Tempus San Petronio, 27 settembre Dal Libro di Qohelet 1 Per ogni

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Tempus San Petronio, 27 settembre Dal Libro di Qohelet 1 Per ogni
Tempus
San Petronio, 27 settembre
Dal Libro di Qohelet
1 Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9 Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?
10 Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino
in essa. 11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione
dell'eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l'opera
compiuta da Dio dal principio alla fine. 12 Ho concluso che non c'è nulla di
meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; 13 ma che un uomo
mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio. 14 Riconosco che qualunque
cosa Dio fa è immutabile; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio
agisce così perché si abbia timore di lui. 15 Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già
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è; Dio ricerca ciò che è già passato.
16 Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto
della giustizia c'è l'empietà. 17 Ho pensato: Dio giudicherà il giusto e l'empio,
perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione.
Da Shakespeare, Sonetti: Devouring time
O famelico tempo, la zampa del leone corrodi
e fa’ che la terra divori la propria genitura;
i denti aguzzi strappa dalle mascelle delle tigri
e ardi la Fenice longeva e consumale il sangue;
fa’, mentre ti dilegui, le stagioni tristi o giulive
e tutto quello che vuoi, fa’, Tempo dal piè leggero,
al vasto universo e alle cose sue dolci che appassiscono;
ma un crimine molto più nero ti vieto: del mio amore
la bella fronte non incidere con le tue ore, o fugace,
né vi resti traccia di linee dalla tua penna antica;
lascialo illeso nel tuo correre implacabile, serba
il modello della bellezza agli uomini venturi.
Fa’ pure il peggio, vecchio Tempo: del tuo danno a dispetto,
giovane per sempre vivrà nei miei versi il mio amore.
Thomas S. Eliot, da La terra desolata (1922)
La sepoltura dei morti
Aprile è il mese più crudele: cresce
lillà da terra morta, riconfonde
memoria e desiderio, desta al sole
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radici addormentate con la pioggia
di primavera.
L’inverno ci serbò nel suo tepore,
velò la terra d’una neve immemore,
nutrì di tuberi seccati un poco
di vita. Ci sorprese
l’estate che giungeva
con un croscio di pioggia
dallo Starnbergersee: stemmo immobili
là sotto il colonnato: e proseguimmo
nella luce del sole, nel Hofgarten,
e bevemmo caffè,
parlammo per un’ora.
Bin gar kein Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
E quando noi eravamo
bambini, si abitava nella casa
dell’Arciduca – mio cugino – e lui
mi portò su una slitta. Ebbi paura.
Disse: «Marie, Marie,
reggiti!». E ci lanciammo
di sotto. Là, fra i monti, ci si sente
liberi.
Io leggo quasi tutta notte.
D’inverno vado a sud.
Quali radici hanno mai presa, quali
rami si sporgono in questa pietraia?
Figlio dell’uomo, tu non puoi ridirlo
né immaginarlo: tu conosci solo
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un cumulo d’immagini spezzate
dove sfavilla il sole,
dove l’albero morto non ripara
e il grillo non consola e non dà suono
d’acqua la pietra riarsa. Ombra soltanto
sotto la roccia rossa
(ma vieni all’ombra della roccia rossa
e altro ti mostrerò dalla tua ombra
che al mattino ti segue,
altro dalla tua ombra che alla sera
sorge per incontrarti:
ti mostrerò il terrore in questo pugno
di polvere).
Frisch weht der Wind
der Heimat zu
mein Irisch Kind
wo weilest du?
«Un anno fa tu per la prima volta
mi donasti giacinti. E gli altri allora
mi chiamarono “quella dei giacinti”.
Ma quando ritornammo – era già tardi –
dal parco dei giacinti – erano piene
le tue braccia, bagnati i tuoi capelli –
non riuscivo a parlare, avevo gli occhi
annebbiati, non ero
vivo né morto e non sapevo nulla
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mentre guardavo il cuore della luce
il silenzio
Oed’ und leer das Meer
M.me Sosostris, celebre indovina,
s’era buscata un accidenti: eppure
ella è nota per essere la donna
più sapiente d’Europa,
lei e il suo dannato mazzo di tarocchi.
Ecco qui la tua carta: il Marinaio
Fenicio, l’annegato – disse lei –
(e quelle perle furono i suoi occhi:
guardate!) – Ed ecco qui la Belladonna,
la Dama delle Pietre, la Signora
degli Eventi. Ecco l’uomo con tre aste,
ed ecco qui la Ruota, ecco il Mercante
monocolo, ecco – vedi – questa carta
bianca, è qualcosa che lui porta sopra
le spalle, e m’è vietato di vedere.
Ma non riesco a trovare
l’Impiccato! Sta’ in guardia dalla morte
per acqua: vedo bolge
di gente che cammina chiusa in cerchio.
È tutto, grazie. Se per caso vedi
quell’adorata signorina Equitone,
dille che di persona
le porterò l’oroscopo: di questi
tempi non si sa mai.
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Città irreale,
sotto la nebbia grigia
d’un mattino d’inverno: una gran tratta
di gente percorreva il London Bridge,
né io avrei mai creduto che n’avesse
morte tanta disfatta:
bisbigli brevi e rari si esalavano
e ciascuno avanzava gli occhi fissi
sui piedi. Camminavano sul colle
e giù lungo King William
Street, là dove segnala l’ora Saint
Mary Woolnoth, con cupo suono al tocco
delle nove. E là vidi un viso noto
e dissi: «Senti, Stetson,
tu che meco pugnasti sulle navi
a Milazzo, quel morto che hai piantato
in giardino da un anno, dimmi: ha dato
germogli? Fiorirà quest’anno? Oppure
la gelata ha distrutto la sua aiuola?
Oh, guàrdati dal Cane – il cane amico
dell’uomo – ché non abbia a riscoprirlo,
scavando a forza d’unghie, un’altra volta!
E tu, hypocrite lecteur!
– mon semblable, – mon frère!»
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