dei prezzi delle derrate agricole, superiore al 30 per cento, sollevava qualche preoccupazione, ma la
rete di sussidi predisposta dai governi risultava più che sostenibile da
bilanci pubblici e riserve ufficiali confortevoli. Anche i mercati finanziari apparivano estremamente ottimisti sul futuro dei paesi arabi. Nel
solo Egitto erano affluiti in un anno oltre 8 miliardi di dollari di investimenti diretti dall’estero, non solo nel settore petrolifero e del turismo
ma anche in quello finanziario e manifatturiero. Le borse di numero-
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si paesi dell’area non mostravano alcun segno di nervosismo, così come
titoli di stato di paesi come l’Egitto o la Tunisia registravano tassi e
spread eccezionalmente bassi.
Tutto questo era stato reso possibile anche grazie a una serie di riforme intraprese a partire dalla seconda metà degli anni Novanta in numerosi paesi arabi fra cui l’Egitto di Mubarak. Prima la liberalizzazione del
mercato del lavoro, che aveva facilitato assunzioni e licenziamenti; poi
le privatizzazioni e gli investimenti esteri in molti settori manifatturieri, nelle telecomunicazioni e nei servizi finanziari. Nei paesi petroliferi, infine, l’esempio di Dubai, che negli anni precedenti aveva cercato
di diversificare la sua economia e investito fortemente in infrastrutture,
cominciava a raccogliere adepti, inclusa l’Arabia Saudita. Questo nonostante le grosse difficoltà finanziarie che il piccolo stato degli Emirati Arabi Uniti aveva conosciuto durante l’apice della crisi finanziaria
internazionale e lo scoppio della bolla immobiliare.
Anche da un punto di vista politico la situazione appariva relativamente tranquilla. In Egitto nel novembre 2010 le elezioni parlamentari avevano assegnato al Partito Nazionale Democratico di Mubarak una
vittoria trionfale in un clima di incertezza circa le condizioni di salute
del presidente e i soliti brogli elettorali. In Tunisia e Siria la posizione di
Ben Ali e Assad appariva solida, mentre nello Yemen la vita politica era
costellata dai soliti attentati, ma la posizione di Saleh non veniva messa
in discussione da nessuno, anche perché incondizionatamente appoggiata dai sauditi.
Solo pochi studiosi, e fra questi ci piace citare Marcus Norand e
Howard Pack (2007), in un libro del Peterson Institute for International Economics, sottolineavano con forza le contraddizioni e le sfide
a cui andavano incontro le economie dei paesi arabi. In esso gli autori mostravano con chiarezza come le economie dei paesi MENA, pur
essendo riuscite a crescere in termini assoluti, negli ultimi anni, avevano visto le loro posizioni continuare a deteriorarsi in termini relativi.
Milioni di giovani, che si affacciavano ogni anno sul mercato del lavoro, facevano sempre più fatica a trovare un lavoro qualificato e la cre-
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scente classe media si riconosceva sempre meno nei regimi corrotti e
autoritari che avevano governato per decenni.
Quando, nei primi mesi del 2011, le rivolte guadagnarono ampiezza e i primi tiranni al potere da decenni dovettero dimettersi (il presidente tunisino, Ben Ali, fu costretto alla fuga il 14 gennaio, mentre
l’egiziano, Hosni Mubarak, fu forzato alle dimissioni l’11 febbraio) il
mondo occidentale rimase sbigottito. Al sentimento di gioia nell’intravedere uno spiraglio di democrazia in paesi che avevano da sempre
conosciuto solo regimi autoritari si aggiunse una diffusa paura di veder
venire meno alleati di lungo corso, che avevano garantito una certa stabilità in una regione strategica del pianeta. A ciò si univano una forte
incertezza sugli approvvigionamenti di petrolio e un conseguente rincaro delle sue quotazioni, un temuto aumento dei flussi migratori clandestini e soprattutto un diffuso timore che i movimenti islamici potessero approfittare della situazione. Alcuni commentatori considerarono
le rivolte arabe alla stregua del 1989 (caduta del muro di Berlino), salvo
che questa volta era l’Occidente a ritrovarsi nei panni dell’URSS, che
improvvisamente aveva perso tutti i suoi alleati storici.
L’Occidente, tuttavia, sembra aver saputo resistere a spinte neocolonialiste. La simpatia verso i ribelli è risultato un sentimento diffuso, mentre non è mancato il supporto, almeno politico, ai nuovi regimi. Perfino l’intervento militare in Libia è avvenuto in un contesto
giuridico-istituzionale garantista e non è risultato troppo invasivo, pur
essendosi dimostrato risolutivo. A determinare questo risultato ha certamente contribuito il fatto che le rivolte non hanno, finora, quasi mai
assunto toni antioccidentali, tipici del mondo arabo.
Rimane il fatto che pochi hanno capito cosa sia veramente successo,
quali siano state le cause della rivolta e soprattutto quali possano essere i suoi sviluppi. Secoli di diffidenza fra il mondo islamico e quello cristiano non hanno facilitato una conoscenza reciproca, che sta alla base
di qualsiasi valutazione circostanziata. Il terrorismo islamico degli ultimi decenni, la presunta «guerra fra le civiltà» e la «lotta al terrore» non
hanno fatto che aumentare l’ignoranza e l’incomprensione reciproca.
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Eppure i paesi MENA, con i loro 360 milioni di abitanti, il fatto
di detenere il 60 per cento delle riserve petrolifere del pianeta e la loro
prossimità geografica all’Europa, rappresentano una realtà troppo
importante per poter essere trascurata. Questo senza contare che nel
passato le forti interrelazioni culturali fra l’Occidente e il Medio Oriente sono state foriere di enormi sviluppi economici, scientifici e civili.
Scopo di questo libro è di aumentare le conoscenze di questa regione. Per fare ciò ci serviremo di molte fonti che pescano dall’economia
alla politologia, dalla storia alla geografia senza dimenticare la cultura e
la religione. Il tentativo sarà anche quello di conciliare un certo numero
di risultati scientifici con la realtà che caratterizza questi paesi.
Inizieremo nel prossimo capitolo a guardare la realtà economica e sociale dell’area. Tassi di mortalità infantile, aspettative di vita e,
in parte, indici di scolarità rivelano valori oramai non molto lontani
da quelli osservati nei paesi più sviluppati, a riprova degli enormi progressi che i paesi MENA hanno compiuto negli ultimi decenni. Tuttavia, la crescita demografica dell’area, pur oramai in calo, non ha eguali
quasi in nessuna altra parte del globo e pone seri problemi allo sviluppo economico e all’occupazione giovanile. I discreti risultati ottenuti in
termine di crescita del Pil reale sono stati, in molti casi, pesantemente
erosi dalla dinamica della popolazione, mentre la disoccupazione giovanile ne ha risentito in misura significativa. Questo ha fatto sì che il
tasso di crescita del Pil reale pro capite dei paesi arabi sia risultato negli
ultimi tre decenni meno della metà di quello osservato nei paesi emergenti dell’America Latina e del resto dell’Africa e poco più di un decimo di quello dei paesi asiatici. Molti altri fattori contribuiscono a spiegare questo ritardo nello sviluppo economico dell’area: l’enorme peso
di un settore pubblico inefficiente e corrotto; la scarsità di risparmio e
investimento; la quantità di sussidi pubblici; l’assenza di infrastrutture
efficienti ecc. Tuttavia, a nostro avviso, gli elementi più rilevanti nello
spiegare il ritardo della regione sono stati la scarsa apertura al resto del
mondo e un modello di sviluppo più basato sull’import-substitution che
sull’export-led. In questo modo i paesi MENA non hanno saputo appro-
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fittare del processo di globalizzazione che ha interessato il pianeta negli
ultimi decenni e ha giocato un ruolo fondamentale nel determinare la
straordinaria crescita dei paesi asiatici. Degno di nota è, infine, lo scarso contributo alla crescita fornito dai paesi produttori di petrolio, e in
particolare l’Arabia Saudita. In questo caso la spiegazione più probabile
risiede nel cosiddetto dutch disease: le ricchezze del sottosuolo, garantendo rendite enormi, non generano i giusti incentivi nella classe dirigente
del paese a cercare fonti alternative di crescita.
Tuttavia, l’analisi socio-economica da sola non è in grado di spiegare compiutamente le rivolte arabe, sia perché tale situazione dipende anche da variabili politico-culturali, sia perché, oltre a lavoro e salario, le folle nelle piazze arabe hanno chiesto soprattutto democrazia e
buon governo.
In termini di libertà politiche e civili la situazione dei paesi arabi
appare particolarmente anomala e non ha eguali in nessuna altra area
del mondo. Se ancora alla fine degli anni Settanta gran parte dei paesi
del globo erano governati da giunte militari, dittature e regimi comunisti totalitari, oggi la situazione risulta totalmente diversa. Negli ultimi trenta anni molti paesi del mondo hanno conosciuto un’evoluzione in senso democratico, grazie alla caduta dell’impero sovietico, alla
fine di molti regimi militari dell’America Latina e allo sbriciolarsi di
numerose dittature asiatiche. Persino in Africa molti paesi hanno oggi
regimi piuttosto liberali. In altri termini, la democrazia non è più un
appannaggio esclusivo del mondo occidentale. Questo fenomeno è ciò
che Samuel Huntington (1991) definì efficacemente la terza ondata di
democratizzazione.
Il Medio Oriente, da questo punto di vista, non ha affatto conosciuto una simile evoluzione e rappresenta, sotto questo aspetto, una deprecabile eccezione. La longevità dei governi non è altro che un indicatore della sclerosi politica. Come hanno bene evidenziato molti centri di
ricerca internazionale, quali Freedom House e l’Economist Intelligence
Unit, e il Center for Global Policy, il problema non riguarda solo i diritti politici (elezioni, pluralismo politico, efficacia del governo) ma anche
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quelli civili (di espressione, di associazione, stato di diritto, libertà personali), e in alcuni casi anche diritti economici.
Come si spiega un simile ritardo? Rispondere a questa domanda è l’obiettivo del Capitolo 3. Esiste un’ampia evidenza empirica che
mostra come i paesi più ricchi tendano a essere più democratici e più
raramente si trasformino in dittature autoritarie. Questa è la cosiddetta «teoria della modernizzazione», che trova le sue radici nei filosofi
illuministi del XVIII secolo. Ovviamente non si tratta di una relazione deterministica, giacché molti altri fattori influenzano sia lo sviluppo
economico sia il regime politico di un paese. Dal nostro punto di vista
l’aspetto più interessante è che quasi tutti i paesi arabi sembrano avere
superato la soglia di reddito ritenuta indispensabile allo sviluppo di istituzioni democratiche. In altre parole, l’analisi empirica evidenzia come
tali paesi arabi presentino istituzioni politiche molto più autoritarie di
quanto ci si potrebbe aspettare in base ai livelli di reddito. Questo vale,
ovviamente, soprattutto per i produttori di petrolio che hanno redditi
pro capite più alti.
In questi paesi trova ampia conferma quello che molti studiosi chiamano la maledizione dello stato rentier: bassa crescita economica, forte
probabilità di guerre civili e scarsa propensione allo sviluppo di istituzioni democratiche. Tali paesi si caratterizzano, inoltre, per un basso
livello di tassazione (così che la gente è meno stimolata a pretendere
governi rappresentativi), un’alta propensione alla spesa pubblica, volta
a elargire posti di lavoro, sovvenzioni e sussidi (al fine di guadagnare
il consenso sociale), e forti investimenti nel settore della difesa e della
sicurezza (allo scopo di spegnere le istanze democratiche).
Al di là di questi aspetti, la storia e la geografia di questi paesi sono
testimoni di interessanti coincidenze. Emblematico, a questo proposito, il caso dell’Arabia Saudita, dove una terra arida e povera, che nessun grande impero ha mai voluto veramente colonizzare, una monarchia assoluta di origine tribale con un forte legame con un movimento
religioso integralista (Wahhabi) e una «casuale» alleanza con la Gran
Bretagna, sono state le basi sulle quali si è fondato uno stato teocrati-
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co privo di cultura civile e istituzioni democratiche che di lì a pochi
anni sarebbe diventato la nazione con le maggiori riserve petrolifere del
mondo. Grazie a tali ricchezze le élite sono state in grado non solo di
conservare ed estendere il loro potere, senza mai preoccuparsi di creare
istituzioni democratiche, ma anche di assicurare stabilità all’Occidente in termini di risorse energetiche e di equilibri geopolitici. Ugualmente interessante il caso degli emirati del Golfo, dove gli inglesi non sono
mai stati interessati ad «esportarvi» le loro istituzioni democratiche, o
quello della Persia/Iran, dove la collocazione geografica, cerniera fra il
mondo arabo e quello asiatico, ha influenzato in maniera determinante
le sue vicende e quelle delle sue istituzioni.
Sul versante etico e religioso la questione più spinosa è capire se l’Islam abbia costituito e tuttora rappresenti un ostacolo, non solo alla
democrazia, ma anche allo sviluppo economico, come sosteneva già lo
scorso secolo Weber o piuttosto se i problemi dell’area siano di natura
politica, come riteneva Backer, grande islamista e ministro della cultura
prussiana all’inizio del Novecento. La questione risulta particolarmente interessante e attuale poiché tutte le indagini empiriche mostrano
come, a parità di altre condizioni, i musulmani siano più credenti e
osservanti dei fedeli di tutte le altre principali religioni.
Né l’analisi teorico-dottrinale, né l’evidenza storica ed econometrica, da noi rivisitate, sembrano in grado di dare risposte definitive circa
il contributo dell’Islam allo sviluppo economico-istituzionale. Sembrerebbe, invece, che i paesi islamici presentino situazioni socio-economiche alquanto differenziate e dipendenti, piuttosto, dall’area geografica
di appartenenza. Tipico il caso dell’Indonesia, che è riuscita ad agganciarsi al carro delle tigri asiatiche, o quello della Turchia, che fortunatamente mantiene ancora forti legami con l’Europa.
Negli ultimi anni la scienza economica e quella politica hanno
anche mostrato come la frammentazione etnica, linguistica, culturale
e religiosa possa rappresentare un forte ostacolo al processo di crescita economica e alla creazione di istituzioni efficienti e democratiche.
Infatti, un paese omogeneo riesce a condividere più facilmente valo-
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ri etici e morali e sottoscrivere quel contratto sociale che sta alla base
di un qualsiasi paese ricco e libero. La diversità può anche ostacolare
una più equa distribuzione del reddito e l’offerta di servizi sociali, che
ovviamente contribuiscono allo svilupparsi di democrazie compiute.
Sotto questa angolatura mostriamo come i paesi arabi siano molto
meno omogenei di quanto possa apparire agli occhi di un occidentale.
Questa forte eterogeneità dell’area sembra essere un fattore che contribuisce a spiegare lo scarso sviluppo economico e l’arretratezza delle istituzioni. Inoltre, i paesi meno omogenei sembrano essere quelli dove le
spinte democratiche fanno più fatica a trovare sbocchi pacifici, e dove
le recenti rivolte sono state più violentemente represse nel sangue fino a
trasformarsi in alcuni casi in vere e proprie guerre civili.
Tutto questo ci permette nel Capitolo 4 di costruire qualche scenario per il futuro. Prima di fare ciò è bene ricordare che i paesi MENA
non sono nuovi a insurrezioni, colpi di stato e rivoluzioni. In altri termini questa non è la prima, né tantomeno, probabilmente, sarà l’ultima
primavera araba. In linea generale, poi, la storia ci insegna che i regimi
monarchici, meglio se ricchi di risorse energetiche, sono stati, per diversi motivi economici, politici e culturali, meno toccati dalle rivolte, e
registrano meno scontri e meno morti, di quelli repubblicani.
In questo contesto è ragionevole prevedere che le rivoluzioni arabe
toccheranno in maniera molto limitata e solo nel lungo periodo le
monarchie dell’area, specie quelle del Golfo. Alcune di queste, come,
per esempio, quella marocchina o giordana, dovranno fare qualche
concessione alle istanze democratiche. Tuttavia la stabilità nell’area non
sembra essere stata messa in discussione. Ciò non vuol dire che questi
paesi saranno immuni da quanto succede nel resto del mondo arabo.
Anzi è probabile che i nuovi equilibri geopolitici che nasceranno nella
regione influenzeranno il sistema di potere e alleanze messo in piedi in
questi ultimi decenni.
Che succederà, invece, negli altri paesi arabi privi di una dinastia
monarchica e caratterizzati da differenti dotazioni di risorse del sottosuolo? Innanzitutto vale la pena distinguere tra paesi che hanno affron-
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tato una guerra civile (Libia, Siria e Yemen), e quelli in cui le rivolte
sono state meno cruente. Per quanto riguarda i primi, la storia ci insegna che le guerre civili raramente finiscono rapidamente. La probabilità che emergano regimi democratici rispettosi dei diritti politici e civili è più bassa. Ovviamente nel caso della Libia la situazione potrebbe
essere diversa, dato il ruolo giocato da numerosi paesi occidentali nella
risoluzione del conflitto. Se questi paesi saranno ugualmente in grado
di aiutare le forze ribelli a gestire la pace e a disegnare istituzioni democratiche, è possibile che il futuro della Libia sia più roseo del suo passato e soprattutto di quello degli altri paesi in cui si sta combattendo una
guerra civile.
Più complesso da immaginare è il futuro degli altri paesi arabi e in
particolare della Tunisia e soprattutto dell’Egitto, che da sempre aspira a svolgere un ruolo di leadership nella regione. Data la presenza di
forti formazioni d’ispirazione islamica, molti analisti hanno invocato
il modello turco, in cui un partito islamico moderato assicura da anni
una forte crescita economica, anche se al prezzo di qualche libertà civile. Tuttavia, non è per nulla evidente se tale modello possa applicarsi ai
paesi del Nord Africa, dove culture e struttura economiche appaiono
completamente differenti.
È soprattutto sul terreno macroeconomico che si giocherà la partita più importante nei prossimi anni. Sinora ciò che è mancato non solo
nelle piazze, cosa per certi versi comprensibile, ma anche nel dibattito
politico, è una qualsiasi proposta su questo fronte. La scarsa attenzione
ai temi economici da un lato può essere spiegata col fatto che oggi questo non è il principale problema che assilla i popoli arabi. Dall’altra vi
è forse l’utopistica speranza che un regime più democratico necessariamente porti più sviluppo economico. Tuttavia come abbiamo visto il
legame che esiste fra crescita economica e democrazia è estremamente
complesso e articolato.
Se è vero che il principale problema dei paesi del Nord Africa e del
Medio Oriente è stato un modello di sviluppo troppo chiuso e poco
propenso a integrarsi con il resto del mondo, solo un diverso atteggia-
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mento politico-culturale verso l’esterno potrà permettere alle economie
dei paesi arabi di trovare il giusto ritmo di crescita. Questo è stato peraltro l’atteggiamento che ha accompagnato il mondo arabo nel momento
del suo maggior splendore. Sarebbe anche la migliore vitamina per rafforzare i giovani germogli delle democrazie arabe.
Dal canto suo anche l’Occidente dovrebbe riflettere sull’atteggiamento politico-culturale che, fino a oggi, ha caratterizzato i rapporti con il mondo arabo. Nel Capitolo 5 affrontiamo la questione delle
paure dell’Occidente in termini di terrorismo fondamentalista, immigrazione clandestina, rischio di shock petroliferi e colonizzazione finanziaria. La scarsa partecipazione alla globalizzazione dei paesi
MENA sembra per altri versi anche aver obbedito a logiche dettate dall’esclusivo interesse dell’Occidente a fare dell’area un mercato di
sbocco per le proprie merci e di approvvigionamento di materie prime
attraverso le tecnologie occidentali.
Benché la preoccupazione dell’Occidente circa una radicalizzazione islamica dei nascenti governi non sia fuori luogo, tuttavia non si può
negare che il cammino, per certi versi tortuoso, verso la democrazia sia
forse iniziato. La giovane forza lavoro disoccupata o sotto-occupata di
molti paesi MENA, insieme ai capitali dei produttori di petrolio e alle
tecnologie occidentali possono costituire il mix giusto per favorire lo
sviluppo finora mancato. Seppure il futuro dell’area sia in larga misura
nelle mani dei governi che nasceranno dalle rivolte, l’Europa dovrebbe
immaginare un bacino mediterraneo più integrato e meno schiavo dei
propri timori.