versione stampabile - Dipartimento di Filosofia

Transcript

versione stampabile - Dipartimento di Filosofia
Estensioni di Freud
Tommaso Ariemma
Sommario
Il saggio indaga il motivo dell’estensione nelle opere del pittore
Lucian Freud e, attraverso di esse, pone la questione dell’estensione all’interno della riflessione filosofica, soprattutto facendo riferimento al pensiero di Jean-Luc Nancy, che ha proposto un senso
positivo dell’essere-esteso, rispetto a quello negativo della tradizione classica, legandolo al concetto di esposizione. Il concetto
dell’estensione si rivela un concetto vertiginoso, perché esprime
l’eccedenza, il più d’uno, l’eredità incalcolabile. Insospettabilmente esso si mostra strettamente connesso alla natura profonda
dell’immagine, in special modo del ritratto in pittura: radicale
estensione dell’anima.
c 2007 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)
Copyright Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati
internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le
pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca,
scolastici e universitari afferenti al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per
scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non
limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori)
in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di
ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata
anche in utilizzi parziali.
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Otto gambe
Nel suo dipinto Sunny Morning – Eight legs (1997) il motivo dell’estensione
è già all’opera, già nell’opera. Il pittore Lucian Freud è ritratto steso su un
letto e abbracciato a un cane, sotto il letto due gambe sbucano e sembrano
essere quelle di un morto.
Lucian Freud, ovvero il nipote di Sigmund: a rigore, in questo caso, è
l’ultimo Freud, ovvero chi ne porta ancora il nome e, lo vedremo, chi ne
estende le teorie. Questo Freud che estende Freud, e la sua eredità, sembra
riprendere e sviluppare, senza saperlo, il celebre padre della psicoanalisi, che
nei suoi ultimi scritti enuncia la tesi sublime ed enigmatica: «Psyche ist
ausgedehnt, weiß nichts davon»1 .
La frase è stata ripresa in modo originale dal filosofo Jean-Luc Nancy2 ,
che, proprio a partire da essa, ha posto in termini antimetafisici il problema dell’estensione. Quest’ultima perde, infatti, ogni valenza negativa, attribuitale da Cartesio in poi, e diviene il principio di una pluralità, di un
contatto:
Extensa non significa una qualità di larghezza, di ampiezza di superficie: è esteso ciò che non è uno, ed è uno soltanto ciò che non è esteso,
il punto, che è precisamente l’uno che non si trova affatto nello spazio,
di cui è la negazione. L’estensione non è in rapporto, è in esposizione:
tutto, della sua cosa, non è che esposto, messo davanti, girato al di fuori
e senza dentro, da nessuna parte rigirato verso di sé, e di conseguenza
privato di “sé”.3
Ogni cosa si estende, ovvero ne tocca altre, fa corpo con un altro, magari
con un cane. L’estensione, per Nancy, coincide con l’esposizione. Un corpo
esteso è un corpo esposto: a una deformazione, alla morte, allo sfinimento. È
ciò che Freud dipinge, ed è anche ciò che Nancy coglie con il pensiero quando
scrive:
[. . . ] sant’Agostino, che non amava granché l’estensione e i corpi – forse per averli amati troppo in gioventù –, diceva che il corpo in generale
è un «tumor», un «tumore», un’escrescenza (non pensava al tumore
nella sua accezione moderna), una protuberanza che, «come tale», non
è un «bene». Ciò che è bene è soltanto il punto, il sé che è a sé, senza
alcuna estensione, ossia senza alcuna esposizione. Tutta la questione
si riassume in questo: un corpo è estensione. Un corpo è esposizione.
Non soltanto un corpo è esposto, piuttosto un corpo consiste nell’esporsi. Un corpo è essere esposto. E per essere esposto è necessario
essere esteso [. . . ].4
1
«La psiche è estesa, non ne sa nulla» (S. Freud, Gesammelte Werke, hrsg. v. A. Freud
u. a., Bd. XVII, Fischer, Frankfurt a. M. 1966, p. 152).
2
J.-L. Nancy, Corpus, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2004, p. 21.
3
Id., Il pensiero sottratto, tr. it. di M. Vergani, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 192.
4
Id., Dell’anima, “Teoria”, 17 (1997), 1, p. 7.
2
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
La celebre tesi «la psiche è estesa, non ne sa nulla» convoca, soprattutto,
una molteplicità di sensi: vi è più di un’estensione. Innanzitutto, l’estensione
dell’anima violerebbe la contrapposizione uomo/animale, in quanto anche il
cane, che il pittore steso sul letto abbraccia, ne sarebbe dotato. L’anima si
direbbe posseduta sia dall’uomo che dal cane, la sua proprietà sarebbe estesa
sia all’uno che all’altro: entrambi dormono sfiniti, e, sotto questo aspetto,
non vanno nemmeno distinti.
Il dipinto di Freud possiede, inoltre, un dettaglio inquietante: due gambe
spuntano da sotto il letto, e probabilmente, come già avevamo ipotizzato,
sono le gambe di un morto. Il colore, la rigidità, ne sono gli indizi. Il dipinto
pare estendersi dal basso verso l’alto, dal morto al vivo, oppure viceversa.
Tutti corpi, come se la nozione di corpo si estendesse, e si rivelasse il corpo
qualsiasi. Tutto è corpo, tutto è esteso.
Un doppio senso dell’estensione ha già preso il sopravvento, ovvero l’estensione del senso. L’estensione è l’essere del corpo, ma l’essere del corpo
stesso si estende, a ciò che credevamo ormai cosa (un morto) o non più carne.
L’estensione è ciò che è inagguantabile per il pensiero, perché dice l’aggiunta, il più d’uno, il suo toccare altro, il toccare del pensiero l’estensione
stessa. Scrive Nancy:
Nella Seconda Meditazione, procedendo al celebre esperimento immaginario del pezzo di cera, Descartes scrive che un pezzo di cera ha una
figura e un colore, che esso produce un suono; in seguito, qualora lo si
scaldi, esso cola, perde tutte le sue qualità e da quel momento non è
più, visto dallo spirito, per la sua inspectio mentis, che un’estensione.
In questa lettura, si ha l’impressione di avere chiaramente da una parte
l’estensione pura e dall’altra il pensiero puro, il fuori di sé completamente puro e l’in-sé completamente puro. Si potrebbe già domandare
semplicemente: come stanno in rapporto l’uno con l’altro? Com’è che
l’uno tocca l’altro? Precisamente: essi si toccano. È nel testo di Descartes. [. . . ] In Descartes il pensiero è senziente, e come tale esso
tocca la cosa estesa, esso è toccare l’estensione.5
Un corpo è esteso, non c’è dubbio, e se l’anima è estesa, come sostiene
Freud, sarà corpo anch’essa. Anche loro dovranno pur ammetterlo, ovvero
Cartesio e tutti quei filosofi che, in modo radicale, hanno considerato il pensiero altro dall’estensione, anche se inspiegabilmente congiunto a essa. Eppure solo dei corpi possono congiungersi, unirsi, anche solo abbracciandosi,
oppure sfiorandosi con un bacio. Mistero dell’estensione.
Il peso dell’anima
L’estensione non va intesa come proprietà statica, bensì, in primo luogo,
come movimento dovuto al peso del corpo, al peso singolare che caratterizza
5
Ibid., pp. 14-15.
3
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
ogni volta un’esistenza. I corpi di Lucian Freud sprofondano nelle poltrone,
si estendono fino a esplodere, a volte sembrano essere caduti a causa del loro
peso. Sfiniti, apatici, sognanti: pesano tutti.
I soggetti dei quadri di Freud non lo sanno, la loro psiche non ne sa nulla,
dell’estensione. Eppure Freud dipinge soprattutto questo: corpi stesi, corpi
estesi che nel loro stendersi manifestano tutta la loro estensione, attraverso
una nudità ogni volta singolare. I loro occhi, più che esibire un’espressione
triste, sembrano tentare di dormire, quando non sono chiusi. Il corpo sfinisce
l’anima, la estende.
L’estensione è, inoltre, irriducibile sia allo spazio che al tempo, piuttosto
è la loro complicazione: i corpi di Freud mostrano la loro vecchiezza, il loro
deterioramento, ovvero del tempo sulla lamina della pittura che implica una
certa modificazione dello spazio e del corpo.
L’estensione sarebbe dunque trascendentale, al di là del personale e dell’individuale, perché essa è precisamente ciò che accade all’individuo, ai suoi
bordi, ciò grazie a cui è possibile la sua individuazione.
Una nuova analitica esistenziale, svincolata dal primato dell’esistenza
umana, e al di là dei motivi teologici che pur gravavano su quella heideggeriana di Essere e tempo, dovrebbe tematizzare come orizzonte costitutivo
dell’e-sistenza quello dell’estensione, in quanto l’essere-nel-mondo dell’esserci, così come viene tematizzato da Heidegger6 , presuppone sempre un’estensione, fosse anche quella indefinita di ciò che, con un po’ troppa leggerezza,
viene chiamato “mondo”. Lo stesso Dasein tematizzato da Heidegger, l’esserci, è, in fin dei conti, un’estensione dell’essere, ossia il fatto che non c’è solo
l’essere o l’essere-solo. È ciò che nota Nancy quando scrive:
L’essere sé è necessariamente l’essere fuori, al di fuori, essere esposto o
esteso. È ciò che Heidegger tenta di far dire alla parola Dasein (l’esistenza): il Dasein è l’essere il «ci» (da) [. . . ] Non si tratta dunque di
esserci. Si tratta piuttosto, secondo questa formula, forse impenetrabile, di Heidegger, di «essere il ci» – esattamente nel senso in cui, quando
un soggetto appare, quando un bambino nasce, è un nuovo «ci» che
c’è. Lo spazio, l’estensione in generale si distende e si apre.7
Scarpe, pennello. . .
Anche quando Freud, il pittore, si ritrae nudo entra in gioco l’estensione.
In Painter working, reflexion (1993) ha in mano un pennello e una tavolozza,
indossa delle scarpe. Il corpo del pittore fa corpo con essi, crea un nuovo
corpo. Non sono oggetti tecnici, perché non si dà mai qualcosa come l’oggetto
tecnico. C’è invece una tecnica, ovvero una singolare congiunzione. Il corpo,
6
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976,
pp. 76-167.
7
J.-L. Nancy, “Dell’anima”, cit., p. 17.
4
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
il corpo nudo, è all’origine già tecnico, nel suo poter far corpo con protesi,
fossero abiti o pennelli non importa: sono sempre estensioni.
Il pittore che fa corpo con il suo pennello non si distingue dal corpo
erotico, dal suo fondamentale far corpo con l’altro. Questo sembra essere
il senso dell’enigmatico quadro The painter is surprised by naked admirer
(2004-2005), che ritrae il pittore nell’atto di dipingere, con ai suoi piedi una
modella nuda che gli stringe le gambe con passione.
Il corpo di Freud è, inoltre, l’indice di una particolare attenzione verso
i propri modelli, come pure di un altro senso dell’estensione: il suo corpo
vecchio, sproporzionato e al di là di ogni senso comune del gusto, è indicativo
della sua pittura. I suoi modelli, infatti, non sono modelli in senso classico,
ma corpi qualunque irrimediabilmente marchiati dalle loro protuberanze, dal
loro sesso, dalle loro estensioni singolari. Il gusto si estende fino al disgustoso,
allo sgradevole a vedersi, il bello fino al brutto.
La sua pittura si estende a ogni cosa attiri la sua attenzione. Freud è un
caratterista.
Il caratteristico domina il suo autoritratto da parte a parte: ogni quadro
di Freud reca la sua impronta, ma Painter working, reflexion (1993) è caratteristico in senso letterale. Non vi è solo la firma di Freud, ma il pittore che
firma, il suo monogramma, ed è nudo, esposto. Nell’immagine, per esteso,
dalla testa ai piedi, a essa consegnato, come ogni suo modello. È ancora
l’estensione a distinguerlo da altri autoritratti.
Scrive Franco Rella:
Freud ha sfiorato la stessa spietatezza di Simenon in un autoritratto,
Reflexion 1993, in cui appare frontalmente nudo, come in un terribile
disegno di Dürer – autore di numerosi autoritratti – del 1505, con delle
pantofole sformate ai piedi, che richiamano le scarpe di Van Gogh,
che anche ha dipinto decine di autoritratti. L’atteggiamento è quello
di Rembrandt, che ha dipinto anch’egli decine di autoritratti e che,
nell’ultimo, quello della National Gallery, ha cancellato il pennello che
stringeva in un primo tempo tra le mani, per intrecciare le dita che non
dipingeranno più quegli occhi che si stanno spingendo nel vuoto. Freud
ha nella mano sinistra una tavolozza che pende lungo il fianco, che forse
cadrebbe a terra se egli non la tenesse stretta tra le dita. Nella sinistra
tiene un pennello sollevato in alto, come il pugnale di un suicida: nella
stanza non ci sono tele o cavalletti su cui possa depositarsi una pittura.8
Il pittore e le sue estensioni, in tutti i sensi: questo mostra l’autoritratto
di Lucian Freud. Gli altri autoritratti nudi, come quelli di Dürer, prevalentemente a mezzo busto o incompleti9 , non sono autoritratti per esteso,
ossia votati all’estensione. Ma l’autoritratto di Freud sembra dire ancora
8
F. Rella, Dall’esilio.
La creazione artistica come testimonianza, Feltrinelli,
Milano 2004, p. 69.
9
Cfr. F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Feltrinelli,
Milano 1998, pp. 52-67.
5
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
altro: come sottolinea Rella, non vi sono tele, il pennello del pittore è curiosamente alzato. E, più che esprimere un gesto suicida, sembra che sia
nell’atto di dipingere noi, chiunque, secondo quell’estensione del modello
prima accennata.
Tuttavia, l’autoritratto dice anche e soprattutto della tela, dell’immagine: essa è invisibile, curiosamente diafana; c’è qualcosa nell’immagine
d’invisibile.
Una tale invisibilità, è ciò che mostreremo, ha ancora a che fare con l’estensione, ovvero con l’estensione dell’immagine, come estensione dell’anima
per eccellenza.
Ogni cosa è un ritratto
L’estensione raggiunge il suo vertice nel ritratto. E, non a caso, il ritratto è
la cifra della pittura di Freud. Il ritratto estende l’inesteso, divenendo l’immagine di ciò che si considera semplicemente l’unico o l’irripetibile, il raro.
Scrive Nancy, a proposito del ritratto: «[. . . ] il ritratto dipinge l’esposizione. Cioè la mette in opera. [. . . ] Il ritratto ricorda in ciascun essere finito
l’infinito dilatarsi dell’uno»10 .
Il ritratto ripete l’irripetibile, lo estende, ne diviene traccia, e, nondimeno,
lo espone. «Tutto è autobiografico e tutto è un ritratto»11 : è la celebre frase
di Lucian Freud che estende, a rigore, la tesi del nonno: la psiche è estesa.
Potrebbe essere ovunque.
Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, non dice fin dove si estende.
Lucian Freud azzarda: essa si estende a tutto ciò che la riguarda. Anche e
soprattutto a tutto ciò che la ritrae.
Ogni cosa lascia luogo, e il ritratto (nient’altro che la sua estensione) ne
raccoglie la partenza.
La psiche lascia luogo, lasciandosi supplire ogni volta dalla sua estensione,
ma nello stesso tempo essa pure lascia luogo, in un altro senso: ossia permette
che avvenga dell’altro, il ritratto stesso in questo caso. L’estensione è insieme
offerta e partenza, ovvero traccia, segno.
Il segno è, da sempre, l’estensione per eccellenza, il supplemento inquietante. Esso ha sempre implicato un aver luogo, che indica una partenza, in
cui chi parte, o ciò che parte, resta senza sapere della sua estensione, che
lo congeda. Così la tesi “la psiche è estesa, non ne sa nulla” non dice che
l’avvenire singolare e l’eredità incalcolabile.
In secondo luogo, la tesi pure enuncia una logica dell’immagine, estensione per eccellenza, l’estensione dell’estensione quando essa si fa finita. Scrive
acutamente Deleuze:
10
J.-L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, tr. it. di R. Kirchmayr, Cortina, Milano 2002,
pp. 26, 53.
11
Cfr.
W. Feaver, “Freud al Correr: cinquant’anni”, in Lucian Freud, tr. it.
di V. Palombi, Electa, Milano 2005, p. 22.
6
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Quando dici «ho fatto l’immagine», vuol dire che è proprio finita, non
c’è più possibile. La sola incertezza che ci fa andare avanti, è che perfino
i pittori, perfino i musicisti non sono mai sicuri di essere riusciti a fare
l’immagine. Quale grande pittore non si è detto morendo che non era
riuscito a fare una sola immagine, nemmeno piccola piccola, semplice
semplice? È dunque piuttosto la fine, la fine di qualunque possibilità,
a dirci che l’abbiamo fatta, che abbiamo appena fatto l’immagine.12
L’immagine ha luogo quando l’estensione del corpo non è più possibile,
quando una certa possibilità dell’estensione si è esaurita, quando il corpo
muore, finisce distrutto, o semplicemente parte, o sta per partire. Ecco
allora che c’è dell’immagine per rilanciare questo esaurimento.
Emblematica è la scena mitica dell’invenzione del ritratto narrata da
Plinio:
Utilizzando anch’egli della terra, il vasaio Butade Sicionio scoprì per
primo l’arte di modellare i ritratti in argilla; ciò avveniva a Corinto ed
egli dovette la sua invenzione a sua figlia, innamorata di un giovane.
Poiché quest’ultimo doveva partire per l’estero, essa tratteggiò con
una linea l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una
lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla riproducendone il
volto; fattolo seccare con il resto del suo vasellame lo mise a cuocere
in forno.13
Il mito pone in strettissima correlazione il desiderio dell’immagine, del
ritratto, con una partenza. È noto, inoltre, come il termine immagine derivi
da imago, che, presso i Romani, designava la maschera funeraria ottenuta
dal calco in cera del volto dei cadaveri14 .
All’immagine, una volta fatta, non si può aggiungere più nulla, se non
un’altra immagine. La dimensione dell’immagine è l’estensione infinita di
ciò che sembrava aver cessato l’estensione, di ciò che non sa più nulla della
sua estensione.
L’immagine è l’inconscio
Il non sapere nulla dell’estensione dice l’inconscio. Una psicoanalisi dovrebbe
essere, in primo luogo, l’analisi di questa estensione non saputa, anche per
il semplice fatto che solo qualcosa di esteso è analizzabile. Pertanto, quella
che sembrava essere una delle ultime tesi di Freud – la psiche è estesa – era
il presupposto di tutta la psicoanalisi.
12
G. Deleuze, L’esausto, tr. it. di G. Bompiani, Cronopio, Napoli 2005, p. 28.
Plinio il Vecchio, Storia naturale V: Mineralogia e storia dell’arte, tr. it. di A. Corso,
R. Mugellesi, G. Rosati, Einaudi, Torino 1988, p. 473.
14
Cfr. J.-C. Bailly, L’apostrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum, tr. it. di S. Chiodi,
Quodlibet, Macerata 1998, p. 86.
13
7
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Ma, attraverso Lucian Freud, adesso sappiamo qual è l’estensione non
saputa per eccellenza: ciò che ritrae, ossia l’immagine. La psicoanalisi è
scienza delle immagini come estensioni, ossia dell’immagine in quanto tale.
Essa lo ha sempre saputo, senza davvero saperlo. Interpretando sogni, la
psicoanalisi non ha fatto che rivolgersi a immagini, a ciò che la psiche non
sa e a cui è irrimediabilmente legata. Parafrasando Lacan, secondo il quale
l’inconscio è strutturato come un linguaggio15 , potremmo dire che l’inconscio
è strutturato come un’immagine, ed è proprio grazie a questa struttura che
esso può essere accessibile e oggettivabile.
L’immagine si rivela innanzitutto come un’estensione che non esaurisce
mai il suo potenziale. Essa è vis extensiva. Né sensibile né intelligibile, piuttosto la loro estensione reciproca, il luogo in cui si toccano, luogo toccante
a sua volta.
Ritorniamo di nuovo alla prima tela che abbiamo descritto e analizzato:
Sunny Morning – Eight legs (1997). Adesso sappiamo di un’altra estensione
del suo senso: quasi un’immagine dell’immagine. Essa rivela il suo rapporto
con la morte e il suo toccare l’animalità, quella del pittore, la nostra, un
estendersi che tocca, e mette a morte nello stesso tempo. Un’interpretazione,
la nostra, che è a rigore un’altra estensione di Freud, di cui non sa nulla.
Interpretazione che ci si è rivelata solo a partire da un’interrogazione intorno
all’immagine.
Il pittore vuole fare l’immagine e nient’altro. Ed è da questa dichiarazione
muta, piuttosto praticata, che deve partire ogni interrogazione dell’immagine
in pittura. Merleau-Ponty, pur avendo riservato all’interrogazione della pittura un ruolo decisivo all’interno della sua filosofia, dedica pochissime righe
alla questione dell’immagine16 .
Per Merleau-Ponty essa non celebra altro enigma che quello della visibilità17 . In verità, la pittura di Freud celebra ben altro che il visibile:
l’estensione, dentro e fuori l’immagine, che tocca.
L’esperienza dell’immagine non dice che questo: la tua psiche non ne sa
nulla, ma, in questo momento, è estesa, si estende. L’immagine la tende, catturandola. Si insinua, estende l’immaginazione, vi si aggiunge. Sotto questo
aspetto, non c’è pensiero che non sia estensione del pensiero. Estensione
che avviene attraverso un’eterogenesi, una venuta dell’altro. E, in quanto si
estende, esso si fa, pure, immagine.
15
Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della
psicoanalisi, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 21.
16
Cfr. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, tr. it. di A. Sordini, SE, Milano 1985.
17
Cfr. ibid., pp. 26-32.
8
ITIN ER A – R ivista di F ilosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Tommaso Ariemma
Tommaso Ariemma è dottore di ricerca presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli
Studi di Parma. È stato cofondatore e direttore della rivista di filosofia, arte e letteratura
“Ameba”. Ha pubblicato Fenomenologia dell’estremo. Heidegger, Rilke, Cézanne (Mimesis, 2005) e Il nudo e l’animale. Filosofia dell’esposizione (Editori Riuniti, 2006). Con
Luca Cremonesi ha curato la raccolta di scritti di A. Badiou, Oltre l’uno e il molteplice.
Pensare (con) Gilles Deleuze (Ombre corte, 2007).
9