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NEWSLETTER PRIVATE EQUITY
Indice dei contenuti:
Prefazione
Processo cd. di dual track: IPO vs M&A. Pro e
contro.
L’emissione di bond quale strumento di
rifinanziamento nell’ambito delle operazioni di
MLBO
L’impatto della Direttiva AIFM sulle operazioni di
private equity: obblighi di trasparenza e divieto di asset
stripping
Legittimità fiscale delle operazioni di leveraged buy-out
Le agevolazioni fiscali per i fondi di venture capital e
per le start-up innovative
Le operazioni di investimento in NPLs
Il Welfare Aziendale
Primavera 2013
Questo nuovo numero della nostra Newsletter inizia con un
interessante articolo che analizza l’utilizzo degli “high yield bonds”
quale strumento di acquisition finance nelle operazioni di LBO
condotte sul mercato italiano alla luce delle novità introdotte
dal cd. Decreto Crescita.
Segue una nota sul percorso cd. «dual track» (IPO e vendita)
sempre più seguito nelle operazioni di exit da parte degli
operatori di private equity.
Troverete poi una panoramica delle maggiori novità introdotte,
dopo lungo e acceso dibattito, dalla Direttiva AIFM in materia
di obblighi di trasparenza e di divieto di operazioni di cd. “asset
stripping” da parte dei fondi di private equity.
Seguono due interessantissime note in materia fiscale. La prima
affronta le principali contestazioni mosse in tempi recenti da
parte dell’Autorità fiscale alle operazioni di LBO in Italia. La
seconda nota illustra invece le rilevanti novità introdotte in
materia di agevolazioni fiscali per i fondi di VC e per le cd.
“start-up innovative”.
Si prosegue con un articolo che illustra i principali aspetti che
riguardano le operazioni di investimento da parte di fondi in
portafogli di crediti in sofferenza (“non performing loans”).
Chiudiamo con una panoramica sul cd. “welfare aziendale” e le
sue applicazioni quale possibile strumento di incentivazione al
management.
Come sempre ci auguriamo che la nostra Newsletter possa
essere di vostro interesse ed offrire qualche spunto di
riflessione. Restiamo naturalmente a disposizione per qualsiasi
approfondimento sulle tematiche affrontate e vi ricordiamo che
è gradito ogni suggerimento su altri argomenti da trattare nei
prossimi numeri.
Franco Agopyan (Editore)
([email protected])
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Processo cd. di dual track: IPO vs M&A.
Pro e contro.
collocamento basso e così optare per
l’operazione di M&A anziché per l’IPO.
-
Migliori multipli e prezzi più alti: avviare
un processo di IPO ingenera nel
potenziale compratore interessato ad
acquistare la società una sorta di urgenza
nel portare avanti e concludere
l’acquisizione nel minor tempo possibile,
ciò implicando una maggiore capacità
negoziale da parte del venditore della
società target - anche in termini di prezzo
d’acquisto e di multipli applicati ai fini del
calcolo dello stesso -. Al contempo,
potrebbe accadere che il prezzo di
collocamento in fase di IPO, ove la
società dovesse, in ultima istanza,
preferire tale ipotesi (rispetto a quella di
M&A), risenta positivamente dell’interesse
riposto in tale società dal potenziale
acquirente.
-
Minimizzazione dei costi: un processo di
dual track permette di sostenere minori
costi rispetto al totale dei costi che la
società sosterrebbe ove ponesse in essere,
in momenti separati, un processo di IPO
ed un’operazione di M&A; questa
riduzione dei costi (che ovviamente
aumentano rispetto al caso di sola IPO o
sola operazione di M&A, ma non a livello
tale da raddoppiare) è resa possibile da
economie di scala (in termini di costi
legali/contabili,
tempi
impiegati,
personale dedicato, etc.)
Con la definizione di dual track si è soliti, anche
in Italia, individuare il processo posto in essere
da parte di una società (ed i suoi azionisti di
riferimento) mediante il quale, sostanzialmente
in parallelo, viene avviato su un doppio binario
(cd. dual track) sia un progetto finalizzato alla
quotazione delle azioni della società (IPO), sia
un progetto volto alla cessione delle azioni di tale
società mediante un’operazione straordinaria
(M&A).
Trattandosi di un processo complesso, ciascuna
società (e, per essa, il proprio organo
amministrativo) è tenuta a valutare se tale
processo di dual track possa costituire una
soluzione effettivamente percorribile per la
società, anche in considerazione della propria
struttura, delle proprie risorse e delle proprie
opportunità.
Ciascuna società dovrà, dunque, valutare
attentamente i costi, da un lato, ed i benefici,
dall’altro lato, nel porre in essere tale strategia:
bisognerà, così, analizzare non soltanto i costi
diretti (ad esempio, costi per consulenze legali,
contabili, fiscali, commissioni per financial
advisors, etc.), ma anche i costi indiretti (quelli che
potrebbero rientrare nell’alveo dei cd. costiopportunità) derivanti dall’impiego di risorse
interne (per lo più di alto livello) in un processo
complesso ed impegnativo che potrebbe
concludersi con un “nulla di fatto”, anziché
impiegare le stesse risorse nell’attività tipica
aziendale.
I principali vantaggi collegati ad un processo di
dual track sono classificabili come segue:
-
Maggiore probabilità di concludere
un’operazione:
poter
godere
contestualmente di due diverse soluzioni
(IPO vs M&A) rende ovviamente più
probabile il perfezionamento di una delle
due operazioni, e soprattutto permette alla
società di non essere eccessivamente
esposta alle condizioni di mercato al
momento del lancio dell’IPO e, in
particolar modo, alla volatilità delle stesse.
Un processo di dual track potrebbe infatti
permettere alla società, ove al momento
del lancio dell’offerta le condizioni di
mercato non fossero favorevoli, di non
accontentarsi
di
un
prezzo
di
In subordine, anche nel caso peggiore – ossia nel
caso in cui un processo di dual track dovesse
concludersi senza l’IPO e senza l’operazione di
M&A – il processo di IPO potrebbe comunque
costituire una sorta di trampolino per la società
(cd. profile-builder), in considerazione del fatto che
la società potrebbe comunque rientrare
nell’alveo di potenziali società target da tenere in
considerazione per possibili future operazioni di
M&A.
Un processo di dual track si caratterizza anche
per una serie di potenziali svantaggi, tra i quali
quelli classificati come segue:
-
CHIOMENTI STUDIO LEGALE
Potenziali impatti negativi sul management e
sul business: un processo di IPO, seppur
intenso e time consuming, si caratterizza per
momenti in cui il management può non
lavorare sul progetto di quotazione, così
potendosi dedicare alla propria attività
ordinaria. Ciò, invece, non avviene nel
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caso di dual track considerato che,
usualmente, quando il management non
lavora operativamente sul progetto di
quotazione (ad es. dopo il primo filing in
attesa del primo giro di commenti da
parte di Consob e/o delle altre autorità
coinvolte) ne approfitta per sfruttare tale
periodo per lavorare sulla possibile
operazione di M&A, così riducendo
drasticamente il tempo impiegato dal
management per il business, i clienti, i
fornitori, le strategie, ecc.
-
Potenziali scelte subottimali: perché un
processo di dual track funzioni è
strettamente necessario che le tempistiche
di IPO e M&A si incastrino perfettamente
al fine di concludersi, sostanzialmente, in
contemporanea così da permettere che,
pressoché in modo contestuale, la società
possa decidere se procedere con l’IPO
ovvero con l’operazione di M&A. Al
contrario, potrebbe avvenire che le
tempistiche non siano perfettamente
allineate e, pertanto, la società sia costretta
a prendere una decisione in un momento
prematuro (ossia quando ancora uno dei
due processi non è ancora ultimato); ciò
potrebbe comportare scelte subottimali in
termini di prezzo, condizioni contrattuali,
dichiarazioni e garanzie, ecc.
Un elemento importante da tenere in
considerazione nel caso di dual track è, infine, la
gestione del flusso informativo tra i vari soggetti
coinvolti nei due diversi progetti, soprattutto per
quanto riguarda le informazioni che vengono
fornite al potenziale compratore quando, in
contemporanea, la società sta predisponendo un
prospetto di offerta al pubblico e di ammissione
a quotazione. A tal proposito, è innanzitutto
importante che il potenziale acquirente abbia
sottoscritto
un
adeguato
accordo
di
confidenzialità; inoltre, è opportuno evitare di
trasmettere al potenziale compratore il prospetto
fintantoché lo stesso non sia stato approvato,
cercando nel frattempo di vincolare il più
possibile il potenziale compratore in modo tale
da limitare, per quanto possibile, la diffusione
delle informazioni in suo possesso. Tale
diffusione potrebbe infatti comportare che
Consob (e/o ogni altra autorità coinvolta nel
processo di quotazione) possa chiedere di
riportare dette informazioni, ove rilevanti, anche
nel prospetto, ciò potendo eventualmente
costituire un grave problema per l’emittente,
soprattutto nel caso in cui si tratti di
informazioni sensibili (quali, ad esempio,
particolari dati
informazioni
di
mercato,
proiezioni,
Antonella Brambilla
([email protected])
Giovanni Filippo Pezzulo
([email protected])
L’emissione di bond quale strumento di
rifinanziamento nell’ambito delle operazioni
di MLBO
1.
Introduzione
Come noto, il 7 agosto 2012 il Parlamento ha
convertito, con la legge n. 134 (“Legge di
Conversione”), le disposizioni del decreto n.
83/2012, recanti misure urgenti per la crescita
del paese (“Decreto Crescita”).
Nell’ambito di tale intervento normativo è stata
rimossa
la
disparità
di
trattamento,
originariamente presente nel mercato italiano, tra
società quotate e società non quotate
nell’emissione di obbligazioni.
In particolare, il decreto Crescita ha provveduto,
tra l’altro, a:
(i)
rimuovere i limiti quantitativi all’emissione
di obbligazioni fissati dall’articolo 2412
(Limiti all’emissione) del codice civile,
modificando tale disposizione;
(ii)
risolvere il divario, in termini di
trattamento fiscale, tra i titoli emessi da
società non quotate rispetto ai titoli
emessi da società quotate, ivi inclusa
l’eliminazione del diverso trattamento
sulla deducibilità degli interessi passivi.
2.
Soggetti interessati
Le innovazioni introdotte dal Decreto Crescita
trovano applicazione nei confronti delle società
non emittenti strumenti finanziari quotati su
mercati regolamentati o su sistemi multilaterali di
negoziazione, diverse dalle banche e dalle
microimprese.
Vi sono incluse, dunque, oltre alle imprese non
quotate di maggiori dimensioni, anche le piccole
e medie imprese (PMI), non emittenti strumenti
finanziari quotati, che rientrano nella definizione
dettata dalla raccomandazione 2003/361/CE
della Commissione Europea, cioè quelle imprese
che (a) occupano meno di 250 persone, (b) il cui
fatturato annuo non superi i 50 milioni di Euro
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oppure (c) il cui totale di bilancio annuo non
superi i 43 milioni di Euro.
(i)
Esenzione dalla ritenuta: le società non
quotate potranno avvalersi dell’esenzione
dalla ritenuta alla fonte (aliquota 20%)
sugli interessi e sugli altri proventi,
corrisposti ad investitori esteri, sulle
obbligazioni, le cambiali finanziarie e titoli
similari negoziati su mercati regolamentati
o su sistemi multilaterali di negoziazione.
Resta fermo il rispetto delle condizioni
previste dal D.Lgs. 1 aprile 1996, n. 239
per l’individuazione degli investitori esteri
che hanno diritto all’esenzione.
(ii)
Deducibilità degli interessi passivi: le
società non quotate potranno dedurre gli
interessi
passivi
corrisposti
sulle
obbligazioni e sulle cambiali finanziarie
secondo le stesse regole previste per le
società quotate (in sostanza, nei limiti del
30% del Risultato Operativo Lordo della
gestione caratteristica). In particolare, se le
obbligazioni sono inizialmente sottoscritte
da, e successivamente circolano tra,
investitori qualificati, che non siano,
direttamente o indirettamente soci della
società emittente, non si applica lo
specifico regime di parziale indeducibilità
dal reddito dell’emittente degli interessi
passivi corrisposti sui titoli emessi da
società diverse dalle banche e non
quotate.
(iii)
Deducibilità delle spese di emissione: le
società non quotate potranno dedurre le
spese di emissione nell’esercizio in cui
sono sostenute, indipendentemente dal
criterio di imputazione a bilancio.
4.
I bond nell’ambito delle operazioni di
Sono invece escluse le banche e le imprese che
occupano meno di 10 persone e realizzano un
fatturato annuo oppure un totale di bilancio
annuo non superiori a 2 milioni di Euro
(microimprese).
3.
Le innovazioni introdotte dal Decreto
Crescita
3.1
Rimozione dei limiti quantitativi all’emissione
Ai sensi dell’articolo 2412 (Limiti all’emissione) del
codice civile, (a) le società possono emettere
obbligazioni per somma complessivamente non
eccedente il doppio del capitale sociale, della
riserva legale e delle riserve disponibili risultanti
dall'ultimo bilancio approvato, fermo restando
che (b) tale limite può essere superato se le
obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate
alla sottoscrizione da parte di investitori
professionali soggetti a vigilanza prudenziale a
norma delle leggi speciali (in caso di successiva
circolazione delle obbligazioni, chi le trasferisce
risponde, tuttavia, della solvenza della società
emittente nei confronti degli acquirenti che non
siano investitori professionali).
Nella previgente disciplina i limiti previsti dal
primo e dal secondo comma dell’articolo 2412
del codice civile, sopra richiamati, non trovavano
applicazione all'emissione di obbligazioni
effettuata da società con azioni quotate in
mercati regolamentati, limitatamente alle
obbligazioni destinate ad essere quotate negli
stessi o in altri mercati regolamentati.
In virtù degli interventi apportati dal Decreto
Crescita, tale deroga applicabile alle sole società
con azioni quotate, è adesso estesa alle società
con azioni non quotate, a condizione che le
obbligazioni emesse siano destinate ad essere
quotate in mercati regolamentati o in sistemi
multilaterali di negoziazione.
3.2
Il regime fiscale applicabile
Il Decreto Crescita, così come convertito dalla
Legge di Conversione, ha allineato il regime
fiscale applicabile ai titoli obbligazionari in esame
– a certe condizioni – al più favorevole regime
fiscale previsto per i titoli emessi dai c.d. grandi
emittenti (ossia, banche e società quotate). In
particolare, si segnala l’introduzione delle
seguenti previsioni:
merger leveraged buy-out
La rimozione dei limiti quantitativi all’emissione,
insieme alla rimodulazione del regime fiscale
applicabile hanno reso appetibile il ricorso
all’emissione di bond anche da parte delle società
non quotate.
Analogamente, il medesimo strumento è
diventato appetibile anche per la realizzazione di
operazioni finanziarie complesse, usualmente
realizzate tramite la concessione di finanziamenti
bancari, quali le operazioni di merger leveraged buy
out.
Nell’ordinamento italiano, secondo la disciplina
dettate dall’art. 2501-bis (Fusione a seguito di
acquisizione con indebitamento) e seguenti del codice
civile, le operazioni di merger leveraged buy-out sono
caratterizzate da due elementi predominanti: (i)
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l’assunzione di debiti da parte della società
acquirente (BidCo), al fine di conseguire il
controllo della società bersaglio (Target) e (ii) la
funzione di garanzia generica, o di fonte di
rimborso, assolta dal patrimonio della società
Target in relazione al finanziamento ottenuto
dalla società acquirente, per realizzare
l’operazione di acquisizione stessa.
Le operazioni di merger leveraged buy-out si
sviluppano, pertanto, attraverso le seguenti fasi:
(i) la società sponsor costituisce una nuova
società (la BidCo) al fine specifico di realizzare
l’operazione di acquisizione; (ii) la BidCo ricorre
ad un finanziamento a breve termine (bridge
facility) per raccogliere fondi sufficienti per
procedere all’acquisto del pacchetto azionario
della Target; (iii) a seguito dell’acquisizione si
procede alla fusione tra la BidCo e la Target (la
c.d. MergerCo)e, successivamente, (iv) si procede
al rifinanziamento del bridge facility attraverso un
finanziamento di medio-lungo periodo garantito
dagli asset della MergerCo.
A seguito delle innovazioni introdotte dal
Decreto
Crescita
e,
in
particolare,
dall’allargamento della capacità delle imprese
non quotate di fare ricorso al mercato
obbligazionario, gli operatori del private equity
hanno iniziato a guardare – anche nel mercato
italiano – allo strumento dei prestiti
obbligazionari in aggiunta o in sostituzione dei
prestiti bancari.
Lo strumento dei bond emessi da società non
quotate è stato, infatti, di recente utilizzato anche
nell’ambito di operazioni di merger leveraged buy-out
realizzate in Italia.
In particolare, nel contesto di tali operazioni,
l’emissione del prestito obbligazionario può
innestarsi
in
due
distinti
momenti
dell’operazione di mlbo. Infatti, a seguito
dell’acquisizione della Target da parte della BidCo,
l’emissione da parte di quest’ultima di secured highyield bonds può avvenire o in momento successivo
alla fusione, come strumento, quindi, di
rifinanziamento del bridge financing ricevuto da
BidCo in sede di acquisizione o, in alternativa,
può essere la prima forma di finanziamento
diretto dell’acquisizione, senza alcun intervento
ponte da parte del sistema bancario.
Nonostante le peculiarità di tali tipologia di
operazioni, si riesce così a coniugare
un’operazione straordinaria dalla particolare
complessità operativa e di gestione dei flussi,
come il merger leveraged buy-out, con l’emissione di
titoli obbligazionari, gli high-yield bonds, che
rappresentano una delle fonti di finanziamento
delle società di media dimensione, non quotate,
caratterizzate da ottimi indici finanziari e
patrimoniali e alti ritorni sull’investimento.
5.
Caratteristiche dell’emissione
Scendendo in maggiore dettaglio in merito alle
caratteristiche adottate nell’ambito di tali
operazioni, appare rilevante segnalare che i bond
emessi sono sempre stati destinati a investitori
qualificati e hanno avuto una denominazione
pari o superiore a Euro 100.000, in modo da
beneficiare dell’esenzione dall’applicazione delle
disposizioni in tema di sollecitazione
all’investimento.
I titoli, anche per soddisfare i requisiti previsti
dal Decreto Crescita per l’applicazione del
regime fiscale sono stati quotati presso uno o più
mercati regolamenti.
Un aspetto di rilievo dell’utilizzo dello strumento
bond è anche rappresentato dalla possibilità,
tramite appositi meccanismi di subordinazione,
di creare una vero e proprio tranching nel debito
di BidCo. Ciò consente di adottare una efficiente
struttura di finanziamento da parte della società
e, allo stesso tempo, diversificare e allargare la
base degli investitori.
La subordinazione può avvenire o in base alle
disposizioni codicistiche (quindi con valenza
anche societaria) o attraverso appositi
meccanismi contrattuali. In entrambi i casi
appare possibile la definizione di una struttura
del passivo di BidCo che contenga, accanto
all’equity, tanto indebitamento senior, che
mezzanino e/o subordinato.
Un ulteriore elemento di interesse in tale
tipologia di operazioni è rappresentato dal security
package dei titoli in questione. Infatti, in linea con
la struttura dei finanziamenti mlbo, i bond emessi
nell’ambito di tali operazioni possono godere di
un articolato pacchetto di garanzie reali. Tali
garanzie possono includere, in particolare, pegni
sulle azioni della BidCo, nonché pegni su quote e
azioni delle società controllate da BidCo, a cui si
aggiungono, a seguito della fusione con la Target,
garanzie rilasciate su asset della stessa.
Peraltro, ciò comporta che – in genere – le
operazioni in questione siano regolate da una
pluralità di leggi applicabili.
In genere, infatti, gli high yield bond destinati al
collocamento sul mercato americano sono
regolati dalla legge dello Stato di New York.
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Naturalmente, qualora gli strumenti siano
collocati presso investitori europei, ben può
essere adottata la legge italiana o inglese. Il
security package, invece, è in genere disciplinato
dalla legge italiana.
Gregorio Consoli
([email protected])
Benedetto La Russa
([email protected])
L’impatto della Direttiva AIFM sulle
operazioni di private equity: obblighi di
trasparenza e divieto di c.d. “asset
stripping”
Premessa
L’industria dei fondi di investimento alternativi
sarà interessata, nei prossimi mesi, da
significativi cambiamenti normativi derivanti dal
recepimento della Direttiva 2011/61/UE
(“AIFMD” o la “Direttiva”). Come noto,
l’AIFMD introduce un quadro normativo
armonizzato in relazione ai gestori (“GEFIA”)
di fondi di investimento alternativi (“FIA”).
Quest’ultima nozione è idonea, tra l’altro, a
ricomprendere (oltre ai fondi hedge, immobiliari,
etc.) anche i fondi di private equity.
In vista della scadenza del termine per il
recepimento della Direttiva – 22 luglio 2013 – di
seguito si offre una sintetica descrizione delle
disposizioni dell’AIFMD relative agli obblighi di
trasparenza e al divieto di c.d. “asset stripping” e
alcune prime valutazioni in ordine al possibile
impatto di tali previsioni sulle operazioni di
private equity.
Ambito di applicazione
Le disposizioni in materia di trasparenza e asset
stripping si applicano ai GEFIA che gestiscono
uno o più FIA che, individualmente o
congiuntamente (in base a un accordo volto
all’acquisizione del controllo, eventualmente
anche in cooperazione con uno o più GEFIA
che gestiscono altri FIA) acquisiscono il
controllo1 di società quotate o non quotate.
Specifici obblighi di trasparenza sono poi dettati
Per controllo si intende la detenzione di oltre il 50%
dei diritti di voto nella società; in caso di emittenti
quotati, la nozione rilevante è quella ricavabile dalla
disciplina in materia di OPA obbligatoria (nel nostro
ordinamento, dovrà farsi riferimento all’articolo 106
del TUF, che, come noto, prevede in via generale,
come soglia rilevante per l’obbligo di OPA, l’acquisto
di una partecipazione superiore al 30%).
1
in relazione all’acquisto di partecipazioni non di
controllo in società non quotate.
Un’importante esenzione dall’applicazione delle
disposizioni in esame è prevista per le
partecipazioni acquisite in piccole e medie
imprese
(“PMI”),
definite
nella
Raccomandazione 2003/361/CE come le
imprese che (i) impiegano meno di 250 persone
e (ii) hanno un fatturato annuo inferiore a 50
milioni di Euro e/o un totale di bilancio
inferiore a 43 milioni di Euro. La citata
Raccomandazione prevede, tra l’altro, che per la
valutazione dei requisiti descritti si debba tener
conto dei dati riferibili anche ad eventuali
imprese “collegate” o “associate” all’impresa
rilevante, per come risultanti, eventualmente, dal
bilancio consolidato.
Inoltre, le norme dell’AIFMD non interessano le
partecipazioni acquisite in società-veicolo
istituite per la detenzione o l’amministrazione di
beni immobili.
Obblighi di trasparenza
L’AIFMD impone ai GEFIA di comunicare o
rendere disponibili una serie di informazioni in
caso di acquisto di partecipazioni rilevanti o di
controllo nella società target, secondo quanto di
seguito precisato.
(a)
Obblighi di notifica in caso di acquisto di
partecipazioni rilevanti in società non
quotate
Qualora un FIA acquisti una partecipazione in
una società non quotata che raggiunga, superi o
scenda al di sotto di determinate soglie2, il
relativo GEFIA deve comunicare – al più presto
o comunque entro 10 giorni lavorativi dalla data
rilevante – alle autorità competenti del proprio
Stato membro d’origine la percentuale di diritti
di voto detenuta nell’impresa partecipata.
(b)
Obblighi di notifica in caso di acquisto del
controllo di società non quotate
Nel caso in cui il FIA acquisiti il controllo di una
società non quotata, il relativo GEFIA trasmette,
nel medesimo termine di cui sopra, apposita
comunicazione alla società, ai relativi azionisti e
alle autorità competenti del proprio Stato
membro d’origine. Tale comunicazione deve
fornire informazioni in merito a: (i) la situazione
risultante in termini di diritto di voto; (ii) le
E cioè il 10%, 20%, 30%, 50% e 75% delle
partecipazioni con diritti di voto nell’impresa.
2
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condizioni in base alle quali è stato acquisito il
controllo (i.e. gli azionisti coinvolti, i soggetti
legittimati all’esercizio del diritto di voto e, se del
caso, la catena di controllo attraverso la quale i
diritti di voto sono effettivamente detenuti); (iii)
la data di acquisto del controllo.
(c)
Obblighi di disclosure in caso di acquisto
del controllo di società quotate o non
quotate
Nel caso in cui il FIA acquisti il controllo di una
società quotata o non quotata, il GEFIA deve
mettere a disposizione dei soggetti specificati alla
lettera (b) che precede3 informazioni in merito a:
(i) l’identità dei GEFIA che hanno acquisito il
controllo; (ii) le politiche adottate per la
prevenzione e la gestione di conflitti di interesse
tra il GEFIA, il FIA e la società target; (iii) le
politiche in materia di comunicazione (esterna e
interna) relativa alla società, in particolare per
quanto riguarda i rapporti con i lavoratori. Con
particolare riferimento alle partecipazioni di
controllo acquisite in società non quotate, il
GEFIA deve altresì (i) rendere disponibili alla
società e ai relativi azionisti informazioni circa i
propri programmi per lo sviluppo del business
della società e le ripercussioni probabili
sull’occupazione, e (ii) informare le autorità
competenti del proprio Stato membro d’origine
e gli investitori del FIA in merito alle modalità di
finanziamento dell’acquisizione.
L’AIFMD prevede, inoltre, che il GEFIA debba
richiedere e adoperarsi al meglio affinché il
consiglio di amministrazione della società target
comunichi le informazioni di cui alle lettere (b) e
(c) – ad eccezione delle informazioni sul
finanziamento dell’acquisizione, a cui tale
previsione non si applica – ai rappresentanti dei
lavoratori o, in mancanza, ai lavoratori stessi.
Con riferimento alle società non quotate, gli
obblighi di trasparenza continuano a trovare
applicazione anche dopo l’acquisto del controllo,
essendo previsto, in queste ipotesi, che il GEFIA
debba includere specifiche informazioni (ad
esempio, sull’andamento e il prevedibile sviluppo
della società) nella relazione annuale del FIA
ovvero debba fare in modo che tali informazioni
siano incluse nella relazione annuale della società
target. Tali informazioni devono essere in
entrambi i casi messe a disposizione del
Gli Stati membri possono prevedere, in sede di
recepimento, che tali informazioni siano altresì
fornite nei confronti delle autorità competenti dello
Stato membro della società target, in caso di società
non quotate.
3
personale della società target e degli investitori del
FIA, secondo le modalità specificate nella
Direttiva.
Divieto di asset stripping
Al fine di evitare la realizzazione di operazioni di
acquisizione volte a “depredare” le attività della
società target, la Direttiva prevede che, per un
periodo di 24 mesi dall’acquisto del controllo di
una società quotata o non quotata da parte del
FIA, il relativo GEFIA non possa approvare – o
contribuire a che vengano approvate4 –
operazioni di distribuzione, riduzione del
capitale5, rimborso o acquisto di azioni proprie
aventi le caratteristiche di seguito descritte,
essendo di contro obbligato ad adoperarsi al
meglio per impedire che tali operazioni siano
realizzate.
Più in particolare, il divieto di asset stripping si
applica a:
(a)
qualsiasi distribuzione6 agli azionisti
effettuata quando, alla data di chiusura
dell’ultimo esercizio, l’attivo netto
risultante dal bilancio annuale è, o in
seguito a tale distribuzione diverrebbe,
inferiore
all’importo
del
capitale
sottoscritto aumentato delle riserve che
possono essere non distribuite in forza di
previsioni di legge o statutarie;
(b)
qualsiasi distribuzione agli azionisti di
importo superiore all’ammontare degli
utili dell’ultimo esercizio (i) aumentato
degli utili portati a nuovo e delle somme
prelevate dalle riserve disponibili e (ii)
diminuito delle eventuali perdite degli
esercizi precedenti e delle somme iscritte a
riserva conformemente alla legge o allo
statuto;
La norma dispone, infatti, che il GEFIA non possa
“facilitare, sostenere o istruire” tali operazioni, né possa
votare a favore delle stesse, nella misura in cui è
legittimato a partecipare alle adunanze degli organi
societari della società target.
5 Il divieto relativo alle operazioni di riduzione del
capitale non si applica in caso di riduzione del capitale
per perdite o qualora le somme liberate siano iscritte
in una riserva indisponibile purché, a seguito di tale
operazione, l’importo di detta riserva non sia
superiore al 10% del valore del capitale sottoscritto
risultante dall’operazione di riduzione.
6
Il termine “distribuzione” comprende, in
particolare, il pagamento di dividendi o altri proventi
relativi alle azioni.
4
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(c)
gli acquisti di azioni proprie, nella misura
in cui sia possibile procedere agli stessi,
che determinino una riduzione dell’attivo
netto al di sotto della soglia individuata
alla lettera (a) che precede.
Possibili elementi di rilievo per le operazioni di private
equity
Le previsioni dell’AIFMD sopra descritte
dovrebbero verosimilmente acquisire rilievo non
secondario nella strutturazione delle operazioni
di private equity e nella redazione della relativa
documentazione contrattuale.
Tra le conseguenze di maggiore possibile
impatto, può segnalarsi l’esigenza di verificare,
prima dell’acquisizione e durante tutta la durata
dell’investimento, la sussistenza dei requisiti
(abbastanza articolati) perché l’impresa target
possa essere eventualmente qualificata come
PMI, nonché la necessità di disciplinare
opportunamente in via contrattuale le attività
che dovranno essere svolte, al fine di adempiere
alle previsioni della Direttiva, dai diversi soggetti
coinvolti nell’acquisizione e nella gestione della
società target, avendo a mente, in particolare, gli
obblighi di best efforts imposti al GEFIA rispetto
ad attività o operazioni che potrebbero non
ricadere nella sua sfera di controllo “immediato”.
Quanto alle disposizioni in materia di asset
stripping, queste potrebbero in astratto influire
sulla scelta della struttura finanziaria ottimale per
la realizzazione dell’operazione di acquisizione,
sebbene l’effettivo impatto di tali norme
potrebbe
essere
non
particolarmente
determinante in considerazione dei limiti già
previsti
nell’ordinamento
italiano
con
riferimento ad alcune delle operazioni societarie
interessate dalle norme della Direttiva.
Infine, si segnala che l’AIFMD consente dagli
Stati membri di introdurre obblighi anche più
stringenti di quelli sopra descritti, sì che
occorrerà comunque attendere le disposizioni di
attuazione della Direttiva, allo stato non
disponibili, per comprendere l’effettiva portata
delle nuove previsioni. Le disposizioni di
recepimento dovranno altresì provvedere a
dettagliare ulteriormente gli obblighi informativi
gravanti sui GEFIA e a coordinare le norme
della Direttiva, tra l’altro, con le disposizioni del
diritto comune societario e la disciplina sulle
OPA.
Alessandro Portolano
([email protected])
Angelo Messore
([email protected])
Legittimità fiscale delle operazioni di
leveraged buy-out
Recentemente l’Amministrazione finanziaria ha
in più occasioni contestato la legittimità fiscale
delle operazioni di leveraged buy out, nonostante
esse abbiano avuto pieno riconoscimento in
ambito civilistico (in presenza di determinate
cautele di ordine economico e finanziario,
nonché informative).
Le principali contestazioni mosse dall’Agenzia
delle entrate riguardano essenzialmente:
(i)
la legittimità della
interessi passivi; e
deduzione
degli
(ii)
la presenza di un servizio reso dalla
società veicolo appositamente costituita
(Newco) a favore dei soci, rappresentato
dall’assunzione
del
debito
per
l’acquisizione della società Target, da
remunerarsi con un corrispettivo
normalmente pari o superiore agli
interessi passivi sostenuti.
Il primo ordine di contestazioni, che
normalmente si muove nell’ambito del concetto
dell’elusione o dell’abuso del diritto, vede –
secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle
entrate - nella fusione della Newco con la società
acquisita (i.e., la società Target) il solo scopo di
consentire la deducibilità degli oneri finanziari
sostenuti per la sua acquisizione (analogo
risultato sarebbe raggiunto, in assenza di fusione,
con l’elezione per il regime del consolidato
fiscale tra Newco e la società target).
Tale tesi omette di considerare le ragioni di
ordine economico sottostanti alla necessità di
dover creare un apposito veicolo finalizzato
all’acquisizione della società target.
E’ noto infatti che la costituzione di Newco,
nonché la sua eventuale fusione con la società
Target, non rappresenta il frutto di una libera
scelta del soggetto acquirente, bensì deriva
tipicamente da una specifica richiesta delle
banche finanziatrici.
Gli enti finanziatori, in tal modo, ottengono
numerosi vantaggi, tra i quali, a mero titolo
esemplificativo, l’ottenimento di un doppio
livello di garanzia sul finanziamento concesso,
rappresentato dal pegno iscrivibile sia sulle
azioni di Newco che su quelle della società target
(e, successivamente alla fusione, anche sul
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patrimonio di tale ultima società), e avere il
debito collocato il più possibile vicino alle fonti
generatrici di cassa in modo tal da usare il cash
flow per il rimborso del finanziamento.
E’ altresì doveroso ricordare che la tesi
dell’Amministrazione finanziaria omette di
considerare che il regime di deducibilità degli
interessi passivi recato dall’articolo 96 del TUIR
si basa su principi di inerenza e competenza
fiscale aventi natura di presunzione assoluta.
E’ opportuno osservare che gran parte della
giurisprudenza si è espressa a sostegno della
legittimità fiscale delle operazioni di Leveraged buy
out (si veda, ex multis, Corte di Cass. 21 gennaio
2011, n. 1372; Commissione Tributaria
Regionale di Milano 13 aprile 2011, n. 36;
Commissione Tributaria Regionale di Torino 24
agosto 2012, n. 39).
Con riferimento alla seconda tipologia di
contestazioni, inquadrabili nell’ambito della
disciplina del transfer pricing, è anch’essa da
ritenersi priva di fondamento.
Tali
contestazioni
poggerebbero
infatti
sull’erronea interpretazione del divieto stabilito
dalle Linnee Guida OCSE, in capo alla società
controllante, di addebitare alle società controllate
i costi relativi alle attività svolte in qualità di
azionista.
Nella sostanza, invece, la sussistenza di un
servizio fornito da Newco ai propri soci e
consistente nell’acquisizione della società Target e
nella raccolta dei fondi a tal fine necessari non è
ravvisabile da alcuna volontà delle parti ed è
principalmente escluso dalla natura stessa
dell’operazione (in senso analogo, cfr.
Commissione Tributaria Provinciale di Milano
23 febbraio 2013, n. 57).
E’ tuttavia opportuno evidenziare che con una
precedente sentenza, la Commissione Tributaria
Regionale di Milano (sentenza 5 marzo 2012, n.
26) aveva ritenuto soggetta alla disciplina del
transfer pricing un’operazione di mlbo effettuata da
un veicolo italiano posseduto da una società
lussemburghese, in quanto, a parere dei Giudici,
l’operazione sarebbe avvenuta attraverso un
“sotteso” finanziamento infruttifero a favore
della casa madre estera.
In conclusione, nonostante l’orientamento
dell’Agenzia delle entrate, si ritiene che le
operazioni di mlbo laddove fisiologicamente
supportate da valide ragioni economiche e
adeguatamene strutturate, sono legittime anche
da un punto di vista fiscale.
Massimo Antonini
([email protected])
Luca Bazzoni
([email protected])
Le agevolazioni fiscali per i fondi di venture
capital e per le start-up innovative
Premessa
Nell’ambito delle misure adottate recentemente
dal Governo al fine di agevolare la crescita delle
piccole e medie imprese, rivestono particolare
rilevanza quelle riferite (i) agli investitori in fondi
di venture capital e (ii) alle c.d. start-up innovative.
Quanto alla prima delle misure, si tratta di una
misura agevolativa, avente mera natura fiscale,
diretta a facilitare l’investimento in organismi di
investimento collettivo di risparmio che
investono almeno il 75% del proprio capitale in
piccole e medie imprese di recente costituzione
(di seguito, “FVC”).
La normativa di riferimento, di seguito
commentata, prevede nella sostanza che i
proventi percepiti dagli investitori nei FVC sono
esenti dalle imposte sul reddito.
Tale misura si colloca sulla scia della
comunicazione “Europa 2020” del 3 marzo 2010
(COM (2010)2020), con la quale la Commissione
Europea ha prospettato la necessità di sviluppare
«un mercato del venture capital veramente efficiente, in
modo da facilitare considerevolmente l'accesso diretto delle
imprese ai mercati dei capitali».
Per quanto concerne, invece, le misure rivolte
alle imprese definite “start-up innovative”, il
legislatore, agli artt. 25 e ss. del D.L. 18
ottobre 2012, n. 179, convertito nella Legge 17
dicembre 2012, n. 221, (di seguito, “D.L.
179/2012”), ha inteso incoraggiare la crescita
sostenibile, lo sviluppo tecnologico, la nuova
imprenditorialità e l’occupazione mediante
l’introduzione di norme e di deroghe tanto di
diritto societario, quanto di diritto del lavoro e
tributario (nel prosieguo verranno unicamente
illustrate queste ultime).
Le start-up innovative si caratterizzano per
essere società di nuova o recente costituzione,
aventi ad oggetto lo sviluppo, la produzione e
la commercializzazione di prodotti o servizi ad
elevato valore tecnologico ovvero operanti nel
campo delle energie rinnovabili.
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Pagina 9
A fianco alle start-up innovative è prevista
anche la figura degli “incubatori certitificati”, il
cui compito è quello di offrire servizi per
sostenere la nascita e lo sviluppo delle
medesime start-up.
dubbio non risulta chiarito dalla decisione della
Commissione Europea C(2012)6451 final, punto
26, ove si fa generico riferimento «a qualsiasi
veicolo di investimento».
Al ricorrere di taluni requisiti (che sono
illustrati al paragrafo 2.) sono riconosciuti
benefici fiscali (i) alle start-up innovative e agli
incubatori,
(ii)
ai
loro
dipendenti,
amministratori e collaboratori e (iii) ai loro
investitori.
Infine, per quanto attiene il raccordo tra le due
normative, è utile segnalare che la decisione della
Commissione Europea C(2012)6451 final, ha
stabilito che le agevolazioni fiscali riferite agli
investitori in FVC non sono cumulabili con altre
misure di aiuto. Il divieto di cumulo potrebbe
interessare le misure agevolative previste per gli
investitori nelle start-up innovative (art. 29, D.L.
179/2012), le quali, peraltro, attendono
l’autorizzazione della Commissione Europea.
1.
Fondi di venture capital
Le agevolazioni fiscali fruibili dagli investitori nei
FVC (par. 1.2.) sono subordinate al rispetto di
taluni requisiti che devono sussitere in capo (i) ai
FVC medesimi e (ii) alle società nelle quali i FVC
investono i propri capitali (par. 1.1.).
1.1
I requisiti per beneficiare dell’agevolazione
I FVC sono organismi di investimento collettivo
del risparmio che prevedono nel proprio
regolamento l’obbligo di investire almeno il 75%
del proprio capitale in società non quotate allo
stadio di sperimentazione, costituzione, avvio o
sviluppo (art. 31, D.L. 98/2011 e art. 1, del D.M.
21 dicembre 2012).
Stante il riferimento contenuto nell’art. 1, del
D.M. 21 dicembre 2012 agli «organismi di
investimento collettivo del risparmio» (di seguito,
“OICR”), rientrano nella nozione di FVC sia i
fondi comuni di investimento, aperti o chiusi, sia
le SICAV.
I FVC possono essere anche OICR esteri,
purché situati in Stati membri dell’Unione
Europea o aderenti allo Spazio Economico
Europeo inclusi nella white list prevista dal D.M.
4 settembre 1996 (art. 1, comma 6, D.M. 21
dicembre 2012).
Appare dubbia, invece, l’estensione della
nozione di FVC alle investment companies, sebbene
spesso utilizzate nell’ambito del venture capital. Il
La quota d’investimento del FVC nella società
target deve essere inferiore al limite massimo di €
2,5 milioni su un periodo di dodici mesi. Tale
limite è stato ritenuto congruo dalla
Commissione Europea per evitare che la
normativa sui FVC si traduca in un aiuto di
Stato, materia di esclusiva competenza
dell’Unione Europea.
Infine, per il primo anno dall’avvio del FVC o
dall’adeguamento del regolamento del FVC alle
norme
sopra
richiamate,
il
valore
dell’investimento nelle società target non deve
scendere al di sotto del limite del 75% del valore
degli attivi del FVC per più di tre mesi.
Oltre ai requisiti che devono sussitere in capo ai
FVC, si affiancano ulteriori requisiti relativi alle
società oggetto d’investimento da parte dei
medesimi fondi.
Le società devono essere piccole e medie
imprese,
come
individuate
dalla
raccomandazione della Commissione n.
2003/261/CE del 6 maggio 2003.
Devono altresì essere società non quotate, con
sede operativa in Italia e con compagine sociale
formata per almeno il 51% da persone fisiche.
È, infine, previsto che le società devono essere
soggette a IRES (o all’analoga imposta in altro
Stato), non devono esercitare attività d’impresa
da oltre 36 mesi e devono possedere un fatturato
inferiore a € 50 milioni.
1.2
Incentivi fiscali per gli investitori in FVC
L’agevolazione fiscale consiste nell’esenzione
dalle imposte sui redditi dei proventi di cui
all’art. 44, comma 1, lett. g), TUIR, percepiti
dagli investitori nei FVC.
Pertanto, i proventi distribuiti dai FVC non sono
soggetti alla ritenuta alla fonte del 20%,
ordinariamente applicabile a taluni investitori ex
art. 26-quinquies, D.P.R. 600/73, né concorrono
alla formazione del reddito imponibile del
percettore.
I destinatari dell’esenzione sono le persone
fisiche, che detengono le partecipazioni anche in
regime d’impresa, e le persone giuridiche (anche
soggette a IRES), fiscalmente residenti o non
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Pagina 10
residenti in Italia, che rispettano i requisiti sopra
indicati.
Secondo l’art. 2, D.M. 21 dicembre 2012, gli
investitori
che
possono
beneficiare
dell’esenzione sono quelli qualificabili come
“professionali”
secondo
la
Direttiva
2004/39/CE (c.d. “Direttiva MIFID”), ovvero
che possono essere trattati come tali ai sensi
della medesima Direttiva.
Inoltre, l’agevolazione spetta a investitori diversi
dai precedenti, purché:
a.
si impegnino ad investire almeno €
100.000,00 nel FVC;
b. dichiarino per iscritto di conoscere i
rischi connessi all’investimento;
c. il gestore del FVC valuti la competenza
e l’esperienza dell’investitore e sia
ragionevolmente certo che l’investitore
sia capace di assumere decisioni
autonome in relazione all’investimento;
d. il gestore confermi per iscritto la
valutazione del requisito di cui alla
precedente lettera c.
1.3.
residenti in Italia (ex art. 73, TUIR) e devono,
inoltre, stabilire in Italia la sede principale dei
propri affari e interessi.
Possono accedere al regime non solo le società
neo costituite, ma anche le società già operative,
purchè svolgano attività d’impresa da meno di
48 mesi. In entrambi i casi, è necessario che le
società non originino da operazioni di fusione,
scissione o cessione d’azienda o di ramo
d’azienda.
L’oggetto esclusivo o prevalente dell’attività
svolta dalle start-up innovative deve essere lo
sviluppo, la produzione e la commercializzazione
di prodotti o servizi innovativi ad alto valore
tecnologico (ad esempio nei settori delle
telecomunicazioni, Ict ed energie rinnovabili).
In relazione alla partecipazione al capitale, è
previsto che le azioni o quote delle start-up
innovative non debbano essere quotate su un
mercato regolamentato o su un sistema
multilaterale di negoziazione e debbano essere
detenute per la maggioranza da persone fisiche
(almeno per i primi 24 mesi dalla costituzione).
È, infine, richiesto che le start-up innovative:
a.
L’attività di controllo sui FVC
Per consentire alla Amministrazione Finanziaria
il controllo del requisito minimo di investimento
(il 75% del capitale del FVC), le SGR e gli
intermediari residenti che intervengono nel
pagamento dei proventi dei FVC devono tenere
appositi prospetti di rendiconto, anche su
supporti informatici, sino al termine di
decadenza previsto per l’accertamento dei redditi
(ex art. 43, D.P.R. 600/1973).
b. non distribuiscano utili;
c.
Nel caso in cui i FVC non rispettino i limiti di
investimento (75% del proprio capitale),
l’Agenzia delle Entrate procede nei confronti
delle SGR o degli intermediari residenti al
recupero delle ordinarie imposte dovute sui
proventi distribuiti e delle relative sanzioni.
2.
Start-up
certificati
innovative
e
incubatori
2.1.
Requisiti per qualificare una società come startup innovativa
Le società che intendono qualificarsi come startup innovative, ai fini dell’applicazione del regime
introdotto dal D.L. 179/2012, devono costituirsi
nella forma di società di capitali, fiscalmente
a partire dal secondo anno di attività,
abbiano un valore della produzione
annua non superiore a € 5 milioni;
2.2.
(cenni)
siano in possesso di almeno uno dei
seguenti requisiti:

spese in ricerca e sviluppo almeno
pari al 20% del maggiore fra costo e
valore totale della produzione;

almeno 1/3 della forza lavoro sia
rappresentato
da
personale
altamente qualificato;

siano titolari di almeno una privativa
industriale relativa a un’invenzione
industriale o biotecnologica.
Deroghe al diritto societario e fallimentare
Per le start-up innovative sono previste deroghe
al regime ordinario delle società in tema di:
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Pagina 11
a.
riduzione del capitale sociale per perdite
di oltre 1/3 e al di sotto del minimo
legale;
b. emissione di quote di S.r.l. dotate di
particolari diritti, sia economici sia
amministrativi (es. diritto di voto
escluso, limitato o subordinato);
c. inapplicabilità di alcune procedure
concorsuali
previste
dalla
legge
fallimentare.
2.3.
Disciplina fiscale di favore per le start-up
innovative
Le società che si qualificano come start-up
innovative beneficiano delle agevolazioni fiscali e
degli incentivi all’investimento illustrati nel
prosieguo.
2.3.1.
l’avvio
Deroghe fiscali e riduzione degli oneri per
Alle start-up innovative, per l’intera durata del
regime, non si applicano la disciplina delle
“società di comodo” (ex art. 30, L. 724/1994) e
quella delle società “in perdita sistematica” (ex
art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies, D.L.
138/2011).
Ulteriori esenzioni di minor conto riguardano la
fase di costituzione e registrazione presso il
Registro delle Imprese.
2.3.2. Remunerazione di dipendenti, amministratori e
collaboratori con strumenti finanziari
Qualora le start-up innovative prevedano piani di
incentivazione per i propri dipendenti,
amministratori
o
collaboratori
basati
sull’assegnazione di strumenti finanziari, il
reddito di lavoro derivante dalle assegnazioni
non concorre alla formazione del reddito
imponibile di questi soggetti, sia ai fini IRPEF
sia ai fini contributivi.
Gli strumenti finanziari devono essere emessi
dalle start-up innovative o dagli incubatori
certificati che ne sostengono l’avvio e la crescita
(come meglio definiti dal successivo par. 2.4.) o
da loro controllate, con cui gli assegnatari
intrattengono il rapporto di lavoro. Inoltre, non
devono essere successivamente riacquistati dalle
start-up innovative, dagli incubatori o da società
correlate.
Possono essere oggetto di assegnazione azioni,
quote, strumenti finanziari partecipativi o ogni
altro diritto che preveda l’attribuzione di
strumenti finanziari o similari.
È ammessa la possibilità per le start-up innovative
di emettere strumenti finanziari a fronte
dell’apporto di opere e servizi, inclusi quelli
professionali (c.d. work-for-equity) che non
concorrono alla formazione del reddito dei
soggetti apportanti.
Sono in ogni caso soggette a tassazione le
plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo
oneroso degli strumenti finanziari sopra indicati.
2.3.3. Agevolazioni per le assunzioni di personale
altamente qualificato
Le start-up innovative possono beneficiare di un
credito d’imposta pari al 35% del costo
sostenuto
per
l’assunzione
a
tempo
indeterminato di personale altamente qualificato
(dipendenti in possesso di dottorato di ricerca o
di laurea magistrale in taluni settori tecnicoscientifici).
Il credito d’imposta è concesso entro il limite
massimo di € 200.000,00 annuo.
2.3.4. Incentivi
innovative
all’investimento
nelle
start-up
Per gli anni 2013, 2014 e 2015 le persone fisiche
che investono nel capitale sociale di start-up
innovative possono detrarre, ai fini IRPEF, il
19% della somma investita (anche qualora
l’investimento avvenga in via mediata tramite
OICR che investono prevalentemente in start-up
innovative). La detrazione è aumentata al 25%
per gli investimenti in start-up innovative c.d. a
“vocazione sociale” (ossia quelle che operano, ad
esempio, nei settori dell’assistenza sociale e
sanitaria) e in start-up innovative che operano in
ambito energetico.
Analogamente, gli investitori diversi dalle
persone fisiche e dalle start-up innovative
possono fruire della deduzione dal reddito
imponibile ai fini IRES del 20% della somma
investita (o del 27% in relazione alle start-up a
vocazione sociale e in ambito energetico).
L’investimento massimo detraibile, per le
persone fisiche, o deducibile, per gli altri
soggetti, non può eccedere rispettivamente €
500.000,00 e € 1.800.000,00 per periodo
d’imposta. In entrambi i casi l’investimento deve
essere detenuto per almeno 2 anni. Il
disinvestimento prima del termine biennale
comporta la decadenza dal beneficio fiscale e
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Pagina 12
l’obbligo di versare l’importo indebitamente
detratto.
2.4.
Agevolazioni fiscali per gli incubatori certificati
Sono definiti incubatori certificati le società di
capitali, residenti in Italia ex art. 73 del TUIR,
che offrono servizi per sostenere la nascita e lo
sviluppo di start-up innovative.
Al fine di qualificarsi come incubatori certificati
le società devono:
a.
possedere strutture, anche immobiliari,
adeguate ad accogliere le start-up
innovative;
b. affidare l’amministrazione a soggetti con
competenze in materia di impresa e
innovazione;
c. intrattenere rapporti di collaborazione
con università, centri di ricerca,
istituzioni pubbliche e partner finanziari;
d. avere adeguata e comprovata esperienza
nell’attività di sostegno a start-up
innovative.
Al ricorrere dei citati requisiti, gli incubatori
certificati possono beneficiare di agevolazioni
analoghe a quelle previste per le start-up
innovative:
a.
riduzione degli oneri per l’avvio (par.
2.3.1.);
b. esclusione dal reddito imponibile ai fini
IRPEF degli strumenti finanziari
assegnati a fronte di prestazioni
lavorative (par. 2.3.2.);
c. credito d’imposta del 35% per
l’assunzione di personale altamente
qualificato (2.3.3.).
Giuseppe A. Giannantonio
([email protected])
Luca Di Nunzio
([email protected])
Giulia Bighignoli
([email protected])
Le operazioni di investimento in NPLs
Con l’espressione “non performing loans”, più
brevemente, “NPLs”, gli operatori del settore
sono soliti intendere tutte quelle attività
finanziarie che la Banca d’Italia, ai sensi della
circolare n. 272 del 30 luglio 2008 come più
volte aggiornata, definisce sommariamente come
crediti in sofferenza, le esposizioni per cassa e
fuori bilancio nei confronti di un soggetto in
stato di insolvenza o in situazioni
sostanzialmente equiparabili ad essa.
L’Associazione
Bancaria
Italiana,
nella
pubblicazione mensile di aprile di quest’anno, ha
stimato, solo in Italia, 133.3 miliardi di Euro di
massa totale di NPLs al mese di aprile 2013,
riscontrando un aumento del 22.3% rispetto allo
stesso mese del 2012. E’ evidente quindi che
molti investitori stiano guardando (o più
correttamente stiano tornando a guardare) al
mercato italiano degli NPLs come ad una
interessante opportunità di investimento. La
gestione dei crediti non performing risulta
particolarmente onerosa per le banche tanto in
termini di capitale regolamentare che in termini
gestionali, considerando l’eccezionale dispiego di
risorse umane e di capitali necessari per porre in
essere le attività di gestione e recupero delle
posizioni creditizie in discorso. Per quanto vi sia
quindi anche da parte degli istituti di credito, in
astratto, un interesse ad alleggerire il peso delle
sofferenze iscritte nei propri bilanci rimangono
ancora distanze importanti in termini di prezzo
per far incontrare domanda ed offerta.
Considerando il potenziale di questo mercato nei
prossimi mesi, può essere utile ripercorrere quali
sono ad oggi gli schemi più consolidati per
consentire ad operatori (italiani ed esteri) di
investire in questo tipo di assets. Seppur
l’ordinamento giuridico riconosca molteplici
modalità di trasferimento del credito, la cessione
mediante lo schema della cartolarizzazione, ai
sensi della legge n. 130 del 30 aprile 1999 (la
“Legge sulla Cartolarizzazione”), è la tecnica
di dismissione che più si confà agli investimenti
in NPLs. Non è un caso, infatti, che le prime
operazioni di finanza strutturata con sottostanti
NPLs abbiano tutte avuto inizio, in Italia, a
partire dalla fine degli anni ’90 con l’introduzione
della Legge sulla Cartolarizzazione e l’articolo 58
del d.lgs. n. 385 del 1 settembre 1993 (il “Testo
Unico Bancario”), a cui la Legge sulla
Cartolarizzazione espressamente rinvia.
Le
peculiarità
delle
operazioni
di
cartolarizzazione di crediti derivanti da NPLs
Rispetto ad un’operazione di cartolarizzazione di
crediti in bonis, gli investimenti in NPLs mediante
la tecnica della cartolarizzazione presentano tre
fondamentali peculiarità legate a (i) la struttura
ed il ruolo della preliminare due diligence; (ii) la
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corporate governance dell’operazione con, particolare
riguardo, ai poteri degli investitori; ed, infine, (iii)
il ruolo e l’attività del servicer.
(i)
La due diligence
Nell’ottica di una corretta formulazione
del prezzo è essenziale una appropriata
due diligence. Considerando l’elevato
numero di posizioni generalmente
ricomprese in un singolo portafoglio
oggetto di investimento è fondamentale
una corretta impostazione nella
definizione del campione oggetto di
indagine. L’indagine deve contribuire a
definire la tipologia dei debitori, la loro
dislocazione geografica e, soprattutto, il
livello qualitativo da parte del soggetto
cedente nella gestione documentale e
processuale delle sofferenze oggetto di
cessione. Tale ultimo aspetto influenzerà
molto la capacità dell’investitore di poter
agire in tempi rapidi sulle attività di
servicing al fine di massimizzare in un
tempo ragionevole il ritorno sul proprio
investimento. È sulla base di una due
diligence di questo tipo che il servicer, con
la collaborazione degli investitori, stilerà
un business plan in relazione alle
percentuali ed agli ammontari dei crediti
che egli si aspetta di recuperare,
prevedendo scenari con concretizzazioni
variamente realizzabili.
(ii)
portatori dei titoli junior su questioni di
significativa rilevanza; (b) il diritto di
opzione di vendita o di acquisto dei
titoli riconosciuto agli altri investitori nel
caso in cui gli investitori junior esercitino
il loro diritto di veto e si crei una
situazione di stallo decisionale insanabile
(deadlock); (c) il diritto di prelazione o
prima offerta, azionabile qualora un
investitore intenda cedere (in tutto o in
parte) la propria partecipazione e,
subordinatamente al mancato esercizio
del diritto di prelazione, il diritto di covendita (tag-along right). Il contratto di
joint-venture non sostituisce, né tanto
meno confligge, con il regolamento dei
titoli, dove sono tipicamente inserite le
regole di partecipazione e di voto alle
decisioni che devono essere assunte dai
noteholders (tramite assemblea o written
resolution).
Corporate governance e poteri degli
investitori
In ipotesi di co-investimento di più
soggetti in un medesimo portafoglio di
NPLs è fondamentale prevedere una
corretta disciplina dei meccanismi con
cui gli investitori assumono alcune scelte
strategiche
durante
la
vita
dell’investimento. Come già visto sopra,
questi condividono la redazione del
business plan effettuata dal servicer. In
aggiunta, gli investitori, nelle eventuali
diverse tipologie di titoli (senior, junior,
mezzanine), sono soliti stipulare un
contratto di joint-venture volto a
disciplinare i loro interessi e potenziali
conflitti, soprattutto, qualora siano
previsti strumenti finanziari con diversi
gradi di subordinazione. Alcune delle
disposizioni più comuni a questi
contratti sono: (a) l’esercizio del diritto
di voto (in via esclusiva o
congiuntamente agli investitori senior) dei
(iii)
L’attività del servicer
La riuscita dell’intera operazione
dipende grandemente dall’efficacia con
cui il servicer svolge il proprio mandato di
gestione e recupero dei crediti. Nel
rispetto del business plan concordato, ed
in conformità con le risultanze della due
diligence, il servicer (o lo special servicer)
perseguirà il recupero dei crediti
mediante (a) la coltivazione e gestione di
procedimenti
giudiziali,
(b)
la
stipulazione di accordi stragiudiziali e (c)
la messa in opera di strategie alternative.
Tra
queste
strategie
alternative
segnaliamo (senza entrare nel dettaglio
delle modalità tecniche di intervento)
l’utilizzo di una c.d. “real estate owned
company” (“Reoco”), ovvero una società
immobiliare
direttamente
o
indirettamente collegata agli investitori
che, in presenza di taluni presupposti,
partecipa alle procedure d’asta aventi ad
oggetto immobili oggetto di esecuzione
immobiliare da parte dello special servicer
rendendosi acquirente dell’immobile.
Con riguardo ai procedimenti giudiziali
di cui al punto (a), va segnalato come, ai
sensi dell’espresso rinvio all’articolo 58,
comma 3, del Testo Unico Bancario
operato dall’articolo 4, comma 1, della
Legge sulla Cartolarizzazione, alla
società per la cartolarizzazione (e,
dunque, al servicer, in quanto suo
mandatario) continuano ad applicarsi le
discipline speciali, anche di carattere
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processuale, previste per i crediti ceduti.
Di conseguenza, nelle operazioni di
cartolarizzazione di NPLs aventi ad
oggetto crediti ipotecari erogati ai sensi
della disciplina del credito fondiario –
ossia ai sensi degli articoli 38 e ss. del
Testo Unico Bancario il servicer
beneficia delle disposizioni di favore che
l’articolo 41 del Testo Unico Bancario
prevede in relazione al procedimento
esecutivo. In particolare, il servicer (i) è
esonerato dal notificare il titolo
contrattuale esecutivo al debitore
moroso; (ii) non è pregiudicato dalla
dichiarazione di fallimento del debitore
con riguardo all’instaurazione o alla
prosecuzione dell’azione esecutiva sui
relativi beni ipotecati; (iii) nelle more del
procedimento esecutivo riscuote le
rendite degli immobili ipotecati; e (iv)
con il provvedimento che dispone la
vendita
o
l’assegnazione,
se
l’assegnatario o l’acquirente non
subentra nella posizione del debitore
ceduto,
riceve
direttamente
il
versamento della parte del prezzo ad
esso corrispondente.
Un ulteriore, ed ultimo, aspetto di
interesse per quanto concerne l’attività
del servicer nelle operazioni di
cartolarizzazione di crediti in sofferenza
riguarda il meccanismo degli incentivi di
cui, generalmente, questi beneficia. In
aggiunta alle ordinarie commissioni con
forti componenti variabili legate ai
risultati che il servicer riuscirà ad ottenere
rispetto a quanto inizialmente previsto
nel business plan, talvolta il servicer, al fine
di allineare ancor più i suoi interessi con
quelli degli investitori, effettua vere e
proprie partecipazioni all’investimento
nel
portafoglio
medesimo
sottoscrivendo una tranche di titoli.
Carmelo Raimondo
([email protected])
Danilo Santoboni
([email protected])
Il Welfare Aziendale
1.
Introduzione
L’adozione di un piano di welfare è oggi uno
strumento di estrema attualità e sempre più parte
di un’efficiente e moderna politica di gestione
delle risorse umane, in grado non solo di venire
incontro alle effettive e concrete esigenze del
proprio
personale,
in
un’ottica
di
implementazione delle migliori best practices in
tema di “company care”, ma, invero anche di
colmare, almeno in parte, le carenze strutturali
del servizio pubblico (si pensi all’asilo nido, alle
prestazioni assistenziali, all’assistenza agli
anziani, ai servizi di trasposto, etc.), che l’attuale
crisi economica sta sempre più accentuando.
Le politiche di welfare aziendale consentono, in
estrema sintesi, di poter mettere a disposizione
dei propri dipendenti e/o di specifiche categorie
di essi (ovvero ai loro famigliari) un insieme di
variegati servizi, utilità e/o prestazioni (alla
persona, alla famiglia, all’educazione, di
assistenza sanitaria, inerenti attività ricreative,
servizi sociali, etc.), tali da comportare un
beneficio concreto e tangibile per il destinatario,
ottimizzando al contempo i relativi costi
aziendali.
2.
Inquadramento normativo: i
compensi in natura che non costituiscono
reddito
L’art. 51, comma 2, del Tuir (D.p.R. n.
917/1986) elenca tassativamente le somme e i
valori percepiti in relazione al rapporto di lavoro
dipendente che, in tutto e in parte, sono esclusi
dal reddito imponibile, in deroga al principio
dell’onnicomprensività statuito dal citato art. 51,
comma 1, in applicazione del quale: “tutte le
somme e i valori in genere a qualunque titolo percepiti nel
periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni
liberali, in relazione al rapporto di lavoro”
costituiscono reddito di lavoro dipendente,
anche ai fini contributivi.
Ed infatti, l’art. 51, comma 2, lett. f) bis, del Tuir
stabilisce come non concorrano a formare
reddito di lavoro dipendente le somme erogate
“dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a
categorie di dipendenti per la frequenza di asili e di
colonie climatiche da parte dei familiari indicati nell’art.
12, nonché per borse di studio a favore dei medesimi
familiari”.
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Accanto poi alla suddetta forma “tradizionale” di
welfare, la normativa fiscale - sempre al citato art.
51, comma due, lett. f) prevede, altresì, che non
costituiscano parimenti reddito imponibile, sia a
fini fiscali sia contributivi, anche “l'utilizzazione
delle opere e dei servizi di cui al comma 1 dell'articolo
100 da parte dei dipendenti”; il comma 1 dell’art.
100 del Tuir si riferisce espressamente alle “spese
relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei
dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente
sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione,
ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto”.
E’ proprio quest’ultima fattispecie che merita
particolare attenzione per la sua potenziale
capacità di consentire l’adozione di una nuova
frontiere del welfare aziendale, in grado di rendere
accettabile una politica di “bonus sacrifice” ed
introdurre l’effettiva percezione soggettiva del
dipendente di ricevere in cambio un concreto e
tangibile valore; si può così garantire un vero e
proprio “corrispettivo welfare” la cui capacità di
acquisto è addirittura maggiore dell’importo
monetario (bonus), di cui si è prevista la
diminuzione.
formativi, i compiti educativi delle famiglie;
(vi) misure per favorire l'armonizzazione
del tempo di lavoro e di cura familiare; (vii)
interventi per le persone anziane e disabili
per favorire la permanenza a domicilio, per
l'inserimento presso famiglie, persone e
strutture comunitarie di accoglienza di tipo
familiare, nonché per l'accoglienza e la
socializzazione presso strutture residenziali
e semiresidenziali per coloro che non siano
assistibili a domicilio.
L’Agenzia delle Entrate, con le Risoluzioni n.
34/2004 e n. 26/2010, nonché con un recente
risposta ad interpello n. 954-551/2011 del 13
giugno 2012, ha chiarito che ai fini
dell’esclusione dei predetti servizi (così come
degli altri servizi e/o utilità individuati dal datore
di lavoro in ragione delle sue peculiari esigenze)
dalla formazione del reddito di lavoro
dipendente, devono ricorrere congiuntamente le
seguenti condizioni, e cioè che:
(i)
servizi dedicati alla persona e alla famiglia: (i) asili
nido; (ii) circoli privati e club; (iii) impianti
sportivi; (iv) corsi di formazione
extraprofessionale;
i servizi di welfare siano offerti
alla generalità dei dipendenti ovvero
a specifiche categorie di essi; non si
riconosce l’esenzione, quindi, ogni
qual volta che le somme e/o i
servizi sono rivolti ad personam
ovvero costituiscono dei vantaggi
solo per alcuni e ben individuati
lavoratori7. Deve, quindi, esistere un
raggruppamento omogeneo di
lavoratori;
(ii)
attività ricreative: (i) concessione di biglietti o
abbonamenti
per
spettacoli
(cinematografici, teatrali e sportivi), mostre
e musei, etc.; (ii) viaggi aventi finalità
culturali, ricreative e/o di culto; (iii)
abbonamenti alle riviste, corsi di lingua,
viaggi studio, etc.
i servizi di welfare mantengano
l’intrinseca natura di elargizione
volontaria8, ossia la spesa deve
essere sostenuta volontariamente
dal datore di lavoro e non in
adempimento di un vincolo
contrattuale; e
(iii)
siano
appunto
correlati
perseguimento di finalità,
Dalla prassi dell’amministrazione finanziaria è
possibile anche trarre alcune casistiche di opere e
servizi aventi specifiche finalità educative, di
istruzione ricreazione, assistenza sociale e/o
sanitaria, ossia:



prestazioni di assistenza sanitaria: (i)
ambulatori; (ii) servizi di check-up presso
strutture mediche, etc.

servizi di assistenza sociale: (i) servizi di babysitting e badanti forniti attraverso contratti
con strutture specializzate; (ii) sostegno
domiciliare
per
le
persone
non
autosufficienti; (iii) servizi socio-educativi
della prima infanzia; (iv) servizi formativi ed
informativi di sostegno alla genitorialità; (v)
servizi per l'affido familiare, per sostenere,
con qualificati interventi e
percorsi
7
8
al
ad
Al riguardo, cfr. Circolari n. 326/1997 e n.
188/1998 dell’Agenzia delle Entrate, con le quali si
è chiarito che l’espressione “generalità o categorie di
dipendenti”, utilizzata dal legislatore, non va intesa
soltanto con riferimento alle categorie previste dal
Codice Civile (dirigenti, quadri, operai, etc.), bensì a
tutti i dipendenti di un certo tipo, e.g. ad una
categoria omogenea (tutti i dirigenti o tutti i
dipendenti che hanno un certo livello o una certa
qualifica o svolgono certe funzioni, etc.).
Il requisito della volontarietà del piano da parte del
datore di lavoro non può ritenersi rispettato
laddove l’implementazione dello stesso scaturisca
da un obbligo contrattuale o di legge.
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esempio, educative, d’istruzione,
ricreative, di assistenza sociale,
sanitarie, legate al culto, etc.
L’Agenzia delle Entrate ha, altresì, ritenuto che
l’esclusione
dall’imposizione
(fiscale
e
contributiva) operi anche nell’ipotesi in cui detti
servizi siano messi a disposizione dei dipendenti
tramite il ricorso a strutture esterne all’azienda (si
vedano sempre le citate Risoluzioni n. 34/2004 e
26/2010).
In particolare, l’Agenzia delle Entrate9 ha
chiarito che: “nell’ipotesi in cui le strutture utilizzate
non siano di proprietà del datore di lavoro, ai fini
dell’esclusione il dipendente deve essere estraneo al
rapporto che intercorre tra l’azienda e l’effettivo prestatore
del servizio (principio di terzietà)”.
Aggiungasi, come l’Agenzia delle Entrate - con la
citata risposta ad interpello n. 954-551/2011 del
13 giugno 2012 - abbia chiarito come anche
l’impiego da parte del datore di lavoro di un cd
“budget figurativo”, in quanto rappresentativo del
valore e/o “corrispettivo welfare” a disposizione del
dipendente ed operante su un circuito
elettronico, non rappresenti: “un titolo di credito,
ma consenta di individuare in tempo reale il lavoratore
che attiva un servizio previsto dal piano”,
aggiungendo, anzi, come detto sistema
consentirebbe proprio di “scongiurare un eventuale
utilizzo improprio e/o fraudolento dei servizi stessi, quale
potrebbe essere, ad esempio, la richiesta di altri servizi
oltre quelli offerti dal datore di lavoro ovvero una loro
diversa modalità di erogazione che possa comportare una
maggiore spesa”.
Occorre rammentare, infine, che ai sensi del
combinato disposto dell’art. 95, comma 1 e
dell’art. 100, comma 1, Tuir le spese relative ad
opere e servizi di utilità sociale sono deducibili
nel limite del 5 per mille dell'ammontare delle
spese per prestazioni di lavoro dipendente
risultanti dalla dichiarazione dei redditi: “sono
deducibili per un ammontare complessivo non superiore al
5 per mille dell'ammontare delle spese per prestazioni di
9
Dunque, il dipendente non deve beneficiare (anche
indirettamente) dei pagamenti effettuati dal proprio
datore di lavoro in relazione alla fornitura dei servizi
medesimi. L’Agenzia delle Entrate, con Risoluzione
n. 127/2006, in un caso relativo ai c.d. “ticket
trasporto” messi a disposizione dei dipendenti, ha
ritenuto che non sussistesse il requisito di
“estraneità”
del
dipendente
al
rapporto
intercorrente tra il datore di lavoro e il vettore
esterno, in quanto al dipendente era data la
possibilità di acquistare direttamente il servizio
presso il vettore utilizzando il ticket per ottenere una
semplice riduzione di prezzo.
lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei
redditi”; tale limitazione deve essere letta in
coordinamento con la deroga recata dall’art. 109,
comma 5, del Tuir in base al quale non è
richiesto per gli oneri di utilità sociale il rispetto
del requisito di inerenza ad attività o beni da cui
derivano proventi imponibili; pertanto, detti
oneri sono deducibili dal datore di lavoro (nei
predetti limiti) per il solo fatto di essere imputati
a conto economico.
3.
Il benefici correlati all’adozione di un
piano di “welfare aziendale” sia per
il datore di lavoro sia per i suoi
dipendenti
Il welfare aziendale è, quindi, uno strumento
vantaggioso non solo per i lavoratori, ma anche
per le aziende.
a.
Più in particolare, al datore di lavoro
consente di poter:
(i) implementare un sistema di
incentivazione
e/o
retention
aziendale che includa - quale forma
innovativa ed alternativa ai
tradizionali fringe benefits e/o
incentivi
monetari
beni/servizi/prestazioni in natura
di elevata qualità e funzionalità;
(ii) ottimizzare, al contempo, il relativo
costo aziendale, evitando, ad
esempio, l’incidenza contributiva
ovvero quella sugli istituti diretti,
indiretti
e
differiti
della
retribuzione, anche relativamente
alla fase di cessazione del contratto
di lavoro (evitando, al ricorrere
delle
necessarie
condizioni,
l’incidenza del valore del bene in
natura - inter alia - nella
determinazione
della
base
imponibile
della
retribuzione
globale di fatto o nel calcolo del
TFR, dell’indennità sostitutiva del
preavviso,
dell’indennità
supplementare, etc.);
(iii) usufruire - entro certi limiti ed al
ricorrere
delle
necessarie
condizioni - della deducibilità
dell’onere sostenuto;
(iv) favorire un miglioramento del
clima interno, che motivi e fidelizzi
il personale, favorendo così
l’incremento della produttività e la
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capacità di attrarre e trattenere
talenti;
(v) migliorare la reputazione aziendale.
b. Quanto ai dipendenti, questi hanno la
possibilità di:
(i)
essere destinatari di piani di
“incentivazione”
aziendale
che
accanto
a
possibili
benefici
economici e/o finanziari, aumenti
retributivi e/o passaggi di livello
professionale, etc., offrano anche
una serie di servizi, beni e/o
strumenti dedicati all’individuo e/o
al suo nucleo familiare, in grado di
migliorare la qualità della stessa
prestazione lavorativa, il benessere
sociale, la vita di relazione, il tempo
libero, e così via;
(ii)
ricevere benefici in natura non
condizionati al raggiungimento di
performance individuali e/o risultati
aziendali o, addirittura, soggetti a
strumenti di ripetizione degli stessi
(clausole di malus o clawback, etc.);
(iii)
accedere a prestazioni/servizi in
natura, grazie al network, a condizioni
e/o con modalità e/o una tempistica
decisamente agevolati rispetto a
quelli reperibili personalmente sul
mercato ovvero ad un costo molto
più vantaggioso in comparazione al
valore normale di detti servizi;
(iv)
ricevere un bene/servizio il cui
controvalore
netto
spesso
è
superiore al beneficio economico che
consegue al ricevimento di un
incentivo monetario, una volta
operate tutte le ritenute fiscali e
previdenziali relative allo stesso.
Un piano welfare ben costruito consente di
raggiungere molteplici obiettivi, riassumibili in
un miglioramento del contesto lavorativo e della
produttività, ad un costo inferiore (ovvero non
superiore) rispetto a quello che deriverebbe dalle
mere erogazioni in denaro.
4.
La strutturazione di un piano di
welfare aziendale
L’ideazione e realizzazione di un piano di welfare
aziendale deve tener conto di un insieme
articolato di misure ed accorgimenti legali e di
precipui strumenti tecnici a salvaguardia delle sua
stessa sostenibilità e delle finalità perseguite dal
datore di lavoro.
In primo luogo, è fondamentale definire la
strategia di comunicazione: occorre, infatti, non
soltanto individuare i contenuti sostanziali delle
misure che si intendono intraprendere, ma anche
le modalità formali per la loro fruizione, così da
poterle condividere con le organizzazioni
sindacali aziendali e poi con i dipendenti. Deve,
infatti, emergere con chiarezza la natura del
beneficio, che è frutto di una concessione
aziendale e che spetta al ricorrere di precise
condizioni definite dall’impresa medesima.
Al riguardo, è importante ed opportuno
predisporre un apposito regolamento relativo al
piano di welfare aziendale che includa misure,
clausole e specifiche previsioni volte ad impedire
o limitare l’eventualità che il beneficio in natura
(ii) possa integrare la fattispecie dell’uso
aziendale; (ii) dia luogo a trattamenti
discriminatori (ad esempio nell’individuazione
della categoria dei beneficiari); (iii) non possa
essere revocato, modificato e/o sostituito
discrezionalmente dal datore di lavoro, ovvero
(iv) venga qualificato come reddito da lavoro
dipendente anche ai fini contributivi.
Naturalmente, è altresì importante valutare le
condizioni di sostenibilità, anche finanziaria, di
un piano di welfare aziendale; occorre, quindi,
ponderare i possibili termini di stabilità e durata
del piano, nonché definire (anche tramite
esemplificazioni) l’alveo dei possibili beneficiari.
Nella strutturazione di un piano di welfare
occorre tener presente che la tipologia di servizi
richiesti cambia notevolmente a seconda delle
fasi ciclo di vita del lavoratore: il lavoratore
giovane sarà, quindi, maggiormente interessato a
servizi che gli consentano di risparmiare tempo o
di effettuare un attività sportiva, il lavoratore con
figli riterrà importanti gli asili aziendali (o in
convenzione), il lavoratore più anziano darà
priorità a misure di assistenza agli anziani, e così
via.
Ne discende che una condizione rilevante per un
welfare aziendale di successo è quella di
considerare i bisogni dei singoli lavoratori,
evitando di “calare dall’alto” soluzioni
preconfezionate.
Inoltre, diventa fondamentale considerare il
contesto territoriale in cui l’azienda si trova ad
operare, così da cogliere le peculiari esigenze e
cercando - se possibile - di estendere le proprie
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iniziative e i propri servizi anche alla comunità
territoriale, in un’ottica di responsabilità sociale e
in uno sforzo congiunto con le istituzioni locali.
Il welfare aziendale non costituisce neppure uno
strumento del tutto avulso rispetto agli altri
strumenti di incentivazione adottati dal datore di
lavoro, sicché è senz’altro possibile prevedere
forme di “cumulo” e/o di “balance” tra i servizi di
welfare aziendale ed i tradizionali sistemi di
incentivazione.
Per altro verso, è possibile prevedere piani che
introducano e disciplinino una “multiple choice” dei
servizi in natura offerti, ferma sempre la necessità
di rispettare i requisiti formali e sostanziali che
consentono la non imponibilità sia fiscale sia
contributiva degli stessi. In linea teorica potrebbe
anche ipotizzarsi, rispettando tutti i requisiti di
legge e contratto, una parziale sostituzione delle
forme di incentivazione discrezionali (bonus
discrezionali e/o aumenti premiali una tantum,
futuri superminimi, etc.) con servizi in natura che
non costituiscono “reddito”.
Emanuele Barberis
([email protected])
Alessandro Premoli
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