Home restaurant, quando la politica è strabica

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Home restaurant, quando la politica è strabica
Editoriale
Home restaurant, quando la politica è strabica
Una legge serve, ma che sia rigida e con sanzioni pesantissime. Quella approvata alla
Camera, invece, lascia ancora troppa libertà ai ristoranti casalinghi, che possono
continuare a fare concorrenza a quelli tradizionali
C’è una contraddizione di fondo, un esempio tipico degli equivoci all’italiana, nella proposta di legge
approvata dalla Camera dei deputati sugli home restaurant. Da un lato si vorrebbe circoscrivere il
fenomeno a una sorta di hobby di qualche famiglia che potrebbe
incassare fino a 5mila euro l’anno con un massimo di 500 coperti
complessivi, ma dall’altra si parla di fenomeno imprenditoriale. E
qui casca l’asino. O meglio, la politica italiana dimostra come al solito
di volere accontentare tutti creando mostri giuridici.
Il social eating potrà anche essere un fenomeno che si sta
diffondendo in tutta Europa, ma i sindacati della ristorazione, Fipe e
Confesercenti in primo piano, hanno tutto il diritto di essere
insoddisfatti e di parlare di nuovo colpo alla libera concorrenza. Sommessamente aggiungeremmo che
forse avrebbero anche il dovere di alzare di più il tono, se vogliono realmente dare voce agli interessi di una
marea di “veri” ristoratori che a breve potrebbero trovarsi concorrenti senza controlli e regole (definire
blanda la legge in questione è un eufemismo), ma che la legge in qualche modo proteggerà e metterà sul
mercato.
Le oltre 100mila imprese del settore (dalle trattorie di quartiere ai locali stellati) costituiscono un
patrimonio per molti versi unico del nostro sistema di accoglienza e, facendo le giuste tare, rappresentano
anche l’offerta più sicura di somministrazione di cibo in Europa, per le norme di sicurezza e di igiene a cui
sono sottoposte e per la qualità media dei prodotti utilizzati. Nas invece che Asl, insieme ad un’altra ventina
di soggetti controllori, sono i garanti di un sistema che ha per obiettivo proteggere il consumatore.
Niente di tutto questo (anche perché non ci sarebbero le risorse per farlo) sembra invece previsto per un
esercito di home restaurant che potrebbe sbocciare, senza titoli professionali o garanzie igienico sanitarie,
in ogni condominio, se non su ogni pianerottolo. Chi non ha in famiglia qualche chef autodidatta
appassionato di MasterChef? E quanti di questi rinuncerebbero a mettersi alla prova, guadagnandosi
magari anche quale euro? Per non parlare della possibile cresta su un pollo di batteria spacciato per uno di
Brest o un pomodorino cinese messo in menu come Pachino. A evitare queste possibili truffe al ristorante ci
pensano i controlli delle istituzioni, ma in casa della signora Maria di Saluzzo o dal Piero di Canicattì, chi
farebbe gli accertamenti?
E non parliamo della quasi certezza di evasione fiscale. Siamo in Italia, non in Germania...
Non sorprende infine che a criticare la legge perché ritenuta troppo restrittiva sia la Confedilizia, un
sindacato dei proprietari di casa sempre pronto a tifare per qualche condono immobiliare e che negli home
restaurant (a conferma di come il fenomeno potrebbe essere dilagante) vede un’occasione per dare più
valore a qualche immobile. Immaginiamo già i cartelli di vendita o affitto: “ampio quadrilocale, doppi
servizi, terrazza panoramica al secondo piano di un lussuoso stabile dotato di rinomato home restaurant al
5° piano...”.
Di questo passo, invece di utilizzare i nostri migliori cuochi per promuovere il Made in Italy a Tavola, al
Governo basterà usare le promozioni su Facebook degli apprendisti cuochi domestici. Che poi si
compreranno anche un po’ di recensioni positive su TripAdvisor.
Una legge serve, ma che sia rigida e con sanzioni pesantissime. Sulla salute dei consumatori non si scherza.
Checché ne pensino Gnammo o la Confedilizia.
23 gennaio 2017
Alberto Lupini
www.italiaatavola.net
www.giornaledellisola.it - gennaio 2017