PRIMA PARTE PERCORSI TEMATICI 14. I simboli del romanzo Un

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PRIMA PARTE PERCORSI TEMATICI 14. I simboli del romanzo Un
PRIMA PARTE
PERCORSI TEMATICI
14. I simboli del romanzo
Un romanzo realistico, ma...
I promessi sposi sono un romanzo realistico, ma molti elementi assumono un forte valore simbolico.
In generale, i simboli dei Promessi sposi hanno due caratteristiche ricorrenti:
•
assumono diversi significati a seconda delle situazioni; è proprio dei simboli, infatti, non avere un
significato univoco, ma legato al contesto in cui sono collocati;
•
rimandano alla tradizione religiosa cristiana, in cui Manzoni consapevolmente si inserisce.
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L’acqua
Il simbolo più importante di tutto il romanzo è l’acqua. Nel battesimo cristiano, l’acqua è un simbolo di
purificazione. Il fiume è invece un simbolo di passaggio, il confine fra due mondi.
L’acqua compare nei momenti di svolta del romanzo:
inizio del cap. I
descrizione del lago di Como
fine del cap. VIII
Renzo e Lucia attraversano il
fiume per fuggire da Olate
cap. XVII
Renzo attraversa nuovamente
l’Adda per fuggire da Milano a
Bergamo
cap. XXXVII
si scatena il temporale che da
molte ore incombeva su Milano e
che accompagna Renzo nel
viaggio di ritorno a Lecco
Manzoni enuncia il tema che
ritornerà più volte in seguito;
l’attraversamento del fiume
segna per i due promessi la fine
di una fase della vita, quella
legata al paese natale;
anche
in
questo
caso,
l’attraversamento del fiume
segna un passaggio fondamentale
nella vita del personaggio;
l’acqua è in questo caso un
simbolo di purificazione, che
sottolinea il felice scioglimento
della vicenda (e porta via con sé
la peste).
Il pane e il vino
Il pane e il vino sono importanti simboli cristiani, legati all’Ultima Cena di Gesù e alla messa.
Nei Promessi sposi, compaiono molte volte, ma con significati ora positivi, ora negativi.
Il pane per esempio
• ha valore positivo nel cap. IV, in cui simboleggia il perdono concesso dal fratello dell’ucciso
all’omicida fra Cristoforo;
• ha valore negativo nel cap. XI, perché Renzo raccoglie due pani abbandonati dai rivoltosi e verrà
perciò accusato di furto in seguito, quando li mostrerà ingenuamente in pubblico (cap. XIV).
Il vino invece
• ha valore quasi medicinale nel cap. II, in cui “rimette lo stomaco” a don Abbondio; con la stessa
funzione, il vino viene distribuito dall’innominato ai rifugiati nel suo castello (cap. XXIX-XXX) e
dai sacerdoti ai poveri durante la carestia e la peste (cap. XXVIII-XXXII);
• ha valore negativo nel cap. XV, perché provoca l’ubriachezza di Renzo e simboleggia quindi la
perdita di razionalità e la conseguente caduta morale del personaggio; lo stesso caso si presenta al
cap. XXXIV, in cui però Renzo rifiuta il fiasco offertogli dai monatti;
Il vino è legato in due occasioni importanti alla figura di don Rodrigo:
•
nel cap. V, gli ospiti elogiano il suo vino, paragonandolo all’ambrosia di cui si nutrivano gli dei
pagani;
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•
nel cap. XXXIII, don Rodrigo stesso attribuisce alla vernaccia bevuta il malessere che in realtà è il
primo sintomo della peste.
La luce
La luce è una metafora sia della ragione (pensiamo a “illuminismo” e a tutti i termini correlati), sia della
Grazia divina.
La mancanza di luce, o la presenza di una luce incerta, obliqua, insufficiente, può quindi simboleggiare
una situazione interiore poco chiara, una mancanza di limpidezza morale e simili. Analizziamo due
esempi.
Primo esempio:
Nel cap. VIII, i forti chiaroscuri, le scene male illuminate, l’incertezza della visione, rappresentano
simbolicamente la confusione interiore dei personaggi, gli “imbrogli” e i “sotterfugi” che caratterizzano
quella notte:
Il chiamato aprì l'uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La
striscia di luce, che uscì d'improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del
pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l'uscio: gli
sposi rimasero immobili nelle tenebre... (cap. VIII, pag 151)
Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale,
affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla
quale l'artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò
cercando a tastoni l'uscio che metteva a una stanza più interna... (cap. VIII, pag. 153)
Secondo esempio:
Nel cap. XIV, l’osteria della luna piena è caratterizzata da una “mezza luce” che anticipa la caduta di
Renzo - la sua perdita di razionalità dovuta all’ubriachezza e il conseguente degrado morale.
Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce.
(cap. XIV, pag. 274)
Manzoni chiarisce il valore simbolico della luce all’inizio del cap. successivo, con due intense
similitudini:
Quel po' di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n'era andato: a un di presso
come l'ultimo moccolo rimasto acceso d'un'illuminazione, fa vedere gli altri spenti. (cap. XIV, pag. 288)
... per quella specie d'attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un
oggetto d'amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull'animo
nostro, si fermò un momento a contemplare l'ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e
facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell'atto a un di presso che vien dipinta Psiche,
quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. (cap. XIV, pag. 290)
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Al tema della luce sono legati altri due temi importanti:
- il motivo della notte, momenti di buio, in cui però i personaggi si confrontano con la propria interiorità
(link Percorso 3. La notte);
- il personaggio di Lucia, “portatrice di luce” e quindi simbolo della Grazia illuminante (link Percorso 9.
Lucia portavoce di Manzoni).
Le case
Valore simbolico hanno anche gli edifici, che rispecchiano il carattere dei loro abitanti. Il palazzotto di
don Rodrigo e il castellaccio dell’innominato sono i casi più evidenti di somiglianza fra dimora e
proprietario.
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla cima d'uno de' poggi
ond'è sparsa e rilevata quella costiera. (...) La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e
non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte
sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant'alte
che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d'un altro. Regnava quivi un gran silenzio; e un
passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due
morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d'abitanti. Due grand'avoltoi, con l'ali
spalancate, e co' teschi penzoloni, l'uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l'altro ancor saldo e
pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una
delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d'esser chiamati a goder gli
avanzi della tavola del signore. (cap. V, pag. 100)
Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che
sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o
separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si
prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto
erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un
letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine
ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno anch'essi un po'
di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio
ne' fessi e sui ciglioni.
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava
all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé,
né più in alto. (cap. XX, pag. 370)
Al palazzotto di don Rodrigo si contrappone esplicitamente la casa di Lucia:
Il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del
promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati,
vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l'occhio giù giù per la china, fino al
suo paesello, guardò fisso all'estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che
sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com'era, nel fondo della
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barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.
(cap. VIII, pag. 164)
Anche la casa di Lucia, del resto, “segue” il destino della sua proprietaria:
•
•
•
compare nel romanzo in un momento di festa (cap. II), dato che Lucia è pronta a sposarsi;
poche pagine dopo (cap. VIII), è invasa dai bravi di don Rodrigo, a simboleggiare la violenza di
cui Lucia stessa è vittima;
alla fine del romanzo (cap. XXXVIII), dopo un lungo periodo di abbandono, torna a essere abitata,
prima da Agnese, poi da Lucia con la buona vedova come ospite.
La vigna di Renzo
Tra le pagine “simboliche” dei Promessi sposi, va ricordata infine la famosa descrizione della vigna di
Renzo.
Povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna - nel luogo di quel
poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato
al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che
pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di
ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta
generazione, nata e cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di felci, di
logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di
panicastrelle e d'altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran
classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che
facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi
in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento
forme, di cento grandezze (...) Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli
d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor
campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli, s'era avviticchiata ai nuovi
tralci d'una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a
quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come
accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da
una pianta all'altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e,
attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
(cap. XXXIII, pag. 617)
La pagina è importante per tre motivi:
- Manzoni rivela la sua competenza in campo botanico, ricorrendo a molti termini tecnici e scientifici;
- Manzoni esibisce la sua bravura stilistica, ricercando effetti di musicalità particolarmente raffinati;
- Manzoni invita il lettore a una riflessione sulle leggi che animano il mondo naturale e che sembrano
rispondere allo stesso principio egoistico che domina la storia umana.
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