Immigrati, risorsa per Milano e l`Europa?

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Immigrati, risorsa per Milano e l`Europa?
per il ciclo
L’altro è un bene
Migrazioni e cittadinanza a Milano
“Immigrati, risorsa per Milano e
l’Europa?”
Intervengono
Prof Gian Carlo Blangiardo,
demografo, docente all’Università degli Studi di Milano-Bicocca
Francesco Wu,
Presidente Unione imprenditori Italia-Cina
Mahmoud Asfa,
Direttore della Casa della Cultura Islamica
Coordina
Giorgio Paolucci
Sala Alessi – Palazzo Marino, Piazza della Scala 2
Mercoledì 3 febbraio 2016, ore 18,15
Largo Corsia dei Servi 4 – 20122 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.centroculturaledimilano.it
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“Immigrati, risorsa per Milano e l’Europa?”
CAMILLO FORNASIERI: Apriamo questo primo incontro del ciclo «L’altro è un bene:
immigrazione e cittadinanza a Milano», che è svolto come proseguimento e in collaborazione con «I
dialoghi di vita buona», a cui ci ha invitato l’arcivescovo di Milano, Scola: il primo era dedicato al
tema dell’immigrazione, e quindi anche ai luoghi dove la destinazione avviene, o momentanea o
permanente. Dunque Milano, e la sua esperienza di questo, mettiamo a tema oggi. Ringrazio molto
l’Amministrazione comunale nella figura del Consiglio comunale della città, che ha inteso dare
appoggio e significato a questo nostro ritrovarci, destinando la sala Alessi per questo momento di
incontro e dialogo. L’iniziativa ha delle adesioni, cercate non tanto numericamente, perché sono
tantissime le associazioni, le comunità e le realtà che lavorano sul tema della prima accoglienza,
dell’integrazione, del dialogo, della cultura insieme, ma radunate per contiguità, per amicizia, per un
lavoro comune, partendo dal mensile-settimanale Vita, legato a non profit, all’associazione Nocetum,
a Expo dei Popoli, a La casa della cultura musulmana, al Progetto Arca, che insieme con Avsi ha
avviato la prima accoglienza con un patto con l’Amministrazione in questa città, e I dialoghi di vita
buona, che ho già nominato. Chiedo adesso al consigliere Matteo Forte di iniziare questo incontro a
nome del Comune. Poi seguiranno i nostri ospiti, che saranno presentati da Giorgio Paolucci,
giornalista noto di Avvenire, che continua la sua attività su diversi campi e che ha curato questo ciclo
di incontri, di cui ci parlerà. Grazie.
MATTEO FORTE: Carissimi, è con molto piacere che vi do il benvenuto nella prestigiosa sala Alessi
e porto il saluto del Presidente del Consiglio Comunale Basiglio Rizzo. «L’altro è un bene», in questi
cinque anni di esperienza nel Consiglio Comunale di Milano, il titolo dell’incontro di oggi non ha
costituito tanto un’affermazione di principio quanto una scoperta da conquistare. Dalla vittoria, nel
mio caso, dell’avversario alle elezioni per il governo della città, alle cosiddette questioni di
biopolitica, che pure in questa consigliatura abbiamo affrontato, all’emergenza profughi che vive la
Stazione centrale, fino al cosiddetto «Piano moschee» proposto dall’attuale Amministrazione. Tante
sono state le vicende che la politica milanese ha affrontato in questi ultimi anni e che hanno posto il
titolo di questo incontro più in termini di domanda: «l’altro è un bene?». Scrive il cardinal Scola:
«società civile significa quindi essenzialmente dialogo, reciproca narrazione della propria soggettività
ad un tempo personale e sociale, a partire da ciò che inevitabilmente si ha in comune come beni di
carattere materiale e spirituale» (La speranza del Redentore ci dona una nuova laicità, 17 luglio
2005). Tuttavia sappiamo che il dialogo e la reciproca narrazione, con la stessa presenza di stranieri
e di fedi differenti, «non è sempre bene accolto, in parte poiché delle forme distorte di religione, come
il settarismo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali»
(Benedetto XVI, Incontro con le autorità civili del Regno Unito, 19 settembre 2010). La definizione
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del Cardinale apre una domanda fondamentale: «cosa abbiamo in comune con l’altro in ultima
istanza, e che abilita a un dialogo?». Non una cultura, né un sistema di valori, e questo ormai lo
vediamo dai dibattiti di cronaca, da quella nera – per cui un padre uccide la propria figlia, perché
veste all’occidentale – a quella politica – con l’introduzione per esempio della cosiddetta «norma
anti-burqa» negli ospedali di Regione Lombardia –. Ciò che si ha in comune con l’altro è
quell’umanità di cui una particolare cultura e un differente sistema di valori sono vessilli di risposta.
Voglio esemplificare quanto appena descritto, raccontando un episodio che mi è capitato
personalmente. Ho assistito in diretta alla notizia dell’uccisione in Somalia, da parte dei terroristi di
Al-Shabaab, di Yusuf Ismail, un diplomatico musulmano che lavorava per la riconciliazione del suo
Paese. Ero in compagnia di sua sorella Marian, che, come prima reazione, con gli occhi pieni di
lacrime, ha avuto subito parole di pietà per suo fratello, ma anche per quei ragazzini arruolati con
forza tra gli islamisti e costretti a eseguire quella mattanza in un albergo di Mogadiscio. «Me l’hanno
ammazzato, ma loro non hanno colpa», mi ripeteva, finché non affiorò sulle sue labbra la preghiera
che non prevalessero in lei sentimenti di odio e vendetta, perché altrimenti la catena non si spezza e
il male viene perpetuato. L’amicizia con questa donna musulmana ha reso più familiare e meno
estranea a me, moderno europeo, la dimensione autenticamente religiosa della vita, sottesa a ogni
esperienza, nessuna esclusa.
L’incontro e la reciproca narrazione con persone appartenenti a comunità straniere e minoranze
religiose, allora, possono aprire crepe in quegli «edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci
diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio»,
com’è il mondo occidentale descritto nella geniale immagine che diede Benedetto XVI nel discorso
al Reichstag di Berlino. Affinché queste aperture non siano ingenue da critiche – con tutte le
conseguenze per la convivenza che sommariamente ho elencato all’inizio – oppure non producano
per reazione un irrigidimento irrazionale che respinge l’altro tout court, occorre un processo che
funziona in un doppio senso: se la presenza di comunità straniere e minoranze religiose contribuisce
a spalancare le finestre e a far tornare a vedere la vastità del mondo – a «uscire», come continuamente
invita Papa Francesco –, dall’altra parte il mondo della secolarità razionale esige di purificare la
cultura religiosa da elementi di cristallizzazione ideologica e fanatismi.
Alla luce di ciò, è interessante rileggere l’unico limite che, per esempio, il nostro ordinamento
prevede alla libertà religiosa. Nell’interpretare l’articolo 19 della Costituzione – che garantisce il
diritto di culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume – la Corte Costituzionale in una
sentenza del 2000 sancisce: turba il buon costume ciò che turba «il comune sentimento della morale.
Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità
delle concezioni etiche che convivono nella nostra società contemporanea (sent. 293/2000)». Chiude
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la sentenza: «tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che
anima l’art. 2 della Costituzione». Motivo per cui certe pratiche, oggettivamente lesive della dignità
della persona, devono essere vietate e punite nel nostro ordinamento, ancora oggi – per esempio le
motivazioni genitali femminili, l’incitamento all’odio, l’antisemitismo.
Quindi, il dialogo – e concludo –, perché sia reciproca narrazione, esige sempre due soggetti,
ciascuno dei quali sia maturo della coscienza di sé. Perché si parli di incontro, è necessario che
vengano mantenuti i due poli della relazione nella loro interezza, senza sacrificio dell’uno né
dell’altro, cosicché entrambi siano in grado di argomentare in modo persuasivo i propri convincimenti
per rispondere a quell’originaria esigenza di bene che identifica l’umanità di ciascuno, quello che
appunto abbiamo in comune. Tale compito non è di chi amministra una città – visto che siamo qui
dentro –, tanto meno di chi legifera. Questo compito spetta a ciascuno di noi e può essere alimentato
da luoghi e momenti come quello di oggi. Alla politica spetta solo il ruolo di facilitatore. Vi ringrazio
e buon lavoro.
GIORGIO PAOLUCCI: Grazie. Benvenuti tutti a questo primo incontro di un ciclo proposto dal
Centro Culturale di Milano, che ha un’intenzione molto semplice: non ha lo scopo di presentare
l’ennesimo progetto sull’integrazione degli stranieri, elaborato a tavolino da qualche studioso, ma,
molto più semplicemente, di scoprire, illuminare, valorizzare, incoraggiare e permettere che si
incontrino dei luoghi, delle esperienze, delle persone e delle opere, che già stanno facendo
un’esperienza di incontro tra diverse identità. Questo primo incontro vuole appunto aprire un
percorso, che poi proseguirà anche con degli incontri diversi, che, per esempio, prendano a prestito i
canali dell’arte, i canali della musica e i canali della pittura, per testimoniare che anche la bellezza
può diventare uno strumento di incontro e di arricchimento tra identità diverse. Questo primo incontro
si apre con una domanda: «gli immigrati sono una risorsa per Milano e per l’Europa?»
Abbiamo tra noi persone che potranno rispondere a questo interrogativo da diversi punti di vista.
Il primo è un punto di vista conoscitivo, e per questo abbiamo invitato il professore Gian Carlo
Blangiardo, demografo, docente all’Università degli Studi di Milano Bicocca, che da tempo studia il
tema delle immigrazioni, che ringraziamo e salutiamo. Poi due persone che sono protagoniste di
questa dinamica d’incontro tra identità diverse, e direi anche leader a diverso titolo: Mahmoud Asfa,
direttore della Casa della Cultura Islamica di via Padova a Milano, e Francesco Wu, imprenditore e
presidente Unioni Imprenditori Italia-Cina, e ringraziamo anche loro di essere tra noi.
Si parla molto in questo momento (non solo, ma da un po’ di mesi) di immigrazione, e soprattutto
sul versante dell’emergenza. Le televisioni, i giornali, e anche le conversazioni tra le persone, sono
riempiti da immagini e drammi che si consumano nel mare, che si consumano nei Balcani, e che
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raccontano di migliaia, di centinaia di migliaia di persone in fuga per vari motivi: in fuga dalle guerre,
in fuga dalle dittature, in fuga dalla fame, da carestie, da mutamenti climatici e ambientali. Tutte
persone che cercano luoghi dove poter star meglio. Questa dinamica, quest’ottica è molto importante,
perché ovviamente morde l’attualità. Ma ce n’è un’altra, non meno importante, della considerazione
che l’immigrazione non è fatta solo di emergenze, non è fatta solo di sensazionalismi, non è fatta solo
di sbarchi, di arrivi e di morti, è fatta – grazie a Dio – anche di una permanenza, è fatta di persone e
comunità che si sono radicate nella nostra città e che sono diventati i nuovi milanesi, che sono
diventate persone sempre più importanti non solo dal punto di vista numerico, ma anche dal punto di
vista della qualità della vita e della capacità di interloquire con i milanesi tradizionali. Ed è per questo
che, andando oltre l’emergenza, abbiamo chiesto al professor Blangiardo di aiutarci a capire che cosa
è successo in questi anni, come l’immigrazione ha cambiato il volto e ha cambiato il DNA della nostra
città e in che maniera l’incontro con la città di Milano sta cambiando il volto e l’anima delle comunità
migranti che hanno messo radici nella nostra città.
GIAN CARLO BLANGIARDO: Ringrazio per l’invito. Il mio mestiere è quello di fare il demografo,
lo statistico cioè quello che racconta i numeri. Credo che rispetto al fenomeno dell’immigrazione e
della presenza degli stranieri, i numeri siano importanti, perché ci consentono di avere una
dimensione oggettiva dei fenomeni, del cambiamento, di quanti sono, di quanti erano, di quanti
saranno e di come saranno, in una maniera che cerca di essere oggettiva e al di fuori di quelli che
sono i condizionamenti e le battaglie di natura ideologica.
Comincio con un breve inquadramento della realtà italiana oggi, in cui ho messo i tratti sintetici
della presenza straniera in Italia: sei milioni di persone, e non è poco su sessanta milioni di abitanti.
Una buona parte hanno dimora abituale – residenza, tanto per capirci – quindi vuol dire che sono
anche regolari: rappresentano il 9,5% di quella che, secondo la dimensione ISTAT, è la popolazione
abitualmente residente in Italia. L’Italia è ormai diventato uno dei grandi Paesi di immigrazione:
abbiamo praticamente il 14% degli immigrati che stanno in Europa e abbiamo, di fatto, solo il 12%
della popolazione europea. Quindi abbiamo una presenza particolarmente importante e consistente,
con un grosso peso demografico. Un terzo aspetto da considerare è un cambiamento: questa
popolazione, questi 6 milioni di persone – che sono l’equivalente di una grande regione, come il
Veneto, piuttosto che la Sicilia, quindi la ventunesima regione – hanno subìto nel tempo dei
cambiamenti, dei processi di maturazione, che vanno di pari passo con un processo – come ha
ricordato Paolucci prima – di radicamento sul territorio.
Ci sono quattro punti, secondo me importanti, da tenere sotto controllo. Primo, il fatto che i
lavoratori sono diventati popolazione, cioè famiglie. Spesso inizialmente erano persone sole, con un
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progetto lavorativo e gradualmente sono diventati sempre più una vera e propria popolazione:
coniugi, coniugi con figli, figli spesso nati in Italia, con un progetto che, insomma, è verosimile che
diventi un progetto di permanenza definitiva. Secondo, è cresciuta l’anzianità del soggiorno, della
permanenza, quindi non sono più arrivati l’anno scorso, ma dieci, quindici anni fa, in misura sempre
più consistente. Terzo, sono aumentate le seconde generazioni: ragazzi nati qui o arrivati qui da
piccoli, quindi acculturati al nostro sistema. Quarto, anche quelli che una volta erano i temutissimi
clandestini irregolari – che poi in realtà non erano criminali, ma gente che casualmente in quel
momento non aveva un permesso di soggiorno –, poi, come abbiamo visto, successivamente hanno
recuperato con le numerose sanatorie che si sono succedute. Oggi questa situazione di irregolarità è
molto marginale, è quasi fisiologica.
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Discorso famiglia: le coppie con figli sono particolarmente presenti, gli stranieri da questo punto
di vista sono più radicati in termini familiari.
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Anzianità di soggiorno: la metà delle persone in Italia sono qui da prima del 2003, più di dieci
anni, quindi hanno titolo per chiedere la cittadinanza italiana. I numeri delle nuove cittadinanze sono
cresciuti in maniera decisa negli ultimi anni e cresceranno ulteriormente successivamente.
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Per quanto riguarda le seconde generazioni: tra i bambinetti, quelli nati in Italia sono circa il 90%,
e anche tra quelli di sedici-diciassette anni, quelli nati in Italia sono quasi la metà. Abbiamo, quindi,
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un numero consistente di soggetti che sono nati qui o sono arrivati da piccoli, si sono formati qui e
che sono gli italiani del futuro, inevitabilmente.
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Prendiamo ora in considerazione un altro aspetto. Qui c’è un gioco di parole: più cittadini che
clandestini. Prendiamo gli ultimi due anni, il 2013 e il 2014. In Italia, in quei due anni, ci sono state
più persone che sono “sbarcate” alla cittadinanza italiana, che sono diventati italiani, rispetto al
numero di persone che sono sbarcate sulle coste; però, noi sentiamo parlare di quelli che sbarcano
sulle coste e non sentiamo parlare più di tanto di quelli che sbarcano nella cittadinanza. Se questo
conto lo andiamo a fare negli ultimi dieci anni, i numeri sono ancora più esagerati: sono circa 700.000
quelli che sono diventati cittadini, contro 500.000 circa che sono sbarcati con la barca. Ora, è chiaro
che c’è un processo di maturazione alla cittadinanza che sta progredendo in maniera continua, e che
più andiamo avanti più continuerà a crescere, perché, col passare del tempo, il serbatoio di coloro che
con la legge attuale hanno maturato i dieci anni famosi che sono richiesti – per chi non è neocomunitario o comunque comunitario – crescerà continuamente. E aggiungo un particolare: anche
perché un quarto di queste persone che sono diventati italiane sono bambini, persone con meno di
quindici anni, e la legge attuale – la legge che non ci piace – prevede che se babbo o mamma diventano
italiani, i bambini diventano italiani anche loro – è un altro aspetto che va tenuto a conto.
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Poi naturalmente c’è l’emergenza, gli sbarchi. Qui avete per ogni mese del 2014-2015, il confronto
degli sbarcati: 170.000 nel 2014, 155.000 circa nel 2015. Quindi è chiaro che il fenomeno è
importante: ne conosciamo le cause, è problematico e va gestito, va seguito con attenzione. E qui
aggiungo una cosa, per chiudere il discorso dello scenario, prima di andare su Milano: quando si parla
di sbarchi e d’immigrati, di emergenze oggi, bisogna avere sempre presente anche questi dati. Sono
il domani, perché noi siamo abituati a parlare della Siria, dell’Iraq, o quantomeno dei siriani e degli
iracheni, degli afghani, cioè delle provenienze che scappano da una guerra, da situazioni
problematiche, e non immaginiamo che c’è dietro un mondo, un mondo importante, che scappa e
scapperà – probabilmente in futuro sempre di più – dalla miseria, dalla fame, per la necessità di
sopravvivere. Questo mondo è formato da milioni di persone.
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Questi numeri, 962 milioni, sono gli abitanti dell’Africa subsahariana – quelli oggi più
problematici, e probabilmente anche in prospettiva: i 900 milioni, quasi un miliardo, diventeranno un
miliardo e mezzo fra vent’anni, e tra questi le persone che sono tra i venti e i trentanove anni – quindi,
gente giovane, vivace, pronta in qualche modo a provarci – oggi sono 300 milioni, e diventeranno
500 milioni, cioè 200 milioni di potenziali emigranti che scappano da qualcosa che non è
necessariamente la guerra. È evidente che non siamo in grado di accogliere 200 milioni di persone,
siamo però in grado di dare una mano a far sì che 200 milioni di persone non scappino, e questo
quindi apre la dimensione d’intervento che dovrebbe essere attenta al futuro e attenta anche a questa
realtà che si va evolvendo. Rimbocchiamoci le maniche e troviamo il modo. Si può fare, non è
impossibile, bisogna però volerlo fare.
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Milano. In questo mondo, in questa Italia, in questa dinamica che caratterizza il fenomeno
migratorio qual è la realtà milanese? La prima osservazione è la crescita. Abbiamo meno di 100.000
immigrati presenti nel ‘98, che non è tanto tempo fa, e oggi siamo oltre 250.000. Gran parte sono
residenti. C’è poi la fetta di quelli “cattivi”, cioè gli irregolari, i clandestini. Ci sono state delle punte
poi arrivava la sanatoria. C’è stato l’effetto dell’intervento Bossi-Fini del 2002-2004 e poi un su e
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giù. Adesso siamo, pur in presenza di numeri molto più grandi, in termini percentuali, su percentuali
decisamente più basse. Non è che il fenomeno sia finito, però è sotto controllo. E questo è un altro
degli aspetti importanti di cui tenere conto. Sono cambiate le provenienze, cioè la Milano degli anni
’90 aveva una forte presenza africana che oggi è più ridimensionata, soprattutto quelli che qui sono
indicati come “altri-Africa”, i Senegalesi per capirci. Una volta erano molto appariscenti, molto
presenti. In termini relativi rispetto ad altre provenienze hanno perso rilievo: non è che non ci siano,
ma sono meno rilevanti. Naturalmente è aumentata in modo considerevole la presenza est-europea e
anche la presenza latino-americana.
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Quindi c’è stato un cambiamento rispetto alle provenienze così come ci sono stati altri
cambiamenti: l’anno di arrivo in Italia, il titolo di studio, cioè abbiamo una popolazione di cui il 40%
‒ sono dati ISTAT ‒ hanno il diploma e una laurea o un dottorato addirittura. Quindi è una presenza
qualificata. Poi magari il lavoro non qualifica ‒ uno ha la laurea e fa altre cose ‒ però dal punto di
vista della possibilità, della potenzialità, della ricchezza di questo patrimonio demografico, beh
effettivamente questa ricchezza c’è.
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Vado anche su cose apparentemente meno immediate, però è lo stesso discorso di prima: quelli
che sono nati in Italia, quelli che sono arrivati più o meno da giovani. Vedete che anche a Milano,
come accadeva per l’Italia, se andiamo a prendere i bambini, da zero a cinque piuttosto che da sei a
diciassette, quindi minorenni, una quota consistente è nata in loco.
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Lo stesso discorso vale per le famiglie: le coppie con figli hanno anche nella realtà milanese un
peso importante e anche un peso crescente. Quindi questo processo di trasformazione da individui a
gruppi famigliari, che è uno dei fenomeni che favorisce l’integrazione sempre di più e il radicamento
sul territorio, anche sulla realtà milanese va crescendo. Quindi c’è anche questa ricchezza, lo vediamo
per le diverse nazionalità, chi più chi meno. C’è questa ricchezza che deriva dalla presenza di tipo
familiare, che è una ricchezza di cui dobbiamo tenere conto e che contribuisce a rendere
l’immigrazione sempre più integrata.
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Proviamo a leggere ancora due o tre osservazioni: come si colloca il capitale umano immigrato
rispetto ai milanesi doc, chiamiamoli così, i cittadini italiani di fatto? Tra il 2001-2014 gli Italiani
presenti a Milano sono scesi da un totale di un milione e cento sessantamila abbondante a poco più
di un milione a cui si aggiungono gli stranieri. Abbiamo la dimensione demografica di una città di un
milione e trecentomila abitanti e ricordo che negli ’70 Milano aveva un milione e settecentomila
abitanti, oggi ne ha un milione e tre, ma se ne ha un milione e tre è ancora grazie alla componente
straniera, se no punteremmo drasticamente verso il milione di abitanti, che di per sé non è male, uno
pensa che in fondo si stia più larghi, ma fate attenzione perché un milione di abitanti con una
componente anziana come quella che va prospettandosi, cioè il 40% di anziani, sì stiamo più larghi,
ma forse siamo un pochino meno vivaci e dinamici e quindi forse meno efficienti da un certo punto
di vista.
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Un’altra cosa su cui riflettere: le nascite. È qualche giorno che sto dicendo in giro per l’Italia che
il 2015 sarà l’anno dei record. È l’anno della natalità più bassa di sempre; è l’anno della mortalità più
alta rispetto agli anni precedenti, con un aumento che non c’è mai stato se non nel ’15-’18 e nel ’43;
è l’anno in cui la popolazione italiana diminuisce, cosa che non è mai successa dai tempi dell’unità
nazionale e tra questi record, diamo un’occhiata alle curve delle nascite di Milano. I nati nei diversi
mesi nel 2007, prima della crisi, hanno la curva gialla che è sempre più alta quasi in tutti i mesi. La
curva più scura è il 2014, sempre a Milano, e vedete che è più bassa, ma comunque superiore a quella
del 2015, quella rossa. Quindi rendiamoci conto, lo scopriremo tra poco nei dati ufficiali, che Milano
nel 2015 ha avuto un ulteriore abbassamento delle nascite.
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Ora in questa realtà il saldo naturale, che è la differenza nati meno morti, distinto in Italiani e
stranieri. Questi sono gli Italiani. Il saldo naturale, nati meno morti, per la popolazione italiana
milanese è sempre sotto rispetto alla linea dello zero, per la popolazione straniera è sempre sopra.
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Quindi quando si chiede quale sia il contributo che ha dato l’immigrazione, ce lo abbiamo sotto
gli occhi. È naturale, viene istintivo immaginare che per una popolazione che voglia continuare ad
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esistere, l’immissione di forze fresche è vitale. Gli italiani non ce la fanno più, il contributo
dell’immigrazione è fondamentale. Qui vedete nati stranieri, la curva è questa. Nati italiani, la curva
è questa. Siamo quasi arrivati agli stessi livelli, questo non vuol dire che non ci siano le difficoltà che
incontrano le famiglie, perché vedete che anche gli stranieri negli ultimi tempi hanno avuto una
diminuzione, quindi è difficile mettere al mondo dei figli per tutti, per gli italiani, così come per gli
stranieri. Rimane il fatto, però, che il contributo che dà la componente straniera è essenziale, senza la
quale noi avremmo che a Milano nascono ottomila bambini e ne nascevano quindicimila non molto
tempo fa.
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Vado a concludere: il futuro. Dietro a tutti questi numeri e dinamiche, cosa potrà succedere in
prospettiva? Bene, queste sono stime fatte dal settore statistica del comune di Milano, 2015-2035, un
orizzonte di venti anni, senza esagerare. Questa è la popolazione italiana milanese oggi, continuerà
ad andare in questa direzione e arriveremo al milione e ventimila. Nello stesso tempo, questa è la
componente straniera, la scala è di qua, i 250.000 di oggi sono destinati ad arrivare a 400.000, tenendo
conto anche delle acquisizioni di cittadinanze. Quindi è inevitabile che Milano sarà sempre più una
città in cui la componente straniera avrà un peso importante. Quindi, non immaginiamo che sia un
fenomeno da contrastare, è un fenomeno da valorizzare. In questo senso, prendendo atto di queste
cose, di queste dinamiche, di questi numeri, io credo che il messaggio sia molto semplice: siamo di
fronte ad un fenomeno che è inserito, radicato nella nostra società che ha molti elementi positivi
favorevoli, dà dei contributi. Certo, ci sono anche elementi critici, non nascondiamolo, intendiamoci.
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Però dà parecchi contributi, noi dobbiamo essere in grado di valorizzare questi contributi, di
continuare a gestire e a convivere in maniera positiva con questo fenomeno, per fare in modo che
questo patrimonio diventi una vera ricchezza per la comunità e per la città di Milano. Grazie.
G. PAOLUCCI: Grazie al professor Blangiardo che, con una bella scorpacciata di numeri, forse ha
messo al tappeto qualcuno, ma è molto interessante perché credo che faccia un’operazione di verità
anche rispetto, devo dirlo da appartenente alla categoria, ad alcuni stereotipi, luoghi comuni,
deformazioni spesso interessate da entrambe le prospettive che in media i giornalisti fanno. Quindi
questo sguardo ravvicinato, corroborato da numeri, diciamo ufficiali, ci aiuta davvero a capire che
cosa vuol dire che la componente straniera è un fenomeno vitale, con cui dobbiamo fare i conti,
piaccia o non piaccia. Se vogliamo farci i conti, la cosa interessante è ascoltare l’esperienza e la
testimonianza chi da immigrato, da ex-immigrato ormai, fa i conti con l’Italia, fa i conti con la città
di Milano, fa i conti con i problemi e fa i conti con le risorse che in questo paese ha trovato, si parlava
prima appunto di un arricchimento reciproco che è l’obiettivo su cui lavorare. Allora sentiamo da due
punti di vista diversi, l’esperienza di Francesco Wu, che è un imprenditore che ha dato vita a una rete
di imprenditori e che ha fatto questa esperienza da più di vent’anni credo, e che magari ci aiuta a
capire come guardare una comunità che spesso viene dipinta, e forse in parte lo è, come una comunità
piuttosto chiusa e autoreferenziale, piuttosto che una comunità aperta ad un incontro con la città.
Prego.
FRANCESCO WU: Buonasera a tutti. Allora, quando il professore dava i numeri, io tra me e me
dicevo: «Ma quanti ne arrivano ancora?». È una cosa che ha fatto impressione anche a me, poi mi
sono un po’ guardato dentro me stesso e mi sono detto: «ma io sono uno di quelli che è arrivato,
perché devo avere paura?». Ero un po’ impressionato anche io dei numeri, milanesi, mica milanesi
eccetera. Quindi penso che un po’ di timore, un po’ di paura verso lo straniero, che è una cultura
diversa, che ha un aspetto diverso, questo penso che sia normale, come prima impatto. Quello che mi
preme dire stasera, che è il tema a cui, secondo me, tutti siamo interessati, è il tema dell’integrazione.
Arrivano tutte queste persone, quindi: «Saranno integrate? Come conviveremo?». Io vi racconto un
po’ quello che è successo a me e rispetto alla mia esperienza cerco di dare delle idee e un giudizio
alla mia esperienza. La parola che in questo momento mi piace di più usare e che ce l’ho lì da un po’,
secondo me è non c’è integrazione se non c’è amicizia. Questa è la parola chiave perché solo
dall’amicizia, che non è un termine filosofico, bello, ma è un rapporto tra persone. I rapporti tra
persone che vivono nella stessa città avvengono in modo naturale, ad esempio adesso ci sono
tantissimi bar a gestione cinese, il signore che scende dal quinto piano e va a bere il caffè ad un certo
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punto si trova davanti un barista cinese e si chiede perché. La prima volta non entra, poi la seconda
no, poi la terza sotto casa va a prendere il caffè. Allora vede che il caffè è ancora Illy, quello di prima
e constata che sono pure simpatici. Allora torna e quindi nascono dei rapporti, questi sono più
superficiali. Ma possono nascere rapporti anche più profondi, di amicizia, magari tra colleghi di
lavoro, adesso ci sono tanti giovani che hanno studiato e sono laureati, quindi sono inseriti nel mondo
del lavoro e per forza avranno colleghi italiani o di origine straniera, quindi questo permette la nascita
di rapporti di amicizia. Questo permette la nascita di rapporti di amicizia. Adesso, parlo per me: io
mi ricordo benissimo appena arrivato in Italia andavo in questo doposcuola e c'erano dei volontari
che prestavano il loro tempo libero a noi ragazzini, ai tempi erano tanti ragazzini meridionali e anche
un ragazzino straniero. Io avevo chiesto a qualcuno di loro: «Ma quanto vi pagano per stare con noi?»,
perché per me era normale, anche se ero piccolo, nell'ottica cinese, come dire... E poi scopro che lo
fanno in modo gratuito e quindi ho notato come queste siano cose che nella vita poi ti colpiscono,
quindi il senso della gratuità. io ho imparato il senso della gratuità così forte venendo in Italia. Questo
è stato il primo impatto. successivamente ho avuto, ad esempio la maestra delle elementari, che mi
insegnava storia, geografia... che si vedeva che mi volesse bene. Quindi non c'è amicizia se non c'è
affettività. È quello che lega. Durante la mia vita ho avuto tanti amici, alle superiori, e soprattutto
all'università. Tutt'ora adesso che abito a Legnano ho tanti amici italiani. Facendo una battuta posso
dire che se mi chiedessero di mettere una bomba a Milano io direi: «Col cavolo! Io ho tanti amici
qui», visto che ora va un po' di moda quest’idea qui. Quest’ amicizia nasce tra persone, è un processo
lento, naturale ma inarrestabile. Questo permette, nel medio/lungo periodo alle persone di vivere nello
stesso posto rispettandosi, perché io ti rispetto se ti voglio anche bene perché altrimenti il rispetto è
solo a parole. Questo posso dirlo dopo sette-otto anni che mi occupo di immigrazione, di integrazione
della comunità cinese, e sono giunto a questa conclusione. L'altro aspetto importante è che secondo
me non è che la parte piccola si omologa alla parte grande, l'integrazione è sicuramente il rispetto
delle regole, ma dal punto di vista culturale, è cercare di capire che una cultura nuova, io parlo per la
comunità cinese, da un valore aggiunto a Milano. Facendo degli esempi concreti, adesso a Milano
sono nate tantissime attività con gestione cinese, tantissimi bar, ristoranti e tanti si chiedono: «Ma
come mai è così? Da dove vengono tutti questi soldi?». Queste sono le domande che mi fanno quindi
credo siano domande che ci sono in giro.
La maggior parte delle persone pensa subito a tre cose: «La leggenda metropolitana dice che il
governo aiuti la popolazione che emigra dando 200mila euro ad ogni famiglia». Io ogni volta
rispondo: «Cavoli, se fosse veramente così tutti i cinesi scapperebbero dalla Cina invadendo tutto il
mondo». E soprattutto sommando tutte le famiglie, 300milioni di famiglie cinesi moltiplicato per 200
mila euro verrebbe fuori una cifra spropositata, quasi il PIL mondiale. Quindi facendo due calcoli,
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per una persona come me abituata a fare i conti con i numeri, si possono sfatare facilmente queste
teorie. L'altra cosa che generalmente si pensa è che, ad esempio, il governo cinese abbia degli accordi
particolari con il governo italiano per la detassazione degli imprenditori cinesi per i primi tre anni.
Sono tutte cose non vere. Basta chiedere a qualsiasi commercialista e ti dirà lo stesso. La terza di
queste ipotesi è che i soldi vengano dalla mafia cinese. Su questo aspetto dico semplicemente che se
la mafia facesse crescere così il PIL così dinamicamente avremmo il sud ricchissimo, per fare una
battuta. Dove voglio arrivare? La comunità cinese, ad esempio a Milano, dal punto di vista economico
è molto vivace, perché ha dei valori che si porta dietro. Ad esempio la gran voglia di lavorare, la
capacità di sacrificarsi, il che vuol dire che io in alcuni anni, no per l'intera vita ovviamente, mi
sacrifico per un bene maggiore. L'altra cosa molto importante, sempre all'interno della comunità
cinese, è l'importanza della parola data, che favorisce il prestito a tasso zero, ad esempio i miei zii,
quando io ho aperto un'attività mi hanno prestato i soldi a tasso zero. Una solidarietà interna insieme
all'importanza della famiglia in senso ampio, sono valori che hanno reso forte l'Italia nel dopo guerra
e sono quelli che hanno permesso la nascita di 4 milioni e mezzo di piccole imprese, in altre parole il
boom economico italiano. Questo però probabilmente si è perso negli anni, soprattutto negli ultimi
3-4 decenni. La comunità cinese sta dimostrando, anche lungo il periodo di crisi, che è ancora
possibile lavorare. È il valore aggiunto di cui parlavo prima. E quando ho la possibilità di farlo
racconto tutto questo perché delle volte noi possiamo trovare le ragioni più disparate della dinamicità
della comunità cinese, come quelle elencate prima, quando invece possiamo trovarle a casa nostra.
Guardando un altro aspetto, io quattro anni fa, insieme ad alcuni colleghi ho fondato un'associazione
di giovani imprenditori. Questo, da parte mia, più che per un amore al vero è un amore al giusto
perché ascoltando tutte le cose non vere sulla comunità cinese mi sono detto "Io ho studiato qui,
perché non mettere a disposizione quello che vedo, quello che so, a dispetto di tutti, cinesi e italiani,
per cercare di fare da ponte. Ma questo amore al vero e al giusto, sono cose che io ho assimilato
stando con amici italiani, quindi non è una cosa propriamente cinese, è una cosa di tutti gli uomini,
ma è una sensibilità che io ho fatto maturare di più qui in Italia. E l'ho usata per portare avanti una
battaglia per il diritto al lavoro, carico scarico delle merci, per la comunità cinese. Prendo valori di
sensibilità italiana e intraprendenza e concretezza cinese e porto avanti dei progetti. Per me
l'integrazione è questa. Però non mi sono accorto di questa cosa in quel momento stesso ma dopo,
quando alcuni amici mi hanno fatto notare che io avevo dei modi di fare molto italiani ma che ero
anche molto concreto come i cinesi. Rispetto alla comunità cinese posso dire un’ultima cosa che è
una comunità molto vivace, moltissimi giovani studiano in università con una percentuale pari a
quella italiana. Questo dato mi ha stupito perché alcuni anni fa ho letto un articolo su La Repubblica
in cui si diceva che i cinesi in Italia non fanno andare i figli a scuola. È una comunità che rimane
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molto attaccata alle proprie radici culturali, non tanto nazionali anche se però in alcuni casi, come in
America, in cui si sentono totalmente americani e integrati e quindi non c'è una connotazione etniconazionale ma più una connotazione culturale che non è una cosa per forza negativa. Ad esempio il
confucianesimo, che ha molta influenza sulla cultura cinese, con tanti aspetti che riguardano
l'importanza della famiglia, dei genitori, del rispetto degli anziani, riguarda tutta una serie di valori
positivi che possiamo condividere anche qui. Con questo credo di aver terminato, se mi verrà in mente
qualche altra cosa da dire dopo lo farò.
G. PAOLUCCI: Ringraziamo Francesco Wu. Raccolgo due osservazioni dal suo intervento che mi
piace sottolineare e rilanciare: «Non c'è integrazione se non c'è amicizia». L'integrazione viene spesso
interpretata dagli studiosi come qualche cosa che appartiene all'accademia, invece lui ci ha fatto capire
che l'integrazione appartiene all'esperienza prima che all'accademia e che quindi è molto importante
capire, incontrare, scoprire e valorizzare le dinamiche che si muovono nella base della società, prima
ancora che sui libri, perché spesso i libri non raccontano quello che si muove nella società ma
raccontano i risultati di elaborazioni teoriche. Non sempre ma purtroppo questo è un limite come è
un limite anche il modo in cui i media danno informazioni sulla vita delle comunità. L'altra cosa che
mi piace sottolineare è «Ho imparato l'Amore al vero e al giusto, che è una cosa che è all'interno di
ogni uomo, ma che io ho imparato qui in Italia». È interessante sottolineare come la dinamica della
migrazione portando l'incontro tra persone, permette di riscoprire valori, esperienze e modalità di
essere uomini che magari uno ha nel cuore ma non ancora scoperto finché non la vede incarnata nella
persona che incontra. Adesso diamo la parola a Mahamoud Asfa.
F. WU: Mi sono dimenticato di dire una cosa molto importante. Qui siamo ospiti nel comune di
Milano in una sala a valenza politica. Rispetto appunto a questo direi che l'integrazione è una cosa
che avviene già nella società civile e la politica stessa non deve far altro che cercare di non ostacolare
questo corso naturale, ma cercare di favorirlo. Spesso purtroppo vediamo che non è così, si fanno
delle regole che la ostacolano. Si deve stare attenti a vedere e capire un processo che è già in atto e
cercare di non ostacolare una cosa che avviene già tutti i giorni.
G. PAOLUCCI: Sui libri questo viene definito sussidiarietà, cioè il fatto che l’istituzione pubblica
non solo non deve ostacolare, ma deve aiutare quello già ha nella società. Diamo adesso la parola a
Mahmoud Asfa, che fa il direttore della Casa della Cultura Islamica, che è una delle istituzioni fra le
più antiche della comunità islamica a Milano, architetto proveniente dalla Giordania, che ha famiglia
e figli da molto tempo integrati nella nostra città, e che rappresenta uno dei leader, uno dei portavoce
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più interessanti di una comunità che conta 120.000 persone circa nella nostra città ma che è molto
variegata, non solo perché è formata da decine di comunità etniche nazionali, ma anche perché al suo
interno, come sapete, ci sono tendenze e anime diverse, modi diversi anche di interpretare
l’appartenenza alla grande tradizione che è dentro la Umma, la comunità islamica. Adesso diamo la
parola a lui, che ci racconta un po’ questa dinamica di incontro e di valorizzazione e a volte anche di
problematizzazione reciproca tra la comunità islamica e la citta di Milano.
M. ASFA: Buonasera, vorrei ringraziare il Centro Culturale di Milano, che mi ha permesso di
partecipare a questo incontro. Ringrazio anche il comune di Milano che ha ospitato questo incontro.
Vi racconterò un po’ dell’esperienza della vita della nostra comunità a Milano. Ma prima farò una
premessa dicendo che il fenomeno dell’immigrazione non si è mai fermato e non si fermerà mai.
Questo ce lo racconta la storia, che è piena degli spostamenti dell’uomo per necessità. Addirittura i
grandi profeti hanno fatto questo fenomeno di immigrazione, come Abramo, Mosè, Gesù, il profeta
Muhammad, che Dio li abbia in gloria tutti quanti. Quindi il fenomeno dell’immigrazione non è nuovo
o recente, per il quale noi dobbiamo avere problemi, sospetti o paura, si emigra per diversi motivi,
come per migliorare la vita, per trovare una qualità di vita migliore, per lo studio o la ricerca, per
esprimere la propria opinione, per scappare dalla povertà o dalla morte, oggigiorno vediamo quante
miglia di persone scappano dalla morte. Quindi l’immigrazione è un fenomeno di continuo successo,
l’uomo si sposta di continuo da una parte all’altra. La cosa peggiore di questo fenomeno è la fuga
dalla morte. Oggi vediamo che il Mar Mediterraneo è diventato un grande cimitero, come ha detto
una volta il presidente della Repubblica Mattarella. Quando prima il Mar Mediterraneo era un
palcoscenico di un grandioso teatro storico e umano, sede del pensiero, della riflessione e un immenso
campo dove convergono miti, leggende e dove si sperimentarono gli strumenti intellettivi per
discernere la verità dall’immaginario. Per capire se l’immigrazione è un bene, oppure potrebbe essere
una risorsa per la società, per rispondere a questa domanda bisogna vedere come ci comportiamo,
come gestiamo questo fenomeno di immigrazione.
Io credo che se noi la gestiamo in un modo adeguato, questa migrazione è certo una risorsa, una
ricchezza, come la storia ci dimostra. L’incontro delle diverse culture, diverse persone, diverse etnie
aiuta la crescita. Gli Stati Uniti sono un paese di immigrati, non c’è una nazione che si chiama
effettivamente Stati Uniti. È fatta da diversi paesi, diverse etnie, diverse culture, diverse comunità. È
diventato il paese più grande del mondo, a prescindere dalle critiche o dai problemi che sono nati, ma
rimane un grande stato che ha portato tanto benessere all’umanità. Quindi bisogna trovare il modo di
gestire questo fenomeno. Per entrare nello specifico parlando della comunità mussulmana milanese,
è una comunità che, come ha detto Giorgio Paulucci, conta 120.000 musulmani a Milano. Vengono
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da diversi paesi, quindi da diverse culture, diverse etnie. Come gestire questo fenomeno all’interno
di questa comunità? È chiaro che ci sono dei grossi problemi, ma credo che la comunità nel globale
contribuisca e abbia contribuito allo sviluppo di questa città: al mondo del lavoro, al mondo della
scuola, nel mondo delle famiglie, portando anche valori, perché questi immigrati che vengono da
diversi paesi non sono persone che non hanno la loro cultura, non hanno da portare qualcosa, o da
imparare anche dal paese dove vivono e risiedono. Quindi questi immigrati diventano una risorsa se
viene gestito bene questo fenomeno.
Io vorrei dire che noi all’interno della nostra comunità viviamo e affrontiamo tantissimi problemi.
So che l’italiano con questa crisi ha dei grossi problemi, ma lo straniero ha gli stessi problemi
dell’italiano e in più deve organizzarsi, trovare un modo di vivere, trovare casa, trovare lavoro, come
comprendere questo nuovo ambiente, una nuova cultura. Sono grossi problemi che lo straniero
affronta in questa società. Per esempio, parliamo dei primi immigrati, la prima generazione di
immigrati - perché l’immigrazione ha anche avuto delle tappe. I primi immigrati di origine straniera
che hanno mantenuto la cittadinanza originaria si considerano, tuttavia, come i veri e propri cittadini
del loro nuovo paese e hanno definitivamente stabilito la loro presenza e la loro residenza. In alcuni
paesi, in Olanda ad esempio, hanno per fino potuto ottenere il diritto al voto amministrativo. Per
quanto riguarda la seconda e la terza generazione che è in Italia sono a tutti gli effetti cittadini italiani,
godono della cittadinanza del paese dove risiedono e rimarranno per sempre. Sono con tutti i diritti
civili, non dobbiamo pensare che questi qui sono stranieri. I mussulmani oggi sono parte integrante
della società civile, come gli appartenenti a qualsiasi altra confessione, in quanto tali partecipano a
pieno titolo alla crescita economica culturale e sociale del paese in cui vivono. Nonostante la presenza
di una cultura prevalente in ogni società europea, queste società sono ormai diventate multiculturali,
multi-religiose, multietnica, anche il principio che divide il potere della religione dal potere dello
stato rende la questione religiosa un fatto strettamente personale. Dobbiamo anche capire che queste
società, questi nuovi cittadini all’interno delle loro comunità, hanno dei problemi e bisogna sempre
aprirsi nei loro confronti per capire come dobbiamo comportarci. Ad esempio, quando una volta
raccontavo questo episodio a Giorgio, lui mi ha detto: «Mi piacerebbe che tu raccontassi questo
episodio alla gente che viene ad ascoltarti». Riguarda il conflitto generazionale. C’erano dei genitori
che frequentavano la nostra sede, il luogo di culto, il centro culturale nella nostra piccola “moschea”
‒ tra virgolette perché sono praticamente moschee-garage, ecco ‒ venivano questi dieci genitori a
dirmi: «noi abbiamo grossi problemi con i nostri figli». E io gli rispondo: «Cosa c’è?» Sono dieci
persone di cui ognuno di loro ha due o tre, quattro figli. Tutte queste dieci persone hanno grossi
problemi con i propri figli. Cominciamo a capire qual è il problema: «Non ci rispettano, non
rispondono all’ordine, ci prendono in giro perché noi parliamo l’italiano in modo… ‒ perché quando
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uno impara l’italiano trova delle difficolta, invece, loro nati e cresciuti in Italia sono a tutti gli effetti
italiani e li prendevano in giro anche quando discutevano in italiano a casa». «Portate questi vostri
figli e vediamo qual è il problema tra voi e loro». Un giorno vennero trenta ragazzi di sedici, diciotto,
vent’anni e comincio a parlare con loro. Alla fine scopro che il problema non è dei figli, il problema
è dei genitori. Allora chiamo i genitori di nuovo e dico: «Guardate non ho bisogno di parlare con i
vostri figli, avrei bisogno di parlare con voi». Perché il modo di educare i figli era totalmente
sbagliato. Sbagliato perché questi genitori sono nati e cresciuti in diversi paesi: Egitto, Giordania,
Marocco e hanno avuto un’educazione completamente diversa da quella che i bambini pretendono di
avere dai loro genitori. Quindi i genitori pretendono di educare i loro propri figli come sono stati
educati loro stessi. Non prendono in considerazione l’ambiente, la cultura, la storia del paese. Questi
bambini, se veramente voi pretendete di educarli come voi siete stati educati dai vostri genitori,
sbagliate perché l’ambiente influenza, la cultura, la storia, la scuola, è tutto diverso. Non dovete
pretendere di educare i vostri figli; dovete aprire i vostri cervelli, dovete aprirvi alla società dove
vivete e cominciare a capire come educare i vostri figli. Io citavo sempre questo esempio, dicevo a
qualcuno di loro: «Quando vivevi in Egitto, in Giordania, quando avevi dieci anni, quando il tuo papà
ti chiamava per chiederti qualcosa, cosa rispondevi? Quando diceva: “Oh Mohamed vieni qua” tu
scatti subito senza neanche pensare, vai, è un ordine. Qui non puoi utilizzare questo modo, devi dire:
“Mohamed puoi venire per favore?” Questo è un modo diverso. Anche un islamico nonostante
l’ambiente diverso deve incominciare ad educare i figli in questo modo, non puoi pretendere di
obbligare tuo figlio a venire, a ricevere ordini. Tu devi dialogare, devi aprire un dialogo, devi educarlo
al rispetto, al creare questo tipo di rapporto tra il padre e i propri figli.
Noi abbiamo, non solo il conflitto generazionale tra gli italiani stessi, ma anche all’interno delle
comunità. Quindi un altro episodio ‒ perché parlo dei problemi all’interno della comunità, ma anche
dei problemi tra la comunità e la società. Mia figlia era nella prima superiore. Nata e cresciuta in
Italia, italiana a tutti gli effetti, parla milanese e qualche volta mi prende in giro quando parliamo in
italiano, con tanta simpatia non con mancanza di rispetto. Una volta è nata una discussione tra mia
figlia e una sua compagna di scuola che diceva: «Tu non sei italiana, tu sei straniera». Mia figlia
rispondeva: «No, io sono italiana, sono nata e cresciuta in Italia». È nata questa discussione: sei
italiana o non sei italiana. Poi mia figlia diceva: «Io sono nata a Milano, tu sei nata a Reggio Calabria,
quindi sono più milanese di te». Continua questo tipo di discussione e arrivano a partecipare anche i
compagni, una parte con mia figlia e l’altra con l’altra ragazza finché interviene un insegnante
dicendo: «Basta smettete di dire queste cose». Il giorno dopo succede che la ragazza italiana viene a
chiedere scusa a mia figlia dicendo: «Ti chiedo scusa perché magari ti ho insultato, ho alzato la voce.
Ti chiedo scusa per questo ma rimango convinta del fatto che non sei italiana». Questo problema tra
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la società e la comunità è un problema non più della comunità. Ormai questi sono cittadini, sono
italiani, sono i futuri cittadini di questo paese che partecipano allo sviluppo, si sentono italiani. Se ci
sono dei problemi dobbiamo cercare di risolverli tutti quanti. Noi come responsabili di una comunità
cerchiamo di educare queste nuove generazioni al rispetto. All’interno della nostra comunità quasi
tre o quattro volte spieghiamo la costituzione italiana. Io ho fatto un libro ‒ spero che i prossimi giorni
sia stampato ‒ riguardo questi concetti: L’islam, nelle sfide della città moderna, i problemi di questi
ragazzi nati e cresciuti in questo paese, in questa società, che sono italiani a tutti gli effetti, con questa
apertura di questo mondo, con quello che è accaduto a Parigi e in altri paesi. Il problema purtroppo
quando succede qualcosa del genere è che si parla di “terrorismo islamico”, “Islam”, ma questo è un
problema delle società, non dell’Islam o della religione. Io sono certo che tutte le religioni sono
religioni di pace, di dialogo e di rispetto reciproco, non può essere una religione rivelata da Dio per
creare problemi. Quando un mussulmano commette un crimine non si può parlare di “terrorismo
islamico”, si dice che è un delinquente, un terrorista. Qui i mass-media insistono a dare un’impronta
religiosa: perché quando un cristiano o un ebreo commette questo tipo di attentato non si dice
“terrorismo cristiano”? Non c’è un terrorismo di religioni, c’è un terrorismo di delinquenza di gente
che non rispetta la religione stessa. Noi dobbiamo, di fronte a questo fenomeno di immigrazione,
sederci tutti quanti, mussulmani, cinesi, cristiani, ebrei, quando c’è un problema dobbiamo sederci
tutti quanti attorno a un tavolo e trovare una soluzione a questi problemi. Per esempio, riguardo a
quello che è accaduto a Parigi, andiamo nelle periferie a vedere come vivono questi ragazzi francesi.
Addirittura sono arrivati alla quarta o quinta generazione. Sono a tutti gli effetti francesi, però vivono
nei ghetti, nella miseria, vengono considerati cittadini di serie B. Questo crea problemi e meno male
che l’Italia ha questa grande fortuna di non avere questi ghetti; qui questi conflitti non esistono.
Nonostante il recente fenomeno dell’immigrazione ‒ l’immigrazione più consistente che l’Italia ha
avuto dopo gli anni ’90, quando è stata fatta la legge per la regolarizzazione degli stranieri in Italia,
la Legge Martelli; lì hanno cominciato ad arrivare tantissimi stranieri ‒ credo che, risolvendo questi
problemi, facendo sentire questi ragazzi, che sono nati e cresciuti in Italia, italiani, a questo punto si
possa creare un mondo migliore, una società sana, una società culturalmente diversa dove ognuno
rispetta l’altro. Però se continuano a succedere episodi come sono successi all’interno della nostra
comunità… Per esempio capita che un ragazzo laureato, nato e cresciuto in Italia, con la cittadinanza,
chiami per fare un colloquio di lavoro e, quando la ditta lo chiama e chiede il nome, lui dica un nome
sia arabo che italiano, Zaccaria per esempio. Fissa l’appuntamento, poi quando arriva a fare questo
colloquio lo vedono di pelle diversa, allora dicono di aver già trovato lavoro. Peggio ancora quando
una ragazza con il velo va a fare questo colloquio. Questi fenomeni danno un effetto negativo, perché
il ragazzo è nato e cresciuto in Italia; ci si comporta con lui in questo modo e lui dice: «Io sono
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italiano» e la maggior parte dei nostri figli sono italiani, sanno pochissimo della cultura o della lingua
del loro genitori, sono a tutti gli effetti italiani e dobbiamo comportarci con loro dandogli
l’opportunità di farli sentire veramente italiani. Io mi fermo perché forse ho fatto troppo tardi.
G. PAOLUCCI: Grazie Mahmoud Asfa per questo spaccato, veritiero e anche coraggioso della
comunità islamica. Questa cosa che ci hai raccontato attorno al tema dell’educazione ‒ che cosa vuol
dire educare, cosa vuol dire tramandare i valori attraverso un’esperienza e nello stesso tempo essere
disponibili a mettersi in discussione di fronte alla libertà dei propri figli ‒ direi che è uno spaccato
totalmente universale, non assolutamente islamico, è lo spaccato con cui chi ha figli fa quasi tutti i
giorni i conti. Questa è la dimostrazione che abbiamo molto terreno in comune su cui lavorare. E a
proposito del terreno in comune, prima di concludere e dare brevemente la parola ad alcuni
rappresentanti delle comunità straniere che sono qui, mi piaceva dire che questo lavoro che stiamo
facendo proseguirà il 22 febbraio alle 20:45 con la seconda puntata al Teatro Litta, Corso Magenta
24, dove vi invitiamo tutti ad ascoltare un concerto dei nostri amici del coro Elikya, che vuol dire
speranza, fondato a Milano e diretto da Raymond Bahati. Cantanti e musicisti di dodici Paesi residenti
in Italia eseguono le diverse tradizioni musicali. Il canto, la musica, l’arte sono la strada in cui si vede
quella comune esperienza umana elementare che precede e genera la diversità. Sono la strada nella
quale le migrazioni divengono cittadinanza. A questo proposito segnalo questo libro, realizzato da
Gilberto Perego e Antonio Airò e promosso da don Giuseppe Zhang Zhe, il sacerdote della comunità
di Milano di via Paolo Sarpi. Il libro si intitola Pionieri Italiani in Cina e il ricavato va per la
costruzione già iniziata di una chiesa cattolica in Cina. Racconta le gesta di italiani che hanno
contribuito a fare grande anche la Cina. È un esempio della nostra migrazione che ha arricchito la
Cina.
Saluto anche alcuni rappresentanti delle comunità o dei gruppi che sono qui presenti, in particolare
le Suore di Carità dell’Assunzione di via Martinengo, don Giuseppe Zhang Zhe, Violeta Popescu del
Centro Culturale Italo Romeno, Marika Zeloyaka della comunità ucraina, Raymond Bahati. Adesso
diamo la parola brevemente per un saluto ad Hector Villanueva rappresentante di EXPO dei Popoli.
HECTOR VILLANUEVA: Buona sera a tutti, per me è veramente un grande piacere essere qui con
voi. Io sono arrivato nell’89 con tanti sogni e abbiamo creato la musica latina. Oggi non c’è un locale,
un bar, ristorante o discoteca in cui non si faccia musica latina. Questo ha creato la nostra impresa,
infatti oggi tanti hanno un lavoro grazie alla musica, al folklore, alle danze, perché noi abbiamo creato
discoteche, pub e così via. L’abbiamo portata anche al mare dove facciamo l’animazione. Volevo dire
due cose al professore dell’università (Gian Carlo Blangiardo) che nelle ultime ricerche che abbiamo
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fatto, con la Caritas, Fondazione Caritas, gli immigrati in Italia portano l’11.2% del PIL italiano e
620.000 pensionati, grazie ai contributi degli immigrati oggi percepiscono anche la pensione.
L’EXPO per i Popoli è un progetto nato nel 2013 sotto l’egida di Papa Francesco e ha unificato 146
associazioni nei 5 continenti e serve per costruire un dialogo interculturale e interreligioso con la
finalità di creare una grande Milano. Mi sun chi per lavurà perché Milan l’è proprio un gran Milan.
Grazie .
G. PAOLUCCI: Dopo questo esperimento di meneghino mescolato al peruviano noi concludiamo.
Ricordiamo che poi ci sarà una terza tappa del nostro percorso che troverete sul sito che non abbiamo
ancora temporizzato, ma sarà nel mese di marzo e si intitola L’arte è luogo di dialogo e identità e
riproporremo un progetto molto interessante, coniato alla Pinacoteca di Brera che si chiama Brera è
un’altra storia. Abbiamo qui la professoressa Grazia Massone che ci aiuterà a conoscere questo
progetto. L’idea è quella di un gruppo di mediatori culturali stranieri che ci racconta come possono
aiutare a far conoscere il patrimonio dell’arte e della pittura italiana avendo come filtro l’identità del
loro paese di provenienza. Sarà una serata in cui ascolteremo com’è nato questo progetto, ma avremo
anche la possibilità di una visita guidata breve insieme a questi mediatori culturali di varie nazionalità
che racconteranno come il patrimonio artistico italiano viene filtrato dalla loro identità culturale. È
una esperienza molto interessante a cui vi invitiamo; sarà nel mese di marzo e troverete presto notizie
sul sito.
Mi piace concludere ricordando una frase di uno straniero che vive in Italia, abbastanza importante,
molto seguito, sempre vestito di bianco che si chiama Papa Francesco e viene da lontano, come lui
spesso ama dire. Durante uno dei suoi viaggi, parlando del tema del dialogo ‒ veniva dal viaggio in
Asia, in cui aveva incontrato i vescovi coreani e aveva fatto un lungo incontro con culture molto
diverse che si erano incontrate e fecondate anche nell’incontro con il cristianesimo ‒lui ha detto
questa frase che mi piace ricordare in chiusura a proposito del dialogo, che è una parola molto usata
e forse anche abusata, perché a questa parola bisogna dare un contenuto. Stasera abbiamo cercato di
dargli un contenuto attraverso le esperienze che abbiamo ascoltato. Diceva: «Al principio del dialogo
c’è l’incontro. Da esso si genera la prima conoscenza dell’altro. Se si parte dal presupposto della
comune appartenenza alla natura umana si possono superare i pregiudizi e le falsità e si può iniziare
a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova».È il tentativo che abbiamo fatto questa sera.
Io ringrazio il professor Blangiardo, Francesco Wu e Mahmoud Asfa. È il tentativo che
continueremo a fare. È il tentativo che il Centro Culturale di Milano vuole offrire alla città per
verificare nell’esperienza se è possibile e come è possibile incontrarsi e vivere insieme. Grazie.
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