Articolo Avv. Galluzzo

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Articolo Avv. Galluzzo
ISSN 1125-856X
Cassazione
penale
direttore scientifico
Domenico Carcano
condirettore
Mario D’Andria
LIV - marzo 20 14 , n° 03
03
20
14
| estratto
ANCHE LA DETENZIONE DOMICILIARE,
SE INGIUSTA, DEVE ESSERE RISARCITA
di Fabrizio Galluzzo
giurisprudenza di merito
TRIB. SORV. ROMA, ORD., 21 AGOSTO 2013
311 LE CONDIZIONI PER LA CONCESSIONE
DELL’AFFIDAMENTO IN PROVA AL SERVIZIO SOCIALE
Trib. sorv. Roma - Ordinanza - Ud. 21 agosto 2013 (dep. 22 agosto 2013), n. 4222 - Pres.
Dentato - Est. Gaspari
ORDINAMENTO PENITENZIARIO - Misure alternative alla detenzione - Detenzione domiciliare - Affidamento in prova al servizio sociale - Istanza in corso di esecuzione della pena - Condizioni – Esclusione.
(C.P.P. ART. 666, 678; L. 26 LUGLIO 1975, N. 354, ARTT. 47, 47-TER)
In caso di istanza per l’affidamento in prova al servizio sociale avanzata nel corso dell’esecuzione della
detenzione domiciliare, la mancanza di elementi di valutazione diversi da quelli già valutati,
unitamente all’impossibilità di acquisire la relazione dei servizi sociali ed all’esiguità della pena
residua da espiare (venti giorni), non consente la concessione dell’affidamento in prova, non apparendo la misura né utile né opportuna per il percorso di risocializzazione.
[Massima redazionale]
Rilevato che, con ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze emessa in data 28 marzo 2013, il
condannato, previo rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale in assenza di un lavoro
stabile ed adeguatamente verificato, nonché in considerazione dei suoi precedenti (violazioni della normativa antinfortunistica commessi dal 1986 al 2003) è stato ammesso alla misura della detenzione domiciliare in considerazione della modesta entità della pena espianda, della non particolare gravità dei precedenti e della disponibilità di un domicilio idoneo;
che la condotta in detenzione domiciliare è corretta;
che il P. è stato autorizzato a svolgere attività lavorativa ed ha ottenuto un ampliamento degli orari per
il soddisfacimento delle esigenze di vita;
che il servizio sociale ha comunicato l’impossibilità di poter svolgere in tempo utile la relazione
socio-familiare;
che il fine pena è prossimo.
Ritenuto che il tempo decorso dal provvedimento di rigetto dell’istanza di affidamento emesso dal
Tribunale di sorveglianza, in assenza di elementi di valutazione diversi da quelli già valutati e stante
l’impossibilità di acquisire la relazione del servizio sociale in considerazione dell’ormai prossimo fine pena,
non consente, sulla base della sola condotta corretta in detenzione domiciliare, un giudizio prognostico
favorevole alla concessione del più ampio beneficio invocato;
che, peraltro, proprio per l’esiguità della pena residua (inferiore a venti giorni) l’affidamento in prova
non appare misura utile né opportuna per il percorso di risocializzazione del P., che già gode ampi spazi di
libertà anche in detenzione domiciliare, in considerazione della sua natura di prova e per gli effetti che ad
essa conseguono in caso di esito positivo;
P.Q.M. - visti gli artt. 47 ord. penit., 666 e 678 c.p.p., respinge la domanda in epigrafe.
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giurisprudenza di merito
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ANCHE LA DETENZIONE DOMICILIARE, SE INGIUSTA,
DEVE ESSERE RISARCITA
Also House Arrest, If Unjust, Must Be Compensated
Al di là delle ipotesi tradizionali già individuate dal legislatore, quali l’ingiusta detenzione, l’irragionevole durata del processo, l’errore giudiziario, il dolo o la colpa grave del singolo magistrato,
è possibile individuare ulteriori fonti di danno derivanti dall’attività giudiziaria, sia pure espletata
nella piena osservanza delle regole vigenti?
L’autore, prendendo spunto da un caso concreto in materia di detenzione domiciliare, ipotizza la
costruzione di un catalogo più ampio di danni risarcibili.
Beyond the traditional assumptions already identified by the legislature, such as unjust detention, the unreasonable length of trial, the miscarriage of justice, the intent or gross negligence of the individual judge, it is possible to
identify additional sources of damage resulting from judicial activity, even if carried out in full compliance with the
rules in force?
The author, inspired by an actual case in the field of house arrest, suggests the construction of a broad catalog of
recoverable damages.
di Fabrizio Galluzzo
Dottorando di ricerca in Diritto e Procedura penale - Sapienza Università di Roma
Sommario 1. Il fatto. — 2. Le questioni sul tappeto. — 3. Il risarcimento per danno da attività
giudiziaria (lecita).
1. IL FATTO
L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che qui di seguito si commenta rappresenta
l’ultimo anello di una vicenda processuale che appare di interesse, de jure condendo, in
materia di possibile risarcimento o indennizzo per la detenzione sofferta, a prescindere dal
fatto se la stessa si sia rivelata legittima, in quanto applicata all’esito di un procedimento
svoltosi secondo le regole, o se, al contrario, sia da considerare ingiusta.
Nel caso in questione, l’interessato era stato sottoposto alla misura della detenzione domiciliare in osservanza dell’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, territorialmente competente.
Nel procedimento de quo, la difesa (l’interessato era stato condannato alla pena di mesi cinque di reclusione per il delitto di cui all’art. 570 c.p.), aveva richiesto l’ammissione alla misura
dell’affidamento in prova ai servizi sociali, depositando documentazione attestante l’attività lavorativa in quel momento ricoperta dal predetto (responsabile della sicurezza in un teatro).
Da notare, peraltro, che la condanna a monte era divenuta definitiva dopo che l’imputato,
nel corso del processo di primo grado, dopo aver partecipato alla prima udienza, non se ne era
più curato perché colpito da una grave malattia; il difensore di fiducia aveva rinunciato al
mandato prima della conclusione del giudizio; il difensore d’ufficio non aveva presentato
appello, così determinando l’irrevocabilità della sentenza.
Nelle more la difesa aveva avanzato un’istanza di restituzione nel termine per appellare e
la relativa circostanza era stata posta anche alla base della richiesta di rinvio del procedimento
di sorveglianza, poi non accolta dal Tribunale.
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All’esito del procedimento, il Tribunale di sorveglianza di Firenze negava l’affidamento ai
servizi sociali, ritenendo che il richiedente non avesse un lavoro stabile ed adeguatamente
verificato, in quanto quello indicato nell’istanza sarebbe stato un mero «incarico professionale
di consulenza tecnica, a termine».
Le risultanze processuali erano, invero, di segno contrario: l’interessato aveva dimostrato
di ricoprire un incarico che, per definizione, non lo impiegava a tempo pieno ma, comunque, in
diversi giorni della settimana ed, in alcuni giorni, con orario molto lungo.
Investito immediatamente della vicenda, il Magistrato di sorveglianza di Roma, competente in ragione del luogo in cui veniva scontata la pena, negava la revoca della misura richiesta
dalla difesa, ma concedeva ampi permessi al fine di espletare l’attività lavorativa che era stata
documentata nella primigenia richiesta di affidamento ai servizi sociali.
Trascorsi due mesi dall’inizio dell’esecuzione della misura, la difesa presentava al Tribunale di sorveglianza una nuova domanda di affidamento ai servizi sociali, in corso di misura
(con contestuale richiesta di sospensione dell’esecuzione, poi rigettata dal Magistrato di sorveglianza) fondata sulla persistenza delle condizioni che avrebbero consentito, ab origine, di
concedere la misura meno afflittiva.
La relativa udienza, tuttavia, veniva fissata per una data successiva alla scadenza della
misura, costringendo la difesa a presentare un’istanza di anticipazione che portava alla fissazione dell’udienza per la discussione quindici giorni prima della scadenza della misura.
Nel corso della stessa, il Procuratore generale presso la Corte di appello concludeva per la
concessione della misura dell’affidamento ai servizi sociali, ma il Tribunale rigettava la richiesta «stante l’impossibilità di acquisire la relazione del servizio sociale in considerazione dell’ormai prossimo fine pena» e sulla base della considerazione secondo la quale «per l’esiguità
della pena residua espianda (inferiore a venti giorni) l’affidamento in prova non appare misura
utile né opportuna per il percorso di risocializzazione del ..., che già gode di ampi spazi di libertà
anche in detenzione domiciliare ...».
2. LE QUESTIONI SUL TAPPETO
Dalla vicenda processuale sopra descritta è possibile ricavare alcune considerazioni – per la
legislazione vigente e lo stato della giurisprudenza magari ancora ardite – in tema di risarcimento del danno derivante dall’esercizio, sia pure legittimo, dell’attività giudiziaria.
Nel caso de quo, infatti, si sovrappongono, alcune patologie ormai croniche nel nostro
sistema processuale che, non ancora disciplinate specificamente ma probabilmente assimilabili ad altre già codificate, meriterebbero una autonoma collocazione nel catalogo degli eventi
dannosi suscettibili di essere fonte di risarcimento/indennizzo nei confronti del danneggiato
dal c.d. “sistema giustizia”.
Tre le sollecitazioni principali che il caso illustrato suscita: in primo luogo, la circostanza
per cui la mancata concessione della misura dell’affidamento ai servizi sociali sia stata negata
in quanto il lavoro indicato dall’interessato sarebbe stato inidoneo ai fini dell’esecuzione della
pena, laddove, in sede di seconda valutazione (nell’udienza camerale dinanzi al Tribunale di
sorveglianza di Roma) della stessa richiesta, basata sugli stessi identici presupposti (lo stesso
lavoro e nessun altra condizione mutata), il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento dell’istanza dell’interessato (poi rigettata a prescindere dalla valutazione del merito),
suona come una ingiusta detenzione patita da chi, fin dal primo momento, aveva le carte in
regola per ottenere una misura non detentiva.
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Si noti che l’attività lavorativa che il Tribunale di sorveglianza di Firenze aveva ritenuto
precaria ed inidonea è la stessa che il Magistrato di sorveglianza di Roma ha ritenuto, invece,
sufficiente per concedere, dopo cinque giorni dall’inizio della detenzione domiciliare, permessi di ampia fascia oraria per esercitare la suddetta occupazione; oltre che, come detto, la stessa
sulla base della quale il Procuratore generale aveva aderito alla richiesta di mutamento della
misura alternativa alla detenzione.
Si potrà obiettare, naturalmente, che avverso l’ordinanza reiettiva dell’affidamento in prova è sempre possibile esperire l’impugnazione del caso.
L’obiezione, tuttavia, si scontra con considerazioni di ordine pratico, derivanti dalle disfunzioni croniche del sistema giustizia: la durata della misura, cinque mesi, non avrebbe probabilmente consentito di arrivare ad una pronuncia prima del termine della misura stessa.
Ed allora, sia pure nella diversità rispetto ai connotati tipici della detenzione suscettibile di
essere riparata (ai sensi degli artt. 314-315 c.p.p. è, allo stato attuale, risarcito, salvo i casi più
specifici nel corso del tempo elaborati dalla giurisprudenza, soltanto chi abbia subito la custodia cautelare e sia stato successivamente prosciolto), è innegabile che la detenzione domiciliare del caso in esame si è dimostrata ingiusta perché sarebbe stato possibile, quanto meno,
sostituirla in tempi rapidi.
E qui entra in gioco la seconda delle considerazioni preannunciate: la durata del procedimento esecutivo, aspetto inscindibile da quello già esaminato.
Come visto in premessa, l’inizio dell’esecuzione della detenzione domiciliare ha comportato, per forza di cose, il decorso del tempo minimo (due mesi), come da prassi dei tribunali, per
presentare una nuova domanda di affidamento in prova ai servizi sociali, questa volta in corso
di svolgimento della diversa misura prescelta; tra il deposito della nuova istanza e la notifica
della fissazione dell’udienza sono trascorsi altri quarantacinque giorni; la fissazione dell’udienza a data successiva allo spirare della misura (!) ha comportato la necessità di depositare
un’istanza per l’anticipazione dell’udienza stessa, in tempo utile per non renderla superflua;
l’udienza è stata, alla fine, anticipata, ma fissata a quindici giorni dalla scadenza della detenzione domiciliare.
A fronte di una misura detentiva di cinque mesi, la fissazione dell’udienza finalizzata alla
sostituzione della stessa a quattro mesi e mezzo dall’inizio dell’esecuzione, per quanto “in
linea” con un sistema ingolfato ed assuefatto a tali tempi, non può che inquadrarsi come una
forma di irragionevole durata del processo.
Anche in questo caso, così come detto in ordine alla sussumibilità della fattispecie nella
disciplina dell’ingiusta detenzione, non è applicabile la disciplina vigente del risarcimento per
l’irragionevole durata del processo che è ritagliato sul processo di merito, secondo scaglioni
temporali ben precisi.
Ma diversi punti di contiguità, quanto a ratio della tutela, presupposti oggettivi, regole di
esclusione, sono rinvenibili e qui di seguito si proverà a svilupparli.
A cavallo tra le problematiche sinora esaminate, si pone l’ulteriore motivazione con la
quale il Tribunale di sorveglianza di Roma ha giustificato il rigetto della richiesta di sostituzione della detenzione domiciliare: in mancanza del tempo sufficiente per ottenere la relazione
dei servizi sociali (non effettuata, si noti, perché la struttura che se ne sarebbe dovuta occupare
era chiusa per le ferie estive ...) e dell’ormai prossimo esaurimento della pena da espiare, e,
quindi, esclusivamente per carenze strutturali, all’interessato, seppure in presenza del parere
favorevole del P.g., è stata confermata la detenzione domiciliare: l’irragionevole e immotivata
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lungaggine dell’attività di competenza dei servizi sociali (che, peraltro, potevano essere investiti dell’incarico già da mesi) ricade sul procedimento ritardandone (rectius: impedendone) la
conclusione e determinando l’ingiustizia della misura ad esso sottostante.
3. IL RISARCIMENTO PER DANNO DA ATTIVITÀ GIUDIZIARIA
(LECITA)
Dalla disamina della vicenda processuale analizzata, emerge chiaramente che, a causa di
disfunzioni di eterogenea origine (prassi giudiziarie che dissuadono dal riproporre in tempi
celeri le istanze rigettate da altro tribunale; iter burocratici e sovraffollamento di processi nelle
aule giudiziarie che non consentono la celere celebrazione dei processi; carenze strutturali che
comportano il mancato svolgimento di attività integrative di quelle prettamente giurisdizionali), può accadere che un provvedimento legittimamente emanato (anche se, naturalmente,
censurabile con le impugnazioni e gli altri strumenti ad hoc) possa danneggiare il soggetto
interessato, in favore del quale l’ordinamento ha predisposto determinati istituti.
Se, infatti, oggigiorno è argomento attuale e discusso quello del c.d. “abuso del processo”,
non ci si deve dimenticare che il processo penale, come i sub-procedimenti ad esso collegati,
rappresenta uno strumento che l’ordinamento mette a disposizione dell’imputato per difendersi, nei limiti della sua utilizzazione tipica e funzionalizzata a tale scopo.
Analogamente alle ipotesi tradizionali già individuate dal legislatore, quali l’ingiusta detenzione, l’irragionevole durata del processo, l’errore giudiziario, il dolo o la colpa grave del
singolo magistrato, la detenzione domiciliare sofferta dall’imputato di cui al presente commento meriterebbe di essere presa in considerazione a fini risarcitori.
È innegabile, infatti, che questi abbia sofferto una misura coercitiva che ben avrebbe potuto
evitare con la concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali, anche in un secondo momento rispetto alla prima richiesta, qualora la sua istanza fosse stata valutata nel corso dell’esecuzione della diversa misura inflittagli; che la sua istanza, di fatto, non sia stata valutata, da un
lato per il decorso del tempo dovuto alla congestione dei tribunali, dall’altro per il mancato deposito della relazione che i servizi sociali avrebbero dovuto svolgere all’esito dell’attività di osservazione dell’interessato che non hanno neanche avviato; che, in buona sostanza, abbia risentito di un danno derivante dalla – evitabile – limitazione della libertà personale e che si è
riverberato sulla sua vita lavorativa (il Magistrato di sorveglianza gli ha negato la possibilità di
espletare alcuni mandati medio tempore propostigli) e sulle sue relazioni sociali e familiari.
In considerazione dello stato della giustizia, ed in attesa delle riforme che dovrebbero
estirpare alla radice le patologie esaminate, sarebbe allora opportuno allargare le maglie
dell’area della risarcibilità, affinché situazioni come quella descritta non ne rimangano escluse
perché, restando sul caso di specie, la detenzione, allo stato, non è ingiusta ai sensi degli artt.
314-315 c.p.p. perché non sussistono i presupposti della detenzione cautelare e del proscioglimento con sentenza irrevocabile, o la durata del procedimento non è irragionevole perché non
rientrante nei tassativi limiti della c.d. legge Pinto, oggi ancora più stringenti del passato (1).
(1)
La legge n. 89 del 2001 è stata di recente modificata dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla l. 7
agosto 2012, n. 134, pubblicata in G.U. n. 187 dell’11 agosto 2012, suppl. ord., n. 171. Tra le altre modifiche, volte alla
riduzione delle domande mediante oneri probatori più gravosi, sanzioni per le istanze temerarie, regole di esclusione
più severe, va ricordata l’introduzione di termini di durata massima dei giudizi, fissati in tre anni per il primo grado, due
anni per l’appello e un anno per il giudizio in cassazione, oltre al termine totale per l’intero giudizio di sei anni.
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La stessa logica dovrebbe guidare il legislatore anche in riferimento ad altre situazioni
patologiche quali, a volo di rondine, il risarcimento delle spese legali affrontate dall’imputato
prosciolto, il risarcimento per i danni derivanti da confische o sequestri poi revocati, il risarcimento per i danni di immagine, alla vita lavorativa, alla vita di relazione, che l’imputato abbia
subito per il solo fatto di essere stato sottoposto ad un processo, per quanto legittimamente
instaurato e condotto.
D’altra parte, se la giurisprudenza di legittimità (2), per il solo ambito delle misure cautelari
personali coercitive, ha da tempo elaborato una nozione di ingiusta detenzione riparabile che
ricomprende tutte le ipotesi di custodia cautelare risultate ex post erronee e, come tali, lesive
del diritto alla libertà personale, la giurisprudenza costituzionale, in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevede il diritto alla
riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta (3), ha
lasciato aperta la porta per l’ampliamento del novero delle ipotesi risarcibili, affermando che
l’istituto della riparazione «si presta, quanto a modalità applicative, ad essere esteso ad ogni
ulteriore ipotesi si rivelasse costituzionalmente imposta».
La detenzione domiciliare non rientra nelle misure cautelari, sulle quali, finora, si è focalizzata l’attenzione del legislatore e della giurisprudenza, ma comporta anch’essa una privazione della libertà personale dell’individuo che anche se, come nel caso di specie conseguente
ad una condanna divenuta irrevocabile, assume i connotati dell’ingiustizia se le disfunzioni
dell’ordinamento non consentono all’interessato di sottoporre all’autorità giudiziaria quelle
istanze che il legislatore stesso ha ideato nel suo interesse.
La durata del procedimento dinanzi al tribunale di sorveglianza, che a norma della disciplina attuale, dovrebbe essere contenuta nei tre anni, è da considerare irragionevole se è tale
da coprire l’intera esecuzione della pena: in altre parole, l’interesse a non espiare la pena con
una misura privativa della libertà personale non può venire meno per la circostanza per cui la
pena da eseguire è al di sotto degli standards immaginati dal legislatore.
La conclusione, primordiale, è che appare indispensabile la creazione di un catalogo di c.d.
danni da attività giudiziaria, derivanti dall’esercizio lecito dell’attività giudiziaria, ma tali da
produrre un danno a carico degli interessati; tipizzate le ipotesi di danno, la seconda fase,
ineludibile, dovrà essere la creazione di un procedimento unico, che possa abbracciare le
fattispecie già disciplinate e le altre via via individuate e che assicuri una maggiore certezza in
ordine agli esiti della richiesta risarcitoria ed alla quantificazione della stessa.
(2)
Cfr. Sez. un., 30 maggio 2006, n. 25084, Pellegrino, in questa rivista, 2007, p. 2366, con nota di TURCO, Pluralità
di imputazioni e riparabilità della custodia cautelare eccedente la misura della pena inflitta: la parola alla Consulta.
(3)
C. cost., 20 giugno 2008, n. 219, in Giur. cost., 2008, p. 2456, con nota di COPPETTA, Riparazione per l’ingiusta
detenzione: una declaratoria di incostituzionalità dirompente? Il carattere solidaristico dell’istituto è stato successivamente valorizzato anche da Sez. un., 30 ottobre 2008, n. 4187, Pellegrino, in C.E.D. Cass., n. 241855 e in Guida dir.,
2009, f. 16, p. 96. Sull’argomento si veda anche G. DALIA, La riparazione per l’ingiusta detenzione, in DALIA-TROISI
P.-TROISI R., I rimedi al danno da processo, Giuffrè, 2013, p. 90-92.
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