La sofferenza dei bambini nei Fratelli Karamazov di F. Dostoevskij

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La sofferenza dei bambini nei Fratelli Karamazov di F. Dostoevskij
SECONDA PARTE
TESTI A CONFRONTO
cap. XXXIV
La sofferenza dei bambini nei Fratelli Karamazov di F. Dostoevskij
Perché i bambini?
I fratelli Karamazov (1880) sono l’ultimo romanzo dello scrittore russo Fedor Dostoevskij e costituiscono
uno dei vertici della narrativa ottocentesca.
Quasi esattamente al centro del romanzo si colloca il lungo e drammatico colloquio fra i due fratelli Ivan
e Alëša Karamazov. Ivan è un razionalista, Alesa uno spirito religioso.
Rivolgendosi al fratello, Ivan spiega perché ha perduto la fede in Dio: dal suo punto di vista, è
impossibile che un essere onnipotente e buono permetta la sofferenza dei bambini, degli innocenti
(citiamo dalla traduzione di M.R. Fasanelli, ed. Garzanti).
Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno
facendo si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo (...) e piange lacrimucce
insanguinate, dolci, prive di risentimento al “buon Dio” perché lo difenda? La capisci questa assurdità,
amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa
assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l’uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra,
giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo benedetto bene e
male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di
quella bambina al suo “buon Dio”. (parte II, libro V, cap. IV)
Ivan non crede che le sofferenze possano essere in qualche modo riscattate, possano acquistare un senso
all’interno di un piano provvidenziale, “servire” (per così dire) al trionfo finale dell’amore, dell’armonia,
del bene.
Hanno fissato un prezzo troppo alto per l’armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per
accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d’entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a
farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la
massima deferenza, il suo biglietto. (parte II, libro V, cap. IV)
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Renzo di fronte a Cecilia
Il problema che assilla Ivan Karamazov è lo stesso che Manzoni presenta indirettamente ai suoi lettori
nella famosa scena del capitolo XXXIV in cui Renzo assiste alle “indegne esequie” di Cecilia, la bambina
morta di peste che la madre affida ai monatti.
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto
annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata,
ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale (...). Portava essa in collo una bambina di
forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito
bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per
premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come
se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa
inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno:
della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente
quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con
un'esitazione involontaria (e) s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre,
dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno
bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar
sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al
monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. (...)
- O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito
abbastanza! hanno patito abbastanza! (cap. XXXIV, pag. 634-635-636)
La reazione di Renzo e quella di Alëša
Di fronte al dubbio religioso, Renzo reagisce in maniera piuttosto superficiale, senza affrontare
seriamente il problema che pure Manzoni pone ai suoi lettori. Da un lato il protagonista dei Promessi
sposi non ha gli strumenti culturali (teologici e filosofici) per farlo, dall’altro Manzoni non si sofferma
mai esplicitamente sul problema religioso - la fede in Dio non viene problematizzata, ma solo proposta ai
lettori come una verità indiscutibile.
Le parole di Ivan, invece, turbano profondamente Alëša, che però al momento non sa cosa rispondere al
fratello. Nel corso del romanzo, però, il giovane continua a interrogarsi su questo problema e la sua
riflessione emerge più volte. Ci soffermiamo in particolare su due episodi significativi.
La risposta mistica
Quando muore il suo maestro spirituale (lo starec Zosima), Alëša si accinge a scrivere un libro su di lui,
raccontandone la vita e i pensieri. Alcuni di questi pensieri riguardano proprio gli innocenti - i bambini e
gli animali:
Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a
turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non
ti vantare di superiorità nei confronti degli animali. essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua
grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa (...). Amate in special modo i bambini, giacché
anch’essi sono senza peccati, come gli angeli; essi vivono per commuovere e purificare i nostri cuori e
rappresentano una sorta di indicazione per noi. (parte II, libro VI, cap. III)
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Secondo le parole dello starec Zosima, la sofferenza è quindi provocata dagli uomini, non voluta da Dio.
Sono gli uomini che causano le sofferenze degli innocenti e turbano l’armonia gioiosa della creazione.
Si tratta di una risposta religiosa, mistica, che presuppone la fede in Dio e nella bontà della sua creazione.
La risposta psicologica
La seconda occasione importante in cui Alëša torna sul problema posto da Ivan si trova alla fine del
romanzo, quando il giovane partecipa al funerale di un bambino suo allievo.
Rivolgendosi agli altri scolari, Alëša li invita a ricordare il ragazzo morto, a non dimenticare mai il suo
coraggio, la sua bontà, insomma le sue virtù. E sottolinea l’importanza di questo ricordo:
Sappiate che non c’è nulla di più sublime, di più forte, di più salutare e di più utile per tutta la vita, di un
buon ricordo e soprattutto di un ricordo dell’infanzia, della casa paterna. Vi parlano molto della vostra
educazione, ma qualche meraviglioso, sacro ricordo che avrete conservato della vostra infanzia, potrà
essere per voi la migliore delle educazioni. (...) Per quanto possiamo diventare cattivi - che Dio non
voglia - quando ricorderemo il giorno in cui abbiamo sepolto Iljuša, come lo abbiamo amato negli ultimi
giorni della sua vita e come, in questo momento, ci siamo parlati da amici (...), allora anche il più cattivo
fra di noi, anche il più cinico - ammesso che si sia diventati tali - non oserà, dentro di sé, ridere di quanto
è stato buono e nobile in questo momento! (parte IV, epilogo, cap. III)
La morte di un bambino, la sofferenza di un innocente, non è quindi assurda e inutile, come diceva Ivan.
Dipende da noi attribuirle un senso, darle importanza, renderla capace (attraverso il ricordo) di diffondere
bontà e armonia nella nostra vita e nel mondo intero.
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