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CINERGIE 10
il cinema e le altre arti
RECENSIONI 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La recita del diavolo. Liberami di Federica Di Giacomo
Siamo in chiesa ma l’atmosfera non è molto spirituale.
C’è gente che litiga per la lista d’attesa – chi è arrivato
prima, chi da lontano, chi tenta di saltare la coda. Inizia
così Liberami, il documentario di Federica Di Giacomo
premiato come miglior film della sezione Orizzonti alla
73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia. La confusione organizzativa che spodesta il
senso del sacro nasce dalla presenza, in quella chiesa
palermitana, di un efficace esorcista, padre Cataldo.
Il suo alto compito entra in conflitto con le piccole
miserie dell’organizzazione umana. Missione divina
e regola sociale cozzano e si ingarbugliano. Liberami
è un film che per necessità di contenuto costringe a
scomodare i grandi temi – il bene contro il male, Dio
contro Satana – facendone una questione di vita o di
morte. Se questa è la premessa, possiamo pensare che
lo scomposto vociare di fedeli all’inizio del film metta a
nudo l’incapacità dell’uomo di progettare collettivamente
e consapevolmente un futuro, ovvero annunci quella che
Ernesto De Martino chiama la “catastrofe del mondano”.
Oltre al prete esorcista, almeno quanto lui, ad essere
protagonisti della non-fiction sono i diversi posseduti, cui viene data la parola sin dal titolo: Liberami è
un’invocazione imperativa che vuole legare prima e seconda persona intimando un rapporto diretto tra
l’io e il tu: l’indemoniato desidera che il prete penetri nel suo intimo per liberarlo da una presenza esterna,
che non appartiene al soggetto e lo deprime. La si può chiamare in tanti modi, “diavolo”, “Satana”,
“maligno”, “Belzebù”... Nel film intorno a questo oggetto avvengono una serie di manifestazioni che
si collocano sul piano della recita. Sono almeno tre, infatti, i livelli di recitazione con cui ci dobbiamo
confrontare.
Il primo livello ha a che fare con la recitazione per se stessi: tutte le persone sottoposte a esorcismo
recitano (nella maggior parte dei casi inconsciamente) la parte del posseduto. Recitando, vogliono
convincere se stesse di essere indemoniate, per poter attribuire il malessere che (letteralmente) le
squassa a un fattore alloctono, il maligno. “O è Satana o è malattia mentale”, afferma una posseduta.
Dovendo scegliere, per molti è più consolante il primo. In una sequenza significativa si vede un ragazzo
fare da interprete tra il diavolo e il prete nel corso di un esorcismo. “È un affare tra me e te”, grida roco
e aggressivo Satana al sacerdote. Ma padre Cataldo non capisce, gli chiede: “Cosa?”. Il fedele ripete
allora con voce soave: “Dice che è un affare tra me e te”, rivelando con un lampo meta-linguistico la
presa di distanza dell’“attore” dal “personaggio”.
Una vena comica, che per questo film più che mai si può definire tragicomica, accompagna tutta la nonfiction come un basso continuo. Il ridicolo, volontario o meno, si manifesta senza coperture quando un
indemoniato cade a corpo morto addosso a un altro sugli scalini dell’altare, creando nel fedele colpito
un momento di risveglio dalla recita e di ricerca di conforto nell’occhio della videocamera e degli astanti;
oppure quando padre Cataldo urla contro il diavolo nel corso di un esorcismo telefonico per poi passare
senza soluzione di continuità agli auguri di Natale.
Il secondo livello di recitazione ha a che fare con la recita per un’audience – il pubblico dei familiari, dei
Cinergie, il cinema e le altre arti
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Cinergie uscita n°10 novembre 2016 | ISSN 2280-9481
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RECENSIONI
prelati, degli altri fedeli presenti alla messa. Si recita per farsi notare, perché qualcuno si prenda cura
di te. Come afferma un sacerdote che affianca padre Cataldo, “uno si impersonifica nel personaggio”.
In mancanza del demonio, gli esorcizzati “perderebbero tutta quella attenzione”. La chiesa è un teatro,
l’altare un palco e i banchi della chiesa una platea. Le recite non sono però sempre all’altezza della
reputazione del demonio, al punto che un sacerdote arriva a prenderlo in giro, quando un’esorcizzata
vorrebbe ruggire ma è capace di produrre solo – dice il prete – un innocuo e patetico miagolio “da
gattino”.
Il terzo livello di recitazione è quello, più abituale, rivolto alla videocamera e a chi la manovra. Quando
stiamo di fronte a una videocamera siamo tutti attori e un indemoniato, cui certo non manca la tendenza
all’esibizionismo, lo è ancora di più. Vi è ad esempio un ragazzo il cui look flirta col satanismo che
trova solo una collocazione decentrata nelle cerimonie di padre Cataldo. Si definisce non credente
ma al contempo posseduto. Lo si vede nel film mentre si droga per strada con un amico. È una figura
marginalizzata e marginale anche all’interno della narrazione, ma fondamentale per ragionare sui temi
della maschera e della facciata così come li racconta il sociologo Erving Goffman. Quel ragazzo vuole
essere considerato un posseduto e vorrebbe essere sottoposto a esorcismo anche se dichiara di non
credere nella mediazione divina del sacerdote. La recita sui tre livelli – per se stesso, per i genitori (che
l’hanno ripudiato) e per la videocamera – è da manuale. Il giudizio che il ragazzo vuole indurre su se
stesso è quello di vittima, della famiglia, della società e persino del demonio. Ma la sua interpretazione
attoriale entra in conflitto con tale intenzione – dà sfogo alla sua violenza mentre parla al telefono con
la fidanzata, ci tiene a mostrarsi mentre si droga... –, rivelando un livello di realtà restituito solo dalla
finzione. Soltanto quando recita per la videocamera (non per se stesso né per chi lo circonda) il ragazzo
dimostra di voler cancellare l’illusione o l’auto-illusione che egli ha costruito.
La complessità del modello drammaturgico e il numero di componenti “finzionali” di cui si fa carico
questo film documentario lo rendono un oggetto teorico in grado di discutere la definizione di “cinema
del reale” mentre trascina lo spettatore nel racconto di una storia. Il valore teorico non cancella tuttavia
quello emotivo, e in particolare la considerazione in cui va tenuto padre Cataldo, che si dimostra, con i
suoi semplici “consigli di vita”, uno psicologo raffazzonato ma efficace. Come nella canzone dei Grateful
Dead, padre Cataldo sembra sussurrare “a friend of the devil is a friend of mine”: l’amicizia non è con il
diavolo ma con gli amici del diavolo, le persone che si sentono in contatto con esso. Quando gli portano
un ragazzino inquieto, che disobbedisce a scuola e sputa alla maestra, il sacerdote invita a cercare
le colpe in famiglia, nel comportamento dei genitori, non fuori e nemmeno dentro di lui. In un’altra
circostanza, ricca di elementi di comicità e assurdo, padre Cataldo è chiamato a benedire un’abitazione.
Non solo il sacerdote innaffia con abbondanti spruzzi d’acqua santa pareti e dipinti a olio, ma si permette
di criticare il lusso dell’appartamento, troppo decorato, ricco, borghese. Il diavolo non sta solo nei dettagli
ma anche negli eccessi e nell’ostentazione. La lotta di classe è uno degli strumenti possibili da mettere
in campo contro il demonio. La sensibilità di padre Cataldo nell’avvicinamento ai posseduti suscita certo
ammirazione, al di là del folklore o dell’esotismo cattolico. Viene persino da pensare che egli si debba
“fingere” esorcista per riuscire a parlare al cuore e alla mente di quelle persone – quasi un quarto livello
di recita che si somma agli altri tre per rendere il film ancora più ricco e complesso.
Alberto Brodesco
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Cinergie uscita n°10 novembre 2016 | ISSN 2280-9481