Osservatore Romano - Federazione Acli Internazionali

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Osservatore Romano - Federazione Acli Internazionali
donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2012 numero 1
LA VISITAZIONE
Una nuova proposta
Due donne incinte che si incontrano
e si abbracciano.
Sono da sempre il simbolo dell’aiuto
reciproco fra donne nel momento topico
femminile, il parto. Ma anche
di un momento fondamentale nella storia
dell’Incarnazione: è una donna,
Elisabetta, la prima a riconoscere
in Maria la madre del Messia.
E a insegnarci le parole con cui
rivolgerci a lei. Per questo l’immagine
della Visitazione da secoli è l’icona
del rapporto fra donne nella cultura
cristiana: aiuto e riconoscimento reciproco
sono il messaggio che ancora oggi
ci suggerisce. Le raffigurazioni
di questo incontro sono innumerevoli,
e bellissime: abbiamo voluto però
che fosse un’artista di oggi,
Isabella Ducrot, a raffigurarla per noi.
«L’Osservatore Romano» esce da questo mese
arricchito da un inserto dedicato alle donne: donne
di tutto il mondo, con particolare attenzione al loro
rapporto con la Chiesa. Un foglio mensile che
informa sulla vita e la condizione femminile, senza
tralasciare i temi più “caldi”, come tutto ciò che è
connesso con la procreazione, l’accesso alla cultura e
l’emancipazione. Ci sono tante notizie interessanti, in
genere trascurate dagli organi di informazione e che
invece dovrebbero essere diffuse, per fornire un
livello più alto di consapevolezza sulla situazione
femminile oggi. La prima pagina dell’inserto sarà
dedicata alle donne che svolgono un ruolo
importante nella Chiesa e non sono conosciute, o
sono conosciute troppo poco. Il loro contributo,
siano religiose o laiche, si sta facendo sempre più
vasto e significativo — basti pensare che le religiose
nel mondo sono oggi 740.000, a fronte di 460.000
religiosi e sacerdoti — ma è ancora nascosto.
Renderlo noto, quindi, aiuterà anche a modificare
pregiudizi e idee preconcette sulla Chiesa cattolica e
sul suo atteggiamento verso le donne. In ogni inserto
ci saranno uno spazio destinato alla spiritualità
femminile, un’inchiesta su temi legati alle donne e
alla vita religiosa, la segnalazione di un romanzo, di
un saggio e di un film, anche se non sempre legati
alla religione. Speriamo in questo modo di offrire un
servizio utile, che ampli le informazioni e
contribuisca ad approfondire la conoscenza sul ruolo
delle donne nella Chiesa oggi e nel passato. Abbiamo
scelto di cominciare nel mese di maggio per porre
questa nuova iniziativa sotto il manto protettivo della
Vergine. Sempre a Maria si riferisce la frase della
Scrittura a cui ci siamo ispirate, che ricorre due volte
nel vangelo di Luca (2, 19 e 51). E abbiamo preferito
la traduzione “confrontava” al più usuale “meditava”
perché nell’animo della Vergine si agitavano e si
confrontavano situazioni ed eventi differenti, sempre
in movimento, in una turbolenza che trovava la pace
ma non la piatta acquiescenza. (l. s.)
Mantenete rapporti fraterni con credenti di
altre religioni in cui le donne spesso sono oppresse e prive di libertà: avete mai affrontato
questo argomento con loro?
Se la guida è femminile
Intervista a Maria Voce, presidente del movimento dei Focolari
di LUCETTA SCARAFFIA
Ci tenevamo che il nuovo inserto dedicato alle
donne dell’Osservatore Romano uscisse con
una sua intervista: lei è l’unica donna alla
testa di un movimento di così grande importanza. Questa singolarità le pesa nei contatti
con le gerarchie ecclesiastiche?
Non solo non mi pesa, ma è una peculiarità sempre più riconosciuta dal Papa,
da cardinali e vescovi, secondo il suo significato originario espresso da Giovanni
Paolo II: essere segno e garanzia di quel
profilo mariano che dice primato dell’amore soprannaturale, della santità, coes-
Solo nell’unità tra maschile e femminile
si esprime il carisma nella sua autenticità
È una dimensione di unità
che ha radice in Gesù crocifisso
senziale al profilo apostolico e petrino.
Dimensioni che concorrono, ha detto
Wojtyła, «a rendere presente il Mistero di
Cristo e la sua opera salvifica nel mondo». Non così nel primo ventennio della
nostra storia: era una tale novità! Dietro
c’è un lungo iter non privo di sofferenza.
Anche la sua successione a Chiara Lubich è
stata diversa dalla prassi: nessuna designazione, ma voto democratico. Anche nelle decisioni il movimento sembra seguire questo metodo. Succedeva anche quando era in vita
Chiara?
La successione è avvenuta attraverso
un’elezione, ma non si può dire che si sia
seguito un iter democratico. Se ci fosse
stato avremmo poi dovuto accettare un
compromesso per comporre la polarizzazione, il che sarebbe stato in contrasto con
il nostro carisma che chiede l’unità. Da
quel momento abbiamo capito meglio il
senso dell’eredità di Chiara: Gesù che si fa
presente quando «due o più sono uniti
nel mio nome». In quell’ora cruciale ne
abbiamo sperimentato la forza che trasforma e la luce che è guida. Ci è richiesto
quell’amore scambievole che non misura,
anzi punta alla misura stessa di Gesù: dare la vita. A oggi non conosciamo altro
modo nel prendere decisioni: ciò significa
ascolto, condivisione di pesi, conquiste,
esperienze, punti di vista, pronti a perdere
tutto nell’altro. Soprattutto fedeltà allo
sposalizio con Gesù crocifisso per trasformare dolori, dubbi, divisioni e ricomporre
l’unità. Quando Cristo è presente risplendono i doni dello Spirito: pace, nuova forza, luce; risplende l’uguaglianza, senza vanificare il “dono dell’autorità”.
Mi sembra che fra i movimenti voi siate i più
restii alla pubblicità: «umiltà e reticenza, mai
mettersi in mostra» diceva Chiara. Quindi le
persone vi conoscono quando vengono in contatto con qualcuno di voi, attraverso un rapporto personale. Questa modestia vi rende però poco noti all’esterno: ha qualcosa a che fare con la guida femminile?
festa della santa, abbiamo approfondito
aspetti paralleli delle due spiritualità. Teresa d’Avila ha fatto luce per leggere, nel
nuovo carisma donato alla Chiesa, una via
autentica di santità, che ha come meta
non solo edificare il “castello interiore”,
ma anche il “castello esteriore”, al cui centro è la presenza di Gesù nella comunità.
Siamo restii alla pubblicità, non alla comunicazione. Significativamente Chiara ha
voluto che la grande parabolica per i collegamenti intercontinentali fosse sistemata
nel suo giardino: era per lei il «monumento all’unità». È vero, c’è stato un lungo
periodo di silenzio, quando il movimento
era sotto studio da parte della Chiesa. Ma
negli anni successivi non sono mancate
grandi manifestazioni internazionali irradiate nel mondo dai satelliti, si sono moltiplicate riviste e siti web, è in funzione un
ufficio stampa. Ciò che ci muove non è ricerca di notorietà, ma il detto evangelico
che chiede di non tenere la lampada sotto
il moggio, ma di metterla sul tavolo per
far luce nella casa.
«La nostra divisa è il sorriso» è una delle
vostre massime ispiratrici. Il modello di riferimento, Chiara, sembra venga realizzato meglio dalle donne, che le sono tutte somiglianti
non solo nello stile del vestito e nella pettinatura, ma nella luminosità affettuosa del volto.
Per gli uomini sembra più difficile?
Lo spirito focolarino risente della sua matrice
femminile. Quali altre caratteristiche femminili si possono rintracciare nel vostro carisma?
Il Focolare ha una matrice femminile
perché è «opera di Maria». Maria, la più
alta espressione dell’umanità redenta, modello del cristiano e della Chiesa tutta, come sancito dal Vaticano II. È lei che ha
impresso a tutto il movimento il suo timbro: interiorità che lascia spazio a Dio e ai
fratelli, fortezza, fede, Parola vissuta, canto di quel Magnificat che annuncia la più
potente rivoluzione sociale, quella maternità possibile oggi nel generare ovunque
la presenza misteriosa, ma reale, del Risorto che fa nuove tutte le cose.
Nel movimento vi sono, come membri o simpatizzanti, esponenti delle gerarchie ecclesiastiche. Come risolvete il confronto fra autorevolezza della guida del movimento e autorità
delle gerarchie che essi rappresentano?
Nei rapporti con i vescovi non c’è mai
stato conflitto d’autorità, ma scambio di
doni: dal carisma dell’unità i vescovi attingono quella spiritualità così incoraggiata
dai Papi per dare alla Chiesa il volto delineato dal Vaticano II, la Chiesa comunione. Nel carisma proprio delle gerarchie ecclesiastiche, riconosciamo l’evangelico «chi
ascolta voi ascolta me».
Oltre agli scritti della fondatrice, a cui ovviamente vi ispirate, che rapporto avete con le
sante e con i testi che hanno scritto?
Due esempi: Chiara ha assunto il nome
della santa d’Assisi perché affascinata dalla sua radicalità evangelica. Per anni, nella
Dal 7 luglio 2008
Maria Voce è il
presidente del
movimento dei
Focolari, il cui
nome ufficiale è
Opera di Maria. A
fondarlo fu Chiara
Lubich nel 1943,
con il fine di
realizzare l’unità tra
le persone voluta
da Gesù. Nel 1962
Giovanni XXIII
diede la prima
approvazione al
movimento, i cui
statuti vennero
approvati da
Giovanni Paolo II
nel 1990. In
particolare, l’O pera
di Maria ottenne
dal Papa il raro
privilegio di poter
essere diretta
sempre da una
donna. Diffuso in
tutti i continenti, il
movimento conta
oggi oltre due
milioni di persone.
La questione è molto complicata, perché radicata in culture millenarie. E non
sempre valgono le nostre categorie occidentali. Più delle parole vale la vita. Significativo un episodio. A Fontem, nel
cuore della foresta camerunense, ancora
vige la poligamia. Una delle mogli del capo di un villaggio non aveva obbedito a
un suo comando. La reazione è stata violenta e pubblica. Subito dopo l’uomo partecipa a un incontro dove si parla
dell’evangelico «qualunque cosa avete fatto al minimo l’avete fatta a me». In contrasto con la tradizione, il capo raduna la
famiglia allargata: di fronte a tutti si inginocchia davanti alla donna per porgerle le
sue scuse. Un fatto eclatante che avrà
grande eco fuori del villaggio incidendo
nel cambiamento.
Chiara le ha dato questo bellissimo nome,
Emmaus. Il nome di un luogo, di un incontro. In che modo le sembra di realizzarlo?
Emmaus è il nome di un luogo, di un
incontro che coincide con il cuore del carisma: è mio compito specifico mantenerlo
vivo. Mio primo impegno è cercare di vivere io per prima le esigenze dell’amore
che lo rendono operante. È con sempre
nuova meraviglia che tocco con mano una
grazia che mi supera di gran lunga.
La Chiesa in questi ultimi anni ha dovuto
superare momenti di grande difficoltà. Crede
Non è questione di difficoltà, ma di diche un ruolo e una presenza diversa delle
versità: «uomo e donna li creò». Chiamati
donne ne avrebbe facilitato il superamento?
a essere dono l’uno per l’altro, perché si
Difficile dirlo. Direi di guardare
attui quella «pienezza dell’umano» possibile solo nella «complementarietà tra fem- all’oggi, quando una profonda crisi
minilità e mascolinità». Il movimento stes- attraversa non solo la Chiesa, ma tutta
so si può vedere come una
palestra di questa unità: se
È la Madonna che ha impresso il suo timbro
la presidente è donna, pur
avendo una specifica funa tutto il movimento
zione per tutta l’Opera di
con il Magnificat che annuncia
Maria, ha a fianco un copresidente. Ogni altro lila più potente rivoluzione sociale
vello di responsabilità è
condiviso in piena parità.
È solo nell’unità tra i due che si esprime il l’umanità. Se, come ripete il Papa, alla racarisma nella sua autenticità. È una di- dice della crisi vi è una crisi di fede, la
mensione di unità che ha radice in Gesù donna, ovunque vive, ha la specifica vocacrocifisso e esige una misura di amore che zione di essere portatrice di Dio, di
sa contenere le differenze senza annullarle. quell’amore soprannaturale che è il valore
È ne è conseguenza anche quella luce che più grande ed efficace per rinnovare Chiesa e società.
traspare sui volti.
Vignetta di Cinzia Leone
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Invece l’ha scritto una donna
Il romanzo
La morte viene
per l’arcivescovo
«L’abbandono alla Provvidenza divina» è stato per anni attribuito al gesuita Jean-Pierre de Caussade
di CRISTIANA D OBNER
mantine Lucie Aurore Dupin pubblica i suoi romanzi ma, perché
siano accettati, li firma George
Sand; Mary Ann Evans diventa
George Eliot. Currer Bell, Ellis
Bell e Acton Bell non sono altro che gli pseudonimi maschili di Charlotte, Emily e Anne
Brontë, costrette a usarli per stampare i loro
romanzi. Solo dopo la morte di Maria Alfonsina Ghattas si scoprì che era lei la vera fondatrice, a Betlemme nel 1880, della Congregazione del Rosario, il cui fondatore era sempre
stato considerato il cappellano della comunità.
Ed è successo per tanti altri istituti religiosi
femminili.
Recentemente, lo storico francese Jacques
Gagey ha rivelato che è accaduto anche per
uno dei più famosi libri di spiritualità cattolica, L’abbandono alla Provvidenza divina, l’opera spirituale più importante del Settecento
francese, redatta verso il 1740 e pubblicata nel
1861. Von Balthasar la considerava «il libro
A
Quando nella spiritualità
appare un’innovazione
ecco subentrare
confessori o direttori spirituali
che si sentono in dovere
di appropriarsene
cerniera che raccoglieva l’epopea mistica tutta
intera», classico della spiritualità e libro dalla
fisionomia unica che accompagna costantemente molte persone spirituali. Queste pagine
così famose e continuamente riedite non sono
quindi opera del gesuita Jean-Pierre de Caussade, ma di una donna. Gagey sa che, in
quell’epoca, non aveva importanza l’attribuzione dell’autore. Oggi però far luce è un dovere di verità storica, specie quando tutti pensano che l’autore sia un uomo, e questo rende
più difficile scoprire che invece è una donna.
Si tratta di un’autobiografia spirituale, inscritta nella cultura spirituale del secolo come
un testo coerente, opera di una sola mano:
«Solo chi non conosce a sufficienza la letteratura mistica può mettere in dubbio che l’autrice sia una donna». Anche perché il nostro
spesso parla al femminile: «Voi dovete tutto
regolare; la santità, la perfezione, la salute, la
direzione, la mortificazione è affare vostro; il
mio, Signore, è di essere contenta di voi e di
non appropriarmi di nessuna azione e di nessuna passione, ma di lasciare tutto al vostro
buon piacimento». L’autrice è una donna della Lorraine, diretta da de Caussade di cui ancora si ignora il nome, ma certo di condizione
sociale elevata e familiare con la Visitazione di
Nancy.
Chiamiamola Dama Abbandono, in mancanza di un nome preciso. Dapprima confidente e poi protettrice di de Caussade, ella
eredita la grande tradizione mistica ma avverte
anche, e fa sua, la filosofia dei Lumi, in accezione positiva. Proprio assumendosi la responsabilità di usare coraggiosamente il proprio intelletto e di non demandare passivamente la
propria vita interiore a un libro o a un direttore spirituale, l’autrice rivela la sua scelta di libertà. Non indugiando su teorie o astrazioni,
ma puntando direttamente, come già era accaduto con Teresa d’Avila, sul proprio concreto
esperire.
Quando nella spiritualità appare un’innovazione, ecco subentrare confessori o direttori
spirituali che si sentono in dovere di appropriarsene, forse per farle percorrere un cammino più sicuro grazie alla loro superiorità intel-
no, ed è aperto alla storia, agli eventi, all’accettazione di tutto quanto avviene, e di tutto
quanto dobbiamo soffrire. Osserva che tutto si
muove secondo un orientamento provvidenziale: «Il momento presente è dunque come
un deserto, in cui l’anima semplice vede soltanto Dio, di cui essa gode, occupata soltanto
da ciò che egli vuole da lei; tutto il resto è lasciato, dimenticato, abbandonato alla Provvidenza».
lettuale e teologica. Essi considerano quindi la
donna solo portatrice di un’intuizione che, per
essere sviluppata e fatta conoscere, richiede
l’autorità di un uomo e dei suoi strumenti intellettuali.
A metà Ottocento, la visitandina Marie
Cécile Fervel scoprì dei frammenti di lettere e
si convinse che erano una corrispondenza spirituale della superiora del suo monastero, madre de Rottembourg. Compose con i vari pezzi una lettera, facendola passare per una lettera di de Caussade, e lo fece ancora con altri
frammenti, traendo così in inganno il gesuita
Ramière, per ottenere che questi scritti entrassero a far parte della preparazione spirituale
delle monache. Ramière, riconoscendo il valore dei testi, diede loro forma di trattato in capitoli e vi appose anche il titolo, L’abbandono
alla Provvidenza divina, pensato come il mezzo
più facile di santificazione, opera postuma del
padre de Caussade, gesuita. Le suore si concentrano su costui non per dedicarsi all’imbroglio, ma perché era abituale presentare un testo in modo da renderlo adatto a uno specifico ambiente. Le copiste modificavano, tagliavano e inserivano in piena libertà brani adatti
alla vita di convento, si scambiavano le lettere
e ne copiavano i passi più significativi, lasciando cadere il nome di chi scrive.
Vera scienza è l’abbandono, che insegna la
confidenza nella vita e nell’autore della vita.
L’interiorità allora si dispiega nel canto di
gioia della libertà spirituale, l’amore puro e
l’annientamento della propria volontà, perché
«l’azione divina inonda l’universo, penetra
tutte le creature, le sommerge». Dama Abbandono non dice cose nuove, non è un’innovatrice, non si preoccupa delle ripetizioni, ma è
ricca di spunti psicologici e soprattutto si ispira a un’esperienza vissuta. Il suo principio di
divenire spirituale prende il nome di abbando-
Fare luce è un dovere di verità storica
Specie quando tutti pensano
che l’autore sia un uomo
L’autrice affronta il presente senza un metodo particolare, ma si concentra sulla postura
profonda. Il focus è proprio sull’esperienza
quotidiana, nella traumaticità continua dell’abbandono come sospensione all’amore: nella dolcezza traspare l’audacia. L’anima, nella
responsabilità della propria libertà, pratica
l’interiorità con la buona volontà positiva e la
sua coscienza si armonizza. In tempi moderni
e con altre conoscenze scientifiche, Jung definì questo processo di integrazione della coscienza «processo di individuazione».
La Dama Abbandono ha avuto il merito di
designare il principio del divenire spirituale
con il suo proprio nome, “abbandono”. È bello finalmente sapere che questa esperienza
fondamentale è stata scritta e vissuta da una
donna.
Sofonisba Anguissola
«La Sorella dell’artista in abito religioso» (1551)
Ninna nanna nel lager
La diversità del femminile anche nello sterminio
di ANNA FOA
lle dieci del mattino della
giornata che Israele dedica
alla commemorazione della
Shoah (Yom ha Shoah, quest’anno
il 18 aprile), nel Paese suona per
due minuti la sirena e tutti si fer-
A
Se uguale fu la volontà di uccidere
diverso fu il modo in cui
l’immane violenza venne percepita
mano ad ascoltarla. La sera prima,
in un piccolo teatro di Tel Aviv,
ho assistito allo straordinario concerto «Una voce per la Shoah».
Erano canzoni composte da donne, canti strazianti sulla lontananza dagli esseri amati, ninne nanne,
voci di speranza e di dolore estremo. A cantarle, con la sua magni-
fica voce di soprano, Charlette
Shulamit Ottolenghi, nata in Italia e trasferitasi da tempo in Israele, che a questa produzione musicale ha già dedicato molta ricerca,
esibendosi in tante occasioni (di
recente in un concerto per la
Giornata della memoria a Roma
all’Università cattolica del Sacro
Cuore).
Gli studi sulla musica concentrazionaria hanno avuto un forte
sviluppo negli ultimi decenni, riportando alla luce carte e spartiti
obliati nel tempo, ricostruendo le
poche registrazioni esistenti, facendo rivivere brani composti e
suonati nell’orrore dei campi, in
attesa del trasporto nelle camere a
gas. In Italia, un’opera di grande
rilievo è stata svolta dal maestro
Francesco Lotoro e dall’Istituto di
letteratura musicale concentrazionaria di Barletta da lui creato. È
questo il materiale che Charlette
Shulamit Ottolenghi ha utilizzato,
accentuandone
però,
rispetto
all’interpretazione datane da Lotoro, il carattere popolare. La cantante ha così scelto di essere accompagnata dalla fisarmonica, volendo rendere il carattere immediato di queste canzoni, legato alle emozioni quotidiane. Il risultato era di grande efficacia e la voce
straordinaria di Ottolenghi trovava nell’accompagnamento folklorico uno struggente accostamento.
La più nota tra le autrici di
queste canzoni è Ilse Weber, ceca,
morta a 41 anni ad Auschwitz dopo aver passato quasi due anni a
Theresienstadt, la fortezza vicino
Praga trasformata dai nazisti in
qualcosa a metà fra un ghetto e
un campo di transito, in cui furono lasciati sopravvivere per un po’
perfino i bambini e dove furono
concentrati i musicisti ebrei dell’Europa centro-orientale, che vi
composero e allestirono opere importanti. Quasi tutti quelli che
passarono per Theresienstadt continuarono il viaggio verso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ilse Weber era scrittrice di
racconti per bambini, poetessa e
musicista. Quando il marito fu selezionato per Auschwitz, decise
volontariamente di seguirlo, con il
suo bimbo. Lei e il piccolo furono
subito gassati, mentre il marito
sopravvisse. A Theresienstadt, Ilse
compose una sessantina di poemi,
musicandone alcuni. Fra quelli
scelti per il concerto, quasi tutti in
tedesco (Rita Baldoni sta curando
una traduzione italiana), c’era una
tenera ninna nanna in cui si immaginava vagare per Theresienstadt desiderando invano la casa e
la libertà. Di lei, che era già una
scrittrice nota, sono rimaste molte
immagini, tra cui una bellissima
mentre suona un mandolino.
Un’altra autrice è Camilla
Mohaupt, di cui non abbiamo
nessuna notizia e di cui è rimasto
solo il testo Lì dove il male
dell’anima congela il cuore, ritrovato
ad Auschwitz. E poi Erika Taube,
che nel 1942 a Theresienstadt
compose un solo canto, Sei un
bimbo come tanti altri, musicato
dal marito Carlo. Era dedicato al
loro bimbo, con loro a Theresienstadt e che con loro morì ad Auschwitz. E ancora, due canti in
ceco di Ludmilla Peskarova, deportata a Ravensbruck e sopravvissuta.
Se sia possibile o meno definire
una diversità di genere nell’ambito di uno sterminio della portata
della Shoah è ancora questione
aperta per gli storici. Ma come
nella memorialistica femminile (in
cui avvertiamo un’attenzione al
corpo quasi assente nella scrittura
dei deportati uomini), così in questi canti si colgono forme ed emozioni molto femminili, legate alla
quotidianità, parole di rassicurazione e accudimento rivolte ai
bambini, fossero essi presenti (come a Theresienstadt), o solo sognati (come ad Auschwitz).
Così, se lo sterminio fu uguale
per tutti, se uguale fu la volontà
di uccidere dei carnefici, il modo
in cui tale immane violenza fu
percepita da uomini e donne fu
almeno in parte diverso. Ascoltare
queste voci di dolore ma anche di
speranza aiuta a comprenderlo.
La penna di una donna protestante ha
creato una delle figure di sacerdote
cattolico più belle della letteratura. In La
morte viene per l’arcivescovo, romanzo
scritto nel 1927, la scrittrice statunitense
Willa Cather rivela una sorprendente
capacità di immedesimazione dando vita a
Jean Marie Latour, giovane sacerdote
francese inviato nel 1851 come vicario
apostolico nel New Mexico dalla Chiesa
di Roma, preoccupata per la recente
annessione del territorio agli Stati Uniti.
Costretto a scontrarsi contro i propri
limiti, contro le tribù indiane perseguitate
dai bianchi, tradizioni antiche, sacerdoti
immorali e una natura percepita come
nemica, predicando la buona novella
Latour riesce a entrare in profonda
sintonia con la “sua” gente. Un
arricchimento reciproco che trasformerà
trent’anni di evangelizzazione in un frutto
prezioso. Romanzo avventuroso e
avvincente di scoperta, fede, amicizia,
scambio, dolore e crescita spirituale, il suo
mistero splendente accresce man mano
che la lettura procede, rivelando che una
donna, laica, protestante e americana ha
saputo rendere la profonda complessità di
un sacerdote cattolico. Per di più francese.
(giulia galeotti)
di RITANNA ARMENI
«“Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Ed essi lo deridevano. Ma egli (...) presa la mano della bambina, le disse: Talità kum, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. Subito la fanciulla si
alzò e si mise a camminare» (Marco, 5, 3942).
nna è una contadina armena di
famiglia poverissima. Un giorno
incontra una donna che le sembra buona e affidabile e che le
promette un lavoro come governante in una casa turca a seicento dollari al
mese. Accetta ed è felice di poter finalmente
risollevare la sua famiglia dalla povertà. Si ritrova costretta a fare per un anno la prostituta. Elena è una giovane donna albanese. Lei
un lavoro ce l’ha, ma lo lascia per seguire il
fidanzato in Gran Bretagna. Si sveglia in un
appartamento sconosciuto, durante la notte è
stata drogata, il suo corpo è diventato blu
per le violenze subite. Da quel momento diventa una schiava. Vivian è thailandese, pensa di andare a lavorare in un centro massaggi
ad Amsterdam ma chi la accoglie all’aeroporto le toglie soldi e passaporto e la costringe a
stare in un bordello. Nadia è ucraina, anche
lei ha bisogno di un lavoro e accetta l’invito
di un amico di famiglia che le promette
un’occupazione in Belgio. Si ritrova chiusa
in un appartamento per quattro settimane
costretta a soddisfare trenta clienti al giorno.
Di storie come queste se ne potrebbero
raccontare centinaia di migliaia anzi, stando
ai dati, addirittura milioni, tutte diverse, ma
anche tutte uguali. Donne povere, che devono pagare dei debiti, che vogliono un futuro,
che si affidano o vengono affidate dalla famiglia ad altre donne o ad amici che le vendono come schiave. I giornali australiani hanno
raccontato di un fiorente commercio di donne coreane vendute in Australia. Prezzo
quindicimila dollari. E, malgrado il controllo
delle autorità, il traffico risulta fiorentissimo
fra la Corea del Nord e la Cina. La mancanza di donne in alcune regioni cinesi, conseguenza della politica del figlio unico, ha
creato un vero è proprio business. Giovani
costrette ad attraversare il confine, vendute e
rapite, a disposizione di chi le vuole comperare. Il traffico ha una dimensione planetaria.
Per fare un esempio di schiave ne arrivano
da 14.000 a 17.000 all’anno solo negli Stati
Uniti. E se anche i numeri spesso rimangono
imprecisi comunque indicano un’enormità
del fenomeno e una sua diffusione che attraversa gli oceani e invade l’intero pianeta.
È di circa due milioni l’anno l’incremento
del traffico degli “schiavi” del lavoro e del
sesso. Questi ultimi sono circa 600.000. Secondo l’Oim (Organizzazione internazionale
delle migrazioni), ci sono addirittura almeno
tre milioni di esseri «reclutati o costretti a
spostamenti attraverso l’inganno o la coercizione allo scopo di sfruttarne il corpo o parti
di esso». L’ottanta per cento del mercato è
costituito da donne. Sono loro le schiave del
nuovo millennio e il fenomeno è in costante
aumento, avvertono al Pontificio Consiglio
della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.
È un commercio fiorente che rende e che è
arrivato a circa quaranta miliardi di dollari
l’anno, un affare criminale inferiore solo a
quelli della droga e delle armi.
A partire da queste storie e da questi numeri è nata Talità Kum (“fanciulla, alzati”) la
rete che collega nel mondo più di 4.000 suore presenti in 82 paesi. In Italia sono circa
trecento le religiose che svolgono questo lavoro difficile e delicato: combattere la tratta e
la schiavitù. Liberare le donne e restituirle al-
A
«Fanciulla, io ti dico alzati»
Il saggio
Inchiesta tra le suore che salvano le nuove schiave
la propria vita. C’erano già alcune associazioni impegnate in questo difficile compito. Laiche e religiose. Ma ora proprio le religiose
hanno creato questa rete per dare più forza e
organizzazione a un lavoro che svolgono da
anni. Talità Kum è stata proposta e approvata dal Congresso organizzato dall’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg,
che riunisce le superiore di 1.900 congregazioni femminili) e dall’Oim (struttura intergovernativa cui aderiscono 125 Stati), tenuto
a Roma qualche anno fa. Il suo nome ha un
profondo significato simbolico. È l’invito che
Gesù rivolge alla giovane figlia di Giairo che
tutti credono morta e che, invece, ascoltando
le sue parole, si alza e cammina. Le religiose
«Nel mondo
le più attive in questo ambito
sono le congregazioni internazionali
di religiose»
dice il cardinale Vegliò
di Talità Kum ripetono quell’invito alle ragazze rese schiave e costrette alla prostituzione in tutti i Paesi del mondo. Il loro lavoro è
quasi impossibile. Perché, certo, il fenomeno
è stato monitorato, esaminato e studiato. Ma
poi tocca a loro andare avanti, agire concretamente, cercare le ragazze rese schiave. Ed è
difficile individuarle perché hanno paura, è
difficile avvicinarle, conquistare la loro fiducia, parlare, convincerle a superare il terrore
dei loro aguzzini, garantire la loro incolumità. Ma lo fanno e il loro lavoro è oramai universalmente riconosciuto. In una intervista
alla Radio vaticana il cardinale Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale
per i Migranti e gli Itineranti, dopo aver ricordato gli sforzi fatti dalle Chiese locali, le
dichiarazioni, le lettere pastorali ha affermato: «Nel mondo le più attive in questo ambi-
to sono le congregazioni internazionali di religiose».
Suor Rita è un’orsolina e fa questo “lavoro" da 17 anni a Caserta, in un centro di accoglienza chiamato Casa Ruth. Il giorno
dell’inizio lo ricorda perfettamente. Era l’8
marzo 1997. «Con due volontarie andai sulla
strada dove sapevo c’erano queste ragazze
per portare loro un fiore. No, non era una
mimosa, era una piccola piantina di primule,
un messaggio vitale, con il quale volevamo
segnalare la nostra vicinanza. Hanno capito e
ci hanno chiesto di incontrarci. Abbiamo visto i segni della tortura, i tagli sul loro corpo
e la paura. Ne avevano tanta. Erano schiave.
Come donna e come consacrata non ho potuto tirarmi indietro. Abbiamo fatto spazio
nella nostra comunità e abbiamo accolto la
prima ragazza. Si chiamava Vera, era polacca. Aveva sul corpo e sulla testa le ferite e i
segni della violenza. Poi ne sono venute altre
e la nostra struttura è diventata più grande.
Oggi abbiamo tre appartamenti nel centro di
Caserta».
Suor Rita è orgogliosa di ciò che ha fatto.
È stato difficile avvicinarsi a donne di cui
non si conosceva la lingua, ragazze venute
dall’Est Europa o dall’Africa a cui ripeteva
insistentemente due parole: I sister, sperando
che il messaggio fosse compreso. C’è riuscita
in una lotta continua, con momenti di gioia
e momenti di sconforto. «È stato duro soprattutto con le ragazze che vengono dall’Est
europeo. Sono venute a riprendersele, ma loro sono scappate di nuovo e sono tornate da
noi».
Schiave. La religiosa usa continuamente
questo termine. E può sembrare una parola
antica, esagerata. Nel mondo moderno si
parla di povertà, emarginazione, esclusione
dai diritti. Per le donne si parla di prostituzione, di vendita coatta del proprio corpo.
La schiavitù è persino inimmaginabile. Al
Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti ci tengono molto a fare subito una
distinzione. «Quando parliamo di tratta e di
schiavitù per sfruttamento sessuale — precisa
Francesca Donà, officiale del settore rifugiati
del dicastero — non parliamo di prostituzione, ma di donne che sono state prostituite.
Le donne di cui si occupano le religiose sono
state sequestrate, violentate, assoggettate, minacciate». In poche parole mentre nella prostituzione può esserci qualche volta condivisione o complicità, a volte anche libera scelta, le religiose si trovano di fronte a donne
costrette con la forza a vedere il proprio corpo. Padre Frans Thoolen, responsabile del
settore rifugiati, parla di vere e proprie organizzazioni criminali e di varia natura. «Possono essere a livello micro o livello macro.
Nel primo caso si tratta di criminali che agi-
«L’8 marzo — racconta suor Rita —
andai sulla strada
per portare loro un fiore»
scono singolarmente o in piccoli gruppi, nel
secondo caso di grandi organizzazioni internazionali con emissari locali. Le donne vengono in genere prelevate con l’inganno
dall’Africa, dall’Asia, dall’America latina e dirottate verso l’Europa o il nord America. Ma
spesso il traffico è anche locale. Si svolge
nello stesso Paese o fra Paesi vicini o fra città
e città». Si è quindi ritornati alla vecchia
schiavitù? Qualche anno fa, al congresso di
Nairobi «Verso una migliore pastorale per i
migranti e i rifugiati in Africa all’alba del terzo millennio», l’arcivescovo Novatus Rugambwa, già sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti, ora nunzio apostolico in Angola, ha precisato:
«Chiamiamo oggi questo fenomeno moderna
schiavitù, tuttavia c’è una differenza fra questa e l’antica forma di schiavitù. Quest’ultima
era legata alla proprietà di un altro essere
umano, la schiavitù moderna è legata allo
sfruttamento e alla privazione totale del controllo di un essere umano sulla propria vita».
Storia
delle monache
Inserendosi in un filone di ricerca
prolifico ormai da decenni, il saggio di
Silvia Evangelisti (il Mulino 2012) ha il
merito di restituire al lettore l’enorme
varietà dell’esperienza monastica
femminile tra la seconda metà del
Quattrocento e l’Ottocento. Questo
insieme poliedrico di ordini, donne e
vocazioni anima la storia di un
preziosissimo spazio di libertà
intellettuale, di conoscenza ed
emancipazione in cui per secoli le
religiose hanno saputo trovare ambiti per
solito preclusi al loro sesso. Tra arte
prodotta e commissionata, nuove
fondazioni, querelle des femmes, strategie,
spiritualità, politica ed educazione, sono
specialmente interessanti le pagine in cui
la docente di storia moderna all’università
dell’East Anglia racconta le vicende delle
religiose che dal convento non se ne
volevano andare: la resistenza monastica
alla Riforma, pagina poco nota ma
significativa di una storia della Chiesa cui
mancano ancora tasselli preziosi. (giulia
galeotti)
Il film
Maternity
Blues
La tragedia è lì, in tutta la sua spietata e
deflagrante portata. È lì con i suoi tanti
protagonisti. Ci sono innanzitutto le
madri assassine, quelle che si sono
macchiate del delitto più atroce e
inconcepibile, esse
stesse (spesso)
sgomente dinnanzi
al vuoto che hanno
creato e sul quale si
affacciano inebetite.
Dietro e intorno, le
persone che in
modi diversi —
specie con
l’immobilità
ostinata di uno
sguardo volto
altrove — le hanno
“aiutate” a rendersi
artefici del gesto
che le ha rinchiuse
all’ospedale psichiatrico giudiziario di
Castiglione delle Stiviere, dove si svolge la
pellicola di Fabrizio Cattani. Infine le
vittime, i bimbi uccisi da chi li aveva
portati per nove mesi, messi al mondo e,
in molti casi, amati tantissimo. Quelle dei
figli sono presenze che tornano
costantemente nei racconti delle donne di
Maternity Blues. Nei flash back (misurati,
e mostruosi), ma soprattutto
nell’evocazione quotidiana (“mi manca”)
di madri così diverse, accomunate solo
dall’atroce filo di una scelta terribilmente
sbagliata. Il tono del film è scarno, livido:
una scelta che fa risaltare ancor più i
colori di un’infanzia che avremmo tutti,
almeno un po’, potuto salvare. (giulia
galeotti)
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SCHIAVE
DEL CETO MEDIO INDIANO
Uno dei volti del boom economico indiano riguarda
ragazze minorenni assunte come domestiche e trattate
come schiave dal ceto medio dei nuovi ricchi.
L’esplosione della domanda di collaboratrici domestiche
ha riversato sul mercato tantissime bambine, per lo più
vendute dai familiari a rampanti agenzie di collocamento.
Le minorenni hanno il grande merito di costare meno di
un adulto (o di non costare affatto) e di essere più facili
da sfruttare, soggiogare e murare vive, in violazione delle
leggi contro il lavoro minorile. Senza riposo, percosse,
umiliate, denutrite e controllate da telecamere a circuito
chiuso: la stampa locale denuncia, ma il commercio resta
florido.
QUAND O
LA LEGGE LEGITTIMA IL CRIMINE
All’uscita di scuola, la sedicenne Amina Filali è stata
violentata da Salek Mustafa a Larache, un paesino del
Marocco. I genitori sono andati a sporgere denuncia, ma
il giudice è riuscito a far accordare le famiglie sulla pelle
di Amina, grazie all’articolo 475 del codice penale che dà
allo stupratore la possibilità di evitare il processo laddove
sposi la vittima minorenne. Obbligata alle nozze con il
suo stupratore, che ha continuato a esercitare su di lei
violenze fisiche e morali, Amina si è uccisa ingerendo
veleno per topi. Il suicidio della ragazza (ultimo di una
lunga serie) ha fatto esplodere le proteste in Marocco e,
grazie alla Rete, in tutto il mondo. Una norma misogina,
retriva e incostituzionale: l’articolo 475, infatti, viola i
principi della nuova Costituzione marocchina approvata
nel 2010 (e le norme del codice di famiglia del 2004).
Molti altri Paesi hanno conosciuto questo orrore: l’Italia,
per esempio, dove solo nel 1981 (dopo il no coraggioso di
Franca Viola) è stato abrogato l’articolo 544 del codice
penale che prevedeva il matrimonio riparatore a seguito
di stupro, in violazione della Costituzione repubblicana
del 1948.
«IL
GIORNO IN CUI DIO L’HA VOLUTA
FEMMINA E NON MASCHIO»
«Il genio femminile è una ricchezza per la società e anche
per la Chiesa, ma molto spesso si ha paura del diverso;
ciò che è diverso rappresenta per molti non tanto una
ricchezza ma una minaccia», sostiene suor Viviana
Ballarin, presidente dell’Usmi, da cui dipendono tutti gli
ordini religiosi femminili italiani, per un totale di oltre
settantamila suore. «Allora si affidano alle donne, anche
plurititolate, servizi e ruoli secondari ed esecutivi»,
continua suor Viviana, notando come in molti organismi
ecclesiastici tante donne svolgano mansioni non adeguate
ai loro studi e preparazione. «È ancora piuttosto raro che
vengano affidati nella Chiesa alle donne ruoli a più
ampio respiro, intendo dire di responsabilità, di
decisionalità. È abbastanza raro che possano sedere ai
tavoli dove si pensa o si programma. Quando nelle
culture, nelle società e anche nella Chiesa non viene
rispettato il progetto creazionale si cade o nel
maschilismo o nel femminismo o altro. Gli ismi dicono
sempre qualcosa di negativo». Il problema è di un
influsso culturale che «condiziona anche la Chiesa degli
uomini. Ma non la Chiesa di Cristo. Gesù, infatti, nella
vita terrena ha dato esempi meravigliosi di rottura con
leggi molto sfavorevoli nei confronti delle donne». A
Franca Giansoldati («Il Messaggero») che le chiede se
vorrebbe il sacerdozio femminile, risponde no: «Come
donna mi sento pienamente realizzata sia nella mia
identità che nella mia missione. Ciò che conta veramente
per ogni donna è vivere quella diaconia e quel sacerdozio
che sono stati impressi nella sua carne come fuoco il
giorno in cui Dio l’ha voluta femmina e non maschio».
IL
CRIMINE DELLE STERILIZZAZIONI FORZATE
Decine di migliaia di donne ignare sterilizzate in
Uzbekistan: lo ha rivelato la Bbc che ha intervistato
ginecologi e donne sottoposte a interventi di isterectomia.
Ad alcuni medici il programma di limitazione delle
nascite è arrivato a imporre fino a otto sterilizzazioni a
settimana. Tra le modalità di intervento, l’asportazione
dell’utero subito dopo un cesareo, con cui vengono
eseguiti l’80 per cento dei parti nel Paese. Dopo la
denuncia dell’Onu (2007), le isterectomie forzate sono
cessate solo in apparenza: i medici uzbeki, infatti, sono
stati invitati a continuare, presentando alle donne (specie
se povere e illetterate) l’intervento come via per salvare
loro la salute e la vita. Notizie di sterilizzazioni forzate
giungono anche dall’India, con la novità, come ha
rivelato «The Observer», che i finanziamenti (200 milioni
di euro) sono arrivati dall’estero. Molte persone, specie
donne, sono morte in seguito alle operazioni. È ormai da
tempo che si denuncia il ricorso massiccio alla
sterilizzazione come via per controllare le nascite nel
continente indiano. Forzate, inconsapevoli, estorte o
indotte: la varietà nell’offerta passa anche per lotterie in
cui si vince un frigorifero in cambio della sterilizzazione.
BIMBI
IN TRIBUNALE
Il Soroptimist International d’Italia ha avviato un
progetto nazionale per la realizzazione nei tribunali
penali di aule di audizione protette per i minori vittime
di reati. Arredate in modo accogliente e familiare, sono
dotate di apparecchiature di videoregistrazione che
consentono di ascoltare il minore nell’ambito del
processo. A oggi sono state realizzate a Livorno, Pesaro,
Macerata e Catanzaro. A breve ne verranno inaugurate a
Torino, Taranto, Reggio Emilia, Firenze e Venezia. Sono
in programma altre aule in altre città italiane.
«NONNE
DA MARCIAPIEDE» A
ROMA
Settant’anni, vedova, nonna e pensionata (insegnava
chimica), Patrizia Mariani ha ora una nuova occupazione.
Oltre a prepararsi per le qualificazioni di nuoto alle
olimpiadi della terza età, infatti, da quando è iniziata la
L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2012 numero 1
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
www.osservatoreromano.va
crisi Patrizia si è messa studiare economia. Oggi è alla
guida del movimento Nonne da marciapiede, che protesta
contro un mondo di «uomini incompetenti e corrotti che
minacciano i nostri focolari, i nostri figli e le nostre
pensioni». Da marciapiede per due motivi: perché queste
Nonne non bloccano le strade, e perché vogliono
ricordare, con garbo, che la politica è scesa ben sotto il
livello del marciapiede. L’appuntamento è per il 31
maggio: alle 10, si ritroveranno in via Nazionale a dare il
benvenuto alle massime autorità riunitesi per l’assemblea
annuale di Bankitalia. Le Nonne hanno chiesto un gesto
dimostrativo ai negozianti: abbassare le saracinesche per
mezz’ora, esattamente come si faceva una volta al
passaggio di un feretro per le strade cittadine.
LA NORVEGIA
È UN
PAESE
PER MADRI
Il Niger è il posto peggiore al mondo per essere madri, la
Norvegia il migliore: lo dice il tredicesimo rapporto sullo
stato delle madri nel mondo presentato da Save the
Children. E se l’Afghanistan abbandona l’ultimo posto
dello scorso anno, l’Italia è ferma al ventunesimo. La
classifica comprende 165 Paesi e considera fattori come
salute, istruzione, stato economico e sociale delle madri,
nonché indicatori sulla condizione infantile. La distanza
abissale che separa madri e figli dei Paesi in classifica
rispecchia le enormi disparità esistenti nel Pianeta. In
Norvegia una donna riceve in media 18 anni di istruzione
contro i 4 del Niger, dove le donne in Parlamento sono il
14 per cento versus il 40 per cento delle norvegesi. Il
totale delle nascite in Norvegia avviene con personale
specializzato, presente solo in 1 caso su 3 in Niger, dove
una madre su 16 muore per cause legate a gravidanza o
parto, rischio che in Norvegia è di 1 su 7.600.
SE
È LA PRINCIPESSA A SALVARE IL PRINCIPE
Hanno impiegato oltre centocinquant’anni per essere
conosciute, le anti-favole di Grimm. Lo storico Frank
Xaver von Schönwerth, contemporaneo dei celebri fratelli,
trascrisse oltre cinquecento favole folcloristiche che,
sebbene parzialmente pubblicate in tre volumi tra il 1857
e il 1859, finirono però dimenticate. La loro colpa? Offrire
storie politicamente scorrette, versioni rivoluzionarie della
celebre Cenerentola, popolate di bambine sveglie, argute
e coraggiosissime, e di principi imprigionati e vulnerabili
salvati da un bacio di ragazza. Ritrovate da Erika
Eichenseer nel 2008 in un archivio di Regensburg, un
primo volume è uscito in Germania e ora è la volta della
versione inglese. L’auspicio è un effetto onda in altre
lingue. Per ascoltare, finalmente, un’altra favola.
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne
Giovanna d’Arco, figlia di Dio
La santa del mese raccontata da Sylvie Barnay
ontemporanea della nascita
della Nazione francese nel XV
secolo, Giovanna ne è innanzitutto il paradigma, riattivato
nelle mentalità collettive del
XIX e del XX secolo, dopo secoli di quasi
totale oblio. Questo ritorno è legato soprattutto al posto dato al Medioevo
all’inizio della Terza Repubblica, per legittimare le lotte politiche e religiose. A partire dal 1870, la vita di Giovanna diviene
allora il riflesso di questo gioco politico,
dopo che il movimento romantico aveva
fatto di lei una delle sue figure mitiche,
che sanno incarnare l’anima del popolo.
I cattolici salutano così in Giovanna «la
primogenita della Chiesa», promotrice
delle «grandi imprese di Dio per mezzo
dei Franchi», le Gesta Dei per Francos,
mentre i nazionalisti fanno di Giovanna
d’Arco la figlia del popolo, diffondendo
una leggenda — dovuta a Michelet nel
1841 — che la fa diventare sorella della
Marianne rivoluzionaria.
Il destino di Giovanna è ormai legato a
queste due visioni della storia, sostituite
subito da un terzo archetipo all’indomani
della prima guerra mondiale: «la santa
della patria». L’espressione forgiata anch’essa da Michelet — «Sì, secondo la Religione, secondo la Patria, Giovanna d’Arco fu una santa» — costituisce una mescolanza tra l’eredità cattolica e una forma di
messianismo nazionale sostenuto dalla
nuova destra. L’anno 1920 vede così il
Parlamento francese dedicare l’8 maggio
al ricordo nazionale dell’eroina, mentre
Roma la canonizza dopo averla proclamata venerabile nel 1894 e beata nel 1909. La
pastorella ispirata sta fianco a fianco con
la guerriera intrepida nelle chiese come
nei monumenti ai caduti dei paesi francesi.
Il movimento nazionalista francese costruisce però un legame fra «Viva Giovanna d’Arco» e «Abbasso gli ebrei» e la santa della patria non esce più dal girone della destra nazionalista, al di là delle feste
ufficiali. Da parte sua, la Chiesa cerca di
difenderla da questi tentativi di appropriazione: nella vulgata clericale è indubbiamente la figura di santa Giovanna la pastorella a prevalere!
Giovanna, strumentalizzata dall’ideologia dello Stato francese di Vichy e dai sostenitori più estremisti del collaborazionismo che l’erigono a buona contadina della
Francia, viene successivamente invocata
anche dalla Resistenza e la Francia libera.
Dei tre modelli forgiati a cavallo tra il
XIX e il XX secolo, è l’archetipo nazionalista a rimanere vivo, nei decenni della
guerra d’Indocina, della guerra d’Algeria e
C
Artemisia Gentileschi e Maria
Una Madonna
diversa
di ISABELLA DUCROT
a mostra di Artemisia Gentileschi, aperta fino a luglio a
Parigi, suscita riflessioni di tipo psicologico. Male, perché
è una tentazione a cui si dovrebbe resistere, per la ragione
che la popolarità di Artemisia è stata per molto tempo alimentata dalle vicende della sua vita e molto meno per il suo eccezionale valore di artista. Bisognerebbe lasciarsi andare e guardare,
guardare i quadri — una cinquantina — godere delle belle forme,
contemplare i colori, notare le imprudenze delle composizioni, senza risalire alle vicende vissute dalla pittrice.
Eppure la innegabile
prevalenza
di scene in cui
protagoniste trionfanti sono Giuditta,
Giaele,
Susanna,
Lucrezia, Cleopatra, Ester, nude o
vestite di splendidi
damaschi e sete
preziose che si difendono, si vendicano, si suicidano,
non può non riportare il visitatore
compulsivamente
alla storia personale
della donna che
queste immagini ha
scelto, composto e
rappresentato e mediante le quali sembra voler proclamare: «Siamo anche
questo!».
Artemisia ignorò
fin dall’inizio l’eredità che relegava le
donne alla raffigurazione di temi
gentili e affrontò
modi e soggetti fino ad allora di
competenza
solo
maschile. Quando, nel lontano 1916, la voce autorevole del critico e storico dell’arte Roberto Longhi propose all’attenzione degli
studiosi la qualità pittorica delle opere di Artemisia, non mancò
allo stesso tempo di esprimere orrore per la violenza delle scene
bibliche; di fronte alle immagini di belle donne sontuosamente
vestite che scannano o hanno appena scannato un uomo si poneva delle perplesse domande sull’eventuale nesso fra il soggetto
rappresentato e la donna che lo aveva dipinto. La sua idea del
femminile era scossa: «Chi penserebbe (...) che dovesse avvenire
un macello così brutale ed efferrato da parer dipinto per mano
del boia Lang?» scrisse, e aggiungeva: «Ma, vien la voglia di dire, ma questa donna è terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?».
Così che, di fronte al quadro proveniente dal Palazzo Spada a
Roma, una delle sue rare rappresentazioni della Madonna col
Bambino, la sua interpretazione della maternità è decisamente
eccentrica: la Madre appare semiaddormentata e poco sollecita
verso il suo grosso Bambino, che sembra voler attirare come può
la sua attenzione. Si arriva così a pensare che il più diffuso e popolare simbolo occidentale della femminilità, quello della Madre
di Dio, è stato prodotto e articolato dal pensiero e dalla immaginazione maschile.
Padri della Chiesa, filosofi e teologi hanno collaborato nel definire l’icona cristiana della maternità, fissata nell’immagine dolcissima della Madre con il Bambino. Questo lungo processo concettuale e pittorico sembra essere sorto nel modo più prossimo e
vivo da un desiderio profondo, antichissimo della psicologia maschile. La rappresentazione cristiana del dialogo amoroso della
Madre con il Figlio, la relazione carnale del nutrimento, la vicinanza intenerita potrebbero essere espressione del ricordo di una
primordiale condizione felice, in cui sono assenti la lotta per la
sopravvivenza, le battaglie per il cibo. La Madre nutrice cristiana
offre il riscatto all’umanità da quando, secondo la Genesi, il Signore inflisse ad Adamo la sua condanna («con il sudore del tuo
volto mangerai il pane»).
Sono stati uomini cristiani a rappresentare nei secoli e in migliaia di immagini il tenero rapporto della Madre con il Figlio,
compimento del sogno di essere nutriti naturalmente e senza meriti, in dolce relazione carnale con l’alimento materno e di sperimentare la vicinanza affettuosa con il suo Corpo. Trionfo del
femminile, che comporterà in sé tutti i caratteri delle virtù antiche e cristiane: la dedizione, la pietà, la pazienza, la cura, la fedeltà.
L
La giovane vergine vestita da uomo
non cessa di incuriosire
Perché si libera del destino
abitualmente riservato alle donne
del rinascente nazionalismo degli anni Ottanta dello scorso secolo.
Paradigma della nazione francese, la
Giovanna del XV secolo è in realtà prima
di tutto una figlia di contadini agiati della
marca della Lorena che va a trovare il delfino Carlo nella primavera del 1429, mentre imperversa la guerra civile che oppone
quest’ultimo agli invasori inglesi e ai loro
alleati borgognoni.
Dio, dice Giovanna, l’invia per liberare
Orléans, far incoronare il principe e “buttare” fuori gli inglesi dalla Francia. Aiuto
inatteso che l’entourage reale decide di accettare, affidandole le truppe che l’8 maggio liberano Orléans. La campagna della
Loira è poi segnata da una serie di vittorie
che rendono possibile l’incoronazione a
Reims il 16 luglio. La giovane donna viene però catturata davanti Compiègne alla
fine di maggio 1430 e consegnata agli inglesi. Comincia allora un lungo processo
d’inquisizione che la conduce al rogo il 31
maggio 1431 per eresia. Questo primo processo viene seguito da un secondo processo di nullità che si conclude nel 1456, che
deve provare che il cristianissimo re, che si
reinsedia a Rouen, non ha ricevuto l’aiuto
di un’eretica.
Giovanna non è solo una vicenda biografica: ha dato luogo a un senso aperto
capace di produrre innumerevoli versioni.
Tra il XV e il XX secolo, ognuna delle versioni immaginate si è impadronita di questa vita per svilupparla o modificarla a
proprio vantaggio.
Pulzella? La giovane vergine vestita da
uomo non cessa di incuriosire perché si libera del destino abitualmente riservato alle donne (matrimonio, figli, esclusione
dalla politica). Profetessa? Lo schema biblico viene utilizzato a partire dal XV secolo dai contemporanei di Giovanna. Essi la
trasformano allora in pastorella per i bisogni della propria lettura — essendo un vero profeta per natura un pastore al quale
Dio ha affidato la missione di parlare a
Ingrid Bergman in
«Giovanna d’Arco»
di Victor Fleming (1948)
Docente presso
l’università di
Lorena, Sylvie
Barnay è autrice di
diverse monografie.
Tra le altre,
ricordiamo Le Ciel
sur la Terre. Les
apparitions de la
Vierge au Moyen Âge
(Paris, Cerf, 1999;
tradotto in italiano
da Marietti,
Specchio del cielo. Le
apparizioni della
Vergine nel
Medioevo), La
Vierge, femme au
visage divin (Paris,
Gallimard,
«Découvertes»,
2000), Les saints,
des êtres de chair et
de ciel (Paris,
Gallimard,
«Découvertes»,
2004) e La parole
habitée. Les grandes
voix du prophétisme,
(Paris, Points
Sagesse, 2012).
suo nome — oppure l’assimilano a un falso
profeta per farla salire sul rogo... Ma i documenti storici rivelano che l’unico appellativo che le voci divine danno a Giovanna d’Arco è quello di «figlia di Dio».
La novità del XV secolo sembra essere
proprio il fatto che un simile appellativo
identifica una donna con Cristo. La storica Colette Beaune ha mostrato in particolare che è questo appellativo in definitiva
a causare la sua caduta, proprio come nei
Vangeli è il nome di «figlio di Dio» a
condurre Gesù sulla Croce.