Osservatore Romano - Federazione Acli Internazionali
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Osservatore Romano - Federazione Acli Internazionali
donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2012 numero 1 LA VISITAZIONE Una nuova proposta Due donne incinte che si incontrano e si abbracciano. Sono da sempre il simbolo dell’aiuto reciproco fra donne nel momento topico femminile, il parto. Ma anche di un momento fondamentale nella storia dell’Incarnazione: è una donna, Elisabetta, la prima a riconoscere in Maria la madre del Messia. E a insegnarci le parole con cui rivolgerci a lei. Per questo l’immagine della Visitazione da secoli è l’icona del rapporto fra donne nella cultura cristiana: aiuto e riconoscimento reciproco sono il messaggio che ancora oggi ci suggerisce. Le raffigurazioni di questo incontro sono innumerevoli, e bellissime: abbiamo voluto però che fosse un’artista di oggi, Isabella Ducrot, a raffigurarla per noi. «L’Osservatore Romano» esce da questo mese arricchito da un inserto dedicato alle donne: donne di tutto il mondo, con particolare attenzione al loro rapporto con la Chiesa. Un foglio mensile che informa sulla vita e la condizione femminile, senza tralasciare i temi più “caldi”, come tutto ciò che è connesso con la procreazione, l’accesso alla cultura e l’emancipazione. Ci sono tante notizie interessanti, in genere trascurate dagli organi di informazione e che invece dovrebbero essere diffuse, per fornire un livello più alto di consapevolezza sulla situazione femminile oggi. La prima pagina dell’inserto sarà dedicata alle donne che svolgono un ruolo importante nella Chiesa e non sono conosciute, o sono conosciute troppo poco. Il loro contributo, siano religiose o laiche, si sta facendo sempre più vasto e significativo — basti pensare che le religiose nel mondo sono oggi 740.000, a fronte di 460.000 religiosi e sacerdoti — ma è ancora nascosto. Renderlo noto, quindi, aiuterà anche a modificare pregiudizi e idee preconcette sulla Chiesa cattolica e sul suo atteggiamento verso le donne. In ogni inserto ci saranno uno spazio destinato alla spiritualità femminile, un’inchiesta su temi legati alle donne e alla vita religiosa, la segnalazione di un romanzo, di un saggio e di un film, anche se non sempre legati alla religione. Speriamo in questo modo di offrire un servizio utile, che ampli le informazioni e contribuisca ad approfondire la conoscenza sul ruolo delle donne nella Chiesa oggi e nel passato. Abbiamo scelto di cominciare nel mese di maggio per porre questa nuova iniziativa sotto il manto protettivo della Vergine. Sempre a Maria si riferisce la frase della Scrittura a cui ci siamo ispirate, che ricorre due volte nel vangelo di Luca (2, 19 e 51). E abbiamo preferito la traduzione “confrontava” al più usuale “meditava” perché nell’animo della Vergine si agitavano e si confrontavano situazioni ed eventi differenti, sempre in movimento, in una turbolenza che trovava la pace ma non la piatta acquiescenza. (l. s.) Mantenete rapporti fraterni con credenti di altre religioni in cui le donne spesso sono oppresse e prive di libertà: avete mai affrontato questo argomento con loro? Se la guida è femminile Intervista a Maria Voce, presidente del movimento dei Focolari di LUCETTA SCARAFFIA Ci tenevamo che il nuovo inserto dedicato alle donne dell’Osservatore Romano uscisse con una sua intervista: lei è l’unica donna alla testa di un movimento di così grande importanza. Questa singolarità le pesa nei contatti con le gerarchie ecclesiastiche? Non solo non mi pesa, ma è una peculiarità sempre più riconosciuta dal Papa, da cardinali e vescovi, secondo il suo significato originario espresso da Giovanni Paolo II: essere segno e garanzia di quel profilo mariano che dice primato dell’amore soprannaturale, della santità, coes- Solo nell’unità tra maschile e femminile si esprime il carisma nella sua autenticità È una dimensione di unità che ha radice in Gesù crocifisso senziale al profilo apostolico e petrino. Dimensioni che concorrono, ha detto Wojtyła, «a rendere presente il Mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo». Non così nel primo ventennio della nostra storia: era una tale novità! Dietro c’è un lungo iter non privo di sofferenza. Anche la sua successione a Chiara Lubich è stata diversa dalla prassi: nessuna designazione, ma voto democratico. Anche nelle decisioni il movimento sembra seguire questo metodo. Succedeva anche quando era in vita Chiara? La successione è avvenuta attraverso un’elezione, ma non si può dire che si sia seguito un iter democratico. Se ci fosse stato avremmo poi dovuto accettare un compromesso per comporre la polarizzazione, il che sarebbe stato in contrasto con il nostro carisma che chiede l’unità. Da quel momento abbiamo capito meglio il senso dell’eredità di Chiara: Gesù che si fa presente quando «due o più sono uniti nel mio nome». In quell’ora cruciale ne abbiamo sperimentato la forza che trasforma e la luce che è guida. Ci è richiesto quell’amore scambievole che non misura, anzi punta alla misura stessa di Gesù: dare la vita. A oggi non conosciamo altro modo nel prendere decisioni: ciò significa ascolto, condivisione di pesi, conquiste, esperienze, punti di vista, pronti a perdere tutto nell’altro. Soprattutto fedeltà allo sposalizio con Gesù crocifisso per trasformare dolori, dubbi, divisioni e ricomporre l’unità. Quando Cristo è presente risplendono i doni dello Spirito: pace, nuova forza, luce; risplende l’uguaglianza, senza vanificare il “dono dell’autorità”. Mi sembra che fra i movimenti voi siate i più restii alla pubblicità: «umiltà e reticenza, mai mettersi in mostra» diceva Chiara. Quindi le persone vi conoscono quando vengono in contatto con qualcuno di voi, attraverso un rapporto personale. Questa modestia vi rende però poco noti all’esterno: ha qualcosa a che fare con la guida femminile? festa della santa, abbiamo approfondito aspetti paralleli delle due spiritualità. Teresa d’Avila ha fatto luce per leggere, nel nuovo carisma donato alla Chiesa, una via autentica di santità, che ha come meta non solo edificare il “castello interiore”, ma anche il “castello esteriore”, al cui centro è la presenza di Gesù nella comunità. Siamo restii alla pubblicità, non alla comunicazione. Significativamente Chiara ha voluto che la grande parabolica per i collegamenti intercontinentali fosse sistemata nel suo giardino: era per lei il «monumento all’unità». È vero, c’è stato un lungo periodo di silenzio, quando il movimento era sotto studio da parte della Chiesa. Ma negli anni successivi non sono mancate grandi manifestazioni internazionali irradiate nel mondo dai satelliti, si sono moltiplicate riviste e siti web, è in funzione un ufficio stampa. Ciò che ci muove non è ricerca di notorietà, ma il detto evangelico che chiede di non tenere la lampada sotto il moggio, ma di metterla sul tavolo per far luce nella casa. «La nostra divisa è il sorriso» è una delle vostre massime ispiratrici. Il modello di riferimento, Chiara, sembra venga realizzato meglio dalle donne, che le sono tutte somiglianti non solo nello stile del vestito e nella pettinatura, ma nella luminosità affettuosa del volto. Per gli uomini sembra più difficile? Lo spirito focolarino risente della sua matrice femminile. Quali altre caratteristiche femminili si possono rintracciare nel vostro carisma? Il Focolare ha una matrice femminile perché è «opera di Maria». Maria, la più alta espressione dell’umanità redenta, modello del cristiano e della Chiesa tutta, come sancito dal Vaticano II. È lei che ha impresso a tutto il movimento il suo timbro: interiorità che lascia spazio a Dio e ai fratelli, fortezza, fede, Parola vissuta, canto di quel Magnificat che annuncia la più potente rivoluzione sociale, quella maternità possibile oggi nel generare ovunque la presenza misteriosa, ma reale, del Risorto che fa nuove tutte le cose. Nel movimento vi sono, come membri o simpatizzanti, esponenti delle gerarchie ecclesiastiche. Come risolvete il confronto fra autorevolezza della guida del movimento e autorità delle gerarchie che essi rappresentano? Nei rapporti con i vescovi non c’è mai stato conflitto d’autorità, ma scambio di doni: dal carisma dell’unità i vescovi attingono quella spiritualità così incoraggiata dai Papi per dare alla Chiesa il volto delineato dal Vaticano II, la Chiesa comunione. Nel carisma proprio delle gerarchie ecclesiastiche, riconosciamo l’evangelico «chi ascolta voi ascolta me». Oltre agli scritti della fondatrice, a cui ovviamente vi ispirate, che rapporto avete con le sante e con i testi che hanno scritto? Due esempi: Chiara ha assunto il nome della santa d’Assisi perché affascinata dalla sua radicalità evangelica. Per anni, nella Dal 7 luglio 2008 Maria Voce è il presidente del movimento dei Focolari, il cui nome ufficiale è Opera di Maria. A fondarlo fu Chiara Lubich nel 1943, con il fine di realizzare l’unità tra le persone voluta da Gesù. Nel 1962 Giovanni XXIII diede la prima approvazione al movimento, i cui statuti vennero approvati da Giovanni Paolo II nel 1990. In particolare, l’O pera di Maria ottenne dal Papa il raro privilegio di poter essere diretta sempre da una donna. Diffuso in tutti i continenti, il movimento conta oggi oltre due milioni di persone. La questione è molto complicata, perché radicata in culture millenarie. E non sempre valgono le nostre categorie occidentali. Più delle parole vale la vita. Significativo un episodio. A Fontem, nel cuore della foresta camerunense, ancora vige la poligamia. Una delle mogli del capo di un villaggio non aveva obbedito a un suo comando. La reazione è stata violenta e pubblica. Subito dopo l’uomo partecipa a un incontro dove si parla dell’evangelico «qualunque cosa avete fatto al minimo l’avete fatta a me». In contrasto con la tradizione, il capo raduna la famiglia allargata: di fronte a tutti si inginocchia davanti alla donna per porgerle le sue scuse. Un fatto eclatante che avrà grande eco fuori del villaggio incidendo nel cambiamento. Chiara le ha dato questo bellissimo nome, Emmaus. Il nome di un luogo, di un incontro. In che modo le sembra di realizzarlo? Emmaus è il nome di un luogo, di un incontro che coincide con il cuore del carisma: è mio compito specifico mantenerlo vivo. Mio primo impegno è cercare di vivere io per prima le esigenze dell’amore che lo rendono operante. È con sempre nuova meraviglia che tocco con mano una grazia che mi supera di gran lunga. La Chiesa in questi ultimi anni ha dovuto superare momenti di grande difficoltà. Crede Non è questione di difficoltà, ma di diche un ruolo e una presenza diversa delle versità: «uomo e donna li creò». Chiamati donne ne avrebbe facilitato il superamento? a essere dono l’uno per l’altro, perché si Difficile dirlo. Direi di guardare attui quella «pienezza dell’umano» possibile solo nella «complementarietà tra fem- all’oggi, quando una profonda crisi minilità e mascolinità». Il movimento stes- attraversa non solo la Chiesa, ma tutta so si può vedere come una palestra di questa unità: se È la Madonna che ha impresso il suo timbro la presidente è donna, pur avendo una specifica funa tutto il movimento zione per tutta l’Opera di con il Magnificat che annuncia Maria, ha a fianco un copresidente. Ogni altro lila più potente rivoluzione sociale vello di responsabilità è condiviso in piena parità. È solo nell’unità tra i due che si esprime il l’umanità. Se, come ripete il Papa, alla racarisma nella sua autenticità. È una di- dice della crisi vi è una crisi di fede, la mensione di unità che ha radice in Gesù donna, ovunque vive, ha la specifica vocacrocifisso e esige una misura di amore che zione di essere portatrice di Dio, di sa contenere le differenze senza annullarle. quell’amore soprannaturale che è il valore È ne è conseguenza anche quella luce che più grande ed efficace per rinnovare Chiesa e società. traspare sui volti. Vignetta di Cinzia Leone donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Invece l’ha scritto una donna Il romanzo La morte viene per l’arcivescovo «L’abbandono alla Provvidenza divina» è stato per anni attribuito al gesuita Jean-Pierre de Caussade di CRISTIANA D OBNER mantine Lucie Aurore Dupin pubblica i suoi romanzi ma, perché siano accettati, li firma George Sand; Mary Ann Evans diventa George Eliot. Currer Bell, Ellis Bell e Acton Bell non sono altro che gli pseudonimi maschili di Charlotte, Emily e Anne Brontë, costrette a usarli per stampare i loro romanzi. Solo dopo la morte di Maria Alfonsina Ghattas si scoprì che era lei la vera fondatrice, a Betlemme nel 1880, della Congregazione del Rosario, il cui fondatore era sempre stato considerato il cappellano della comunità. Ed è successo per tanti altri istituti religiosi femminili. Recentemente, lo storico francese Jacques Gagey ha rivelato che è accaduto anche per uno dei più famosi libri di spiritualità cattolica, L’abbandono alla Provvidenza divina, l’opera spirituale più importante del Settecento francese, redatta verso il 1740 e pubblicata nel 1861. Von Balthasar la considerava «il libro A Quando nella spiritualità appare un’innovazione ecco subentrare confessori o direttori spirituali che si sentono in dovere di appropriarsene cerniera che raccoglieva l’epopea mistica tutta intera», classico della spiritualità e libro dalla fisionomia unica che accompagna costantemente molte persone spirituali. Queste pagine così famose e continuamente riedite non sono quindi opera del gesuita Jean-Pierre de Caussade, ma di una donna. Gagey sa che, in quell’epoca, non aveva importanza l’attribuzione dell’autore. Oggi però far luce è un dovere di verità storica, specie quando tutti pensano che l’autore sia un uomo, e questo rende più difficile scoprire che invece è una donna. Si tratta di un’autobiografia spirituale, inscritta nella cultura spirituale del secolo come un testo coerente, opera di una sola mano: «Solo chi non conosce a sufficienza la letteratura mistica può mettere in dubbio che l’autrice sia una donna». Anche perché il nostro spesso parla al femminile: «Voi dovete tutto regolare; la santità, la perfezione, la salute, la direzione, la mortificazione è affare vostro; il mio, Signore, è di essere contenta di voi e di non appropriarmi di nessuna azione e di nessuna passione, ma di lasciare tutto al vostro buon piacimento». L’autrice è una donna della Lorraine, diretta da de Caussade di cui ancora si ignora il nome, ma certo di condizione sociale elevata e familiare con la Visitazione di Nancy. Chiamiamola Dama Abbandono, in mancanza di un nome preciso. Dapprima confidente e poi protettrice di de Caussade, ella eredita la grande tradizione mistica ma avverte anche, e fa sua, la filosofia dei Lumi, in accezione positiva. Proprio assumendosi la responsabilità di usare coraggiosamente il proprio intelletto e di non demandare passivamente la propria vita interiore a un libro o a un direttore spirituale, l’autrice rivela la sua scelta di libertà. Non indugiando su teorie o astrazioni, ma puntando direttamente, come già era accaduto con Teresa d’Avila, sul proprio concreto esperire. Quando nella spiritualità appare un’innovazione, ecco subentrare confessori o direttori spirituali che si sentono in dovere di appropriarsene, forse per farle percorrere un cammino più sicuro grazie alla loro superiorità intel- no, ed è aperto alla storia, agli eventi, all’accettazione di tutto quanto avviene, e di tutto quanto dobbiamo soffrire. Osserva che tutto si muove secondo un orientamento provvidenziale: «Il momento presente è dunque come un deserto, in cui l’anima semplice vede soltanto Dio, di cui essa gode, occupata soltanto da ciò che egli vuole da lei; tutto il resto è lasciato, dimenticato, abbandonato alla Provvidenza». lettuale e teologica. Essi considerano quindi la donna solo portatrice di un’intuizione che, per essere sviluppata e fatta conoscere, richiede l’autorità di un uomo e dei suoi strumenti intellettuali. A metà Ottocento, la visitandina Marie Cécile Fervel scoprì dei frammenti di lettere e si convinse che erano una corrispondenza spirituale della superiora del suo monastero, madre de Rottembourg. Compose con i vari pezzi una lettera, facendola passare per una lettera di de Caussade, e lo fece ancora con altri frammenti, traendo così in inganno il gesuita Ramière, per ottenere che questi scritti entrassero a far parte della preparazione spirituale delle monache. Ramière, riconoscendo il valore dei testi, diede loro forma di trattato in capitoli e vi appose anche il titolo, L’abbandono alla Provvidenza divina, pensato come il mezzo più facile di santificazione, opera postuma del padre de Caussade, gesuita. Le suore si concentrano su costui non per dedicarsi all’imbroglio, ma perché era abituale presentare un testo in modo da renderlo adatto a uno specifico ambiente. Le copiste modificavano, tagliavano e inserivano in piena libertà brani adatti alla vita di convento, si scambiavano le lettere e ne copiavano i passi più significativi, lasciando cadere il nome di chi scrive. Vera scienza è l’abbandono, che insegna la confidenza nella vita e nell’autore della vita. L’interiorità allora si dispiega nel canto di gioia della libertà spirituale, l’amore puro e l’annientamento della propria volontà, perché «l’azione divina inonda l’universo, penetra tutte le creature, le sommerge». Dama Abbandono non dice cose nuove, non è un’innovatrice, non si preoccupa delle ripetizioni, ma è ricca di spunti psicologici e soprattutto si ispira a un’esperienza vissuta. Il suo principio di divenire spirituale prende il nome di abbando- Fare luce è un dovere di verità storica Specie quando tutti pensano che l’autore sia un uomo L’autrice affronta il presente senza un metodo particolare, ma si concentra sulla postura profonda. Il focus è proprio sull’esperienza quotidiana, nella traumaticità continua dell’abbandono come sospensione all’amore: nella dolcezza traspare l’audacia. L’anima, nella responsabilità della propria libertà, pratica l’interiorità con la buona volontà positiva e la sua coscienza si armonizza. In tempi moderni e con altre conoscenze scientifiche, Jung definì questo processo di integrazione della coscienza «processo di individuazione». La Dama Abbandono ha avuto il merito di designare il principio del divenire spirituale con il suo proprio nome, “abbandono”. È bello finalmente sapere che questa esperienza fondamentale è stata scritta e vissuta da una donna. Sofonisba Anguissola «La Sorella dell’artista in abito religioso» (1551) Ninna nanna nel lager La diversità del femminile anche nello sterminio di ANNA FOA lle dieci del mattino della giornata che Israele dedica alla commemorazione della Shoah (Yom ha Shoah, quest’anno il 18 aprile), nel Paese suona per due minuti la sirena e tutti si fer- A Se uguale fu la volontà di uccidere diverso fu il modo in cui l’immane violenza venne percepita mano ad ascoltarla. La sera prima, in un piccolo teatro di Tel Aviv, ho assistito allo straordinario concerto «Una voce per la Shoah». Erano canzoni composte da donne, canti strazianti sulla lontananza dagli esseri amati, ninne nanne, voci di speranza e di dolore estremo. A cantarle, con la sua magni- fica voce di soprano, Charlette Shulamit Ottolenghi, nata in Italia e trasferitasi da tempo in Israele, che a questa produzione musicale ha già dedicato molta ricerca, esibendosi in tante occasioni (di recente in un concerto per la Giornata della memoria a Roma all’Università cattolica del Sacro Cuore). Gli studi sulla musica concentrazionaria hanno avuto un forte sviluppo negli ultimi decenni, riportando alla luce carte e spartiti obliati nel tempo, ricostruendo le poche registrazioni esistenti, facendo rivivere brani composti e suonati nell’orrore dei campi, in attesa del trasporto nelle camere a gas. In Italia, un’opera di grande rilievo è stata svolta dal maestro Francesco Lotoro e dall’Istituto di letteratura musicale concentrazionaria di Barletta da lui creato. È questo il materiale che Charlette Shulamit Ottolenghi ha utilizzato, accentuandone però, rispetto all’interpretazione datane da Lotoro, il carattere popolare. La cantante ha così scelto di essere accompagnata dalla fisarmonica, volendo rendere il carattere immediato di queste canzoni, legato alle emozioni quotidiane. Il risultato era di grande efficacia e la voce straordinaria di Ottolenghi trovava nell’accompagnamento folklorico uno struggente accostamento. La più nota tra le autrici di queste canzoni è Ilse Weber, ceca, morta a 41 anni ad Auschwitz dopo aver passato quasi due anni a Theresienstadt, la fortezza vicino Praga trasformata dai nazisti in qualcosa a metà fra un ghetto e un campo di transito, in cui furono lasciati sopravvivere per un po’ perfino i bambini e dove furono concentrati i musicisti ebrei dell’Europa centro-orientale, che vi composero e allestirono opere importanti. Quasi tutti quelli che passarono per Theresienstadt continuarono il viaggio verso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ilse Weber era scrittrice di racconti per bambini, poetessa e musicista. Quando il marito fu selezionato per Auschwitz, decise volontariamente di seguirlo, con il suo bimbo. Lei e il piccolo furono subito gassati, mentre il marito sopravvisse. A Theresienstadt, Ilse compose una sessantina di poemi, musicandone alcuni. Fra quelli scelti per il concerto, quasi tutti in tedesco (Rita Baldoni sta curando una traduzione italiana), c’era una tenera ninna nanna in cui si immaginava vagare per Theresienstadt desiderando invano la casa e la libertà. Di lei, che era già una scrittrice nota, sono rimaste molte immagini, tra cui una bellissima mentre suona un mandolino. Un’altra autrice è Camilla Mohaupt, di cui non abbiamo nessuna notizia e di cui è rimasto solo il testo Lì dove il male dell’anima congela il cuore, ritrovato ad Auschwitz. E poi Erika Taube, che nel 1942 a Theresienstadt compose un solo canto, Sei un bimbo come tanti altri, musicato dal marito Carlo. Era dedicato al loro bimbo, con loro a Theresienstadt e che con loro morì ad Auschwitz. E ancora, due canti in ceco di Ludmilla Peskarova, deportata a Ravensbruck e sopravvissuta. Se sia possibile o meno definire una diversità di genere nell’ambito di uno sterminio della portata della Shoah è ancora questione aperta per gli storici. Ma come nella memorialistica femminile (in cui avvertiamo un’attenzione al corpo quasi assente nella scrittura dei deportati uomini), così in questi canti si colgono forme ed emozioni molto femminili, legate alla quotidianità, parole di rassicurazione e accudimento rivolte ai bambini, fossero essi presenti (come a Theresienstadt), o solo sognati (come ad Auschwitz). Così, se lo sterminio fu uguale per tutti, se uguale fu la volontà di uccidere dei carnefici, il modo in cui tale immane violenza fu percepita da uomini e donne fu almeno in parte diverso. Ascoltare queste voci di dolore ma anche di speranza aiuta a comprenderlo. La penna di una donna protestante ha creato una delle figure di sacerdote cattolico più belle della letteratura. In La morte viene per l’arcivescovo, romanzo scritto nel 1927, la scrittrice statunitense Willa Cather rivela una sorprendente capacità di immedesimazione dando vita a Jean Marie Latour, giovane sacerdote francese inviato nel 1851 come vicario apostolico nel New Mexico dalla Chiesa di Roma, preoccupata per la recente annessione del territorio agli Stati Uniti. Costretto a scontrarsi contro i propri limiti, contro le tribù indiane perseguitate dai bianchi, tradizioni antiche, sacerdoti immorali e una natura percepita come nemica, predicando la buona novella Latour riesce a entrare in profonda sintonia con la “sua” gente. Un arricchimento reciproco che trasformerà trent’anni di evangelizzazione in un frutto prezioso. Romanzo avventuroso e avvincente di scoperta, fede, amicizia, scambio, dolore e crescita spirituale, il suo mistero splendente accresce man mano che la lettura procede, rivelando che una donna, laica, protestante e americana ha saputo rendere la profonda complessità di un sacerdote cattolico. Per di più francese. (giulia galeotti) di RITANNA ARMENI «“Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Ed essi lo deridevano. Ma egli (...) presa la mano della bambina, le disse: Talità kum, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare» (Marco, 5, 3942). nna è una contadina armena di famiglia poverissima. Un giorno incontra una donna che le sembra buona e affidabile e che le promette un lavoro come governante in una casa turca a seicento dollari al mese. Accetta ed è felice di poter finalmente risollevare la sua famiglia dalla povertà. Si ritrova costretta a fare per un anno la prostituta. Elena è una giovane donna albanese. Lei un lavoro ce l’ha, ma lo lascia per seguire il fidanzato in Gran Bretagna. Si sveglia in un appartamento sconosciuto, durante la notte è stata drogata, il suo corpo è diventato blu per le violenze subite. Da quel momento diventa una schiava. Vivian è thailandese, pensa di andare a lavorare in un centro massaggi ad Amsterdam ma chi la accoglie all’aeroporto le toglie soldi e passaporto e la costringe a stare in un bordello. Nadia è ucraina, anche lei ha bisogno di un lavoro e accetta l’invito di un amico di famiglia che le promette un’occupazione in Belgio. Si ritrova chiusa in un appartamento per quattro settimane costretta a soddisfare trenta clienti al giorno. Di storie come queste se ne potrebbero raccontare centinaia di migliaia anzi, stando ai dati, addirittura milioni, tutte diverse, ma anche tutte uguali. Donne povere, che devono pagare dei debiti, che vogliono un futuro, che si affidano o vengono affidate dalla famiglia ad altre donne o ad amici che le vendono come schiave. I giornali australiani hanno raccontato di un fiorente commercio di donne coreane vendute in Australia. Prezzo quindicimila dollari. E, malgrado il controllo delle autorità, il traffico risulta fiorentissimo fra la Corea del Nord e la Cina. La mancanza di donne in alcune regioni cinesi, conseguenza della politica del figlio unico, ha creato un vero è proprio business. Giovani costrette ad attraversare il confine, vendute e rapite, a disposizione di chi le vuole comperare. Il traffico ha una dimensione planetaria. Per fare un esempio di schiave ne arrivano da 14.000 a 17.000 all’anno solo negli Stati Uniti. E se anche i numeri spesso rimangono imprecisi comunque indicano un’enormità del fenomeno e una sua diffusione che attraversa gli oceani e invade l’intero pianeta. È di circa due milioni l’anno l’incremento del traffico degli “schiavi” del lavoro e del sesso. Questi ultimi sono circa 600.000. Secondo l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni), ci sono addirittura almeno tre milioni di esseri «reclutati o costretti a spostamenti attraverso l’inganno o la coercizione allo scopo di sfruttarne il corpo o parti di esso». L’ottanta per cento del mercato è costituito da donne. Sono loro le schiave del nuovo millennio e il fenomeno è in costante aumento, avvertono al Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. È un commercio fiorente che rende e che è arrivato a circa quaranta miliardi di dollari l’anno, un affare criminale inferiore solo a quelli della droga e delle armi. A partire da queste storie e da questi numeri è nata Talità Kum (“fanciulla, alzati”) la rete che collega nel mondo più di 4.000 suore presenti in 82 paesi. In Italia sono circa trecento le religiose che svolgono questo lavoro difficile e delicato: combattere la tratta e la schiavitù. Liberare le donne e restituirle al- A «Fanciulla, io ti dico alzati» Il saggio Inchiesta tra le suore che salvano le nuove schiave la propria vita. C’erano già alcune associazioni impegnate in questo difficile compito. Laiche e religiose. Ma ora proprio le religiose hanno creato questa rete per dare più forza e organizzazione a un lavoro che svolgono da anni. Talità Kum è stata proposta e approvata dal Congresso organizzato dall’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg, che riunisce le superiore di 1.900 congregazioni femminili) e dall’Oim (struttura intergovernativa cui aderiscono 125 Stati), tenuto a Roma qualche anno fa. Il suo nome ha un profondo significato simbolico. È l’invito che Gesù rivolge alla giovane figlia di Giairo che tutti credono morta e che, invece, ascoltando le sue parole, si alza e cammina. Le religiose «Nel mondo le più attive in questo ambito sono le congregazioni internazionali di religiose» dice il cardinale Vegliò di Talità Kum ripetono quell’invito alle ragazze rese schiave e costrette alla prostituzione in tutti i Paesi del mondo. Il loro lavoro è quasi impossibile. Perché, certo, il fenomeno è stato monitorato, esaminato e studiato. Ma poi tocca a loro andare avanti, agire concretamente, cercare le ragazze rese schiave. Ed è difficile individuarle perché hanno paura, è difficile avvicinarle, conquistare la loro fiducia, parlare, convincerle a superare il terrore dei loro aguzzini, garantire la loro incolumità. Ma lo fanno e il loro lavoro è oramai universalmente riconosciuto. In una intervista alla Radio vaticana il cardinale Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, dopo aver ricordato gli sforzi fatti dalle Chiese locali, le dichiarazioni, le lettere pastorali ha affermato: «Nel mondo le più attive in questo ambi- to sono le congregazioni internazionali di religiose». Suor Rita è un’orsolina e fa questo “lavoro" da 17 anni a Caserta, in un centro di accoglienza chiamato Casa Ruth. Il giorno dell’inizio lo ricorda perfettamente. Era l’8 marzo 1997. «Con due volontarie andai sulla strada dove sapevo c’erano queste ragazze per portare loro un fiore. No, non era una mimosa, era una piccola piantina di primule, un messaggio vitale, con il quale volevamo segnalare la nostra vicinanza. Hanno capito e ci hanno chiesto di incontrarci. Abbiamo visto i segni della tortura, i tagli sul loro corpo e la paura. Ne avevano tanta. Erano schiave. Come donna e come consacrata non ho potuto tirarmi indietro. Abbiamo fatto spazio nella nostra comunità e abbiamo accolto la prima ragazza. Si chiamava Vera, era polacca. Aveva sul corpo e sulla testa le ferite e i segni della violenza. Poi ne sono venute altre e la nostra struttura è diventata più grande. Oggi abbiamo tre appartamenti nel centro di Caserta». Suor Rita è orgogliosa di ciò che ha fatto. È stato difficile avvicinarsi a donne di cui non si conosceva la lingua, ragazze venute dall’Est Europa o dall’Africa a cui ripeteva insistentemente due parole: I sister, sperando che il messaggio fosse compreso. C’è riuscita in una lotta continua, con momenti di gioia e momenti di sconforto. «È stato duro soprattutto con le ragazze che vengono dall’Est europeo. Sono venute a riprendersele, ma loro sono scappate di nuovo e sono tornate da noi». Schiave. La religiosa usa continuamente questo termine. E può sembrare una parola antica, esagerata. Nel mondo moderno si parla di povertà, emarginazione, esclusione dai diritti. Per le donne si parla di prostituzione, di vendita coatta del proprio corpo. La schiavitù è persino inimmaginabile. Al Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti ci tengono molto a fare subito una distinzione. «Quando parliamo di tratta e di schiavitù per sfruttamento sessuale — precisa Francesca Donà, officiale del settore rifugiati del dicastero — non parliamo di prostituzione, ma di donne che sono state prostituite. Le donne di cui si occupano le religiose sono state sequestrate, violentate, assoggettate, minacciate». In poche parole mentre nella prostituzione può esserci qualche volta condivisione o complicità, a volte anche libera scelta, le religiose si trovano di fronte a donne costrette con la forza a vedere il proprio corpo. Padre Frans Thoolen, responsabile del settore rifugiati, parla di vere e proprie organizzazioni criminali e di varia natura. «Possono essere a livello micro o livello macro. Nel primo caso si tratta di criminali che agi- «L’8 marzo — racconta suor Rita — andai sulla strada per portare loro un fiore» scono singolarmente o in piccoli gruppi, nel secondo caso di grandi organizzazioni internazionali con emissari locali. Le donne vengono in genere prelevate con l’inganno dall’Africa, dall’Asia, dall’America latina e dirottate verso l’Europa o il nord America. Ma spesso il traffico è anche locale. Si svolge nello stesso Paese o fra Paesi vicini o fra città e città». Si è quindi ritornati alla vecchia schiavitù? Qualche anno fa, al congresso di Nairobi «Verso una migliore pastorale per i migranti e i rifugiati in Africa all’alba del terzo millennio», l’arcivescovo Novatus Rugambwa, già sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti, ora nunzio apostolico in Angola, ha precisato: «Chiamiamo oggi questo fenomeno moderna schiavitù, tuttavia c’è una differenza fra questa e l’antica forma di schiavitù. Quest’ultima era legata alla proprietà di un altro essere umano, la schiavitù moderna è legata allo sfruttamento e alla privazione totale del controllo di un essere umano sulla propria vita». Storia delle monache Inserendosi in un filone di ricerca prolifico ormai da decenni, il saggio di Silvia Evangelisti (il Mulino 2012) ha il merito di restituire al lettore l’enorme varietà dell’esperienza monastica femminile tra la seconda metà del Quattrocento e l’Ottocento. Questo insieme poliedrico di ordini, donne e vocazioni anima la storia di un preziosissimo spazio di libertà intellettuale, di conoscenza ed emancipazione in cui per secoli le religiose hanno saputo trovare ambiti per solito preclusi al loro sesso. Tra arte prodotta e commissionata, nuove fondazioni, querelle des femmes, strategie, spiritualità, politica ed educazione, sono specialmente interessanti le pagine in cui la docente di storia moderna all’università dell’East Anglia racconta le vicende delle religiose che dal convento non se ne volevano andare: la resistenza monastica alla Riforma, pagina poco nota ma significativa di una storia della Chiesa cui mancano ancora tasselli preziosi. (giulia galeotti) Il film Maternity Blues La tragedia è lì, in tutta la sua spietata e deflagrante portata. È lì con i suoi tanti protagonisti. Ci sono innanzitutto le madri assassine, quelle che si sono macchiate del delitto più atroce e inconcepibile, esse stesse (spesso) sgomente dinnanzi al vuoto che hanno creato e sul quale si affacciano inebetite. Dietro e intorno, le persone che in modi diversi — specie con l’immobilità ostinata di uno sguardo volto altrove — le hanno “aiutate” a rendersi artefici del gesto che le ha rinchiuse all’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove si svolge la pellicola di Fabrizio Cattani. Infine le vittime, i bimbi uccisi da chi li aveva portati per nove mesi, messi al mondo e, in molti casi, amati tantissimo. Quelle dei figli sono presenze che tornano costantemente nei racconti delle donne di Maternity Blues. Nei flash back (misurati, e mostruosi), ma soprattutto nell’evocazione quotidiana (“mi manca”) di madri così diverse, accomunate solo dall’atroce filo di una scelta terribilmente sbagliata. Il tono del film è scarno, livido: una scelta che fa risaltare ancor più i colori di un’infanzia che avremmo tutti, almeno un po’, potuto salvare. (giulia galeotti) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women SCHIAVE DEL CETO MEDIO INDIANO Uno dei volti del boom economico indiano riguarda ragazze minorenni assunte come domestiche e trattate come schiave dal ceto medio dei nuovi ricchi. L’esplosione della domanda di collaboratrici domestiche ha riversato sul mercato tantissime bambine, per lo più vendute dai familiari a rampanti agenzie di collocamento. Le minorenni hanno il grande merito di costare meno di un adulto (o di non costare affatto) e di essere più facili da sfruttare, soggiogare e murare vive, in violazione delle leggi contro il lavoro minorile. Senza riposo, percosse, umiliate, denutrite e controllate da telecamere a circuito chiuso: la stampa locale denuncia, ma il commercio resta florido. QUAND O LA LEGGE LEGITTIMA IL CRIMINE All’uscita di scuola, la sedicenne Amina Filali è stata violentata da Salek Mustafa a Larache, un paesino del Marocco. I genitori sono andati a sporgere denuncia, ma il giudice è riuscito a far accordare le famiglie sulla pelle di Amina, grazie all’articolo 475 del codice penale che dà allo stupratore la possibilità di evitare il processo laddove sposi la vittima minorenne. Obbligata alle nozze con il suo stupratore, che ha continuato a esercitare su di lei violenze fisiche e morali, Amina si è uccisa ingerendo veleno per topi. Il suicidio della ragazza (ultimo di una lunga serie) ha fatto esplodere le proteste in Marocco e, grazie alla Rete, in tutto il mondo. Una norma misogina, retriva e incostituzionale: l’articolo 475, infatti, viola i principi della nuova Costituzione marocchina approvata nel 2010 (e le norme del codice di famiglia del 2004). Molti altri Paesi hanno conosciuto questo orrore: l’Italia, per esempio, dove solo nel 1981 (dopo il no coraggioso di Franca Viola) è stato abrogato l’articolo 544 del codice penale che prevedeva il matrimonio riparatore a seguito di stupro, in violazione della Costituzione repubblicana del 1948. «IL GIORNO IN CUI DIO L’HA VOLUTA FEMMINA E NON MASCHIO» «Il genio femminile è una ricchezza per la società e anche per la Chiesa, ma molto spesso si ha paura del diverso; ciò che è diverso rappresenta per molti non tanto una ricchezza ma una minaccia», sostiene suor Viviana Ballarin, presidente dell’Usmi, da cui dipendono tutti gli ordini religiosi femminili italiani, per un totale di oltre settantamila suore. «Allora si affidano alle donne, anche plurititolate, servizi e ruoli secondari ed esecutivi», continua suor Viviana, notando come in molti organismi ecclesiastici tante donne svolgano mansioni non adeguate ai loro studi e preparazione. «È ancora piuttosto raro che vengano affidati nella Chiesa alle donne ruoli a più ampio respiro, intendo dire di responsabilità, di decisionalità. È abbastanza raro che possano sedere ai tavoli dove si pensa o si programma. Quando nelle culture, nelle società e anche nella Chiesa non viene rispettato il progetto creazionale si cade o nel maschilismo o nel femminismo o altro. Gli ismi dicono sempre qualcosa di negativo». Il problema è di un influsso culturale che «condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo. Gesù, infatti, nella vita terrena ha dato esempi meravigliosi di rottura con leggi molto sfavorevoli nei confronti delle donne». A Franca Giansoldati («Il Messaggero») che le chiede se vorrebbe il sacerdozio femminile, risponde no: «Come donna mi sento pienamente realizzata sia nella mia identità che nella mia missione. Ciò che conta veramente per ogni donna è vivere quella diaconia e quel sacerdozio che sono stati impressi nella sua carne come fuoco il giorno in cui Dio l’ha voluta femmina e non maschio». IL CRIMINE DELLE STERILIZZAZIONI FORZATE Decine di migliaia di donne ignare sterilizzate in Uzbekistan: lo ha rivelato la Bbc che ha intervistato ginecologi e donne sottoposte a interventi di isterectomia. Ad alcuni medici il programma di limitazione delle nascite è arrivato a imporre fino a otto sterilizzazioni a settimana. Tra le modalità di intervento, l’asportazione dell’utero subito dopo un cesareo, con cui vengono eseguiti l’80 per cento dei parti nel Paese. Dopo la denuncia dell’Onu (2007), le isterectomie forzate sono cessate solo in apparenza: i medici uzbeki, infatti, sono stati invitati a continuare, presentando alle donne (specie se povere e illetterate) l’intervento come via per salvare loro la salute e la vita. Notizie di sterilizzazioni forzate giungono anche dall’India, con la novità, come ha rivelato «The Observer», che i finanziamenti (200 milioni di euro) sono arrivati dall’estero. Molte persone, specie donne, sono morte in seguito alle operazioni. È ormai da tempo che si denuncia il ricorso massiccio alla sterilizzazione come via per controllare le nascite nel continente indiano. Forzate, inconsapevoli, estorte o indotte: la varietà nell’offerta passa anche per lotterie in cui si vince un frigorifero in cambio della sterilizzazione. BIMBI IN TRIBUNALE Il Soroptimist International d’Italia ha avviato un progetto nazionale per la realizzazione nei tribunali penali di aule di audizione protette per i minori vittime di reati. Arredate in modo accogliente e familiare, sono dotate di apparecchiature di videoregistrazione che consentono di ascoltare il minore nell’ambito del processo. A oggi sono state realizzate a Livorno, Pesaro, Macerata e Catanzaro. A breve ne verranno inaugurate a Torino, Taranto, Reggio Emilia, Firenze e Venezia. Sono in programma altre aule in altre città italiane. «NONNE DA MARCIAPIEDE» A ROMA Settant’anni, vedova, nonna e pensionata (insegnava chimica), Patrizia Mariani ha ora una nuova occupazione. Oltre a prepararsi per le qualificazioni di nuoto alle olimpiadi della terza età, infatti, da quando è iniziata la L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2012 numero 1 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va crisi Patrizia si è messa studiare economia. Oggi è alla guida del movimento Nonne da marciapiede, che protesta contro un mondo di «uomini incompetenti e corrotti che minacciano i nostri focolari, i nostri figli e le nostre pensioni». Da marciapiede per due motivi: perché queste Nonne non bloccano le strade, e perché vogliono ricordare, con garbo, che la politica è scesa ben sotto il livello del marciapiede. L’appuntamento è per il 31 maggio: alle 10, si ritroveranno in via Nazionale a dare il benvenuto alle massime autorità riunitesi per l’assemblea annuale di Bankitalia. Le Nonne hanno chiesto un gesto dimostrativo ai negozianti: abbassare le saracinesche per mezz’ora, esattamente come si faceva una volta al passaggio di un feretro per le strade cittadine. LA NORVEGIA È UN PAESE PER MADRI Il Niger è il posto peggiore al mondo per essere madri, la Norvegia il migliore: lo dice il tredicesimo rapporto sullo stato delle madri nel mondo presentato da Save the Children. E se l’Afghanistan abbandona l’ultimo posto dello scorso anno, l’Italia è ferma al ventunesimo. La classifica comprende 165 Paesi e considera fattori come salute, istruzione, stato economico e sociale delle madri, nonché indicatori sulla condizione infantile. La distanza abissale che separa madri e figli dei Paesi in classifica rispecchia le enormi disparità esistenti nel Pianeta. In Norvegia una donna riceve in media 18 anni di istruzione contro i 4 del Niger, dove le donne in Parlamento sono il 14 per cento versus il 40 per cento delle norvegesi. Il totale delle nascite in Norvegia avviene con personale specializzato, presente solo in 1 caso su 3 in Niger, dove una madre su 16 muore per cause legate a gravidanza o parto, rischio che in Norvegia è di 1 su 7.600. SE È LA PRINCIPESSA A SALVARE IL PRINCIPE Hanno impiegato oltre centocinquant’anni per essere conosciute, le anti-favole di Grimm. Lo storico Frank Xaver von Schönwerth, contemporaneo dei celebri fratelli, trascrisse oltre cinquecento favole folcloristiche che, sebbene parzialmente pubblicate in tre volumi tra il 1857 e il 1859, finirono però dimenticate. La loro colpa? Offrire storie politicamente scorrette, versioni rivoluzionarie della celebre Cenerentola, popolate di bambine sveglie, argute e coraggiosissime, e di principi imprigionati e vulnerabili salvati da un bacio di ragazza. Ritrovate da Erika Eichenseer nel 2008 in un archivio di Regensburg, un primo volume è uscito in Germania e ora è la volta della versione inglese. L’auspicio è un effetto onda in altre lingue. Per ascoltare, finalmente, un’altra favola. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Giovanna d’Arco, figlia di Dio La santa del mese raccontata da Sylvie Barnay ontemporanea della nascita della Nazione francese nel XV secolo, Giovanna ne è innanzitutto il paradigma, riattivato nelle mentalità collettive del XIX e del XX secolo, dopo secoli di quasi totale oblio. Questo ritorno è legato soprattutto al posto dato al Medioevo all’inizio della Terza Repubblica, per legittimare le lotte politiche e religiose. A partire dal 1870, la vita di Giovanna diviene allora il riflesso di questo gioco politico, dopo che il movimento romantico aveva fatto di lei una delle sue figure mitiche, che sanno incarnare l’anima del popolo. I cattolici salutano così in Giovanna «la primogenita della Chiesa», promotrice delle «grandi imprese di Dio per mezzo dei Franchi», le Gesta Dei per Francos, mentre i nazionalisti fanno di Giovanna d’Arco la figlia del popolo, diffondendo una leggenda — dovuta a Michelet nel 1841 — che la fa diventare sorella della Marianne rivoluzionaria. Il destino di Giovanna è ormai legato a queste due visioni della storia, sostituite subito da un terzo archetipo all’indomani della prima guerra mondiale: «la santa della patria». L’espressione forgiata anch’essa da Michelet — «Sì, secondo la Religione, secondo la Patria, Giovanna d’Arco fu una santa» — costituisce una mescolanza tra l’eredità cattolica e una forma di messianismo nazionale sostenuto dalla nuova destra. L’anno 1920 vede così il Parlamento francese dedicare l’8 maggio al ricordo nazionale dell’eroina, mentre Roma la canonizza dopo averla proclamata venerabile nel 1894 e beata nel 1909. La pastorella ispirata sta fianco a fianco con la guerriera intrepida nelle chiese come nei monumenti ai caduti dei paesi francesi. Il movimento nazionalista francese costruisce però un legame fra «Viva Giovanna d’Arco» e «Abbasso gli ebrei» e la santa della patria non esce più dal girone della destra nazionalista, al di là delle feste ufficiali. Da parte sua, la Chiesa cerca di difenderla da questi tentativi di appropriazione: nella vulgata clericale è indubbiamente la figura di santa Giovanna la pastorella a prevalere! Giovanna, strumentalizzata dall’ideologia dello Stato francese di Vichy e dai sostenitori più estremisti del collaborazionismo che l’erigono a buona contadina della Francia, viene successivamente invocata anche dalla Resistenza e la Francia libera. Dei tre modelli forgiati a cavallo tra il XIX e il XX secolo, è l’archetipo nazionalista a rimanere vivo, nei decenni della guerra d’Indocina, della guerra d’Algeria e C Artemisia Gentileschi e Maria Una Madonna diversa di ISABELLA DUCROT a mostra di Artemisia Gentileschi, aperta fino a luglio a Parigi, suscita riflessioni di tipo psicologico. Male, perché è una tentazione a cui si dovrebbe resistere, per la ragione che la popolarità di Artemisia è stata per molto tempo alimentata dalle vicende della sua vita e molto meno per il suo eccezionale valore di artista. Bisognerebbe lasciarsi andare e guardare, guardare i quadri — una cinquantina — godere delle belle forme, contemplare i colori, notare le imprudenze delle composizioni, senza risalire alle vicende vissute dalla pittrice. Eppure la innegabile prevalenza di scene in cui protagoniste trionfanti sono Giuditta, Giaele, Susanna, Lucrezia, Cleopatra, Ester, nude o vestite di splendidi damaschi e sete preziose che si difendono, si vendicano, si suicidano, non può non riportare il visitatore compulsivamente alla storia personale della donna che queste immagini ha scelto, composto e rappresentato e mediante le quali sembra voler proclamare: «Siamo anche questo!». Artemisia ignorò fin dall’inizio l’eredità che relegava le donne alla raffigurazione di temi gentili e affrontò modi e soggetti fino ad allora di competenza solo maschile. Quando, nel lontano 1916, la voce autorevole del critico e storico dell’arte Roberto Longhi propose all’attenzione degli studiosi la qualità pittorica delle opere di Artemisia, non mancò allo stesso tempo di esprimere orrore per la violenza delle scene bibliche; di fronte alle immagini di belle donne sontuosamente vestite che scannano o hanno appena scannato un uomo si poneva delle perplesse domande sull’eventuale nesso fra il soggetto rappresentato e la donna che lo aveva dipinto. La sua idea del femminile era scossa: «Chi penserebbe (...) che dovesse avvenire un macello così brutale ed efferrato da parer dipinto per mano del boia Lang?» scrisse, e aggiungeva: «Ma, vien la voglia di dire, ma questa donna è terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?». Così che, di fronte al quadro proveniente dal Palazzo Spada a Roma, una delle sue rare rappresentazioni della Madonna col Bambino, la sua interpretazione della maternità è decisamente eccentrica: la Madre appare semiaddormentata e poco sollecita verso il suo grosso Bambino, che sembra voler attirare come può la sua attenzione. Si arriva così a pensare che il più diffuso e popolare simbolo occidentale della femminilità, quello della Madre di Dio, è stato prodotto e articolato dal pensiero e dalla immaginazione maschile. Padri della Chiesa, filosofi e teologi hanno collaborato nel definire l’icona cristiana della maternità, fissata nell’immagine dolcissima della Madre con il Bambino. Questo lungo processo concettuale e pittorico sembra essere sorto nel modo più prossimo e vivo da un desiderio profondo, antichissimo della psicologia maschile. La rappresentazione cristiana del dialogo amoroso della Madre con il Figlio, la relazione carnale del nutrimento, la vicinanza intenerita potrebbero essere espressione del ricordo di una primordiale condizione felice, in cui sono assenti la lotta per la sopravvivenza, le battaglie per il cibo. La Madre nutrice cristiana offre il riscatto all’umanità da quando, secondo la Genesi, il Signore inflisse ad Adamo la sua condanna («con il sudore del tuo volto mangerai il pane»). Sono stati uomini cristiani a rappresentare nei secoli e in migliaia di immagini il tenero rapporto della Madre con il Figlio, compimento del sogno di essere nutriti naturalmente e senza meriti, in dolce relazione carnale con l’alimento materno e di sperimentare la vicinanza affettuosa con il suo Corpo. Trionfo del femminile, che comporterà in sé tutti i caratteri delle virtù antiche e cristiane: la dedizione, la pietà, la pazienza, la cura, la fedeltà. L La giovane vergine vestita da uomo non cessa di incuriosire Perché si libera del destino abitualmente riservato alle donne del rinascente nazionalismo degli anni Ottanta dello scorso secolo. Paradigma della nazione francese, la Giovanna del XV secolo è in realtà prima di tutto una figlia di contadini agiati della marca della Lorena che va a trovare il delfino Carlo nella primavera del 1429, mentre imperversa la guerra civile che oppone quest’ultimo agli invasori inglesi e ai loro alleati borgognoni. Dio, dice Giovanna, l’invia per liberare Orléans, far incoronare il principe e “buttare” fuori gli inglesi dalla Francia. Aiuto inatteso che l’entourage reale decide di accettare, affidandole le truppe che l’8 maggio liberano Orléans. La campagna della Loira è poi segnata da una serie di vittorie che rendono possibile l’incoronazione a Reims il 16 luglio. La giovane donna viene però catturata davanti Compiègne alla fine di maggio 1430 e consegnata agli inglesi. Comincia allora un lungo processo d’inquisizione che la conduce al rogo il 31 maggio 1431 per eresia. Questo primo processo viene seguito da un secondo processo di nullità che si conclude nel 1456, che deve provare che il cristianissimo re, che si reinsedia a Rouen, non ha ricevuto l’aiuto di un’eretica. Giovanna non è solo una vicenda biografica: ha dato luogo a un senso aperto capace di produrre innumerevoli versioni. Tra il XV e il XX secolo, ognuna delle versioni immaginate si è impadronita di questa vita per svilupparla o modificarla a proprio vantaggio. Pulzella? La giovane vergine vestita da uomo non cessa di incuriosire perché si libera del destino abitualmente riservato alle donne (matrimonio, figli, esclusione dalla politica). Profetessa? Lo schema biblico viene utilizzato a partire dal XV secolo dai contemporanei di Giovanna. Essi la trasformano allora in pastorella per i bisogni della propria lettura — essendo un vero profeta per natura un pastore al quale Dio ha affidato la missione di parlare a Ingrid Bergman in «Giovanna d’Arco» di Victor Fleming (1948) Docente presso l’università di Lorena, Sylvie Barnay è autrice di diverse monografie. Tra le altre, ricordiamo Le Ciel sur la Terre. Les apparitions de la Vierge au Moyen Âge (Paris, Cerf, 1999; tradotto in italiano da Marietti, Specchio del cielo. Le apparizioni della Vergine nel Medioevo), La Vierge, femme au visage divin (Paris, Gallimard, «Découvertes», 2000), Les saints, des êtres de chair et de ciel (Paris, Gallimard, «Découvertes», 2004) e La parole habitée. Les grandes voix du prophétisme, (Paris, Points Sagesse, 2012). suo nome — oppure l’assimilano a un falso profeta per farla salire sul rogo... Ma i documenti storici rivelano che l’unico appellativo che le voci divine danno a Giovanna d’Arco è quello di «figlia di Dio». La novità del XV secolo sembra essere proprio il fatto che un simile appellativo identifica una donna con Cristo. La storica Colette Beaune ha mostrato in particolare che è questo appellativo in definitiva a causare la sua caduta, proprio come nei Vangeli è il nome di «figlio di Dio» a condurre Gesù sulla Croce.