SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Licenziamento

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SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Licenziamento
SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
STRUTTURA TERRITORIALE DI FORMZIONE DECENTRATA DEL DISTRETTO DI MILANO
Palazzo di Giustizia di Milano
Aula Magna “Emilio Alessandrini e Guido Galli”
Licenziamento collettivo e diritto dell´Unione Europea
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Il controllo di legittimità sui licenziamenti collettivi
Vincenzo Di Cerbo
Presidente di Sezione della Corte di cassazione
Premessa
È stato correttamente osservato in sede di presentazione di questo incontro di studio che
le riforme del lavoro varate negli ultimi tre anni incidono profondamente sulla
regolamentazione del mercato del lavoro in Italia. Regolamentazione tesa ad introdurre
nel sistema forti dosi di flessibilità con il dichiarato obiettivo di attrarre investimenti
stranieri e a rendere non più convenienti le delocalizzazioni.
Ai fini di ottenere una maggiore flessibilità in uscita è stata profondamente modificata, in
particolare, la disciplina dei licenziamenti, sia individuali che collettivi.
L’incontro di oggi si propone di avviare una riflessione sullo stato dell´arte con
riferimento ai licenziamenti collettivi e l’occasione è data dalla recente pubblicazione, da
parte dell’editore Giuffrè, di un nuovo volume che riesamina la nuova disciplina dei
licenziamenti collettivi con particolare riguardo al quadro di riferimento europeo. Una
prospettiva di particolare rilievo in quanto consente di verificare o comunque di
esaminare sia pure in modo problematico la conformità della nuova disciplina dei
licenziamenti collettivi con i parametri europei che costituiscono non solo per il legislatore
ma per tutti coloro che si occupano dell'applicazione del diritto del lavoro in Italia un
necessario, o meglio indispensabile, punto di riferimento.
Come è noto, il licenziamento collettivo per riduzione di personale è disciplinato da una
normativa specifica (legge 23 luglio 1991 n. 223) che è stata emanata nel dichiarato
intento di dare attuazione alla Direttiva comunitaria n. 129 del 17 febbraio 1975, la quale
ha fissato le linee generali di una disciplina organica dell´istituto, al fine di promuovere il
riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri.
Nell'ambito dei licenziamenti intimati per esigenze obiettive dell'impresa, il licenziamento
collettivo costituisce un istituto autonomo, che si distingue radicalmente dal
licenziamento plurimo individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo
caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell'impresa (più di quindici
dipendenti, compresi i dirigenti), al numero dei licenziamenti (almeno cinque) e all'arco
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temporale (centoventi giorni) entro cui sono effettuati i licenziamenti (art. 24, comma 1,
legge n. 223 del 1991) ed è caratterizzato dal controllo preventivo, sindacale e pubblico,
dell'operazione imprenditoriale di ridimensionamento della struttura aziendale.
La disciplina del licenziamento collettivo ha subìto nel tempo alcune rilevanti
modificazioni fra le quali meritano di essere ricordate: l’estensione della disciplina del
licenziamento collettivo ai privati datori di lavoro non imprenditori (art. 1, d.lgs. 8 aprile
2004 n. 110) e l’estensione della disciplina dei licenziamenti collettivi anche ai soci
lavoratori di cooperative di produzione e lavoro (art. 8, comma 2, del d.l. 20 maggio
1993 n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993 n. 236).
Principi fissati dal diritto comunitario.
La citata Direttiva comunitaria n. 129 del 17 febbraio 1975, ha fissato le linee generali di
un'organica disciplina dell'istituto. In particolare, gli elementi che caratterizzano la
fattispecie erano costituiti: a) dalla irrilevanza di ogni considerazione attinente alla
persona del lavoratore; b) dal dato quantitativo. E’ infatti considerato licenziamento
collettivo ogni licenziamento determinato da motivi non concernenti la persona del
lavoratore alla sola condizione che il numero dei lavoratori licenziati in un arco di tempo
di trenta o di novanta giorni (in base all'opzione degli Stati membri) superi una soglia
minima determinata in relazione al numero complessivo dei lavoratori occupati
nell'impresa. In sostanza, in base alla citata Direttiva, una volta superata la soglia
numerica suddetta, soltanto i licenziamenti intimati per giusta causa o per giustificato
motivo, in quanto attinenti alla persona del lavoratore, potevano essere esclusi dal
novero dei licenziamenti collettivi. La disciplina comunitaria dei licenziamenti collettivi era
centrata su un meccanismo che prevedeva, da un lato, la consultazione dei sindacati e,
dall'altro, l'intervento dell'autorità pubblica. Era infatti previsto come obbligatorio lo
svolgimento di una procedura di consultazione con i rappresentanti dei lavoratori, alla
quale doveva far seguito l'intervento dell'autorità pubblica competente finalizzato a
cercare una soluzione ai problemi posti dai licenziamenti collettivi prospettati. Era inoltre
posto a carico dell'imprenditore un obbligo di informazione; egli doveva infatti fornire per
iscritto e preventivamente, sia ai rappresentanti dei lavoratori, sia all'autorità pubblica
competente, tutte le informazioni utili concernenti il progetto di licenziamento collettivo
e, in particolare, i motivi del licenziamento, il numero dei lavoratori coinvolti, il numero
dei lavoratori abitualmente occupati ed il periodo nel corso del quale i licenziamenti
devono essere effettuati. Il corretto svolgimento della consultazione sindacale, che
precede la procedura amministrativa, costituiva condizione di efficacia dei provvedimenti
di licenziamento collettivo.
La citata Direttiva ha subito alcune modificazioni nel 1992 (Direttiva CEE n. 92/56 del 24
giugno 1992). Successivamente è stata emanata la Direttiva 98/59/CE del Consiglio
dell'Unione Europea 20 luglio 1998 che, in sostanza, ripropone il testo della Direttiva
75/129/CEE coordinato con le modifiche ed integrazioni apportate dalla Direttiva
92/56/CEE. Ai sensi dell'art. 8 della Direttiva 98/59/CE le Direttive n. 75/ 129/CEE e n.
92/56/CEE sono state abrogate, fatti salvi gli obblighi degli Stati membri relativi ai
termini di attuazione delle suddette Direttive (rispettivamente il 19 febbraio 1977 per la
Direttiva n. 75/129 e il 24 giugno 1994 per la Direttiva n. 92/56).
Caratteri generali della disciplina di cui alla legge n. 223 del 1991.
In generale costituisce un principio costante affermato dalla giurisprudenza di legittimità
(cfr., ad esempio, Cass. 6 ottobre 2006 n. 21541 e, da ultimo, Cass. 5 maggio 2016 n.
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9061) quello secondo cui, in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale,
la legge n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata
procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto
un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo
giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo
dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto ex
ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e
consultazione. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non
riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di
quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la
correttezza procedurale dell'operazione (ivi compresa la sussistenza dell'imprescindibile
nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso),
con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle
censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai
citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle
organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra
i lavoratori, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di
“effettive'' esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva. In applicazione
di tali principi Cass. 26 agosto 2013 n. 19576 ha precisato che una volta che la procedura
si sia svolta nel rispetto degli adempimenti previsti dalla legge 23 luglio 1991 n. 223,
condotte datoriali quali l'assunzione di nuovi lavoratori o la richiesta di svolgimento di
lavoro straordinario, dopo il licenziamento, sono irrilevanti, risultando esse inidonee ad
incidere sulla validità del licenziamento stesso.
Nella generica definizione di licenziamento collettivo la legge individua due strumenti,
chiamati diversamente, ma disciplinati in maniera uniforme: i licenziamenti per riduzione
di personale, previsti dall'art. 24; il collocamento in mobilità, disciplinato dagli artt. 4 e 5.
Il primo dei suddetti istituti riguarda il licenziamento di una pluralità di lavoratori in
assenza di intervento della cassa integrazione guadagni; il secondo concerne invece
l'impresa, già ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, che, nel
corso di attuazione del relativo programma, ritenga di non essere in grado di garantire il
reimpiego a tutti i lavoratori e di non poter ricorrere a misure alternative (art. 4, comma
1). Entrambe le fattispecie prevedono l'attivazione di una procedura (di informazione e
consultazione in sede sindacale ed amministrativa) identica, nonché oneri equivalenti a
carico dell'impresa; inoltre entrambi gli istituti sono collegati con l'iscrizione nelle liste di
mobilità, la quale conferisce il diritto ad apposite prerogative occupazionali come pure ad
uno speciale trattamento previdenziale.
La principale conseguenza pratica derivante dall'accoglimento di questa impostazione è
data dal fatto che la normativa sui licenziamenti collettivi sarebbe applicabile anche nel
caso di insussistenza dei requisiti numerici di cui all'art. 24, in tutti i casi in cui i suddetti
licenziamenti fossero stati preceduti da un periodo di c.i.g.s. In tal senso cfr. Cass. 8
febbraio 2010 n. 2734 secondo cui, in tema di licenziamenti collettivi, l'art. 24 l. n. 223
del 1991 disciplina il licenziamento collettivo per riduzione di personale in modo diverso
dal licenziamento collettivo preceduto dalla mobilità (cd. licenziamento collettivo “post
mobilità'') previsto dall'art. 4 della medesima legge, richiamando solo alcune delle
disposizioni a quest'ultimo applicabili, con esclusione del requisito numerico previsto
dall'art. 4, comma 1, della l. n. 223 cit. (cinque licenziamenti in 120 giorni per ciascuna
unità produttiva). Né le disposizioni dell'art. 4 citato non richiamate espressamente
dall'art. 24 cit. possono essere applicate analogicamente, a causa del carattere
eccezionale della regolamentazione del licenziamento “post mobilità''.
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La legge 28 giugno 2012 n. 92 (c.d. legge Fornero) ha introdotto poi alcune innovazioni
concernenti il regime delle tutele avendo rimodulato, in particolare, le conseguenze
sanzionatorie ricollegate al recesso illegittimo.
Ed infatti, prima dell’entrata in vigore della legge Fornero si è distinto tra licenziamento
inefficace (nel caso di mancato rispetto della forma scritta o di violazione della procedure
di cui all’ art. 4, comma 12, della legge 23 luglio 1991 n. 223, nel testo all’epoca
vigente) e licenziamento annullabile (nel caso di mancato rispetto dei criteri di scelta di
cui all’art. 5, comma 3, della suddetta legge), anche se poi, a livello sanzionatorio,
l’effetto è stato sempre e comunque quello della reintegrazione del lavoratore coinvolto
nella procedura di mobilità o in quella di riduzione o trasformazione dell’attività dell’
impresa.
La legge n. 92 del 2012 (art. 1, comma 46) ha invece introdotto per i licenziamenti
collettivi una marcata diversificazione delle tecniche rimediali prevedendo per essi: a) in
caso di inosservanza della forma scritta – in analogia a quanto stabilito per il
licenziamento individuale - l’applicazione (ai sensi del primo comma dell’art. 18 Stat.
lav., come novellato) della tutela c.d. “forte” (art. 1, comma 46 che ha sostituito il
comma 3 dell´art. 5 della legge n. 223 del 1991) con conseguente reintegrazione nel
posto di lavoro e risarcimento del danno economico derivante dalla illegittimità del
licenziamento (pari all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del
licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione detratto aliunde perceptum) e con
l’attribuzione al lavoratore anche del diritto di optare per l’indennità sostitutiva della
reintegrazione; b) in caso di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12,
della l. n. 223 del 1991 - una tutela (attraverso un complicato rinvio al terzo periodo del
settimo comma dell’art. 18 Stat. lav. come novellato) meramente economica, ovvero
commisurata ad una indennità risarcitoria <determinata fra un minimo di dodici ed un
massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto>; c) ed infine
in caso di violazione dei criteri di scelta una tutela reintegratoria c.d. “attenuata” (ai
sensi del quarto comma del medesimo art. 18 Stat. lav.).
È stato correttamente osservato che la c.d. riforma Fornero è ispirata ad una concezione
della sicurezza del lavoratore costruita sull'assistenza di quest'ultimo nel mercato, nel
passaggio dal vecchio al nuovo posto di lavoro, piuttosto sulla tutela del suo legame con
l'azienda.
Il d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 (recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a
tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n.
183) all´art. 10, ha disposto che: a) in caso di licenziamento collettivo ai sensi degli artt.
4 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, intimato senza l'osservanza della forma
scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all'art. 2 dello stesso d.lgs. (e cioè
reintegrazione nel posto di lavoro e condanna al pagamento di un'indennità commisurata
all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto,
corrispondente al periodo compreso fra il giorno del licenziamento e quello dell'effettiva
reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo
svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non
potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione. Il datore di lavoro è
condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali); b) in caso di violazione delle procedure richiamate all'art. 4, comma 12,
o dei criteri di scelta di cui all'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il
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regime di cui all'art. 3, comma 1 (a norma del quale, il giudice dichiara estinto il rapporto
di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due
mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non
superiore a ventiquattro mensilità).
La giurisprudenza di legittimità non ha ancora avuto modo di pronunciarsi sulla riforma di
cui al d.lgs. n. 23 del 2015. Alcune pronunce riguardano invece l´applicazione della legge
Fornero. Va tuttavia rilevato che le citate riforme si sono concentrate essenzialmente
sugli aspetti sanzionatori connessi ai profili di illegittimità del licenziamento collettivo per
cui anche la giurisprudenza riferita alla legge nella sua originaria formulazione conserva
in pieno la sua validità.
Una prima osservazione deve essere a mio avviso fatta con riferimento alle palesi
difficoltà interpretative che il nuovo assetto normativo comporta. Posto che la legge
Fornero si applica (quanto al regime sanzionatorio) a tutti i licenziamenti intimati dopo la
sua entrata in vigore e che il d.lgs. n. 23 del 2015 si applica a tutti i licenziamenti
intimati ai lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente alla sua entrata in
vigore, quid iuris nel caso di licenziamento collettivo intimato dopo quest’ultima data e
che coinvolga lavoratori assunti prima e dopo il suddetto d.lgs.? Tale domanda riguarda
non solo il regime sanzionatoria ma anche e in primo luogo il regime processuale.
Ambito di applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi.
Il datore di lavoro.
A norma dell'art. 24, comma 1, della l. n. 223 del 1991 la disciplina sui licenziamenti
collettivi si applica alle imprese che occupino più di quindici dipendenti. A seguito
dell'entrata in vigore del d.lgs. 8 aprile 2004 n. 110 l'applicabilità della disciplina del
licenziamento collettivo è stata estesa ai privati datori di lavoro non imprenditori. Ciò in
attuazione dell'art. 20 della l. 3 febbraio 2003 n. 14 che ha delegato il governo ad
emanare un decreto legislativo per la completa attuazione della direttiva 98/59/CE del
Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri in materia di licenziamenti collettivi, apportando alla legge 23 luglio 1991 n. 223,
le modifiche necessarie per adeguarne l'ambito soggettivo di applicazione ai vincoli
comunitari.
La disciplina dei licenziamenti collettivi, come pure quella della cassa integrazione
straordinaria e del collocamento in mobilità, è stata estesa, dall'art. 8, comma 2, del d.l.
20 maggio 1993 n. 148, convertito in l. 19 luglio 1993 n. 236, ai soci lavoratori di
cooperative di produzione e lavoro.
Per quanto riguarda le imprese che operano nel campo dell'edilizia, una specifica ipotesi
di esclusione della disciplina in esame è stata prevista al comma 4 dell'art. 24 della l. n.
223 del 1991; ai sensi di tale disposizione, infatti, la disciplina in tema di riduzione di
personale dettata dall'art. 24 della l. n. 223 del 1991 non si applica ai casi di « fine lavoro
nelle costruzioni edili ». Con specifico riferimento all’interpretazione di tale espressione è
stato precisato (Cass. 28 novembre 2014 n. 25349) che l’esclusione dell'obbligo di
osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, prevista dall'art. 24, comma
4, della legge 23 luglio 1991 n. 223, per la "fine lavoro nelle costruzioni edili", opera
anche nel caso di esaurimento di una singola fase di lavoro, che abbia richiesto specifiche
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professionalità, non utilizzabili successivamente, la quale integra gli estremi di un
giustificato motivo di licenziamento individuale, anche se plurimo, ai sensi dell'art. 3 della
legge 15 luglio 1996 n. 604; resta comunque fermo, ad avviso della sentenza da ultimo
citata, che, in siffatte ipotesi, al fine di poter ritenere giustificato il recesso, è necessario
che il datore di lavoro dimostri l'impossibilità di utilizzare il lavoratore medesimo in altre
mansioni compatibili nell'ambito dell'organizzazione aziendale, salvo in ogni caso, l'onere
in capo al lavoratore di allegare l'esistenza di una tale possibilità di reimpiego. In senso
analogo Cass. 6 febbraio 2008 n. 2782 la quale ha aggiunto che la suddetta esclusione
non opera, invece, quando la fase lavorativa non sia ultimata, ma sia in corso di graduale
esaurimento, atteso che in tal caso si rende necessaria una scelta fra lavoratori da
licenziare e lavoratori da adibire all'ultimazione dei lavori, scelta che deve seguire le
regole di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991.
Le imprese che gestiscono servizi di pulizia in appalto sono soggette alla disciplina dei
licenziamenti collettivi prevista dalla legge in esame, sempre che ricorrano i requisiti
dimensionali dalla stessa previsti.
È infine utile sottolineare il fatto che poiché il contenuto delle comunicazioni previste dai
commi secondo e nono dell'art. 4 della legge 30 luglio 1991, n. 223, non può che avere
ad oggetto le condizioni in cui si trova l'impresa al momento in cui avvia la procedura —
non potendosi, invece, riferirsi ad assetti o a processi di riorganizzazione produttiva
ancora futuri ed eventuali — legittimato ad avviare una procedura di riduzione del
personale ai sensi della legge n. 223 del 1991 è il solo titolare, nel lato datoriale, del
rapporto di lavoro, non anche un futuro ed eventuale suo cessionario ex art. 2112 c.c., in
quanto, non solo non è possibile configurare una successione in una procedura anziché in
posizioni giuridiche attive o passive, ma il trasferimento di un ramo d'azienda presso il
cessionario muta i parametri fattuali di riferimento per verificare l'attualità e la
consistenza numerica dell'eccedenza di personale, anche in vista dell'esame congiunto, in
sede sindacale, previsto dal comma quinto del citato art. 4 (Cass. 20 agosto 2013 n.
19271).
Requisiti dimensionali.
L'applicabilità della disciplina dei licenziamenti collettivi presuppone che l'impresa occupi
più di quindici dipendenti. Ne consegue che i licenziamenti per riduzione di personale
intimati dalle imprese che occupano un numero di dipendenti non superiore a quindici
sono sottoposti, qualunque sia il loro numero, alla disciplina legale dei licenziamenti
individuali. A seguito dell'entrata in vigore della normativa (d.lgs. 8 aprile 2004 n. 110)
che ha esteso l'applicabilità della disciplina del licenziamento collettivo ai privati datori di
lavoro non imprenditori deve ritenersi che il medesimo requisito dimensionale si applichi
anche a questi ultimi.
Con riferimento alla verifica della sussistenza del requisito dimensionale dell'impresa
richiesto dalla legge per l'applicabilità della disciplina sui licenziamenti collettivi Cass. 24
marzo 2003 n. 4274 ha chiarito che nel caso in cui più imprese formalmente distinte, ma
con un'unica organizzazione imprenditoriale (intesa anche come unico centro
decisionale), utilizzino contemporaneamente le prestazioni degli stessi lavoratori, i
requisiti dimensionali e quantitativi prescritti dall'art. 24 della legge n. 223 del 1991 ai
fini dell'applicabilità della disciplina dei licenziamenti collettivi devono essere riferiti
all'unico complesso aziendale costituito dalle predette imprese.
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Con riferimento ai criteri di riscontro della sussistenza del requisito numerico è stato
chiarito (Cass. 12 novembre 1999 n. 12592) che la norma di cui all'art. 24, comma 1,
della l. n. 223 del 1991 in tema di requisito dimensionale dell'impresa che procede ai
licenziamenti deve essere interpretata, in armonia con i criteri ermeneutici affermatisi in
materia di licenziamenti individuali con riferimento agli artt. 18 e 35 Stat. lav., nel senso
che la verifica delle dimensioni dell'impresa deve essere effettuata non già con
riferimento al momento della cessazione dell'attività e dell'irrogazione dei licenziamenti,
ma con riguardo all'occupazione media dell'ultimo semestre in analogia con quanto
espressamente stabilito dall'art. 1 della stessa l. n. 223 del 1991 ai fini dell'intervento di
cassa integrazione guadagni straordinaria. Infatti la suddetta interpretazione,
sistematicamente coordinata nell'ambito della legge considerata, è l'unica che consente
di evitare applicazioni artificiose ed elusive delle disposizioni in argomento.
La procedura di mobilità.
La legge prevede un complesso procedimento che deve essere posto in atto dal datore di
lavoro prima di poter effettuare la riduzione di personale. Il legislatore, nel conformarsi
alle direttive comunitarie, che tengono conto della peculiarità degli interessi coinvolti
dalla riduzione di personale, ha previsto procedure di tipo sindacale ed amministrativo
che implicano pertanto un controllo sia da parte delle organizzazioni dei lavoratori che da
parte di organismi pubblici su tutta la materia del licenziamento collettivo.
La procedura per la dichiarazione di mobilità di cui all'art. 4 della legge n. 223 del 1991,
necessariamente propedeutica all'adozione dei licenziamenti collettivi, è intesa a
consentire una seria verifica dell'effettiva necessità di porre fine ad una serie di rapporti
di lavoro in situazioni di sofferenza dell'impresa (Cass. 19 maggio 2005 n. 10591). In
sostanza (Cass. 9 settembre 2003 n. 13196) la procedura disciplinata dall'art. 4 della
legge n. 223 del 1991 assegna al sindacato, a fronte dell'esercizio del potere
imprenditoriale modificativo in maniera non marginale dell'assetto aziendale, un ruolo di
tutela dell'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.
Le suddette procedure iniziano con una comunicazione scritta da inviarsi alle
rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell'art. 19 Stat. lav. nonché alle
rispettive associazioni di categoria. La comunicazione alle associazioni di categoria può
essere effettuata per il tramite dell'associazione dei datori di lavoro alla quale l'impresa
aderisce o conferisce mandato (art. 4, comma 2).
La funzione della comunicazione di cui all'art. 4, comma 3, della l. n. 223 del 1991 è
quella di consentire alle organizzazioni sindacali una partecipazione con efficacia
adeguata al ruolo, che il legislatore affida loro, di cogestione della vicenda concernente la
riduzione del personale, vicenda dalla quale esce mutata la stessa struttura dell'azienda.
In tal senso Cass. 11 luglio 2007 n. 15479, secondo la quale la comunicazione alle r.s.a.
di inizio della procedura ha sia la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla
successiva trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo
decisionale datoriale nei confronti dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere
estromessi dall'azienda. Da ciò deriva che la comunicazione de qua deve contenere in
ogni caso non solo la menzione dell'esistenza di una situazione di esubero strutturale, ma
anche le ragioni che impediscono il ricorso a soluzioni alternative ai licenziamenti, atteso
che tali ragioni sono particolarmente idonee a rappresentare quale è, secondo
l'imprenditore, l'assetto che necessariamente deve assumere l'azienda a fronte di fattori
che non consentono di mantenere immutata la forza lavoro; la comunicazione preventiva
è finalizzata a consentire una seria verifica dell'effettiva necessità di porre fine ad una
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serie di rapporti di lavoro in situazioni di sofferenza dell'impresa, verifica che costituisce
lo scopo della procedura per la dichiarazione di mobilità, che è necessariamente
propedeutica all'adozione dei licenziamenti collettivi.
Il contenuto della comunicazione è disciplinato dall'art. 4, comma 3, a norma del quale
tale atto deve indicare: 1) i motivi che determinano la situazione di eccedenza del
personale; 2) i motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali si ritiene di non poter
adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in
parte, la dichiarazione di mobilità; 3) il numero, la collocazione aziendale ed i profili
professionali del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato; 4) i
tempi di attuazione del programma di mobilità; 5) le eventuali misure programmate per
fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell'attuazione del programma medesimo;
6) il metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste
dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva.
Il contenuto della comunicazione in esame deve fare riferimento alle condizioni in cui
versa l'impresa datoriale, da valutarsi al momento in cui questa decide di instaurare la
suddetta procedura, e non invece a pregresse situazioni o a processi di riorganizzazione
produttiva risalenti nel tempo. Solo il riferimento alla situazione attuale consente, infatti,
alla stregua dei commi 5 e 9 dell'art. 4 cit., un documentato esame congiunto delle parti
sociali, da un lato, al fine di valutare le cause che hanno contribuito a determinare
l'eccedenza di personale dell'impresa e le possibilità di diversa utilizzazione del personale
stesso e dei dipendenti, dall'altro, in ordine ai criteri di scelta, legali e convenzionali, dei
lavoratori da collocare in mobilità, in conformità dei canoni di razionalità e di coerenza.
Vale la pena di citare in proposito la giurisprudenza di legittimità più recente: in
particolare Cass. 20 marzo 2013 n. 6959 ha affermato che in tema di collocamento in
mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4,
comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 rappresenta una cadenza essenziale per la
proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la
trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore è
legittimato a far valere l'incompletezza dell'informazione, in quanto la comunicazione
rituale e completa della mancanza di alternative ai licenziamenti rappresenta, nell'ambito
della procedura, una cadenza legale che, se mancante, risulta ontologicamente
impeditiva di una proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del
sindacato). Sempre con riferimento al contenuto della comunicazione di avvio della
procedura di mobilità, ai sensi dell'art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, Cass. 22
giugno 2012 n. 10424 ha precisato che tale comunicazione deve specificare i "profili
professionali del personale eccedente" e non può limitarsi all'indicazione generica delle
categorie di personale in esubero (operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti), non
essendo tale generica indicazione sufficiente a concretizzare il piano di ristrutturazione
aziendale, mentre la successiva conclusione di un accordo sindacale, nell'ambito della
procedura di consultazione non sana il menzionato difetto della comunicazione iniziale se
anche l'accordo non contiene la specificazione dei profili professionali dei lavoratori
destinatari del licenziamento.
Deve peraltro sottolinearsi che l’art. 4, comma 12 della legge n. 223 del 1991 come
modificato dall’art. 1, comma 45 della legge Fornero, stabilisce che “Gli eventuali vizi
della comunicazione di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad
ogni effetto di legge, nell'ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della
procedura di licenziamento collettivo”.
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Con riferimento all'ipotesi di cessazione dell'attività aziendale, Cass. 9 aprile 2003 n.
5516, premesso che la scelta dell'imprenditore di cessare l'attività costituisce esercizio
incensurabile della libertà di impresa garantita dall'art. 41 Cost., ha affermato che da ciò
consegue che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che derivano da tale
scelta, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall'art. 4
della legge n. 223 del 1991, applicabili alla fattispecie in esame per effetto dell'art. 24
della stessa legge, ed in particolare l'obbligo di comunicazione dei motivi della scelta,
hanno la sola funzione di consentire il controllo sindacale sull'effettività della scelta
medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei
lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell'attività
dissimuli la cessione dell'azienda o la ripresa dell'attività stessa sotto diversa
denominazione o in diverso luogo. Ne consegue che non possono trovare ingresso in sede
giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle
prescrizioni dettate dal citato art. 4, e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei
poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure previste, si finisce per
investire l'autorità giudiziaria di una non consentita indagine sulle ragioni di cessazione
dell'attività.
Sotto altro profilo è stato altresì chiarito che legittimamente il datore di lavoro omette,
nella comunicazione de qua, il riferimento ai criteri di scelta, considerato anche che essi
possono essere fissati all'esito della procedura di cui all'art. 4 in esame, finalizzata anche
a verificare la possibilità di determinare pattiziamente, con accordo sindacale, i criteri
medesimi.
Viola gli obblighi di comunicazione previsti dall'art. 4, 3 comma, l. 23 luglio 1991 n. 223,
che impongono una gestione trasparente del processo decisionale, la società che omette
di comunicare alle organizzazioni sindacali le trattative in corso per l'acquisizione di rami
d'azienda di altre imprese, i quali possono determinare conseguenze sugli assetti
occupazionali; ne consegue la illegittimità dei recessi intimati a valle della procedura
viziata dall'omessa comunicazione (Cass. 16 settembre 2011 n. 18943).
In tema di conseguenze derivanti dall'assenza della comunicazione prevista dall'art. 4,
comma 3 della legge in esame ovvero dalla sua incompletezza, la giurisprudenza si è già
ripetutamente pronunciata. Cass. 11 aprile 2003 n. 5770, premesso che la
comunicazione preventiva con cui viene dato inizio ad una procedura di licenziamento
collettivo deve compiutamente e correttamente adempiere l'obbligo di fornire le
informazioni specificate dall'art. 4, comma terzo, della legge n. 223 del 1991, così da
consentire all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole
un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la
possibilità di misure alternative al programma di esubero, ha affermato che
l'inadeguatezza delle informazioni, che abbia potuto condizionare la conclusione
dell'accordo tra impresa e organizzazioni sindacali secondo le previsioni del medesimo
art. 4, determina l'inefficacia dei licenziamenti per irregolarità della procedura, a norma
dell'art. 4, comma dodicesimo.
Esame congiunto fra parte datoriale ed organizzazioni sindacali (art. 4, comma 5). Entro
sette giorni dalla data di ricevimento della comunicazione, ove vi sia richiesta delle r.s.a.
e delle rispettive associazioni, si procede ad un esame congiunto tra le parti, allo scopo di
esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l'eccedenza del personale e le
possibilità di utilizzazione diversa di tale personale, o di una sua parte, nell'ambito della
stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del
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tempo di lavoro. La norma stabilisce altresì che, qualora non sia possibile evitare la
riduzione di personale, deve essere esaminata la possibilità di ricorrere a misure sociali di
accompagnamento intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione
dei lavoratori licenziati.
Ai sensi dell'art. 4, comma 6, infatti, essa deve essere esaurita entro quarantacinque
giorni dalla data di ricevimento della comunicazione dell'impresa.
Convocazione dinanzi all'Ufficio provinciale del lavoro. A norma dell'art. 4, comma 6,
l'impresa ha l'obbligo di inviare una comunicazione scritta all'Ufficio provinciale del lavoro
sul risultato della consultazione e sui motivi del suo eventuale esito negativo. Sotto
questo profilo appare pienamente condivisibile l'orientamento secondo cui tale
comunicazione deve contenere indicazioni analitiche circa i termini in cui si è svolto
l'esame congiunto, esplicitando in particolare le opposte posizioni delle parti al fine di
consentire un più proficuo svolgimento della successiva consultazione in sede
amministrativa. La ratio della comunicazione all'Ufficio provinciale del lavoro sta nella
finalità di consentire a quest'ultimo l'intervento di mediazione previsto dallo stesso
articolo in caso di mancato accordo. Coerentemente Cass. 20 novembre 1996 n. 10187
ha affermato che, ove sia già stato raggiunto un accordo con le organizzazioni sindacali, il
quale preclude quindi la possibilità di un intervento dell'Ufficio provinciale del lavoro,
l'omissione della comunicazione non può incidere sulla validità dell'accordo raggiunto e
sull'efficacia dei recessi avvenuti in esecuzione di esso.
Come si è prima accennato la consultazione in sede amministrativa è prevista per
l'ipotesi di fallimento della consultazione in sede sindacale. Tale fase della procedura si
svolge presso il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro il quale, una volta ricevuta la
comunicazione dell'esito negativo della consultazione sindacale, convoca le parti al fine di
un ulteriore esame della situazione (art. 4, comma 7). Tale esame, che deve comunque
esaurirsi entro trenta giorni dal ricevimento, da parte dell'Ufficio, della suddetta
comunicazione (termine ridotto della metà per il caso in cui la procedura riguardi un
numero di lavoratori inferiore a dieci), riguarda gli stessi temi che, ai sensi dell'art. 4,
comma 5, costituiscono l'oggetto della consultazione sindacale. Nel corso di tale esame il
direttore dell'Ufficio può anche formulare proposte per la realizzazione di un accordo.
La legge prevede incentivi per favorire la conclusione di un accordo fra le parti che eviti il
licenziamento dei lavoratori, o, quanto meno, limiti il numero dei soggetti interessati dal
provvedimento espulsivo.
In tale contesto deve essere inquadrata una importante (ed innovativa) deroga di
carattere normativo, al principio, allora tendenzialmente granitico dell’inderogabilità del
divieto di adibizione a mansioni inferiori di cui all’art. 2103 cod. civ. come riformulato
dallo Statuto dei lavoratori . Ed infatti all´art. 4, comma 11, legge n. 223 del 1991 in
tema di licenziamenti collettivi, è stabilito che gli accordi sindacali stipulati nel corso delle
procedure previste dallo stesso articolo di legge, che prevedano il riassorbimento totale o
parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire anche in deroga al secondo
comma dell'articolo 2103 cod. civ. la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle
svolte. Come è noto la norma è stata recentemente riformulata dal d.lgs. n. 81 del 2015
in sensi fortemente riduttivo del principio dell’inderogabilità delle mansioni.
Ai sensi dell’art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 nella sua originaria
formulazione, una volta raggiunto l'accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui
ai commi 6, 7 e 8, l'impresa ha facoltà di collocare in mobilità gli impiegati, gli operai e i
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quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei
termini di preavviso. Contestualmente, l'elenco dei lavoratori collocati in mobilità con
l'indicazione per ciascun soggetto del nominati del luogo di residenza, della qualifica, del
livello di inquadramento dell'età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione
delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma
1, deve essere comunicato per iscritto all'ufficio regionale del lavoro e della massima
occupazione competente, alla commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di
categoria di cui al comma 2.
Nella comunicazione scritta di cui all'art.4, comma 9, legge 23 luglio 1991, n. 223, il
datore di lavoro deve indicare puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori licenziati o
posti in mobilità e le modalità applicative dei criteri stessi e, quando il criterio di scelta sia
unico, il datore di lavoro deve in ogni caso specificarne le modalità di applicazione
affinché la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a mettere in grado
il lavoratore di comprendere per quale ragione lui, e non altri colleghi, sia stato posto in
mobilità o licenziato e quindi di poter contestare il recesso datoriale; a tal fine, può
essere idonea anche la comunicazione dell'elenco dei lavoratori licenziati e del criterio di
scelta del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o di vecchiaia, in
quanto la natura oggettiva del criterio rende superflua la comparazione con i lavoratori
privi del detto requisito (Cass. 26 agosto 2013 n. 19576). È stato altresì precisato (Cass.
20 marzo 2013 n. 6959) che, poiché la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei
lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso
dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li
rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità) adempie ad una
funzione regolamentare delegata dalla legge (v. Corte costituzionale n. 268 del 1994),
essa deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sancito dall'art. 15 della
legge 20 maggio 1970, n. 300, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i
criteri concordati - oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei
lavoratori - devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità, operando senza
discriminazioni tra i dipendenti, cercando di ridurre al minimo il cosiddetto "impatto
sociale", e scegliendo, nei limiti in cui ciò sia consentito dalle esigenze oggettive a
fondamento della riduzione del personale, di espellere i lavoratori che, per vari motivi,
anche personali, subiscono ragionevolmente un danno comparativamente minore.
Con riferimento a tale disposizione nella formulazione antecedente alle modifiche
introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92, Cass. 29 aprile 2015 n. 8680 ha chiarito
che la contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle
organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell'elenco dei dipendenti
licenziati e dei criteri di scelta, richiesta, a pena di inefficacia del licenziamento, dall'art.
4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, si giustifica al fine di consentire alle
OO.SS. (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo sulla correttezza
nell'applicazione dei menzionati criteri da parte del datore di lavoro, anche al fine di
sollecitare, prima dell'impugnazione del recesso in sede giudiziaria, la revoca del
licenziamento eseguito in loro violazione. Ne consegue che la funzione di tale ultima
comunicazione implica che non possa accedersi ad una nozione "elastica" di contestualità,
riferita anche alla data in cui il licenziamento abbia effetto, dovendosi ritenere
irragionevole che, per non incorrere in una decadenza dal termine di cui all'art. 6 della
legge 15 luglio 1966, n. 604, il lavoratore debba impugnare il licenziamento senza la
previa conoscenza dei criteri di scelta.
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Tale disposizione è stata tuttavia modificata dalla legge Fornero (art. 1, comma 44) che
ha sostituito all’avverbio “contestualmente” l’espressione “Entro sette giorni dalla
comunicazione dei recessi”.
Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
La scelta dei lavoratori da licenziare si colloca in un momento successivo rispetto a quello
dell'espletamento delle procedure di mobilità. Essa si realizza attraverso la
oggettivizzazione dei criteri e la conseguente applicazione di essi in modo che la scelta
stessa non sia predeterminata quanto alla individuazione del personale destinato alla
mobilità.
La scelta dei lavoratori da licenziare è di competenza esclusiva del datore di lavoro.
Infatti, mentre la fase del confronto con le organizzazioni sindacali come pure quella della
consultazione in sede amministrativa costituiscono la sede deputata, in particolare, alla
discussione sui motivi del divisato licenziamento nonché al negoziato sull'individuazione
dei reparti o settori aziendali da sopprimere o da assoggettare a ristrutturazione, sul
numero dei lavoratori da assoggettare al provvedimento espulsivo e sulle loro qualifiche,
il compito di individuare i singoli lavoratori da licenziare e di comunicare loro il
provvedimento di recesso spetta solo al datore di lavoro. L'estrema delicatezza del
problema deriva dal fatto che la scelta di licenziare l'uno o l'altro lavoratore evidenzia non
soltanto l'antagonismo tra le esigenze della produzione e le esigenze di chi trae dal lavoro
il proprio sostentamento, ma anche la contrapposizione fra gli stessi lavoratori, ed in
particolare tra chi può mantenere il proprio posto di lavoro e chi è destinato a perderlo.
Principi fissati dalla nuova normativa. Per l'individuazione dei lavoratori da collocare in
mobilità la l. n. 223 del 1991 (art. 5, commi 1 e 2) dispone che essa deve avvenire, in
relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel
rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati, ovvero, in
mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a)
carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative. È stato
in proposito precisato (Cass. 7 giugno 2003 n. 9153) che con accordo sindacale possono
essere determinati criteri di scelta dei lavoratori diversi da quelli stabiliti per legge, e in
particolare può anche attribuirsi rilievo soltanto alle esigenze tecnico-produttive ed
organizzative del complesso aziendale, sempre che venga rispettato il principio di non
discriminazione tra i lavoratori e quello della razionalità delle regole pattuite.
Il carattere residuale dei criteri di scelta stabiliti dalla legge è stato confermato da Cass.
5 agosto 2008 n. 21138.
Limiti posti da norme imperative alla facoltà di scelta dei lavoratori da licenziare. Fra i
limiti posti da norme imperative alla facoltà di scelta dei lavoratori da licenziare, e che
devono essere pertanto rispettati anche dagli accordi sindacali sui criteri di scelta, l'art.
5, comma 2, richiama esplicitamente quello posto dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.l. 29
gennaio 1983 n. 17, convertito con modificazioni dalla l. 25 marzo 1983 n. 79, a norma
del quale, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali degli appartenenti alle categorie
protette di cui alla l. 2 aprile 1968 n. 482, nel caso di licenziamenti collettivi il numero
degli invalidi soggetti alla disciplina del collocamento obbligatorio, sottoposti ai
procedimenti di licenziamento, non può essere superiore alle percentuali previste dalla
legge suddetta.
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Altro limite è quello posto dall'art. 5, comma 2, della l. n. 223 del 1991, come modificato
dall'art. 6, comma 5-bis, della l. 19 luglio 1993 n. 236 (di conversione del d.l. 20 maggio
1993 n. 148): secondo tale disposizione non può essere collocata in mobilità una
percentuale di manodopera femminile superiore a quella relativa alla manodopera
femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione. La previsione di
tale limite, considerata in relazione alla disposizione in base alla quale, nella disciplina
della mobilità e del licenziamento collettivo, devono essere garantiti i principi di non
discriminazione, diretta ed indiretta, di cui alla l. 10 aprile 1991 n. 125 (art. 8, comma 2,
l. n. 236 del 1993), si inquadra nell'ambito di un tentativo ad ampio raggio finalizzato ad
evitare che la riduzione del personale possa provocare una distribuzione diseguale delle
conseguenze pregiudizievoli tra lavoratori e lavoratrici.
Per quanto concerne le lavoratrici madri, Cass. 8 settembre 1999 n. 9551 ha precisato
che l'art. 2, comma 3, lett. b), della l. 30 dicembre 1971 n. 1204, che prevede
l'inapplicabilità del divieto di licenziamento della lavoratrice nel caso della cessazione
dell'attività dell'azienda (ipotesi quest'ultima che, a seguito dell'entrata in vigore della
legge in esame, rientra nell'ambito del licenziamento collettivo), deve essere interpretato
nel senso che la suddetta inapplicabilità del divieto di licenziamento sussiste anche nel
caso di soppressione di un reparto organizzato avente autonomia funzionale, qualora la
lavoratrice ad esso addetta non sia più utilmente collocabile in un reparto diverso.
Ambito entro il quale deve essere operata la scelta dei lavoratori da licenziare. In
proposito uno specifico rilievo assume l'interpretazione dell'espressione « complesso
aziendale » alla quale fa riferimento l'art. 5, comma 1, della legge in esame. Ai fini
dell'applicazione dei criteri di scelta dettati dall'art. 5 della legge in esame, la
comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità deve avvenire, a meno che il
progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ed esaustivo ad uno dei settori
dell'azienda, nell'ambito dell'intero complesso organizzativo e produttivo ed in modo che
concorrano lavoratori di analoghe professionalità (ai fini della loro fungibilità) e di
similare livello; una deroga a tale principio è possibile solo in riferimento a casi specifici,
ove sussista una diversa e motivata esigenza aziendale; diversamente opinando sarebbe,
infatti, possibile finalizzare i criteri di scelta (eventualmente in collegamento con
preventivi spostamenti del personale) ad esigenze imprenditoriali non esclusivamente
tecnico-produttive e all'espulsione di elementi non graditi al datore di lavoro, senza
concrete possibilità di difesa da parte degli interessati. In tal senso cfr. Cass. 12 gennaio
2015 n. 203 secondo cui, qualora, nell´ipotesi di un licenziamento collettivo per
riduzione di personale, il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo
esclusivo ad un'unità produttiva dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può
essere limitata agli addetti a tale unità sulla base di oggettive esigenze aziendali ed il
datore di lavoro deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223
del 1991 sia le ragioni alla base della limitazione dei licenziamenti ai dipendenti dell'unità
o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritiene di ovviare ad alcuni licenziamenti
con il trasferimento ad unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o
ridotta, onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei
programmati licenziamenti (cfr. pure Cass. 11 dicembre 2012 n. 22655). In argomento
merita di essere segnalata altresì Cass. 9 marzo 2015 n. 4678 la quale ha affermato che,
in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di
ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui
all'art. 5, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, riferite al complesso aziendale,
possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da
licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n.
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223 citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in
questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità
produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare
l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Ne consegue che, qualora, nella
comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso
aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i
licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione
delle oggettive esigenze aziendali.
In applicazione di tali principi è stato affermato (Cass. 28 aprile 2006 n. 9888 e Cass. 3
aprile 2006 n. 7752) che, ove il datore di lavoro che procede alla riduzione del personale
ai sensi dell'art. 24 della legge n. 223 del 1991, intenda sopprimere, in applicazione
dell'art. 5 della citata legge, un reparto della sua impresa, non può limitare la scelta ai
lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori
sono idonei — per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della
propria attività in altri reparti dell'azienda con positivi risultati — ad occupare le posizioni
lavorative di colleghi addetti ad altri reparti. Conseguentemente, in tali casi, per il criterio
di buona fede e correttezza, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., deputato a presiedere la
soluzione in forma equilibrata di conflittuali interessi delle parti, la scelta dei lavoratori da
porre in mobilità non può essere limitata ad un solo reparto ma deve riguardare un ben
più esteso numero di dipendenti. È stato inoltre precisato (Cass. 24 marzo 2003 n. 4274)
che, nel caso in cui più imprese formalmente distinte, ma con un'unica organizzazione
imprenditoriale
(intesa
anche
come
unico
centro
decisionale),
utilizzino
contemporaneamente le prestazioni degli stessi lavoratori, i requisiti dimensionali e
quantitativi prescritti dall'art. 24 della legge n. 223 del 1991 ai fini dell'applicabilità della
disciplina dei licenziamenti collettivi devono essere riferiti all'unico complesso aziendale
costituito dalle predette imprese.
Nell'ambito dei criteri legali si distinguono i c.d. criteri sociali (carichi di famiglia e
anzianità), che riguardano parametri esterni al rapporto ed irrilevanti rispetto ad esso, ed
il criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, che indica un parametro
interno al rapporto, riferito alla specifica professionalità che il singolo lavoratore esprime
nello svolgimento delle mansioni assegnategli. La suddetta articolazione dei criteri ha lo
scopo di contemperare le finalità imprenditoriali con la necessità di assicurare che le
conseguenze del licenziamento collettivo ricadano sui soggetti meno deboli.
Per quanto concerne i rapporti fra i singoli criteri di scelta di origine legale il risultato
comparativo può essere quello di accordare prevalenza ad uno solo di detti criteri e, in
particolare, alle esigenze tecniche e produttive, essendo questo il criterio più coerente
con le finalità perseguite attraverso la riduzione di personale, sempre che naturalmente
una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in
concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.
Con riferimento ai criteri determinati in sede di contrattazione collettiva, ai sensi dell'art.
5, comma 1, della legge in esame, numerosi sono i profili esaminati dalla giurisprudenza.
In primo luogo è stato sottolineato (Cass. 8 marzo 2006 n. 4970) che la determinazione
pattizia dei criteri di scelta del personale deve rispettare non solo il principio di non
discriminazione sanzionato dall'art. 15 Stat. lav., bensì il principio di razionalità, alla
stregua del quale i criteri concordati devono essere ispirati a caratteri di obiettività e
generalità, dai quali non prescinde il criterio che, sulla base di oggettive esigenze
aziendali, limita la scelta nell'ambito di un'unità produttiva o di un settore dell'azienda.
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Sotto altro profilo Cass. 26 settembre 2002 n. 13962 ha affermato che è legittimo
l'accordo tra imprenditori e sindacati, a norma dell'art. 5 della legge n. 233 del 1991,
inteso a disciplinare l'esercizio del potere di collocare in mobilità i lavoratori in esubero
stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, a condizione che tali criteri
rispondano a requisiti di obiettività e razionalità. In tale contesto, ad avviso della S.C.,
appare razionalmente adeguato rispetto all'esigenza di attuare una riduzione di personale
il ricorso al criterio della prossimità al trattamento pensionistico, giustificato dal minor
impatto sociale dell'operazione. Cass. 23 giugno 2014 n. 14170 ha precisato che in
materia di collocamenti in mobilità e di licenziamenti collettivi, ove il criterio di scelta
adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali sia unico e
riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, tale criterio sarà applicabile a
tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati,
restando perciò irrilevanti i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di
lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura.
Livello di contrattazione nell'ambito del quale possono essere definiti i criteri di scelta.
Cass. 24 aprile 2007 n. 9866 ha affermato che, in relazione ai collocamenti in mobilità ed
ai licenziamenti collettivi, la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da
licenziare può essere stabilita sulla base di un accordo sindacale concluso dalla
maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li
rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità.
Per quanto riguarda il rapporto fra i singoli criteri di scelta contrattualmente previsti,
deve registrarsi un orientamento secondo il quale legittimamente tali criteri possono
essere ricondotti al rispetto delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
Va infine ricordato che il problema del rispetto dei criteri di scelta non si pone,
naturalmente, in tutte quelle ipotesi in cui il licenziamento collettivo venga intimato per
cessazione dell'attività e riguardi tutto il personale.
Un problema di grande rilievo applicativo è quello della ripartizione dell'onere della prova.
In proposito Cass. 29 luglio 2003 n. 11651 ha affermato che in sede di impugnazione di
licenziamento per riduzione di personale effettuato a norma dell'art. 4 della legge n. 223
del 1991, ove venga contestata, da parte del lavoratore, la mancata osservanza dei
criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, grava sul datore di lavoro l'onere di
indicare e provare le circostanze di fatto poste a base dell'applicazione dei suddetti
criteri.
Appare infine utile ricordare che a norma dell’art. 5, comma3, legge n. 223 del 1991,
come modificato dall’art. 1, comma 46, legge Fornero, ai fini dell’impugnazione del
licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966 e
successive modificazioni. In sostanza, secondo la norma da ultimo citata, il licenziamento
deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della
sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma
scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale,
idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento
dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L'impugnazione e' inefficace se non e' seguita, entro il successivo termine di
((centottanta)) giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di
giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di
conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti
formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano
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rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al
giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal
mancato accordo.
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