imputazione dell`attività d`impresa

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imputazione dell`attività d`impresa
“ IMPUTAZIONE
DELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA”
PROF. RENATO SANTAGATA
Università Telematica Pegaso
Imputazione dell’attività d’impresa
Indice
1
principio generale della spendita del nome----------------------------------------------------------- 3
2
La teoria del potere d’impresa -------------------------------------------------------------------------- 5
3
La teoria dell’imprenditore occulto -------------------------------------------------------------------- 6
4
Le critiche --------------------------------------------------------------------------------------------------- 8
5
Gli ultimi sviluppi legislativi. -------------------------------------------------------------------------- 11
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Imputazione dell’attività d’impresa
1 Principio generale della spendita del nome
L’acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l’applicazione ad un dato soggetto
del complesso di norme che l’ordinamento ricollega a tale qualifica. La suddetta qualità si acquista
con l’esercizio dell’attività di impresa come emerge dalla nozione di imprenditore fornitaci dal
Codice Civile (v. art. 2082). L’attività può essere svolta direttamente dall’interessato, o da altri in
suo nome. Principio generale del nostro ordinamento è che centro d’imputazione degli effetti
giuridici è quel soggetto il cui nome sia stato speso nel traffico giuridico, nell’esercizio dell’attività.
Questo criterio generale di imputazione degli effetti attivi e passivi della stipulazione (c.d. spendita
del nome) risponde ad esigenze di certezza, e si ricava dalle disciplina del mandato che, appunto
distingue un mandato con rappresentanza, e un mandato senza rappresentanza. Orbene, nel mandato
con rappresentanza, dove il mandatario spende il nome del mandante, tutti gli effetti degli atti posti
in essere si producono direttamente nella sfera giuridica del mandante (art. 1388), nel mandato
senza rappresentanza, invece, il mandatario agisce in proprio nome e “acquista diritti e assume gli
obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del
mandato”. I terzi non hanno alcun rapporto col mandante (art. 1705 c.c.). È quindi il principio
formale della spendita del nome – e non il criterio sostanziale della “titolarità” dell’interesse
economico – che domina nel nostro ordinamento l’imputazione dei singoli atti giuridici e dei loro
effetti. Si tratta di criterio formale: rimane giuridicamente obbligato solo colui il cui nome è stato
formalmente speso, non importa se il soggetto realmente interessato alla stipulazione sia un terzo e
la controparte contrattuale fosse consapevole di tale circostanza. Nel caso che ci interessa, è,
pertanto imprenditore, chi esercita l’attività spendendo il proprio nome. Pertanto, quando gli atti
d’impresa sono compiuti tramite rappresentante (volontario o legale), l’imprenditore diventa il
rappresentato e non il rappresentante. E ciò anche qualora il rappresentante abbia ampi poteri di
decisione in merito agli atti di impresa e di tali poteri sia privo il rappresentato, sicchè è possibile
affermare che l’attività d’impresa è sostanzialmente esercitata dal rappresentante. È questo il caso,
ad esempio, del genitore che gestisce l’impresa quale rappresentante legale del figlio minore, in
seguito ad autorizzazione del tribunale. Gli atti d’impresa sono decisi e compiuti dal genitore, ma
imprenditore è il minore e – se l’impresa è commerciale- solo il minore è esposto a fallimento.
L’esercizio dell’attività di impresa può dar luogo ad un fenomeno analogo a quello determinato dal
compimento di singoli atti giuridici tramite un mandatario senza rappresentanza. Può dar luogo cioè
ad una dissociazione fra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità d’imprenditore, in virtù
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del generale principio della spendita del nome, ed il reale interessato, anch’egli persona fisica o
giuridica, che somministra al primo i necessari mezzi finanziari, dirige in fatto impresa e fa suoi
tutti i guadagni: dunque il dominus dell’impresa. Il quale non si appalesa ai terzi come
imprenditore.
È questo il fenomeno, largamente diffuso dell’esercizio dell’attività d’impresa tramite
interposta persona. Altro è il soggetto che compie in proprio nome i singoli atti d’impresa:
cosiddetto imprenditore palese o prestanome. Altro è il soggetto che somministra al primo i mezzi
finanziari, dirige in fatto l’impresa e fa propri tutti i guadagni. Altro è, in altri termini, il dominus
dell’impresa, pur non palesandosi come imprenditore di fronte ai terzi: cosiddetto imprenditore
indiretto o occulto. Ora se la persona fisica interposta è nullatenente, l’imprenditore interponente di
fatto sfugge al rischio di impresa, in quanto, poiché gli atti sono compiuti in nome dell’imprenditore
palese, i creditori avranno titolo per agire solo nei confronti del prestanome e non dell’imprenditore
occulto. Un simile meccanismo viene, infatti, solitamente utilizzato proprio per non esporre al
rischio d’impresa tutto il patrimonio personale, ovvero per aggirare un divieto di legge. Per evitare
tali abusi, parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare i pericoli per i creditori - insiti in
un’esclusiva applicazione del principio generale della spendita del nome, che, infatti porterebbe ad
aggredire da parte dei creditori, con il fallimento, il solo patrimonio dell’imprenditore apparente che
per definizione è irrisorio - escludendo che il suddetto principio sia requisito necessario ai fini
dell’imputazione della responsabilità per debiti di impresa. Per l’attività di impresa opererebbero
principi parzialmente diversi rispetto a quelli che governano il mandato senza rappresentanza;
principi quindi, che consentirebbero una responsabilità cumulativa dell’imprenditore palese e del
dominus ovvero, secondo altra teoria, consentirebbero la sottoposizione del dominus al fallimento.
Due le teorie che sono state prospettate: la teoria del potere d’impresa e la teoria dell’imprenditore
occulto.
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2 La teoria del potere d’impresa
La teoria del potere d’impresa, (Ferri) sostiene una responsabilità cumulativa
dell’imprenditore palese e del dominus, in quanto, nel nostro ordinamento giuridico la
responsabilità è sempre riconosciuta a carico di colui o di coloro che detengono il potere di gestione
(principio della inseparabilità nel rapporto responsabilità - potere di gestione)
chi esercita il potere di direzione in un’impresa ne assume anche necessariamente il rischio e
risponde delle relative obbligazione.
Questo principio è desumibile da una serie di norme dettate sia per la società di persone che
per quella di capitali:
1.
L’art.2267 1°comma, in tema di società semplice, ammette la possibilità di limitare la
responsabilità dei soci nei confronti dei creditori sociali, ma esclude che tale limitazione
possa operare anche a favore dei soci amministratori;
2.
l’art.2291, in tema di società in nome collettivo, afferma la responsabilità illimitata e
solidale di tutti i soci poiché il potere di amministrazione è elemento connaturale della
qualità di socio;
3.
Gli artt.2318 e 2320, in tema di società in accomandita semplice, affermano
rispettivamente che: - l’amministrazione può essere conferita soltanto ai soci
accomandatari che sono a responsabilità illimitata (2318 c.c) - la perdita del beneficio
della responsabilità limitata per i soci accomandanti si verifica proprio quando essi
compiano atti di amministrazione (2320 c.c.);
4.
L’art.2362, in tema di società di capitali, sancisce la responsabilità illimitata dell’unico
azionista per le obbligazioni della società sorte nel periodo in cui le azioni erano
concentrate nelle mani di una sola persona.
Pertanto da ciò se ne ricavava che quando l’attività di impresa venisse esercitata tramite
prestanome, responsabili verso i creditori sono sia il prestanome che il dominus anche se solo nei
confronti del primo sarà applicabile la legge fallimentare avendo infatti egli acquistato la qualità di
imprenditore per la spendita del nome.
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3 La teoria dell’imprenditore occulto
La teoria dell’imprenditore occulto (Bigiavi e Pavone La Rosa, quest’ultimo sottolinea lo
stretto legame col principio della inseparabilità fra potere di direzione dell’impresa e responsabilità
illimitata) porta a sanzionare con la responsabilità personale, e dunque con il fallimento personale
anche del dominus ogni forma di dominio occulto o palese dell’altrui impresa. La ratio di tale teoria
è stata argomentata dalla disposizione contenuta nel 2°comma dell’art. 147 legge fallimentare
(vecchia formulazione).
L’art.147 legge fallimentare (vecchia formulazione) espressamente prevedeva l’ipotesi del
“socio occulto di società palese”. Infatti il 1° comma dell’art. 147 affermava il noto principio
secondo il quale “..il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il
fallimento dei soci..” stessi; il 2°comma dello stesso articolo disponeva che il fallimento della
società si estende anche ai soci (occulti) la cui esistenza sia stata scoperta dopo la dichiarazione di
fallimento della società e dei soci palesi. Tuttavia, tale teoria, riteneva, che per analogia il 2°comma
dell’art.147, potesse essere applicato anche all’ipotesi in cui i soci abbiano occultato ai terzi
l’esistenza della società di persone, sicché quest’ultimi hanno creduto di avere a che fare con un
imprenditore individuale. Si afferma cioè, di poter trattare nello stesso modo, l’ipotesi in esame, e
cioè del “socio occulto di società occulta”.
Quest’ultima ipotesi, pur non espressamente prevista dal 2°comma dell’art.147 legge
fallimentare, in nulla differisce dalla prima (semmai per una differenza solo quantitativa del numero
di soci), in quanto, in ambo i casi, ci troviamo di fronte ad un imprenditore occulto. Però mentre nel
primo caso la società è palese come palese è anche il socio che agisce con i terzi, nel secondo caso
c’è un esclusivo titolare della situazione giuridica (il dominus) nell’ambito della quale il prestanome
non ha alcuna partecipazione sociale. Proseguendo su tale via interpretativa si arriva, quindi, ad
affermare la responsabilità e l’esposizione al fallimento di chiunque, palesemente o occultamente,
domini un’impresa a lui non formalmente imputabile.
In tale prospettiva, si è affermata la responsabilità del socio tiranno di una società per azioni
ossia dell’ azionista che non è titolare dell’intero pacchetto azionario, e quindi non può essere
chiamato a rispondere illimitatamente in base all’art. 2362 ma che in fatto usa la società come cosa
propria con assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario (ad esempio il socio
utilizza il patrimonio della società per scopi personali e viceversa impiega il proprio patrimonio per
pagare i debiti della società), ed analogamente anche la responsabilità del socio sovrano, ossia
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dell’azionista, che pur rispettando le regole di funzionamento della società, di fatto domina
l’impresa societaria in forza del possesso del pacchetto azionario di controllo.
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4 Le critiche
La dottrina, nella vigenza della vecchia formulazione della legge fallimentare, ha fortemente
criticato l’esistenza del duplice criterio di imputazione dei debiti d’impresa. Si afferma, infatti, che,
non può condividersi la premessa da cui partono entrambe le teorie esposte,e cioè, che
esisterebbero, nel nostro ordinamento due criteri di imputazione dell’attività d’impresa: -il criterio
formale della spendita del nome e - il criterio sostanziale del potere di direzione.
Si è sottolineato, infatti, come proprio quest’ultimo criterio non potesse essere condiviso, in
quanto né le norme sulla società né le norme sulla legge fallimentare dimostrano che un soggetto
possa essere chiamato a rispondere per essere il dominus di un’impresa formalmente imputabile ad
altro soggetto e tanto meno, per questo stesso motivo, acquistare la qualità di imprenditore,
sostenendo l’inscindibile collegamento tra il potere di gestione (amministrazione) dell’impresa, e la
responsabilità illimitata. Si è sostenuto, cioè, che ciò non sarebbe ricavabile dalla disciplina delle
società, in quanto, se è vero che nelle società di persone l’amministratore non può limitare la
propria responsabilità (artt.2267 e 2318), non è altrettanto vera l’inscindibilità della responsabilità
illimitata dal potere di gestione. Ed, infatti: nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono
illimitatamente, anche nell’ipotesi in cui la gestione dell’impresa sia riservata solo ad alcuni di essi,
come espressamente disposto dall’art. 2291 c.c., così come, i soci accomandatari dell’accomandita
semplice in base all’art. 2318. Pertanto anche in questo caso è possibile pattuire che solo alcuni
abbiano l’amministrazione della società, tuttavia tutti gli accomandatari sono personalmente e
solidalmente responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali. Ed ancora, anche nelle società per
azioni, l’art.2362 (vecchia formulazione), in tema di unico azionista, disponeva la responsabilità
illimitata dell’unico azionista per il solo fatto di essere titolare di tutte le azioni e ciò anche quando
esso si sia astenuto nell’interferire nell’operato degli amministratori. Da tali disposizioni, si
argomentava, pertanto, che la responsabilità illimitata dei soci poteva nascere solo in base a criteri
esclusivamente formali ed oggettivi fissati dalla legge, e non dal criterio sostanziale dell’effettivo
esercizio del potere di gestione. Tale interpretazione, trovava ulteriore conferma nella disciplina
introdotta dal Dlgs. 88/1993 per le società a responsabilità limitata che riconosceva la possibilità di
costituire una S.r.l con unico socio. Anche in questo caso, la responsabilità illimitata, è fondata su
criteri oggettivi e formali, e non per la semplice gestione della società da parte dell’unico socio. A
ciò si è aggiunto, che la stessa legge fallimentare, non poteva essere utilizzata quale fondamento
normativo per argomentare la teoria dell’imprenditore occulto, in quanto l’ipotesi espressamente
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regolata dal 1°comma dell’articolo 147 ossia “socio occulto di società palese” è ipotesi
sostanzialmente diversa da quella del socio occulto di società occulta. Infatti, nel caso di società
occulto di società palese, l’attività d’impresa è svolta in nome della società e ad essa è certamente
imputabile in tutti i suoi effetti. In altri termini, la responsabilità di impresa della società è fuori
contestazione, e la partecipazione alla società è titolo sufficiente a fondare la responsabilità ed il
fallimento sia dei soci palesi sia di quelli occulti. Non c’è, pertanto, alcun dubbio che il socio,
scoperto successivamente alla dichiarazione di fallimento, sia anch’egli socio di tale società, e come
tale soggetto a fallimento. In tale ipotesi ciò che è stato occultato è solo il numero dei soci. Il socio
occulto viene, quindi, dichiarato fallito sempre in base ad un criterio formale perché realmente
appartenente alla compagine sociale. Pertanto dalla disposizione del 1°comma, dell’articolo 147
(vecchia formulazione) poteva solo ricavarsi che chi è socio di una società a responsabilità
illimitata, rispondeva sempre verso i terzi, anche quando la sua partecipazione non è stata
“esteriorizzata”. Nel diverso caso della società occulta, invece, l’attività d’impresa non è svolta in
nome della società; gli atti di impresa non sono formalmente imputabili ad una società, perché chi
opera nei confronti dei terzi agisce in nome proprio, sia pure nell’interesse e per conto di una
società di cui è eventualmente socio, agisce cioè come mandatario senza rappresentanza della
società occulta. Tale situazione giuridica è, quindi, non solo “quantitativamente”, ma
qualitativamente diversa da quella prevista nel 2°comma dell’art. 147. La conclusione cui giungeva
la dottrina è che, quindi, poiché l’unico criterio di imputazione dei debiti di impresa, è la spendita
del nome, i rimedi per reprimere gli abusi, insiti in una rigorosa applicazione di tale principio,
dovessero rinvenirsi nelle norme in tema di mandato. (Campobasso)
Se questa era la posizione della dottrina, contraria ad ammettere il ricorso ad una società
occulta, la soluzione largamente dominante in giurisprudenza è stata l’estensione del fallimento alla
società occulta. Per la gran parte della giurisprudenza, la mancata esteriorizzazione della società,
non impedisce ai terzi di invocare la responsabilità anche della società occulta, e dei soci una volta
che l’esistenza della stessa venga successivamente scoperta e accertata. È sufficiente, quindi, che i
terzi provino a posteriori l’esistenza del contratto di società e che gli atti posti in essere dal soggetto
agente in nome proprio siano riferibili a tale società. Una volta quindi dichiarato il fallimento
dell’imprenditore individuale, la giurisprudenza estende il fallimento alla società, e a tutti i soci
occulti. Necessario e sufficiente a tal fine, si afferma, è che i terzi provino a posteriori l’esistenza
del contratto di società, e che gli atti posti in essere dal soggetto agente in nome proprio siano
comunque riferibile a tale società, sia pure none esteriorizzata. Perciò, dichiarato il fallimento di un
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imprenditore individuale, il fallimento viene esteso alla società ed agli altri soci occulti, una volta
acquisita la prova – anche attraverso presunzioni – che esiste una società fra il fallito e gli altri
soggetti interessati alla sua attività. Gli indici probatori della qualità di socio occulto sono ad
esempio: un sistematico sostegno finanziario a favore della società anche attraverso il rilascio di
garanzie generali (fideiussione omnibus); sistematica ingerenza negli affari sociali, direzione di
fatto dell’attività d’impresa; percezione di somme di denaro spettanti alla società; partecipazione a
trattative di affari con i fornitori, il compimento di atti di gestione.
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La giurisprudenza, ha quindi, sempre superato il criterio formale della spendita del nome,
aderendo al criterio sostanziale della titolarità dell’interesse. Tale orientamento di favore, è stato
infine recepito anche a livello legislativo con la recente riforma del diritto fallimentare (d.lgs.
9.1.2006, n. 5. Infatti, il nuovo articolo 147, 5° comma, espressamente dispone che, qualora dopo la
dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è riferibile ad una
società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, si applica agli altri soci la regola del
fallimento del socio occulto. In breve, la legge, ai fini della dichiarazione del fallimento,
sembrerebbe aver accolto la tesi dottrinale dell’imprenditore occulto, nella parte in cui tratta allo
stesso modo il socio occulto di società (di fatto) palese e la società occulta. In entrambi i casi ritiene
non necessaria l’esteriorizzazione, e sufficiente la prova dell’esistenza del contratto di società nei
rapporti interni, secondo quegli indici probatori innanzi richiamati. La dottrina, ha però, avuto cura
di sottolineare che la parificazione così operata, e le conseguenze che se ne traggono, sotto il profilo
fallimentare non devono portare a superare la sostanziale diversità tra la società occulta ed il socio
occulto di società palese. Si ritiene, cioè, che il fallimento della società occulta è norma eccezionale,
e la nuova disciplina non comporta che l’attività di impresa sia imputata alla società in tutti i suoi
effetti attivi e passivi. Ed invero, unico principio per l’imputazione degli atti giuridici, e dunque
dell’attività d’imprese, resta sempre e soltanto la spendita del nome. Se così è, deve escludersi che
la società occulta sia direttamente responsabile verso i terzi per le obbligazioni contratte per conto
della stessa, ma in nome proprio, dall’imprenditore individuale, finché quest’ultimo non è
dichiarato fallito.
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