L`OSSERVATORE ROMANO
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L`OSSERVATORE ROMANO
Spedizione in abbonamento postale Roma, conto corrente postale n. 649004 Copia € 1,00 Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO POLITICO RELIGIOSO GIORNALE QUOTIDIANO Non praevalebunt Unicuique suum Anno CLVI n. 206 (47.341) Città del Vaticano venerdì 9 settembre 2016 . Nuovo monito di Papa Francesco contro il terrorismo Atteso un nuovo incontro a Ginevra tra Kerry e Lavrov No a chi divide e distrugge Non si ferma la violenza in Siria E agli abati benedettini chiede di essere custodi del silenzio Papa Francesco è tornato a condannare la violenza commessa in nome della religione e ha invitato i leader spirituali a prendere le distanze «da tutto ciò che cerca di avvelenare gli animi» e «dividere e distruggere la convivenza». L’appello è stato lanciato durante l’udienza ai partecipanti al simposio promosso dall’O rganizzazione degli Stati americani e dall’Istituto del dialogo interreligioso di Buenos Aires, ricevuti nella mattina di giovedì 8 settembre, nella Sala del Concistoro. A loro il Pontefice ha chiesto, in particolare, di «promuovere la cura e il rispetto dell’ambiente», di «proteggere e difendere i diritti umani», e di alimentare «una cultura di incontro» basata su «un dialogo sincero e rispettoso». Il credente infatti, ha affermato, «non può restare muto o con le braccia incrociate dinanzi a tanti diritti impunemente annientati». Da qui la necessità di «difendere la vita in tutte le sue fasi, l’integrità fisica e le libertà fondamentali, come la libertà di coscienza, di pensiero, di espressione e di religione». Dal Papa, in particolare, un severo monito contro il terrorismo e una nuova condanna di tutte le «atrocità» e le «azioni abominevoli» compiute in nome della religione. «Occorre — ha raccomandato — mostrare i valori positivi inerenti alle nostre tradizioni religiose per ottenere un solido apporto di speranza». Nel successivo incontro con gli abati benedettini, ricevuti nella Sala Clementina, il Papa ha poi ricordato che «il mondo di oggi dimostra sempre più chiaramente di avere bisogno di misericordia», cuore della vita cristiana. E li ha invitati perciò a «puntare sempre più sull’essenziale», continuando soprattutto a tenere vive «le oasi dello spirito» attraverso «quel silenzio operoso ed eloquente che lascia parlare Dio nella vita assordante e distratta del mondo». PAGINA 8 Esce un libro che raccoglie interviste a Benedetto XVI PAGINA 5 Il Regno Unito si accorda con la Francia per bloccare i migranti a Calais L’Europa innalza un’altra barriera BRUXELLES, 8. Fa discutere l’annuncio da parte del Regno Unito della costruzione di un muro che correrà per un chilometro lungo l’autostrada che arriva al porto francese di Calais, sulla Manica. Il muro sarà alto quattro metri e sarà in cemento. Lo ha annunciato il sottosegretario britannico per l’Immigrazione, Robert Goodwill, sottolineando che la sua costruzione dovrebbe iniziare «molto presto», forse già entro la fine del mese, e che i lavori potrebbero concludersi entro l’anno. Goodwill ha aggiunto che «è stato già fatto il recinto». y(7HA3J1*QSSKKM( +]!"!;!z!;! Le credenziali dell’ambasciatore di Australia L’obiettivo è far fronte alla situazione vicino alla cosiddetta «giungla», il campo migranti di Calais, nel nord della Francia. Un campo che Parigi ha annunciato di dover smantellare, ma al momento non c’è certezza sui tempi. Qui circa 10.000 persone, per lo più provenienti da Africa e Medio oriente, vivono in condizioni disperate. Molte di loro, nel tentativo di raggiungere la città inglese di Dover, rischiano la vita, e talvolta la perdono: undici morti solo quest’anno, secondo il gruppo umanitario Auberge des Migrants. Lunedì scorso conducenti di Tir e agricoltori francesi hanno tenuto una manifestazione di protesta, bloccando una delle autostrade per Calais, per chiedere la chiusura della «giungla». Il campo è nella zona non lontano dalla più importante arteria stradale che conduce al porto e dunque agli imbarchi per l’Inghilterra. E a decine ogni giorno tentano di salire sui tir diretti a Dover, spesso incolonnati in attesa di raggiungere i traghetti, causando disagi. Il muro si va ad aggiungere a una serie di recinzioni e filo spinato che hanno trasformato il terminal dei traghetti e la zona circostante in una sorta di roccaforte, tuttavia ancora facilmente violabile da gruppi di profughi che periodicamente vengono scoperti a bordo di camion dall’altra parte della Manica, spesso nella contea inglese del Kent. Il muro è stato presentato come parte di un pacchetto da 17 milioni di sterline (20 milioni di euro) concordato tra Londra e Parigi nel marzo scorso, in un incontro tra l’allora premier David Cameron e il Il commissario dell’Onu per i rifugiati Nella mattina di giovedì 8 settembre Papa Francesco ha ricevuto in udienza sua Eccellenza la signora Melissa Louise Hitchman, nuovo ambasciatore di Australia, per la presentazione delle lettere con cui è stata accreditata presso la Santa Sede Nessuna invasione e i muri non servono SILVINA PÉREZ A PAGINA 3 presidente François Hollande. Nei giorni scorsi ne hanno discusso i ministri degli Interni. Guardando all’Italia, invece, l’Oxfam, una delle più importanti confederazioni internazionali specializzate in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, ha denunciato un sistema di accoglienza che non riesce a fornire ai minori migranti il supporto necessario. Molti hanno parenti in altri Paesi e non vogliono fermarsi in Italia. Ma in attesa che la macchina italiana ed europea si metta in movimento per aiutarli, si sentono braccati e in diversi fuggono dai centri di accoglienza e si ritrovano a vivere per strada, trovandosi così esposti a rischi ancora maggiori. Nei primi sei mesi dell’anno in corso, 5222 minori non accompagnati sono stati dichiarati «scomparsi». Dopo la chiusura della rotta dei Balcani occidentali e l’accordo tra l’Ue e la Turchia, l’Italia — sottolinea il rapporto dell’Oxfam — si è ritrovata ancora una volta a essere il principale punto di accesso per i migranti diretti in Europa. DAMASCO, 8. Ancora sangue in Siria dove almeno 15 persone sono state uccise ieri in bombardamenti aerei avvenuti ad Aleppo sullo stesso quartiere dove martedì fonti degli attivisti avevano denunciato un attacco con gas cloro. Il quartiere è quello di Al Sukkari, in mano a forze ribelli. Inoltre, i jet israeliani hanno compiuto raid contro alcuni obiettivi siriani per la seconda volta in cinque giorni, dopo che un colpo di mortaio ha raggiunto le alture del Golan. Lo hanno riferito le forze di difesa israeliane. Il ministero della Difesa russo ha sostenuto che seguitano i combattimenti in Siria. Secondo Mosca, «formazioni del gruppo Jaysh Al Islam, che si definisce di opposizione, hanno sparato con mortai e lanciarazzi multipli sui centri abitati di Er-Rikhan, Haush-Duarah, Duma, Nashabiyah, Jaubar e Harasta, nella provincia di Damasco». Mentre il gruppo Ahrar ash-Sham avrebbe aperto il fuoco su Rasha e Saraf, nella provincia di Latakia, con mortai e lanciagranate. Sul piano diplomatico, l’opposizione siriana, armata e non, riunita a Londra, compie un’apertura nei confronti del Governo di Damasco. E lo fa con un nuovo piano di transizione negoziabile che, negli intenti dichiarati, mira a mettere fine alla guerra che insanguina il Paese, mentre le speranze di tregua sembrano affidate a un ennesimo faccia a faccia fra John Kerry e Serghiei Lavrov in programma oggi a Ginevra. Il piano prevede un passaggio di poteri graduale verso un Governo di coalizione a Damasco, ma riscopre la necessità di accettare un compromesso anche con il presidente siriano, Bashar Al Assad. Specchio d’una situazione bellica confusa, ma certamente virata su alcuni fronti cruciali a favore delle forze lealiste grazie al sostegno russo e iraniano, il documento è stato illustrato nel prestigioso Institute for Strategic Studies con il sostegno del neoministro degli Esteri britannico, Boris Johnson. E quindi condiviso in una riunione ristretta a porte chiuse con i capi delle diplomazie di un “direttorio” di Paesi occidentali e arabi del gruppo dei cosiddetti Amici della Siria (Friends of Syria) in cui l’Italia è stata rappresentata dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Il testo porta la firma dell’High Negotiations Committee (Hnc), ombrello sotto il quale si sono raccolti dissidenti politici e milizie armate siriane. Stando ai contenuti emersi in pubblico, si tratta d’un piano che offre ad Al Assad la possibilità di restare alla presidenza della Siria per la durata di una fase negoziale (con lo stop alle ostilità), da concludersi in un arco di tempo indicato in sei mesi; poi vi dovrebbe essere il passaggio di consegne a un Governo di unità nazionale incaricato di guidare un Paese in rovina e allo stremo nei primi 18 mesi di un’ipotetica ricostruzione e portarlo infine a nuove elezioni. «Una buona visione del futuro», la definisce Gentiloni a conclusione del meeting, avvertendo tuttavia che la priorità adesso «è porre fine alla violenza, alla tragedia di Aleppo, ai bombardamenti, all’emigrazione selvaggia» per dare una speranza concreta alla trattativa. E aggrappandosi alle «indicazioni positive» date da Kerry sul suo possibile incontro oggi con Lavrov nel tentativo di «ingaggiare la Russia sul cessate il fuoco» in Siria. Dal canto suo, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan — sconfinata con tanto di tank per combattere il cosiddetto Stato islamico (Is), ma anche i curdi-siriani alleati degli Stati Uniti — riapre in queste ore la porta all’Amministrazione Obama su possibili azioni congiunte con Washington contro la roccaforte jihadista di Raqqa. Nel frattempo oggi Erdoğan incontra ad Ankara il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e l’alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune dell’Ue, Federica Mogherini. Civili siriani soccorrono un ferito ad Aleppo (Afp) NOSTRE INFORMAZIONI Il Santo Padre ha ricevuto in udienza ieri pomeriggio l’Eminentissimo Cardinale Telesphore Placidus Toppo, Arcivescovo di Ranchi (India). Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza Sua Eccellenza la Signora Melissa Louise Hitchman, Ambasciatore di Australia, per la presentazione delle Lettere Credenziali. Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza l’Eminentissimo Cardinale George Pell, Prefetto della Segreteria per l’Economia. Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza il Professor Vincenzo Buonomo, Docente presso la Pontificia Università Lateranense. Nomina di Vescovo Ausiliare Il Santo Padre ha trasferito Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Javier Salinas Viñals, finora Vescovo di Mallorca (Spagna), all’incarico di Vescovo Ausiliare di Valencia, assegnandogli la sede titolare di Monterano. Il Santo Padre ha nominato Amministratore Apostolico sede vacante della Diocesi di Mallorca (Spagna) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Sebastià Taltavull Anglada, Vescovo titolare di Gabi e Ausiliare di Barcelona. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 venerdì 9 settembre 2016 Manifestazione dell’opposizione contro Maduro a Los Teques nei pressi di Caracas (Reuters) Vertice della Bce a Francoforte Misure per rilanciare la crescita economica FRANCOFORTE, 8. I mercati azionari europei sono oggi in fase di stallo, in attesa delle decisioni della Banca centrale europea — che si riunisce a Francoforte — e della conferenza stampa di Mario Draghi di stasera. La Bce potrebbe adottare nuove misure per rilanciare la crescita: alcuni economisti sono sicuri che Draghi annuncerà una nuova estensione del piano di acquisti di titoli oltre la scadenza di marzo 2017, ma altri sottolineano che estendere il quantitative easing (qe) non è poi tanto facile, perché Francoforte, avendo già comprato oltre 1000 miliardi di euro di bond, rischia di non trovare più sul mercato titoli idonei. La maggior parte degli analisti non prevede variazioni al costo del denaro, dopo che lo scorso marzo il principale tasso di rifinanziamento è stato azzerato, mentre il tasso sui depositi custoditi per conto delle banche, già negativo, è stato portato al meno 0,40 per cento. Né, in assenza di segnali preparatori in tal senso, sono attesi ulteriori potenziamenti delle massicce misure non convenzionali con cui da tempo ormai la Bce cerca di rivitalizzare l’economia, con l’obiettivo finale di favorire un ritorno dell’inflazione a valori di sicurezza (poco sotto il 2 per cento laddove ora è vicina a zero). In particolare, la mole mensile del programma di acquisti di titoli di stato e privati, il qe che, sempre a marzo, era stata potenziata a 80 miliardi di euro dai precedenti 60 miliardi al mese. L’ammontare totale dei titoli pubblici rilevato con questo strumento ha appena oltrepassato la soglia simbolica dei 1000 miliardi. Intanto, è stato confermato il rallentamento della crescita economica, con il pil dell’area euro aumentato dello 0,3 per cento nel secondo trimestre (subito dopo, quindi, l’ultimo potenziamento monetario) a fronte del più 0,5 per cento dei primi tre mesi. In Italia e Francia la crescita si è proprio azzerata. E, in generale, gli economisti temono che il secondo semestre — complici anche le conseguenze del voto a favore della Brexit, che però restano difficili da quantificare — si riveli più debole della prima metà dell’anno. Scenario di indebolimento che ha trovato ulteriori riscontri negli indicatori sull’atti- vità economica delle imprese e nei cali di ordini e produzione dell’industria in Germania. Diversi osservatori non escludono, ma nemmeno danno per scontato, una possibile proroga del qe oltre la scadenza attuale, fissata al marzo del 2017. Il «Financial Times» rileva, tuttavia, che anche questo semplice provvedimento potrebbe risultare problematico, a causa dell’assottigliarsi dei titoli idonei a essere acquistati. C’è molta attesa per il discorso di Draghi. Il presidente della Bce è stato silenzioso nelle ultime settimane, anche prima del direttorio di luglio, forse, indicano gli osservatori, a causa delle difficoltà nell’elaborare valutazioni sulle conseguenze dell’inatteso voto per la Brexit. Non ha nemmeno partecipato al consueto incontro tra banchieri centrali a Jackson Hole, organizzato dalla Fed di Kansas City. Nell’ultimo Consiglio, il 21 luglio scorso, Draghi aveva rilevato che a questo direttorio sarebbero state disponibili anche le nuove previsioni su inflazione e crescita economica dei tecnici dell’istituzione. Teheran sostiene l’Opec per stabilizzare il mercato TEHERAN, 8. L’Iran «sostiene qualsiasi decisione dei produttori di petrolio per il ritorno alla stabilità del mercato». Lo ha dichiarato il ministro del Petrolio iraniano, Bijan Namdar Zanganeh, dopo l’incontro a Teheran con il segretario generale dell’Opec, Mohammed Barkindo. Zanganeh, citato dall’agenzia di stampa Shana, ha sottolineato che la maggior parte dei Paesi membri dell’Opec auspica un prezzo del barile intorno ai 50-60 dollari. Questo prezzo «porterà entrate vantaggiose» per i membri dell’Opec, «mentre i loro competitori non saranno in grado di aumentare la produzione». Intanto, prosegue il recupero del prezzo del petrolio, alimentato dall’indebolimento del dollaro e in parte dall’accordo tra Russia e Arabia Saudita. Sui mercati asiatici il light crude Wti avanza di 81 cent a 46,31 dollari al barile. Il Brent di Londra guadagna 76 cent a 48,74 dollari al barile. Sono attesi nel pomeriggio i dati sulle scorte settimanali di greggio statunitense. L’OSSERVATORE ROMANO GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt Città del Vaticano [email protected] www.osservatoreromano.va Tra il Governo di Caracas e l’opposizione sul referendum contro Maduro Scontro totale CARACAS, 8. L’opposizione venezuelana è tornata ieri a manifestare nelle principali città del Paese per esigere che si tenga il referendum contro il presidente, Nicolás Maduro. I cortei si sono svolti in un clima di tensione, segnato dalla presenza di militanti pro governativi e unità antisommossa intorno alle sedi locali del Consiglio nazionale elettorale (Cne). Dopo la manifestazione della scorsa settimana, gli antichavisti hanno concentrato la protesta di piazza proprio contro il Cne, che accusano di ostacolare e ritardare la convocazione del referendum, in modo da evitare che si tenga o, almeno assicurarsi, che avvenga dopo il 10 gennaio prossimo. L’opposizione preme affinché il voto avvenga prima di questa data, perché solo in questo modo una vittoria del sì — data per scontata da sondaggi e analisti — porterebbe alla rimozione dell’intero Governo e alla convocazione di nuove elezioni nazionali. Fermate quattro persone dopo il ritrovamento di un’auto con sette bombole di gas Allerta terrorismo a Parigi PARIGI, 8. Altre due persone, un uomo e una donna, sono state fermate questa mattina in relazione al ritrovamento, vicino alla cattedrale di Notre Dame di Parigi, di un’auto potenzialmente esplosiva. Ieri sei persone erano state bloccate ma poi solo una coppia era stata trattenuta in stato di fermo. Sospettate, dunque al momento sono due coppie, originarie del dipartimento di Loiret, nel centro della Francia. La procura antiterrorismo della capitale francese ha aperto un’inchiesta per associazione a delinquere per crimini terroristici. Nel contesto di allarme attuale in Francia, gli inquirenti hanno preso molto seriamente il ritrovamento dell’auto con una bombola di gas vuota sul sedile e altre sei piene, nel bagagliaio. Già il 24 maggio scorso, in un’audizione davanti all’Assemblea nazionale, Patrick Calvar, direttore generale della sicurezza interiore (Dgsi), si era detto «persuaso» che miliziani del cosiddetto Stato islamico (Is) «passeranno alla fase delle autobomba e degli ordigni esplosivi». Il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, ha ricordato che solo nel mese di agosto sarebbero stati sventati tre possibili attacchi. Mentre il Governo di Parigi ha comunicato che per la prima volta gli aspiranti jihadisti francesi che partono per la Siria stanno diminuendo. Si tratta della conseguenza delle sconfitte militari dell’Is, ma anche dell’effetto degli appelli a non le persone fermate hanno età comprese tra i 26 e i 34 anni. La seconda coppia è stata fermata dalle forze di sicurezza nella tarda serata di ieri a Montargis, nel dipartimento del Loiret. Il ritrovamento dell’auto è avvenuto verso le sette di domenica mattina quando la polizia, dietro segnalazione di un avventore di un bar, ha individuato un veicolo sospetto, con i lampeggianti accesi. Non c’era detonatore ma all’interno sarebbero stati rinvenuti degli scritti in arabo. Secondo le prime ricostruzioni, è una ragazza di 19 anni ad aver riempito di bombole di gas l’auto poi abbandonata. La polizia ha rintracciato il proprietario, un uomo che abita a Saint-Denis, in banlieue di Parigi. Questi ha riferito che sua figlia se ne era impadronita, raccontando di voler trascorrere il weekend con un’amica. La ragazza, è “radicalizzata”, schedata come jihadista. Non si sa però chi abbia guidato, chi abbia parcheggiato e perché sia stata condotta un’azione con bombole esplosive senza nessun innesco che potesse farle esplodere. Oggi intanto, è ripreso l’interrogatorio di Salah Abdeslam, l’unico terrorista ancora vivo protagonista delle stragi del 13 novembre scorso a Parigi. A cominciare dal 20 maggio, data del suo primo interrogatorio dopo il trasferimento il 27 aprile dal Belgio, Salah ha esercitato il suo diritto di non rispondere. Forze antiterrorismo a Parigi (Afp) uscire più dall’Europa ma a condurre gli attacchi direttamente in patria. Le forze dell’antiterrorismo hanno bloccato nella notte tra martedì e mercoledì la prima coppia mentre percorreva un’autostrada nei pressi di Orange, nel dipartimento di Vaucluse, nella regione Provenza Alpi - Costa Azzurra. Avevano con sé tre bambini, tra i 3 e i 6 anni. I due erano noti all’intelligence che li aveva inseriti in una lista di persone da tenere sotto controllo, perché ritenuti aperti alle tesi del cosiddetto Stato islamico (Is). Tutte Così i gruppi a sostegno dell’Esecutivo di Maduro hanno occupato varie sedi del Cne — che per evitare rischi ha obbligato i dipendenti a non recarsi al lavoro — mentre la polizia e la Guardia nazionale hanno impedito che si avvicinassero i cortei. Jesus Torrealba, segretario della coalizione antichavista, ha messo in allerta i manifestanti, avvisando sulla presenza di «provocatori che potrebbero creare scontri o atti di violenza a margine delle manifestazioni». BRASILIA, 8. Con la cerimonia di apertura, ieri sera allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro, ha preso il via ufficialmente la XV Paralimpiade estiva, la prima nel continente sudamericano. Oltre 4500 atleti, in rappresentanza di 176 Nazioni, hanno sfilato all’interno dell’impianto della città carioca. La nutrita delegazione italiana è stata guidata dalla portabandiera, Martina Caironi. La manifestazione sportiva durerà undici giorni: in palio 528 medaglie d’oro in 23 discipline. Per la prima volta, partecipa alle gare una delegazione di rifugiati sotto la bandiera dell’International Paralympic Committee. Nonostante le difficoltà nella raccolta dei fondi necessari per il regolare svolgimento dei Giochi, negli ultimi giorni è cresciuta l’attenzione verso le Paralimpiadi, con un incremento delle vendite dei biglietti, che ha raggiunto il milione e mezzo. Per garantire la sicurezza delle Paralimpiadi, che si svolgono 18 giorni dopo la chiusura delle Olimpiadi, oltre 23.000 militari di esercito, aeronautica e marina sono impegnati a Rio de Janeiro. La chiusura dei Giochi, fissata per il 18 settembre, vedrà ancora una volta lo stadio Maracanã protagonista. Alluvioni devastano la Grecia GIOVANNI MARIA VIAN direttore responsabile Giuseppe Fiorentino vicedirettore Piero Di Domenicantonio un’altra donna è dispersa da quando è uscita dalla propria auto. Le alluvioni hanno distrutto abitazioni e capannoni e spazzato via e trascinato in mare numerose automobili. Sommerse in parte dall’acqua anche le città di Salonicco e Sparta dove i soccorritori sono impegnati a portare aiuti alla popolazione. Il sindaco di Kalamata, citato dall’emittente Bbc, ha reso noto che ieri, in una sola ora, sono caduti sulla sua città 140 millimetri di pioggia. Servizio vaticano: [email protected] Servizio internazionale: [email protected] Servizio culturale: [email protected] Servizio religioso: [email protected] caporedattore Gaetano Vallini segretario di redazione Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va Inondazioni nei pressi della città di Kalamata (Ansa) Segreteria di redazione telefono 06 698 83461, 06 698 84442 fax 06 698 83675 [email protected] Tipografia Vaticana Editrice L’Osservatore Romano don Sergio Pellini S.D.B. direttore generale Il nuovo ambasciatore di Australia Aperti a Rio de Janeiro i Giochi paralimpici Tre morti e un disperso nella città di Kalamata ATENE, 8. Piogge torrenziali che hanno provocato improvvise alluvioni e straripamenti in Grecia hanno fatto nelle ultime ore almeno tre morti accertati, mentre per ora una quarta persona è dispersa. La zona più colpita, secondo i media internazionali, è la città sudoccidentale di Kalamata, dove due persone anziane sono state trovate morte annegate nei seminterrati in cui vivevano. In un’altra casa una donna di 90 anni è stata trovata morta, mentre nel nord della Grecia A Caracas, invece dei cortei, l’opposizione ha organizzato un’altra forma di protesta: per dieci minuti, immediatamente dopo mezzogiorno, i cittadini sono stati chiamati a interrompere ogni attività e a far suonare sirene, clacson e pentole. E mentre l’opposizione chiede a gran voce di poter votare quanto prima la destituzione di Maduro, lo scontro istituzionale fra il Parlamento — dove siede una maggioranza antichavista di due terzi — e il Tribunale supremo di giustizia (Tsj) è diventato ormai totale. Henry Ramos Allup, presidente del Parlamento, ha detto che questo organismo «non intende ubbidire a nessuna decisione del Tsj, né di nessun altro potere che violi la Costituzione», dopo che l’Alta corte ha annunciato che tutte le decisioni del Parlamento sono da considerare prive di ogni valore legale. Il Tsj ha dichiarato invalida ogni azione del Parlamento, dopo che l’Assemblea ha formalizzato l’attribuzione dei seggi a tre deputati oppositori dello Stato di Amazonas, eletti nelle politiche dello scorso dicembre, che l’Alta corte ritiene “abusivi” perché la giustizia non ha ancora deciso riguardo a una serie di accuse di brogli presentate dal partito di Governo. Tariffe di abbonamento Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198 Europa: € 410; $ 605 Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665 America Nord, Oceania: € 500; $ 740 Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30): telefono 06 698 99480, 06 698 99483 fax 06 69885164, 06 698 82818, [email protected] [email protected] Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675 Sua Eccellenza la signora Melissa Louise Hitchman, nuovo ambasciatore di Australia presso la Santa Sede, è sposata e ha quattro figli, dei quali tre figlie e uno deceduto. Laureata in economia (Australian National University, 1988), ha poi ottenuto un master in sicurezza nazionale (Australian National University, 2012). Ha ricoperto i seguenti incarichi: funzionario presso l’Europe Division del ministero degli Affari esteri (1989-1991); consigliere presso la divisione internazionale del Gabinetto del primo ministro (1991); Executive Officer presso il ministero degli Affari esteri, responsabile del Women’s Policy e Policy Planning per il Sudafrica, il Giappone, il DPRK (19912000); primo segretario presso l’High Commission a Londra (20012004); Executive Officer della Defence Policy & Liaison Section presso il ministero degli Affari esteri (2006-2007); direttore della segreteria della Commissione internazionale per la non-proliferazione nucleare e per il disarmo presso il ministero degli Affari esteri (2008-2010); direttore della Intelligence Review presso il ministero degli Affari esteri (20102011); direttore della sezione per la Sicurezza regionale e nazionale presso il ministero degli Affari esteri (2011); vice capo del Protocollo presso il ministero degli Affari esteri (2013-2016). A Sua Eccellenza la signora Melissa Louise Hitchman, nuovo ambasciatore di Australia presso la Santa Sede, nel momento in cui si accinge a ricoprire il suo alto incarico, giungano le felicitazioni del nostro giornale. Concessionaria di pubblicità Aziende promotrici della diffusione Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria Ivan Ranza, direttore generale Sede legale Via Monte Rosa 91, 20149 Milano telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214 [email protected] Intesa San Paolo Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Società Cattolica di Assicurazione Credito Valtellinese L’OSSERVATORE ROMANO venerdì 9 settembre 2016 pagina 3 Migranti soccorsi nel mar Mediterrnaeo (Reuters) Intervista con l’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati Nessuna invasione e i muri non servono di SILVINA PÉREZ «Che si tratti di rifugiati o di migranti per ragioni economiche credere di respingerli con muri o barriere è un po’ ingenuo oltre che inefficace. Accogliere chi fugge da guerre e violenze è un principio fondamentale di civiltà nato in Europa». A sostenerlo è Filippo Grandi, cinquantottenne milanese, che da gennaio è il nuovo Alto commissario dell’O nu per i rifugiati, in un’intervista all’O sservatore Romano. L’Unhcr è l’agenzia delle Nazioni Unite che dal 1951 supervisiona le crisi umanitarie e gestisce la protezione internazionale e l’assistenza ai profughi. In Europa vengono costruiti continuamente nuovi muri, servono? No, assolutamente. Sono misure a breve termine e anche molto deboli. La chiave di volta resta l’imperativo di risolvere guerre e povertà, generatrici di esodi. Respingere persone con muri o barriere è inefficace. Si dimentica troppo spesso che la Convenzione sui rifugiati è nata proprio per gestire un problema europeo all’inizio della guerra fredda e con l’arrivo di tante persone dal blocco sovietico in occidente. Questa è stata l’origine della legislazione internazionale sui rifugiati. Bisogna armonizzare regole e pratiche dell’accoglienza, in primo luogo evitando muri e respingimenti. Oggi molti sostengono che dobbiamo respingere queste persone perché contrarie ai valori della civiltà europea ma è proprio quel rifiuto che è contrario ai nostri valori. Rifiutare, è una contraddizione in termini rifiutare. Rischiamo di mettere in pericolo uno dei cardini del sistema internazionale dei diritti umani. Esiste una invasione di profughi? Non bisogna sottovalutare il dato che l’anno scorso in Europa sono arrivate più di un milione di persone tra cui molti, la maggioranza, rifugiati. È un numero importante che va gestito con una certa organizzazione. I movimenti di popolazioni, oggi, sono inevitabili. Guardi, sono tornato due giorni fa dall’Uganda dove ogni giorno arrivano da 800 a 1000 rifugiati, provenienti dal Sud Sudan, dal Burundi e dalla Repubblica del Congo e vengono ospitati Tra i leader dell’Asean Intesa per rafforzare la cooperazione VIENTIANE, 8. I leader dei Paesi dell’Asean — più Cina, Giappone e Corea del Sud — hanno ribadito il rafforzamento della cooperazione su commercio, investimenti e infrastrutture. L’intesa è stata raggiunta oggi a Vientiane durante il cosiddetto summit “Asean più tre”, uno dei formati di confronto tra i dieci Paesi dell’Associazione delle Nazioni del sudest asiatico (Brunei, Cambogia, Indonesia, Filippine, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam) con i principali leader regionali. I premier cinese e nipponico, Li Keqiang e Shinzo Abe, e la presidente sudcoreana, Park Geun Hye, hanno convenuto di rincontrarsi nella “trilaterale”, il vertice avviato nel 2008 e interrotto pochi anni dopo per la crisi sulle isole contese Riunione al Cairo sugli aiuti allo Yemen IL CAIRO, 8. L’Egitto ospiterà a marzo 2017 una conferenza internazionale sugli aiuti umanitari da destinare allo Yemen, Paese sconvolto da una sanguinosa guerra civile — quasi ignorata dai media — che secondo stime delle Nazioni Unite ha già causato oltre 6500 morti, 30.000 feriti e circa tre milioni di sfollati. Lo ha annunciato ieri un ministro del Governo yemenita stando a quanto scrive il sito web del quotidiano filo-governativo egiziano «Al Ahram». «Stiamo preparando una conferenza che si terrà a marzo a Sharm El Sheikh — ha precisato il ministro dell’Amministrazione sociale Abdel-Raqeeb Fateh — per ottenere aiuti da organizzazioni umanitarie, della società civile e molti altri donatori». I sanguinosi combattimenti nello Yemen contrappongono da quasi due anni i ribelli huthi, alleati con le milizie dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, e le forze del presidente yemenita, Abd Rabbo Mansur Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato da una coalizione guidata dall’Arabia Saudita a cui prende parte anche l’Egitto. tra Tokyo e Pechino. Il Giappone vorrebbe ospitare il summit tra fine novembre e inizio dicembre, a conferma di un miglior clima diplomatico tra Paesi vicini. Nei giorni scorsi in Cina, al termine del vertice del G20 di Hangzhou, Abe e il presidente cinese, Xi Jinping, hanno avuto un proficuo colloquio, da cui è emerso il proposito di «riportare i rapporti sul giusto binario». E per evitare pericolose escalation nel mar della Cina meridionale è prevista per oggi la firma di un apposito protocollo tra Asean e Pechino. Uno degli argomenti al centro delle discussione a Vientiane è proprio quello sulle isole contese. A riguardo, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, presente al summit dell’Asean assieme ad altri importanti leader mondiali, ha detto che la sentenza dello scorso luglio sul mar della Cina meridionale della Corte permanente di arbitrato dell’Aja va rispettata. Due mesi fa, l’Aja ha infatti stabilito che Pechino non ha alcun diritto storico sulle isole del mar Cinese meridionale. «La sentenza è vincolante e contribuisce a chiarire i diritti del mare nella regione», ha precisato Obama. «Riconosco che possa sollevare tensioni, ma auspico che possa dare il via a discussioni su come sarà possibile progredire insieme in modo costruttivo per diminuire le tensioni e promuovere la democrazia e la stabilità nella regione», ha aggiunto. Pechino — ricordano gli analisti — considera sotto la sua sovranità la quasi totalità del mar della Cina meridionale, oggetto di contenziosi territoriali con Filippine, Vietnam, Malaysia e Brunei, tutti Paesi membri dell’Asean. Le autorità degli Stati Uniti rivendicano i diritti di libera navigazione aerea e marittima nella zona e Obama ha insistito che le navi del suo Paese possano «continuare a sorvolare e navigare» in quel tratto di mare. E poco prima della cena di gala dell’Asean nella capitale del Laos, Obama e il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, hanno avuto un breve scambio amichevole, con una stretta di mano e qualche parola. Lo ha reso noto, informa l’agenzia Associated Press, il ministro degli Esteri di Manila, Perfecto Yasay, sottolineando che le relazioni bilaterali rimangono «solide, e molto forti». Qualche giorno fa, Duterte aveva pesantemente insultato il presidente degli Stati Uniti, che aveva poi deciso di annullare un previsto incontro a due. in un paese che ha molte meno risorse di qualsiasi stato europeo. Noi europei, abbiamo una spiccata tendenza alla personalizzazione di una crisi che ha numeri enormi. Eppure paesi ben più poveri, vicini alle peggiori aeree di crisi, si fanno carico di metà dei rifugiati e richiedenti asilo di tutto il mondo. L’emergenza è altrove e colpisce soprattutto l’Africa il Medio oriente e l’America latina. Per questo consiglio di vedere le cose in prospettiva. È vero che l’Europa ha avuto molto arrivi durante il 2015 ma non parlerei proprio di una invasione, direi che è una situazione complessa da gestire ma ce ne sono altre di molto più gravi. Come affrontare una situazione che non è più emergenziale ma un fenomeno che ormai si manifesta da anni e che proseguirà a lungo? Bisogna accoglierli tutti? Partiamo dal fatto che i rifugiati non sono mendicanti, rivali per il lavoro, o terroristi, ma sono persone come noi, le cui vite sono state sconvolte dalla guerra. In contrasto con la narrazione sbagliata ripetutamente presente nei media, certe cose vanno ricordate. Però l’accoglienza va fatta in modo organizzato, non possiamo lasciare che sia anarchica come è lo stata l’anno scorso. Serve un approccio più comunitario e redistributivo. La Germania in particolare ha accolto in poco tempo un numero spropositato di persone mentre ci sono altri paesi che non hanno accolto nessuno. Anzi, invece di una ripartizione degli oneri, vediamo la chiusura delle frontiere. La solidarietà, oggi spesso criticata e vista con sospetto, è in realtà il punto di partenza per qualsiasi soluzione delle crisi che ci minacciano. Conferenza sugli investimenti in Tunisia TUNISI, 8. Si terrà tra il 28 e il 30 novembre a Tunisi la conferenza internazionale sugli investimenti preannunciata nel 2015 e inizialmente programmata per il primo semestre 2016. L’appuntamento è organizzato e promosso dal ministero dello Sviluppo e della Cooperazione internazionale, che ha invitato capi di Stato e di Governo, dirigenti di istituzioni internazionali e di organizzazioni finanziarie di rilevanza mondiale. Grandi potenze, tra cui Cina e Giappone, hanno espresso l’intenzione di contribuire allo sviluppo del Paese nordafricano, che sta attraversando un periodo difficile dalla “rivoluzione dei gelsomini” del 2011. La conferenza internazionale sugli investimenti sarà il punto d’arrivo di una campagna di promozione a livello globale lanciata il 9 giugno scorso dal Governo tunisino per presentare il suo piano di sviluppo, “Tunisia 2020”, per i prossimi cinque anni. L’accordo Ue con la Turchia per arginare la partenza dei flussi non rischia di fare rimanere l’Italia intrappolata? Il rischio di diventare un «ricevitore» di migranti, senza grandi sbocchi esterni c’è. Il disordine dell’attuale gestione giustifica questo allarme. La mancanza di coordinamento e solidarietà dà forza a chi vuole alzare le barriere. Se non funziona la “valvola” che consente la distribuzione delle persone, Italia e Grecia ovviamente si troveranno in prima linea. Il tema dell’accoglienza è sempre legato alla solidità delle leadership nazionali. Come dovrebbe agire la politica? Una gestione ordinata dei profughi è la migliore ricetta per rassicurare l’opinione pubblica. La dimostrazione palese sono stati i flussi incontrollati per buona parte del 2015, che hanno finito con l’avere un forte impatto soprattutto sui paesi di primo transito come la Grecia e l’Italia e su quelli che hanno ricevuto la massa principale di arrivi, come la Germania, Austria e la Svezia. L’Europa deve europeizzare l’accoglienza e le due parole d’ordine sono solidarietà e organizzazione. Una solidarietà basata su principi internazionali secondo i quali i rifugiati devono essere accolti quando non hanno più protezione nel loro paese. È importante sottolineare che i numeri di rifugiati in Europa sono ancora gestibili. Con una popolazione di 400 milioni e un milione di migranti (non solo rifugiati) arrivati nel 2015, il rapporto è di uno a quattrocento, ad esempio in Libano il rapporto è 1 a 3. In più di trent’anni di lavoro con i rifugiati ne ho incontrati pochi che fuggissero senza un disperato rammarico di dover partire; e che non desiderassero tornare a casa. Abbiamo dato molti consigli ai paesi europei in questa materia ma la questione fondamentale è che l’Europa non ha saputo organizzarsi e lavorare insieme nella gestione dei flussi, si è lavorato paese per paese in ordine sparso. Quanto è fondato il rischio che fra i profughi si nascondano dei terroristi? I protagonisti degli attacchi terroristici in Francia e Belgio non erano immigrati ma cittadini locali discendenti di stranieri di terza generazione. E questo ci fa comprendere il fallimento della politica dell’integrazione. Per questo bisogna fare di più e ragionare a lungo termine. Non ci sono alternative. Secondo l’inviato speciale dell’Onu Martin Kobler Dialogo costruttivo tra le fazioni libiche TRIPOLI, 8. «Il solo modo per mettere fine alla crisi libica è un Governo forte». Lo ha detto ieri l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Martin Kobler, nel corso di una conferenza stampa a Tunisi al termine della riunione del dialogo inter-libico. Kobler si è felicitato della presenza all’incontro di alcune personalità politiche che avevano boicottato il Consiglio presidenziale del premier designato, Fayez Al Sarraj, e ha parlato di un «dialogo costruttivo». Il tema della riconciliazione nazionale — il Parlamento di Tobruk non ha infatti ancora conferito la fiducia al Governo di accordo nazionale di Tripoli presieduto da Al Sarraj — la lotta al terrorismo, la sicurezza nel Paese e il tema delle migrazioni rappresentano le prossime sfide per la Libia, ha aggiunto Kobler. E, intanto, il vice premier libico, Musa Koni, ha chiesto a Italia e Germania di accogliere i feriti nella battaglia di Sirte ricoverati in un ospedale tunisino. Il membro del Consiglio di presidenza libico ha fatto visita ieri a un gruppo di soldati ricoverati in un ospedale di Tunisi. Il politico ha colto l’occasione per pubblicare un messaggio nel quale chiede «ai Paesi del mondo e in particolare a Germania e Italia di concedere un visto a queste persone perché siano curate nei due Paesi». Nel frattempo, mentre si stringe la morsa sugli ultimi jihadisti a Sirte — che si fanno scudo della popolazione rimasta, donne e bambini, nella resistenza contro le forze di Tripoli — un’autobomba è esplosa questa mattina di fronte alla base navale Busita nella capitale libica, vicino agli edifici ministeriali nel distretto di Al-Zawiat Dahmani. La bomba non ha causato gravi danni e non si registrano vittime. Al momento nessuno ha rivendicato l’attacco. Sono adeguate le misure annunciate dall’Europa per contrastare l’azione dei trafficanti di esseri umani? Capovolgo la domanda: perché quasi un milione di persone nel 2015 ha dovuto scegliere di venire in Europa mettendosi nelle mani di trafficanti e scafisti? Per l’Unhcr è importante dare ai rifugiati, soprattutto i più vulnerabili, la possibilità di essere trasferiti legalmente in paesi che offrono asilo sicuro. In marzo avevamo proposto ai paesi che hanno più risorse il reinsediamento del 10 per cento di tutti rifugiati siriani che vivono nei Paesi limitrofi alla Siria, i quali ospitano circa cinque milioni di persone in grande difficoltà. Ma la risposta è stata molto modesta. Sempre più critica la situazione in Sud Sudan KINSHASA, 8. Oltre cento militari dell’opposizione del Sud Sudan — «in condizioni di salute molto gravi e allo stremo delle forze», rendono noto fonti delle Nazioni Unite — hanno attraversato il confine entrando in territorio congolese e sono stati accompagnati in strutture sanitarie per cure mediche. Il portavoce dell’Onu, Stéphane Dujarric, ha aggiunto che il Palazzo di Vetro è in contatto con i Governi congolese e del Sud Sudan, «allo scopo — si legge in una nota — di trovare una soluzione». Dujarric ha spiegato che i sostenitori del leader d’opposizione, Riek Machar, sono stati trovati attorno al parco nazionale congolese di Garamba, vicino al confine con il Sud Sudan. Uomini della missione di pace dell’Onu li hanno poi accompagnati in ospedale per ricevere assistenza medica urgente, «in attesa — conclude la nota — del loro disarmo volontario». A un anno dalla revoca dell’ordine di sgombero dopo il disastro di Fukushima in pochi sono tornati Naraha rischia di diventare una città fantasma TOKYO, 8. A distanza di un anno dalla revoca dell’ordine di sgombero dalla città giapponese di Naraha, il primo centro urbano al confine dei 20 chilometri nella zona di evacuazione attorno alla disastrata centrale nucleare di Fukushima, solo il 10 per cento della popolazione ha fatto ritorno alle proprie abitazioni. Secondo i dati della municipalità, dei 7300 abitanti censiti appena 681 hanno ripreso possesso delle loro case. E un numero ancora più limitato ha iniziato attività agricole rispetto a un quarto della popolazione che prima dell’incidente lavorava la terra. Attualmente, la coltivazione nelle risaie avviene solo in circa 20 ettari del territorio, una percentuale equi- valente al 5 per cento dell’intera area prima del disastro ambientale. In base alle rilevazioni dell’Agenzia per la ricostruzione, poco più dell’8 per cento dei 2000 nuclei familiari ha dichiarato che intende ritornare, mentre la maggior parte della popolazione ha indicato che farà ritorno solo se determinate condizioni verranno rispettate. All’indomani dell’incidente a Fukushima che nel marzo 2011 seguì un devastante terremoto e lo tsunami, il Governo di Tokyo impose alla popolazione lo sfollamento entro un raggio di 20 chilometri dalla centrale. Naraha fu la prima delle sette municipalità dove la cittadinanza fu costretta allo sgombero a causa delle radiazioni. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 venerdì 9 settembre 2016 Costumi e altri oggetti utilizzati dai Beatles esposti a Londra (Afp) Gli strani scherzi di Dio Galeotto fu il libro di ALBERTO FABIO AMBROSIO l Signore gioca strani scherzi nella vita di un credente. Questi stratagemmi di Dio — come direbbero i musulmani — avvengono talvolta grazie ad un libro. Da un lato la tradizione letteraria europea, quella migliore si intende, ha sempre intravisto nella lettura di un libro l’origine di un innamoramento, di una passione travolgente, talvolta nascosta, al limite del lecito. Famosa è quella di Paolo e Francesca, così magistralmente raccontata dal grande poeta Dante. La lettura di una storia d’amore provoca l’amore nei lettori e svela la passione della loro vita. E quanti sono gli amori che sbocciano nell’incontro intellettuale e nella comunanza di studio, se non di ricerca? È bello pensare, vedere e constatare quanto la lettura amorosa provochi l’amore. Questo stesso procedimento interiore ed emozionale lo si intravede in un altro campo, in un’altra passione: quella di Dio. Non è infrequente nella storia della spiritualità cristiana individuare casi di vocazione religiosa nata grazie alla lettura di un’agiografia, della vita interiore di un santo o di un mistico. Si pensi a sant’Ignazio di Loyola, che nel suo periodo di malattia lesse quante più agiografie poteva. E da quella lettura appassionata è nata la vocazione che ha segnato la storia della Chiesa cattolica. Così è nata la vocazione anche di Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce, che leggendo in una sola notte la vita di santa Teresa di Avila ha pronunciato il voto di consacrare la sua vita al Signore nel Carmelo e il seguito lo conosciamo. I A Londra una mostra sugli anni Sessanta Il sergente Pepe sempre in servizio di GAETANO VALLINI hi li ha vissuti non esita ancora oggi a definire favolosi gli anni Sessanta del secolo scorso, ricordandone l’afflato creativo e rivoluzionario, in parte utopico, che li animò. Chi è arrivato dopo ne coglie tuttora l’eco nelle storie dei personaggi che s’imposero in quegli anni e nelle loro idee o opere, che sono divenute icone senza tempo. Magari qualcuna un po’ meno brillante col passare degli anni, tuttavia pur sempre capace di suscitare un certo fascino. Ma cosa furono realmente gli anni Sessanta, qual è stata la loro importanza, che impatto hanno avuto sulla società contemporanea e dunque sulla vita attuale? Sono gli interrogativi a cui cerca di dare risposta «You Say You Want a Revolution? Records and Rebels 1966–1970», l’originale mostra allestita al Victoria and Albert Museum (V&A) di Londra che aprirà i battenti il 10 settembre, che scandaglia le tendenze culturali, le battaglie politiche, le scoperte C Non è infrequente nella storia cristiana individuare casi di vocazione religiosa nata grazie alla lettura di un’agiografia sulla vita interiore di un santo o di un mistico Non voglio certo paragonarmi a questi giganti dello spirito o delle lettere, ma questo pensiero mi è nato per un “caso” di cui sono testimone in prima persona. Per un fortuito azzardo della vita mi sono dovuto recare a Pesaro, la città di Rossini. Un po’ di corsa, come è la vita oggi, ho imboccato il cosiddetto corso e dopo pochi metri mi sono imbattuto in una libreria. Mi si obietterà che nulla di particolarmente eccezionale si trova in una libreria. Nulla per tanti, tanto più che questa in particolare ha un sapore di altri tempi, quasi retrò. L’iscrizione “Buona stampa” come si diceva fino ad alcuni anni fa, sovrasta ancora l’entrata, un mobilio quasi antico sorregge i numerosi libri di stampo chiaramente cattolico. Eppure quel luogo ha segnato la mia vita: lì ho preso la decisione — o meglio ho risposto alla chiamata — di entrare nell’Ordine di san Domenico. Due sono i libri che avevo chiesto alla responsabile più di venticinque anni fa. Mi sarei fidato del più critico e scientifico che avrei trovato, avevo deciso. Due erano i personaggi che mi conquistavano senza conoscerli veramente: sant’Ignazio appunto, fondatore dei gesuiti e san Domenico, fondatore dei domenicani. Del primo mi fu portata una biografia senza note critiche che mi scoraggiava perché nel mio intelletto volevo e desideravo solo dedicarmi ad un Ordine il cui fondatore potessi conoscere nella sua vera realtà. Mi fu presentata una biografia senza la minima nota. Con rammarico — perché quella forse era la mia prima scelta — declinai per La legenda di san Domenico, biografia realizzata da un frate domenicano, avrei scoperto in seguito, di origini ungheresi. Il desiderio di consacrarmi al Signore era troppo impellente. In cuor mio dissi: «e sia per san Domenico!». Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, ma in senso buono. Poi, tanti anni dopo, passo davanti a questa vetrina e ritrovo tutto il mobilio intatto. Il pensiero di rendimento di grazie è salito al cielo. La nostra fede non è quella della gente del libro, come dicono i musulmani, ma è vero che la parola di Dio, Cristo, è parola breve come dicevano i medievali. Il libro nel cristianesimo ha un valore immenso, ma non idolatrico. La parola di Dio incarnatasi anche nella Scrittura diventa la cifra, il simbolo, il segno che la parola scritta è capace di comunicare una grazia unica. Forse verrebbe la pena in questi tempi virtuali, per appassionarsi di più alla vita, all’amore e a Dio frequentare di più i libri scritti, immergersi nella cellulosa che sprigiona qualcosa di inimmaginabile alla logica puramente umana. Non tutti condivideranno una lettura entusiastica del periodo ma l’eredità lasciata è consistente E non solo nei costumi scientifiche che caratterizzarono in particolare l’ultimo lustro — 1826 giorni, precisano i curatori — di quel formidabile decennio. Certo, non tutti condividono una lettura entusiastica del periodo, almeno non di tutto. E di sicuro i più critici non si troveranno a proprio agio visitando la mostra. Anche perché lo sguardo non è propriamente storico, concentrato com’è sui fenomeni giovanili che animarono quegli anni, la musica in particolare, con la sua scia di “fumo” e di acido lisergico che s’insinuò anche nelle arti figurative, alimentando le avanguardie più disparate. E ciononostante l’eredità lasciata è di quelle consistenti, non solo nei costumi. Si dovrà ammette- Il viaggio umano dell’Enterprise «Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all’esplorazione di strani, nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima». Era l’8 settembre 1966 quando questa frase faceva da introduzione al primo episodio di una serie di telefilm, come si diceva all’epoca, che avrebbe a suo modo segnato un’epoca. Star Trek non è stato solo un travolgente successo, televisivo prima e cinematografico dopo. Milioni di persone si sono appassionate alle avventure intergalattiche del capitano Kirk e del suo fido equipaggio, perché in quegli anni di guerra fredda — mentre i costruttori di rifugi antiatomici facevano soldi a palate soprattutto negli Stati Uniti — Star Trek proponeva un vero modello di cooperazione. Scopo dei viaggi stellari della Enterprise era avvicinare nuove civiltà per proporre relazioni pacifiche su una base di eguaglianza. E in questa ricerca il comandante della nave era accompagnato da un gruppo composito in cui figuravano tra gli altri un giapponese, una nera e anche un alieno, il mitico dottor Spock (interpretato da Leonard Nimoy), un po’ troppo umano per essere del tutto libero dalle emozioni, come la sua natura vulcaniana avrebbe invece reclamato. Oggi potrebbe apparire tutto normale, ma bisogna ricordare che quell’America era da poco uscita da una sanguinosa guerra combattuta anche contro il Giappone ed era attraversata da profonde tensioni razziali. Per non parlare poi dei rapporti con i Paesi di oltrecortina, distanti come nemmeno Vulcano. Un viaggio stellare tutto umano, quindi, alla ricerca di nuovi modi per capirsi. Un viaggio di cui c’è sempre bisogno. (giuseppe fiorentino) re che molto di ciò che viviamo oggi, di ciò che per alcuni ha cambiato il mondo — in meglio o in peggio a seconda dei punti di vista — arriva proprio da lì. Un progetto ambizioso, come riconosce lo stesso Martin Roth, direttore del V&A, secondo il quale questa «inquadratura della controcultura della fine degli anni Sessanta mostra l’incredibile rilevanza che quel periodo rivoluzionario ha per la nostra vita attuale», gettando «nuova luce sui vasti cambiamenti sociali, culturali e intellettuali della fine degli anni Sessanta, seguiti all’austerità degli anni del dopoguerra, non solo nel Regno Unito, ma in tutto il mondo occidentale». Oltre 350 oggetti — foto, poster, dischi, libri, riviste, film, oggetti di moda e di design — che hanno definito la controcultura, raccontano infatti in che modo un’intera generazione, nata nell’immediato dopoguerra, si è scrollata di dosso quelli che considerava i limiti del passato e i modelli di vita dei loro genitori, rivoluzionando in modo radicale il modo di vivere proprio e delle generazioni a venire. E non a caso il titolo della mostra — corredata da un catalogo di 320 pagine ampiamente illustrato — è tratto dal verso iniziale di una nota canzone dei Beatles di quegli anni che ben descrive lo spirito dell’epoca, in cui la cultura giovanile catalizzò l’idealismo che l’alimentava, spingendo le persone a mettere in discussione costumi e strutture in ogni ambito della società. Gli oggetti provengono dalle collezioni del V&A, a cui si sono aggiunti importanti prestiti, ed evidenziano il collegamento tra persone, luoghi e movimenti dal Regno Unito agli Stati Uniti. Insomma dal glamour della londoniana Carnaby Street al regno hippy tra Haight e Hasbury Street a San Francisco. Una parte importante è giocata dalla musica, che viene diffusa attraverso auricolari, utilizzando un’audioguida dalla tecnologia innovativa, che adatta il suono alla posizione del visitatore nella galleria. Non mancano spettacoli di luce psichedelici e proiezioni di film dell’epoca — da Blow Up a Easy Rider, da 2001: Odissea nello spazio ad Alfie — per creare un’esperienza audiovisiva piena. La mostra è suddivisa in sei sezioni, ognuna delle quali presenta una diversa rivoluzione ricreandone l’atmosfera. Si parte proprio con una riproduzione di Carnaby Street, esplorando il rinnovamento dell’identità dei giovani nel 1966. È l’anno in cui la rivista «Time» dà a Londra il soprannome «The Swinging City», che riflette la sua straordinaria crescita come centro culturale per la moda, la musica, l’arte e la fotografia. Si potranno ammirare, ad esempio, opere d’arte originali di Richard Hamilton, i costumi disegnati per Mick Jagger e Sandie Shaw, le fotografie di David Bailey e Terry O’Neill che ritraggono personaggi che vanno da Michael Caine ai Rolling Stones, Robert Fraser e i fratelli Kray. Si passa poi ai club e alla controcultura, dove si esploravano forme di sperimentazione, stili di vita alternativi e l’idea di rivoluzione nella mente, tra uso delle droghe e fascino per l’occulto. Ci si imbatte, così, in riviste underground come «Oz» e «International Times», più cono- sciuta come «It», anche se la visita è incentrata sul club londinese Ufo, un luogo d’incontro noto per combinare la musica dal vivo — qui si esibivano i Pink Floyd — con spettacoli di luce e film d’avanguardia. L’influenza senza precedenti dei Beatles è evidenziata in particolare in uno spazio dedicato alla pubblicazione del rivoluzionario Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band nel luglio 1967, nel quale si trovano gli abiti indossati da John Lennon e George Harrison per la copertina dell’album, il testo manoscritto di Lucy in the Sky with Diamonds, oltre a illustrazioni originali di Alan Aldridge, il sitar e il diario del 1967 di Harrison. La rivoluzione nelle strade partì in Europa ma attraversò l’oceano, me alla tuta spaziale indossata da William Anders, che durante la missione Apollo 8 scattò l’epocale fotografia del «sorgere della Terra»; così come un raro computer Apple 1 (per la verità realizzato più tardi, nel 1977). Non manca uno spazio dedicato ai grandi raduni musicali giovanili, con le folle spesso spinte da una visione utopistica del vivere insieme. Strumenti musicali e costumi — tra i cimeli una giacca e una chitarra di Jimi Hendrix — sono esposti su uno sfondo di grandi schermi che mostrano spezzoni di noti festival, da Monterey a Glastonbury, dall’Isola di Wight al Newport Jazz Festival. Ma il fulcro è naturalmente Woodstock. Si getta uno sguardo dietro le quinte, illustrando l’or- Manifestazione contro la guerra in Vietnam davanti alla sede del Pentagono (Berni Boston, Getty Images) sfidando la politica e sfociando anche nelle manifestazioni violente della fine degli anni Sessanta. Qui ci si concentra sulle rivolte studentesche del 1968 a Parigi — si può leggere una lista della spesa scritta dietro le barricate — con i manifesti di Atelier Populaire incollati ai muri durante le contestazioni, accompagnati da spezzoni di cinegiornali e musica relativi alle dimostrazioni. Il periodo è caratterizzato anche da una diffusa opposizione alla guerra in Vietnam. Si possono così vedere, tra l’altro, il materiale propagandistico raccolto da un soldato americano al fronte e i burattini utilizzati nelle manifestazioni a San Francisco. Non mancano le figure rivoluzionarie, dal presidente Mao a Che Guevara e Martin Luther King, quest’ultimo icona della lotta per i diritti civili, un altro dei temi forti del periodo. Slogan, pubblicità e jingle introducono l’ambiente dedicato alla rivoluzione nel consumismo, alimentata da una rapida crescita della ricchezza personale e dall’arrivo della carta di credito. Le esposizioni internazionali del 1967 a Montreal e del 1970 a Osaka mostrarono a migliaia di visitatori scorci di un futuro guidato dai consumatori. Qui viene riproposta una vasta vetrina di prodotti di design e tecnologia di massa. Primo fra tutti il televisore, che portò nelle case della gente, in diretta, la guerra in Vietnam ma anche la conquista della Luna. Qui si può osservare una pietra lunare avuta in prestito dalla Nasa, insie- ganizzazione del raduno di giovani più grande di sempre, dai contratti degli artisti al menù della mensa del personale. Quasi di conseguenza si passa alle comunità alternative che all’epoca vivevano sulla West Coast statunitense, fondate sul rock psichedelico, la liberazione sessuale, il rifiuto delle istituzioni e la filosofia del «ritorno alla terra». Di lì a poco alle stesse latitudini si sarebbe sviluppato un tipo diverso di comunità: quella dei pionieri della moderna informatica. Tutte però ritenevano che condividere in modo più equo la conoscenza umana fosse il presupposto per un mondo migliore. Questa enfasi è riassunta dal «Whole Earth Catalog», la rivista di controcultura statunitense pubblicata da Stewart Brant, poi definita da Steve Jobs «google in versione paperback». Qui viene anche approfondita l’enfasi sull’ambientalismo, iniziata nei tardi anni Sessanta, con un manifesto per la prima «giornata della Terra» disegnato da Robert Rauschenberg, esposto accanto a un poster psichedelico Save Earth Now. L’ultimo spazio della mostra, che resterà aperta fino al 27 febbraio 2017, tenta di delineare l’eredità di quegli anni. Il giudizio, se sia stato tutto positivo o meno, lo si lascia ai visitatori. Molti dei quali all’epoca — ma non mancherà qualche sergente Pepe ancora in servizio — saranno stati davvero convinti di poter cambiare il mondo. Consapevoli di esserci in parte riusciti. L’OSSERVATORE ROMANO venerdì 9 settembre 2016 pagina 5 Nel 1987 a Pentling Esce un libro che raccoglie interviste a Benedetto XVI Conversazioni Esce il 9 settembre, nelle edicole italiane con il «Corriere della Sera» e in libreria con Garzanti, un volume che raccoglie interviste a Benedetto XVI e di cui il quotidiano milanese ha pubblicato alcune anticipazioni. Il testo è stato curato da Peter Seewald e tradotto da Chicca Galli (Ultime conversazioni, pagine 240, euro 12,90) ed è il quarto realizzato dal giornalista e scrittore tedesco dopo le interviste al cardinale Joseph Ratzinger su cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo (Sale della terra, 1996), su fede e vita oggi (Dio e il mondo, 2000) e a Benedetto XVI sul pontificato, la Chiesa e i segni dei tempi (Luce del mondo, 2010). Del libro anticipiamo alcuni stralci. Esercizi spirituali Negli anni Cinquanta Come vedeva sé stesso? Eravamo progressisti. Volevamo rinnovare la teologia e con essa la Chiesa, rendendola più viva. Eravamo fortunati perché vivevamo in un’epoca in cui, sulla spinta del movimento giovanile e di quello liturgico, si aprivano nuovi orizzonti, nuove vie. Volevamo che la Chiesa progredisse ed eravamo convinti che in questo modo sarebbe ringiovanita. Tutti noi nutrivamo un certo disprezzo — allora era una moda — per il XIX secolo, cioè per il nuovo gotico e tutte quelle immagini e statue di santi un po’ kitsch; per la devozione e l’eccessivo sentimentalismo un po’ ristretti e anch’essi un po’ kitsch. Volevamo superarli entrando in una nuova fase della devozione, e il rinnovamento partì proprio dalla liturgia, recuperandone la sobrietà e la grandezza originarie. Era esistenzialista? Non le pesa enormemente non prendere più in mano la penna? Niente affatto. Preparo ogni settimana le mie omelie per la domenica e per questo ho sempre un compito spirituale da svolgere: devo trovare le parole per interpretare un testo. Ma non potrei più scrivere. Dietro la scrittura c’è un lavoro metodico e adesso per me sarebbe semplicemente troppo faticoso. Scrive omelie per quattro, cinque persone? Perché no? [ride] Certo! Che siano solo tre o venti o mille persone, la Parola di Dio deve sempre raggiungere l’uomo. Ci sono determinati esercizi spirituali che ora le sono più cari e hanno per lei più valore? Be’, adesso posso soffermarmi sul breviario, immergermi nella sua lettura e approfondire in questo modo la vicinanza con i Salmi, con i Padri. E come ho già detto, ogni domenica tengo anche una breve omelia. Per tutta la settimana lascio che i miei pensieri si avvicinino un po’ all’argo- Si ricorda il giorno della sua partenza per Roma? Prima andammo a visitare le tombe dei vescovi nel duomo di Colonia, il cardinale Frings, [il segretario Hubert] Luthe e io. Il cardinale sostò a lungo di fronte al punto in cui sarebbe stato sepolto. Poi ci dirigemmo all’aeroporto. Eravate alloggiati tutti e tre nello storico collegio tedesco-austriaco per sacerdoti, l’Anima? Il cardinale e Luthe alloggiavano all’Anima [al collegio di Santa Maria dell’Anima], come tutti i vescovi austriaci. Per me non c’era più posto, perciò il rettore mi procurò una camera all’Hotel Zanardelli, che è proprio all’angolo. Ma dalla colazione, a cominciare dalla messa mattutina, ero all’Anima, tranne che per la pennichella, che a Roma, l’ho imparato allora, è molto importante. Fino a quel momento non sapevo cosa fosse la pennichella, ma poi è diventata un’abitudine. Nel secondo periodo conciliare abitavo nel Palazzo Pamphilj, che è adiacente a Sant’Agnese in piazza Navona. Solo durante il terzo e quarto periodo alloggiai all’Anima. Le piaceva la vita romana? Piazza Navona per esempio? Per me era tutto nuovo. La mattina presto passavano i bambini che andavano a scuola con il grembiule: non avevano cartelle, ma portavano i libri in mano legati da un elastico. Lo trovavo molto divertente. Tutt’intorno pullulava di vita, c’erano i commercianti e le botteghe dei barbieri erano affollate di clienti con la faccia coperta di schiuma: allora si usava ancora farsi radere. Ogni giorno facevo la mia passeggiata, così imparai a conoscere il quartiere. A volte veniva anche il cardinale, era cieco, bisognava accompagnarlo. Una volta mi capitò di perdere l’orientamento e di non sapere più da che parte andare. Fu una situazione imbarazzante. «Mi descriva la piazza in cui ci troviamo», mi disse Frings. Gli descrissi allora la statua che ospitava. Rappresentava un politico italiano. «Ah, è Minghetti, allora dobbiamo proseguire per di lì e poi per di là», mento, così che maturino pian piano e io possa saggiare un testo nelle sue diverse parti. Che cosa mi dice? Che cosa dice agli uomini qui nel monastero? È questa la novità, se così si può dire: il fatto che io possa calarmi con ancor più tranquillità nei Salmi, che possa entrare in sempre maggior familiarità con loro. E che in questo modo i testi della liturgia, soprattutto quelli domenicali, mi accompagnino per tutta la settimana. Non ho letto molto di Heidegger, ma qualcosa sì e l’ho trovato interessante. Facevamo nostra quella filosofia, quei concetti, con una certa eccitazione. Come ho già detto, io volevo uscire dal tomismo classico — e qui mi aiutò Agostino, facendomi da guida — e non potevo prescindere dal confronto e dal dialogo con le nuove filosofie. Ma di certo non sono mai stato esistenzialista. Si legge nelle sue memorie: il «dialogo con Agostino», per il quale ora si sentiva sufficientemente preparato, è un dialogo «che in molti modi avevo già da lungo tempo tentato». [ride] Be’, quando si è giovani si ha molta considerazione di sé stessi, si crede di poter raggiungere alti traguardi. Non mi facevo impressionare dal fatto che altri avessero già scritto sull’argomento. Non avevo quel complesso, anzi, pensavo: noi siamo giovani, abbiamo un nuovo punto di vista. E la certezza di poter costruire un mondo nuovo faceva sì che non avessi paura di cimentarmi in grandi imprese. È vero, all’inizio del 1946 avevo scoperto Agostino, letto qualcosa e il conflitto interiore che egli esprime nelle sue opere mi aveva toccato molto. Tommaso in fondo scrive testi scolastici, in un certo senso impersonali, sebbene anche dietro le sue pagine si celi una grande lotta; ma lo si scopre solo in un secondo momento. Agostino, invece, lotta con sé stesso, anche dopo la conversione, ed è questo che rende la sua esperienza tanto bella e drammatica. Ha una preghiera preferita? Ce n’è più d’una. C’è quella di sant’Ignazio: «Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà...». Poi una di san Francesco Saverio: «Io ti amo non perché puoi darmi il paradiso o condannarmi all’inferno, ma perché sei il mio Dio. Ti amo perché Tu sei Tu». O quella di san Nicola di Flüe: «Prendimi come sono...». E poi mi piace in particolare — l’avrei vista bene inserita nel Gotteslob [libro di preghiere e di canti in uso nelle diocesi cattoliche di lingua tedesca], ma mi sono dimenticato di proporla — l’«orazione comune» di san Pietro Canisio che risale al XVI secolo ma è ancora bella e attuale. Con il parroco Max Blumschein nel 1951 Al concilio mi spiegò indicandomi la strada. Trovavo divertente e interessante la vita romana: l’allegria, il fatto che la maggior parte della giornata si svolgesse per strada e tutto quel rumore. All’Anima era bello conoscere tanta gente, i vescovi austriaci, i giovani cappellani del collegio. Il cardinale Frings radunava cardinali provenienti da tutte le parti. Il vescovo Volk, un uomo di elevato rigore intellettuale e spiccate doti organizzative, convocava riunioni di gruppi internazionali di vescovi nel suo appartamento nella Villa Mater Dei, a cui partecipavo sempre anch’io. Lì conobbi anche de Lubac... Come fu la prima volta? Era entusiasta, gratificato? Ero piuttosto tiepido. Naturalmente i grandi luoghi del cristianesimo primitivo mi entusiasmarono, le catacombe, Santa Priscilla, la chiesa di San Paolo dentro le Mura, San Clemente. Anche la necropoli sotto San Pietro, ovvio. Non però nel senso che mi sentivo in sospeso sulle nuvole, ma perché l’origine era lì, si toccava con mano la grandezza della continuità. Quando vi siete trovati per la prima volta in piazza San Pietro non vi siete saltati al collo, lei non ha detto: «Eccoci qui, caro Georg, nella nostra patria, nel centro della cristianità»? Noi Ratzinger non siamo così emotivi. Non che non fosse impressionante, beninteso. Anzitutto, appunto, l’incontro con la continuità a partire dalle origini, da Pietro e dagli apostoli. Per esempio nel carcere mamertino, dove si può rivivere l’epoca del primo cristianesimo. Questo fascino, tuttavia, si espresse più a livello intellettuale, interiore, senza, per così dire, farci prorompere in grida di giubilo. Il viaggio costituiva già una preparazione al Concilio? Anche noi eravamo stati contagiati dall’entusiasmo destato da Giovanni XXIII. I suoi modi anticonvenzionali mi avevano subito af- Soprattutto un pastore fascinato. Mi piaceva che fosse così diretto, così semplice, così umano. Lei era un sostenitore di Giovanni XXIII? Certo che lo ero. Un autentico fan? Un autentico fan. Si può dire così. Si ricorda come e dove ha saputo dell’annuncio del Concilio? Non con esattezza. L’avrò sentito dire alla radio. Poi, naturalmente, ne parlammo tra noi professori. Fu un momento di grande commozione. L’annuncio del Concilio poneva delle domande — come si metteranno le cose, come fare perché vadano per il verso giusto? — ma suscitava anche grandi speranze. Fu sempre presente dal primo all’ultimo giorno, in tutti e quattro i periodi conciliari? Quale esperienza ricorda più volentieri? Per Ognissanti andammo a Capri con il cardinale. Prima avevamo visitato Napoli, le varie chiese e via dicendo. A quei tempi il viaggio a Capri era ancora un’avventura, a bordo di una barca che ballava moltissimo. Vomitarono tutti, anche il cardinale, mentre io riuscii a trattenermi. Poi, però, a Capri fu bellissimo. Fu un vero e proprio momento di sollievo. Di quale schieramento si considerava parte, di quello progressista? Direi di sì. All’epoca essere progressisti non significava ancora rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e viverla in modo più giusto, muovendo dalle origini. Allora credevo ancora che tutti noi volessimo questo. Anche progressisti famosi come de Lubac, Daniélou e altri avevano un’idea simile. Il mutamento di tono si percepì già il secondo anno del Concilio e si è poi delineato con chiarezza nel corso degli anni successivi. La chiamavano “professor papa” o “il papa teologo”. Trovava che fossero appellativi azzeccati? Direi che cercavo di essere soprattutto un pastore. E uno dei compiti di un pastore è trattare con passione la Parola di Dio, che è anche quello che dovrebbe fare un professore. Sono stato anche un confessore. I concetti di “professore” e “confessore” hanno filologicamente quasi lo stesso significato, anche se il compito di un pastore è più vicino a quello del confessore. Finora, per quanto lontano si possa spingere il nostro sguardo, in nessun luogo c’è qualcosa che ci potremmo immaginare come il cielo in cui dovrebbe troneggiare Dio. [ride] È perché non esiste un luogo in cui Lui troneggia. Dio stesso è il luogo al di sopra di tutti i luoghi. Se lei guarda nel mondo, non vede il cielo, ma vede ovunque le tracce di Dio: nella struttura della materia, nella razionalità della realtà. E anche dove vede gli uomini, trova le tracce Sì, sempre. In questi casi un professore ottiene un congedo temporaneo dal ministero dell’Istruzione. Come vi capivate? Lei parlava poco italiano. Poco, sì, ma in qualche modo funzionava. Prima di tutto, conoscevo abbastanza il latino, anche se non avevo mai studiato teologia in latino, come i Germanici [gli studenti di lingua tedesca del collegio Germanicum]. Facevamo tutto in tedesco. Per questo anche parlare latino per me era un’esperienza completamente nuova che limitava le mie possibilità di partecipazione. Conoscevo anche un po’ il francese naturalmente. Non si era concesso un corso di italiano? No [ride]. Non c’era tempo. Avevo così tanto da fare! Aveva portato con sé un dizionario? Quello sì. Con il cardinale Franz König durante il Vaticano II di Dio. Vede il vizio, ma anche la virtù, l’amore. Sono questi i luoghi dove c’è Dio. Bisogna staccarsi da queste antiche concezioni spaziali, che non sono più applicabili non fosse che perché l’universo non è infinito nel senso stretto del termine, pur se è abbastanza grande perché noi uomini lo si possa definire come tale. Dio non può essere da qualche parte dentro o fuori di esso, la sua presenza è completamente diversa. È molto importante rinnovare anche il nostro modo di pensare, liberarsi delle categorie spaziali e intenderle da una nuova prospettiva. Come esiste una presenza spirituale tra gli uomini — due persone possono essere vicine pur vivendo in continenti diversi perché questa dimensione di prossimità non si identifica con quella spaziale — così Dio non è «in qualche posto», ma è la realtà. La realtà fondamento di tutte le realtà. E per questa realtà non ho bisogno di un «dove» perché «dove» è già una delimitazione, non è già più l’infinito, il creatore, che è l’universo, che comprende ogni tempo e non è lui stesso tempo, ma lo crea ed è sempre presente. Credo che molte delle nostre percezioni vadano riviste. Anche la nostra idea complessiva dell’uomo è cambiata. Non abbiamo più seimila anni di storia [come si calcola nella Bibbia], ma non so quanti di più. Lasciamo pure aperte queste ipotesi numeriche. In ogni caso, sulla base di questa conoscenza, la struttura del tempo, quello della storia, oggi si rivela mutata. Qui il compito primario della teologia è di svolgere un lavoro ancor più approfondito e offrire agli uomini nuove possibilità di rappresentare Dio. La traduzione della teologia e della fede nella lingua odierna è ancora molto carente; è necessario creare schemi di rappresentazione, aiutare gli uomini a capire che oggi non devono cercare Dio in «qualche posto». C’è molto da fare. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 venerdì 9 settembre 2016 L’assassinio di san Tommaso Becket in una miniatura del XIII secolo di JOHN STROYAN* San Cirillo di Gerusalemme ha scritto: «I martiri degli ultimi giorni supereranno tutti i martiri». Negli anni recenti il linguaggio del martirio è stato esteso così da includere tutti coloro che muoiono per le proprie convinzioni, a prescindere dal contenuto di tali convinzioni. Inoltre, esso è stato addirittura rivendicato da parte di persone le cui convinzioni ideologiche o religiose sono, nel migliore dei casi, indifferenti e, nel peggiore, apertamente ostili alla fede cristiana. Tuttavia, c’è sempre stato bisogno di una qualche forma di scrematura nel discernimento dei martiri. Eusebio nella sua Storia ecclesiastica descrive una specie di competizione nel martirio tra le sette cristiane (e tra queste i montanisti e marcioniti), in cui spesso il numero dei martiri veniva messo in correlazione con la verità delle proprie convinzioni di fede. Riguardo ai marcioniti egli scrive: «Sostengono di avere un gran numero di martiri di Cristo, ma poi non riconoscono neppure Cristo stesso secondo verità». Cercherò di far emergere tre dimensioni caratteristiche del martirio cristiano dalla prospetti- A Bose il convegno di spiritualità ortodossa su martirio e comunione Signore benedici i miei nemici se stesso, neppure la gloria del martirio». Eliot parla del martire come di uno «che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio». Questo linguaggio fa eco alle parole di Diadoco di Fotice (V secolo), il quale ha scritto che «tutti noi uomini siamo a immagini di Dio, ma l’essere a sua somiglianza è solo di coloro che con grande amore hanno asservi- Beato Angelico, «Lapidazione di santo Stefano» (1447-1448, particolare) va del tema «martirio e comunione». La prima è il martirio come necessariamente determinato dalla comunione con Dio in Cristo: il martire è “uno nel quale vive Cristo”. La seconda, il martirio come manifestazione di “appartenenza” al Corpo di Cristo, un corpo che comprende e trascende ogni identità etnica e culturale: quando uno soffre, tutti soffrono. La terza, il martirio cristiano come una manifestazione dell’amore di Dio “per tutti”; e questo include coloro che si trovano “fuori” della Chiesa visibile e perfino (o forse in maniera speciale) i “nemici”. Thomas S. Eliot, forse il più noto poeta occidentale del XX secolo, era un anglicano che è stato profondamente influenzato dal vescovo ed erudito del XVI secolo Lancelot Andrewes (la vita e gli scritti di Andrewes sono stati a loro volta riconosciuti e apprezzati all’interno dell’ortodossia). Nel dramma teatrale Assassinio nella cattedrale, Eliot esamina gli ultimi giorni di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Nel suo sermone del giorno di Natale, intitolato La gloria di Dio, predicato quattro giorni prima della sua morte, Becket dice: «Un martirio cristiano non è un caso. I santi non sono fatti a caso. Un martirio non è mai un disegno d’uomo; poiché vero martire è colui che è divenuto strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio, e che non desidera più nulla per to la loro libertà a Dio». Quindi potremmo vedere il martirio come il frutto di una volontaria consegna di se stessi ai disegni di Dio. Quando i cavalieri giungono a Canterbury per assassinare l’arcivescovo, i suoi preti lo sollecitano a fuggire. Ma Becket risponde: «Aprite le porte! Io do la mia vita, sono pronto a offrire il mio sangue». Quindi la sua vita, in questo senso, non è tanto presa, quanto piuttosto consegnata liberamente. La vita cristiana, il martirio cristiano scaturisce dalla vita di Cristo in noi, Cristo che dice: «Nessuno mi prende la vita, ma sono io a deporla da me stesso» (Giovanni, 10, 18). Nel suo sermone Becket chiede: «Credete che sia per caso che il giorno del primo martire segua immediatamente il giorno della nascita di Cristo?». E risponde: «Certamente no!». Vi è un’inesorabile connessione tra l’incarnazione di Cristo, la nostra immersione in Cristo attraverso il battesimo e il martirio. Siamo battezzati nella morte e risurrezione di Cristo. Secondo le parole dell’arcivescovo Anastasios di Albania, i cristiani sono chiamati a «una partecipazione esistenziale alla morte e vita di Cristo». Nella Mosca degli anni Venti del XX secolo, Julia de Beausobre era vicina alla disperazione nel momento in cui suo marito fu imprigionato, quando i comunisti perseguitavano i cristiani. Descrive di aver udito ciò che chiama «le parole silenziose di un Altro», quando le disse: «A causa della mia incarnazione e del vostro battesimo, non c’è altra via, se sei d’accordo». Vi un’intrinseca conformazione alla croce in ogni vita cristiana. Gli anglicani e gli ortodossi nel 2006 hanno affermato insieme che «informata dalla vita e dall’opera di Dio nella liturgia battesimale ed eucaristica, la Chiesa cerca sempre di morire e di essere risuscitata di nuovo». Il teologo giapponese Kosuke Koyama scrive, dal contesto della devastazione di Hiroshima e Nagasaki, che la «verità biblica non è una verità intatta ma una verità sofferta», Come scrive san Paolo: «Moribondi, eppure viviamo» (2 Corinzi, 6, 9). Il secondo filone tematico di martirio e comunione deriva dalla dimensione corporativa del Corpo di Cristo. Il martirio di un solo membro del corpo ha un impatto sull’intero corpo di Cristo. San Paolo scrive: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui» (1 Corinzi, 12, 26). San Silvano del Monte Athos scrive: «La sofferenza dell’altro è la mia sofferenza, la guarigione del mio prossimo è la mia guarigione. La gloria del mio fratello è la mia gloria». L’autore della Lettera agli Ebrei scrive: «Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, come se foste torturati anche voi» (13, 3). Il martirio anche di un solo cristiano è un evento che accade all’intera Chiesa, al di là di ogni confine nazionale e culturale. Come espressione di questa solidarietà, che va al di là dei confini etnici e confessionali, l’Abbazia di Westminster celebra nella pietra le vite e la testimonianza di dieci martiri del XX secolo appartenenti a diversi Paesi e a diverse parti della famiglia ecclesiale. Scrivo questo, tuttavia, con la piena coscienza di quanto la Chiesa occidentale sia spesso incapace a esprimere adeguatamente la propria solidarietà e il proprio sostegno nei confronti delle Chiese orientali sofferenti, una solidarietà alla quale siamo inevitabilmente chiamati. È ancora viva nelle nostre menti — e nelle nostre continue preghiere — la testimonianza dei due metropoliti di Aleppo, Gregorios Yohanna Ibrahim della Chiesa siro-ortodossa e Pavlos Yazigi della Chiesa greco-ortodossa, rapiti quando si trovavano insieme in missione per il rilascio di due preti a loro volta sequestrati. Questa solidarietà in Cristo che doveva dimostrarsi a caro prezzo riflette qualcosa della profondità della koinonìa evidente tra i capi delle Chiese di tutte le confessioni presenti ad Aleppo; ciò di cui ho avuto il privilegio di essere testimone nella mia visita nel 2007. Si incontravano regolarmente per pregare, dando testimonianza a Cristo «che ha abbattuto il muro di separazione» (Efesini, 2, 14). «Se un mem- bro soffre, tutte le membra soffrono con lui» (1 Corinzi, 12, 26). Ci sono stati molti esempi simili di solidarietà tra Chiese sorelle di diversi Paesi che esprimono un legame organico tra testimonianza a caro prezzo e koinonìa, tra martirio e comunione. Allertati da padre Nikolaj Velimirović riguardo alla difficile situazione del popolo serbo che subiva gli effetti del tifo e della guerra, molti medici inglesi e scozzesi, operatori sanitari, operatori umanitari e cappellani offrirono i loro servizi ai malati e ai soldati serbi feriti. Nel 1918 il primo ministro serbo Nikola Pašić disse: «La Chiesa anglicana si è presa cura della sua sorella Serbia: auguriamoci che con l’aiuto dell’Onnipotente quest’opera di carità in favore della Chiesa di Serbia possa essere la base per il riavvicinamento e l’unione delle nostre due Chiese per il bene di tutta l’umanità». Il clero anglicano fece pressioni sul Parlamento britannico per prendere posizione contro i massacri armeni e nel novembre 1915 i capi anglicani e ortodossi sollecitarono insieme il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, a fare pressioni sulla Germania perché intervenisse presso il Governo turco per far cessare i massacri. Più recentemente, negli ultimi decenni dell’Unione sovietica, dalla fine degli anni Sessanta, il canonico Michael Bourdeaux e il Keston College fecero un lavoro straordinario ed esemplare, spesso in circostanze pericolose, per mettere in allerta l’Occidente riguardo alla persecuzione dei cristiani — nonché dei credenti di altre religioni — da parte del regime sovietico. Simili testimonianze sulle sofferenze della Chiesa in Russia contribuirono non poco a suscitare una solidarietà di preghiera tra i cristiani occidentali. Il martirio cristiano serviva a ispirare un più profondo senso di appartenenza e di comunione all’interno del più ampio Corpo di Cristo. In terzo luogo, il martirio può essere visto come un riflesso dell’amore incondizionato di Cristo per tutti, anche i nemici. Sulla croce Gesù pronuncia parole di perdono: «Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca, 23, 34). Quando santo Stefano viene lapidato a morte, cade in ginocchio e grida: «Signore, non imputar loro questo peccato» (Atti degli apostoli, 7, 60). San Silvano descrive «l’amore dei tuoi nemici come l’unico vero criterio di ortodossia». San Nikolaj Velimirović (1881-1956), che incontrò san Silvano, esprime un simile amore nelle sue Preghiere lungo il lago: «Benedici i miei nemici, o Signore. E anch’io li benedico e non li maledico. I miei nemici mi hanno guidato tra le tue braccia più di quanto abbiano fatto i miei amici. I miei amici mi hanno legato alla terra; i miei nemici hanno allentato i miei legami con la terra e hanno distrutto tutte le mie speranze nel mondo. Benedici i miei nemici, Signore, e anch’io li benedico». Questo amore — l’amore di Cristo — che include perfino i nemici, trascende ogni appartenenza (nonché inimicizia) nazionale, etnica o culturale. È l’amore che ha abbattuto ogni muro di divisione tra gli esseri umani. Lo vediamo in Edith Cavell (1865-1915), un’infermiera inglese e figlia di un prete anglicano. Prestò servizio nel Belgio occupato dai tedeschi durante la prima guerra mondiale. Accudiva tutti coloro che erano feriti salvando le vite non solo dei soldati alleati, ma anche dei soldati tedeschi, senza alcuna discriminazione. Fu accusata di tradimento per aver salvato la vita di alcuni soldati alleati aiutandoli a scappare in Olanda. Poco prima di essere fucilata da parte del plotone di esecuzione disse: «Non provo paura né stringimento. Ho visto la morte così spesso che non è cosa strana o temibile per me. Direi questo, stando come ora davanti a Dio e all’eternità». Lo vediamo in Shahbaz Bhatti (1968-2011), un ministro federale per le minoranze in Pakistan, cattolico. Egli criticò apertamente le leggi sulla blasfemia in base alle quali i cristiani sono stati — e sono tuttora — perseguitati, imprigionati e sottoposti a giustizia sommaria. Bhatti si espresse non solo a favore dei cristiani ma anche di altre fedi non musulmane. Ricevette molte minacce di morte. Nel marzo 2011 fu assassinato. Prima della sua morte aveva detto: «Credo in Gesù Cristo, che ha dato la sua vita per noi e sono pronto a morire. Vivo per la mia comunità, e morirò per difendere i loro diritti». Lo vediamo nel martirio dei sette monaci trappisti di Tibhirine in Algeria, che scelsero di restare nel loro monastero, pur essendo stati minacciati da uomini armati e conoscendo il rischio cui erano esposte le loro vite e quelle delle persone intorno a loro. Scelsero di restare vivendo una vita di semplicità, preghiera e accoglienza, una vita anche di servizio ai più poveri che vivevano Dio per tutta l’umanità. Secondo le parole di Gregorio di Nissa, «scopriamo in ogni essere umano, qualunque sia la sua posizione di fede o storia di vita, un fratello o una sorella per i quali Cristo è morto». Questo è l’amore che si identifica a tal punto con coloro che soffrono, da essere disposto a prendere su di sé la loro sofferenza e addirittura a mettersi al loro posto. Lo vediamo nella Grecia occupata dai tedeschi, quando l’arcivescovo Damaskinos Papanandreou, opponendosi alla deportazione degli ebrei, scrive al primo ministro greco collaborazionista Konstantinos Logothetopoulos: «La nostra santa religione non riconosce qualità superiori o inferiori fondate sulla religione. Come è stato detto: Non c’è greco né giudeo». Per il suo pronunciamento fu minacciato di fucilazione con il plotone d’esecuzione. Lo vediamo a Zante nel 1944, quando il metropolita Chrysostomos con il sindaco Lucas Carrer fecero tutto il possibile per proteggere gli ebrei dalla deportazione nei campi di concentramento. E quando venne loro chiesto di consegnare una lista di tutti gli ebrei dell’isola, Chrysostomos consegnò una lista con due soli nomi, il suo e quello del sindaco, dicendo: «Se scegliete di deportare gli ebrei di Zante, dovete prendere anche me e io condividerò il loro destino». Scorgiamo una simile identificazione anche in madre Maria Skobtsova. Quando gli ebrei venivano presi di mira dai nazisti a Parigi e obbligati a portare la stella di Davide, madre Maria scrisse: «Se fossimo veri cristiani, tutti noi porteremmo la stella». Nel marzo 1945 fu lei stessa deportata a Ravensbrook e, secondo quanto si racconta, prese il posto di una giovane donna che andava nella camera a gas. Madre Maria fu martirizzata non per la sua solidarietà con i Padre Christian de Chergé (1937-1996) attorno a loro. Sapendo la probabilità della loro morte imminente, padre Christian de Chergé scrisse nel suo testamento spirituale: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito». E nelle parole rivolte allo sconosciuto che lo avrebbe ucciso, scrive: «E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-D io” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due». In tutti questi martirî, come nella testimonianza di Charles de Foucauld, assassinato fuori dal forte che aveva costruito per i tuareg nel Sahara, vediamo una manifestazione dell’amore di cristiani ma con gli ebrei, e il suo martirio esprimeva il profondo amore di Dio per l’intera umanità. Il martirio cristiano rivela l’amore di Dio per tutti, un amore che supera ogni umana frontiera, oltrepassando tutte le appartenenze nazionalistiche e tribali. Ogni essere umano è creato a immagine di Dio. Ogni essere umano è, secondo la frase memorabile di Christian de Chergé, «un fratello o una sorella in umanità». Ogni fratello o sorella è qualcuno per cui Cristo è morto. John Donne (1572-1631), poeta e decano della cattedrale di San Paolo a Londra, afferma nella sua poesia Nessun uomo è un’isola: «Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io son parte dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te». *Vescovo anglicano di Warwick L’OSSERVATORE ROMANO venerdì 9 settembre 2016 pagina 7 Messa a Santa Marta Non saranno «i grandi manifesti» e «i grandi incontri internazionali», con tutte «le splendide parole» di una «conferenza di successo», a costruire la pace che «oggi tutti chiedono», perché «stiamo vivendo una guerra». E così Papa Francesco ha sollecitato ad avere anzitutto «la saggezza di fare la pace nelle piccole cose di ogni giorno ma puntando all’orizzonte di tutta l’umanità». Con lo stile dell’artigiano, ha suggerito, bisogna iniziare da se stessi, dalla propria famiglia, nel quartiere e sul posto di lavo- Piccoli artigiani della pace ro. È questa l’essenza della vera pace che il Pontefice ha rilanciato nella messa celebrata giovedì mattina, 8 settembre, festa della natività della Beata Vergine Maria, nella cappella della Casa Santa Marta. «Nell’orazione colletta all’inizio della messa — ha fatto subito notare — abbiamo chiesto al Signore, Icona della «Natività di Maria» pregato il Signore, il dono di crescere in unità nella pace». La parola «pace», dunque, è decisiva e si tratta di «crescere nella pace: oggi — ha esortato — preghiamo che tutti noi possiamo crescere nella pace, nell’unità, perché la pace fa l’unità». Nella liturgia del giorno la parola «pace» appare subito «nell’orazione all’inizio della messa». Ma è anche ripetuta nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Michèa (5, 1-4): «Quando lui annunzia la venuta del Salvatore, finisce così: “Egli stesso sarà la pace”». E ancora ritorna nel Vangelo di Matteo (1, 1-16.18-23): «Dopo la genealogia di Gesù, viene il sogno di Giuseppe e l’angelo dice: “A lui sarà dato il nome di Emmanuele” che significa Dio con noi». E «Dio con noi è la pace». Ecco che per «tre volte oggi si parla della pace» nella liturgia, ha insistito il Papa, aggiungendo: «E chiediamo questo: crescere nella pace. La liturgia di oggi è tutta coinvolta su questa strada e tutti noi, anche il mondo intero, abbiamo bisogno di pace». «Se noi chiediamo la pace — ha spiegato — è perché la pace è un dono: un dono che ci dà il Signore. Ma anche chiediamo di crescere nella pace: è un dono, ma anche un dono che ha il suo cammino di vita, il suo cammino di storia; un dono che ognuno di noi deve prendere e lavorare per aiutarlo a crescere». E «nella storia della salvezza, dalla prima promessa del Signore nel paradiso terrestre fino alla venuta di Gesù, c’è una lunga strada che abbiamo sentito nel Vangelo: questo generò quello, quello generò l’altro». Proprio «questa strada di santi e peccatori — ha affermato il Papa — ci dice che anche noi dobbiamo prendere questo dono della pace e farlo strada nella nostra vita, farlo entrare in noi, farlo entrare nel mondo». Del resto, «la pace non si fa da un giorno all’altro: la pace è un dono, ma un dono che deve essere preso e lavorato ogni giorno». Per questo, ha proseguito Francesco, «possiamo dire che la pace è un dono che diviene artigianale nelle mani degli uomini: siamo noi uomini, ogni giorno, a fare un passo per la pace, è il nostro lavoro. È il nostro lavoro con il dono ricevuto: fare la pace». A questo punto è importante capire come svolgere questo “lavoro artigianale” per la pace. E per aiutarci, ha spiegato il Papa, «c’è un’altra parola nella liturgia di oggi che ci può far riflettere, una parola che ci parla di piccolezza». Sempre «nell’orazione colletta si parla della nascita, della natività della Madonna: c’è una bimba piccola, di cui oggi è la festa». Anche «nella profezia di Michèa si incomincia sottolineando» la piccolezza: «E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda...”». Parole chiare per dire che Betlemme è «talmente piccola» da non essere neppure riportata «nelle carte geografiche». Sempre riferendosi alla liturgia del giorno, il Pontefice ha indicato anche che «nel Vangelo, dopo quella lunga storia di gente, troviamo il piccolo, il piccolo di una decisione presa da Giuseppe, il piccolo di una promessa». Tutto questo, ha affermato Francesco, ci aiuta a capire che «la pace è un dono, è un dono artigianale che dobbiamo lavorare, tutti i giorni, ma lavorarlo nelle piccole cose, nelle piccolezze quotidiane». Tanto che di certo «non bastano i grandi manifesti per la pace, i grandi incontri internazionali se poi non si fa questa pace nel piccolo». Anzi, ha insistito il Papa, «tu puoi parlare della pace con parole splendide, fare una conferenza di successo, ma se nel tuo piccolo, nel tuo cuore, non c’è pace, nella tua famiglia non c’è pace, nel tuo quartiere non c’è pace, nel tuo posto di lavoro non c’è pace, non ci sarà neppure nel mondo». «Oggi, tutti lo sappiamo, stiamo vivendo una guerra e tutti chiedono la pace» ha affermato il Pontefice. Di fronte a questa realtà, ha aggiunto, «io soltanto farò questa domanda, prima a me e poi a voi e a tutti: come è il tuo cuore oggi, è in pace? Se non è in pace, prima di parlare di pace, sistema il tuo cuore in pace. Come è la tua famiglia oggi: è in pace? Se tu non sei capace di portare avanti la tua famiglia, il tuo presbiterio, la tua congregazione, portarla avanti in pace, non bastano parole di pace per il mondo». Ecco allora, ha proseguito Francesco, «la domanda che oggi io vorrei fare: come è il cuore di ognuno di noi: è in pace? Come è la famiglia di ognuno di noi: è in pace?». Si deve partire infatti dalle piccole cose «per arrivare al mondo in pace». «Abbiamo chiesto al Signore, oggi, il giorno della natività della Madonna — ha ricordato il Papa — di crescere nella pace e nell’unità, ovviamente perché dove è pace c’è unità». E «abbiamo visto che la pace è un dono: un dono che si lavora ogni giorno in modo artigianale e anche, come tutte le cose artigianali, si fa nel piccolo per arrivare al grande». In conclusione, prima di riprendere la celebrazione, il Papa ha chiesto nella preghiera «al Signore che ci dia questa saggezza di fare la pace nelle piccole cose di ogni giorno, ma puntando all’orizzonte di tutta l’umanità». Il segretario di Stato per il giubileo della Guardia svizzera e della Gendarmeria vaticana Arsenale segreto Da oggi guardie svizzere e gendarmi hanno «nuove armi» a disposizione per svolgere al meglio il loro servizio, un vero e proprio «arsenale segreto». A consegnarle è stato personalmente il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che ha anche suggerito loro le istruzioni per l’uso: «Il pane e il vino eucaristici, qualche parola di vita, un piccolo rosario e una porta santa da attraversare sono le “armi” di Dio, disponibili e alla portata di tutti, apparentemente deboli, eppure più forti di ogni astuzia umana e di ogni ostacolo». Occasione per questa particolare “consegna” è stata la celebrazione del giubileo della Guardia svizzera e della Gendarmeria vaticana, nel pomeriggio di giovedì 8 settembre. Varcata insieme la porta santa della basilica Vaticana, i componenti dei due corpi pontifici hanno partecipato alla messa, accompagnati dai comandati e dai cappellani. Il cardinale Parolin, nell’omelia, non ha mancato di far presente come la basilica sia per guardie svizzere e gendarmi «anche un luogo di lavoro», dove svolgono le loro «importanti funzioni per assicurare ordine, tranquillità e decoro». Servizi, ha fatto notare, «sono per così dire silenziosi, perché nel momento in cui sono presenti non si notano; ad alcuni sembrano addirittura sorgere spontaneamente, mentre sono il risultato della lealtà, dedizione, professionalità e spirito di sacrificio di tutte le persone che, con il loro quotidiano lavoro, garantiscono la sicurezza all’interno dello Stato della Città del Vaticano, specie in tempi nei quali occorre la massima vigilanza». Celebrare insieme il giubileo, in una basilica che è anche abituale luogo di servizio, significa dunque fare «una sosta per accostarsi a una sorgente d’acqua pura e riprendere il cammino con più slancio e sicura speranza» ha spiegato il porporato, aggiungendo: «Siete qui per un momento di preghiera e di riflessione, per cibarvi della parola di Dio e per rinsaldare la vostra fede. Vi siete preparati con gli esercizi spirituali e la preghiera individuale e comunitaria e con il sacramento della confessione celebrato individualmente». Il gesto che caratterizza il giubileo è quello di varcare la porta santa. Per viverne l’essenza il cardinale ha consigliato di fare proprio, in particolare, «il racconto del pellegrino russo, un bel libretto di spiritualità orientale», che «suggerisce la preghiera da ripetersi come un rosario al ritmo del respiro: “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”». E di riscoprire le forti parole di Giovanni Paolo I circa l’umiltà: «Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi». Ecco che «varcare la porta santa — ha spiegato il porporato — significa lasciare fuori dalla casa del Signore e dalla nostra coscienza il male, la corruzione, il mondo del peccato, la vana pretesa di poter vivere Un particolare della divisa dei gendarmi come se Dio non esistesse, lontani da lui, senza fargli spazio nella vita reale e concreta, personale, famigliare, professionale e sociale». Ma significa anche «compiere un gesto profondamente ecclesiale, comunitario, poiché non siete entrati singolarmente e quasi privatisticamente, ma insieme ai vostri colleghi e accompagnati dai sacerdoti ai quali è stata affidata la vostra cura pastorale». Varcare la soglia della porta santa «inoltre ci mette in stretta relazione con tutti coloro che nel corso dei secoli, fin dal primo giubileo, hanno compiuto questo gesto e in solidarietà con i defunti, ai quali potete applicare l’indulgenza plenaria». In sostanza, ha proseNoëlle Herrenschmidt, «Guardia svizzera» (acquerello) guito il cardinale Parolin, «varcare la porta santa è un atto di fede, di carità e di spe- umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopranza che apre a un rinnovamento della portandovi a vicenda e perdonandovi gli vita e a una più convinta sequela del Si- uni gli altri”». Questi sentimenti tuttavia gnore. Il vostro gesto manifesta infine che «non possono sorgere e rafforzarsi soltantutti abbiamo bisogno di sostare ai piedi to come conseguenza di uno sforzo umadella croce, di meditare la parola di Dio, no, dell’impegno e della buona volontà: che ogni essere umano ha bisogno della affinché davvero crescano e trovino stabile consolazione e della misericordia divina, dimora occorre ancora una volta rivolgersi che tutti siamo nelle mani del Signore». al Signore, nella preghiera e nell’ascolto Ai gendarmi e alle guardie svizzere il della sua voce. segretario di Stato ha voluto quindi ramA ciascuno infine, ha fatto presente il mentare la loro duplice missione: «La pri- cardinale Parolin, è stata consegnata una ma è quella di rafforzare la vostra fede in corona del rosario: «Rivolgetevi fiduciosi Cristo risorto in modo da aprire, anzi spa- alla Vergine Maria, presentate a lei i vostri lancare a lui la porta del vostro cuore e desideri e le vostre difficoltà, le vostre permettergli di portarvi la pace, quella au- gioie e le vostre speranze. Fate uso del rotentica e profonda che proviene dal saper- sario per le vostre necessità e nelle prove». si amati e riconciliati con Dio; e la secon- Dante Alighieri, nel canto XXXIII del Pada missione è quella di svolgere al meglio radiso, «affermò che è tale la grandezza e delle vostre possibilità i compiti che vi il potere di Maria che chiunque desiderasvengono affidati». se una grazia e pretendesse di non ricorre«Perché questo possa accadere — ha af- re a lei, per sua disgrazia, è come se volesfermato — è necessario mantenere la giusta se volare senz’ali». Il rosario, ha spiegato fierezza per il fatto di essere scelti per un il porporato, «è una preghiera tanto semcompito delicato, che va realizzato con al- plice quanto potente. Non pensate che to senso di responsabilità e, d’altro canto, Dio ci chieda cose molto complicate o che riconoscere che, nonostante la buona vo- sia necessario attraversare i mari per trovalontà di tutti, non sempre tutto potrà esse- re alla fine di chissà quale impegnativa e re come dovrebbe, che il limite delle situa- spossante ricerca qualche frammento di zioni e delle persone rendono necessario verità o qualche barlume divino. Si può fare quello che l’apostolo Paolo raccoman- anche camminare in una strada polverosa dava ai colossesi, vale a dire rivestirsi “di o rimanere nella propria casa e, con la resentimenti di misericordia, di bontà, di cita del rosario, entrare nel cuore di Dio». L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 venerdì 9 settembre 2016 Il Papa ricorda che senza rispetto non c’è dialogo No a violenze e atrocità in nome della religione Papa Francesco è tornato a condannare la violenza commessa in nome della religione e ha invitato i leader spirituali a prendere le distanze «da tutto ciò che cerca di avvelenare gli animi» e «dividere e distruggere la convivenza». L’appello è stato lanciato durante l’udienza ai partecipanti al simposio promosso dall’Organizzazione degli Stati americani e dall’Istituto del dialogo interreligioso di Buenos Aires, ricevuti nella mattina di giovedì 8 settembre, nella Sala del Concistoro. Di seguito una nostra traduzione del discorso pronunciato dal Pontefice in spagnolo. Signori e Signore, Sono lieto di dare il benvenuto a tutti voi che partecipate a questo Primo incontro: America in dialogo – Nostra casa comune, che ha luogo qui a Roma. Ringrazio la Organización de los Estados Americanos e l’Instituto del Diálogo Interreligioso di Buenos Aires per gli sforzi compiuti per fare di questo evento una realtà, e anche il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso per la sua collaborazione. So che state lavorando congiuntamente al progetto di costituire un Istituto di Dialogo che comprenda tutto il continente americano. Lavorare insieme è un’iniziativa lodevole e vi esorto ad andare avanti per il bene non solo dell’America, ma del mondo intero. Questo primo incontro si è incentrato sullo studio dell’Enciclica Laudato si’. In essa ho voluto richiamare l’attenzione sull’importanza di amare, rispettare e salvaguardare la nostra casa comune. Non possiamo smettere di meravigliarci per la bellezza e l’armonia che esistono in tutto il creato; è il dono che Dio ci fa perché possiamo trovarlo e contemplarlo nella sua opera. È importante puntare su una “ecologia integrale”, in cui il rispetto per le creature valorizzi la ricchezza che racchiudono in sé e ponga l’essere umano come culmine della creazione. Le religioni hanno un ruolo molto importante in questo compito di promuovere la cura e il rispetto dell’ambiente, soprattutto in questa ecologia integrale. La fede in Dio ci porta a riconoscerlo nella sua creazione, che è frutto del suo Amore verso di noi, e ci invita a prenderci cura della natura e a proteggerla. Perciò è necessario che le religioni promuovano una vera educazione, a tutti i livelli, che aiuti a diffondere un atteggiamento responsabile e attento verso le esigenze della cura del nostro mondo; e, in modo particolare, a proteggere, promuovere e difendere i diritti umani (cfr. Enciclica Laudato si’, n. 201). Per esempio, una cosa interessante sarebbe che ognuno dei partecipanti si domandasse come nel suo Paese, nella sua città, nel suo ambiente, o nella sua credenza religiosa, nella sua comunità religiosa, nelle scuole, ha integrato tutto ciò. Credo che in questo siamo ancora a livello di “asilo nido”. Ossia, integrare la responsabilità, non solo come materia ma anche come coscienza, in un’educazione integrale. Le nostre tradizioni religiose sono una fonte necessaria d’ispirazione per promuovere una cultura di incontro. È fondamentale la cooperazione interreligiosa, basata sulla promozione di un dialogo sincero e rispettoso. Se non ci sarà rispetto reciproco, non ci sarà dialogo interreligioso. Ricordo che, quando ero bambino, nella mia città, un parroco di lì ordinò di bruciare le tende degli evangelici, ma, grazie a Dio, questo è stato superato; se non esisterà rispetto reciproco non esisterà un dialogo interreligioso, è la base per poter camminare insieme e affrontare sfide. Questo dialogo è fondato sulla propria identità e sulla mutua fiducia che nasce quando sono capace di riconoscere l’altro come dono di Dio e accetto che ha qualcosa da dirmi. L’altro ha qualcosa da dirmi. Ogni incontro con l’altro è un piccolo seme che si deposita; se si annaffia con una cura assidua e rispettosa, basata sulla verità, crescerà un albero rigoglioso, con una moltitudine di frutti, dove tutti potranno ripararsi e alimentarsi, e nessuno resterà escluso, e in esso tutti faranno parte di un progetto comune, unendo i loro sforzi e le loro aspirazioni. In questo cammino di dialogo, siamo testimoni della bontà di Dio, che ci ha dato la vita; questa è sacra e deve essere ri- spettata, non disprezzata. Il credente è un difensore della creazione e della vita, non può restare muto o con le braccia incrociate dinanzi a tanti diritti impunemente annientati; l’uomo e la donna di fede sono chiamati a difendere la vita in tutte le sue fasi, l’integrità fisica e le libertà fondamentali, come la libertà di coscienza, di pensiero, di espressione e di religione. È un dovere che abbiamo, perché crediamo che Dio sia l’artefice della creazione e noi strumenti nelle sue mani per far sì che tutti gli uomini e le donne siano rispettati nella loro dignità e nei loro diritti, e possano realizzarsi come persone. Il mondo osserva costantemente noi credenti, per appurare qual è il nostro atteggiamento dinanzi alla casa comune e ai diritti umani; inoltre ci chiede di collaborare tra noi e con gli uomini e le donne di buona volontà, che non professano alcuna religione, affinché diamo risposte effettive a tante piaghe del nostro mondo, come la La nostra casa comune Davanti alle sfide attuali, è importante che i credenti delle differenti tradizioni religiose cerchino insieme le modalità per amare, curare e custodire il creato per il bene di tutta l’umanità. Lo ha detto il vescovo Miguel Ángel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, nel saluto a Papa Francesco. Il presule ha presentato al Pontefice i partecipanti al primo incontro sul tema «America in dialogo. La nostra casa comune», promosso dal dicastero insieme con l’Organizzazione degli Stati americani (Oea) e l’Istituto del dialogo interreligioso (Idi) di Buenos Aires. Si tratta di persone appartenenti a varie tradizioni religiose di diversi Paesi, riunite per discutere sulla creazione di un istituto di dialogo che abbia una dimensione continentale americana. In questa prima riunione, il tema principale all’ordine del giorno è stato l’enciclica Laudato si’. guerra e la fame, la miseria che affligge milioni di persone, la crisi ambientale, la violenza, la corruzione e il degrado morale, la crisi della famiglia, dell’economia, e soprattutto la mancanza di speranza. Il mondo di oggi soffre e ha bisogno del nostro aiuto congiunto, così ce lo sta chiedendo. Vi rendete conto che questo è ad anni luce da qualsiasi concezione proselitista? Inoltre costatiamo con dolore che a volte il nome della religione è usato per commettere atrocità, come il terrorismo, e seminare paura e violenza e, di conseguenza, le religioni vengono indicate quali responsabili del male che ci circonda. È necessario condannare in maniera congiunta e decisa queste azioni abominevoli e prendere le distanze da tutto ciò che cerca di avvelenare gli animi, dividere e distruggere la convivenza; occorre mostrare i valori positivi inerenti alle nostre tradizioni religiose per ottenere un solido apporto di speranza. Per questo motivo, sono importanti gli incontri, come quello presente. È necessario che condividiamo i dolori come pure le speranze, per poter camminare insieme, prendendoci cura l’uno dell’altro, e anche del creato, nella difesa e nella promozione del bene comune. Che bello sarebbe lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. In un dialogo tenutosi un paio di anni fa, un entusiasta della cura della casa comune ha detto: dobbiamo lasciare per i nostri figli un mondo migliore. Ci saranno figli?, ha risposto l’altro. Infine, questo incontro si svolge nell’anno dedicato al Giubileo della Misericordia; questa ha un valore universale che include sia i credenti sia quanti non lo sono, perché l’amore misericordioso di Dio non ha limiti: né di cultura, né di razza, né di lingua, né di religione; abbraccia tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito. Inoltre l’amore di Dio avvolge tutta la sua creazione; e noi come credenti abbiamo la responsabilità di difendere, prenderci cura e guarire chi ne ha bisogno. Che questa circostanza dell’Anno Giubilare sia un’occasione per aprire ulteriori spazi di dialogo, per andare incontro al fratello che soffre, come pure per lottare affinché la nostra casa comune sia una famiglia, dove ci sia posto per tutti e nessuno venga escluso né eliminato. Ogni essere umano è il dono più grande che Dio ci può dare. Vi invito a lavorare e a promuovere iniziative in modo congiunto, affinché tutti insieme prendiamo coscienza della cura e della tutela della casa comune, costruendo un mondo sempre più umano, dove nessuno è di troppo e dove tutti siamo necessari. E chiedo a Dio di benedire tutti noi. Agli abati benedettini Francesco chiede di tenere vive le oasi dello spirito Custodi del silenzio «Tenere vive le oasi dello spirito» attraverso «quel silenzio operoso ed eloquente che lascia parlare Dio nella vita assordante e distratta del mondo»: è la «speciale responsabilità» affidata dal Papa agli abati benedettini riuniti a convegno, durante l’udienza svoltasi nella mattina di giovedì 8 settembre, nella Sala Clementina. Cari Padri Abati, Care Sorelle, con gioia do il mio benvenuto a tutti voi. Saluto l’Abate Primate Dom Notker Wolf, che ringrazio per le sue cortesi parole e soprattutto per il prezioso servizio svolto in questi anni. Dopo sedici anni di girare, penso: chi lo ferma quest’uomo? Il vostro Congresso Internazionale, che vi vede periodicamente riuniti a Roma per riflettere sul carisma monastico ricevuto da San Benedetto e su come rimanere ad esso fedeli in un mondo che cambia, riveste in questa circostanza un significato particolare nel contesto del Giubileo della Misericordia. È lo stesso Cristo che ci invita ad essere «misericordiosi come è misericordioso il Pa- dre» (Lc 6, 36); e voi siete testimoni privilegiati di questo “come”, di questo “modo” di operare misericordioso di Dio. Difatti, se è soltanto nella contemplazione di Gesù Cristo che si coglie il volto della misericordia del Padre (cfr. Bolla Misericordiae vultus, 1), la vita monastica costituisce una via maestra per fare tale esperienza contemplativa e tradurla in testimonianza personale e comunitaria. Il mondo di oggi dimostra sempre più chiaramente di avere bisogno di misericordia; ma questa non è uno slogan o una ricetta: è il cuore della vita cristiana e al tempo stesso il suo stile concreto, il respiro che anima le relazioni interpersonali e rende attenti ai più bisognosi e solidali con loro. È ciò che, in definitiva, manifesta l’autenticità e la credibilità del messaggio di cui la Chiesa è depositaria e annunciatrice. Ebbene, in questo tempo e in questa Contemplativi in azione Ben settemila monaci e quattordicimila monache e suore vivono il carisma di san Benedetto. Molteplici sono le attività che vengono svolte nei loro monasteri, in particolare nel campo dell’accoglienza dei profughi, soprattutto in Germania e in Austria, dove molte persone trovano ospitalità nelle comunità. Lo ha detto dom Notker Wolf, abate primate della confederazione benedettina, nel salutare il Papa. Ben 160.000 studenti vengono formati nelle scuole benedettine che si ispirano alle linee guida sull’educazione composte da una commissione internazionale. A questo proposito, l’abate ha ricordato l’incontro svoltosi a Roma con centosettanta professori provenienti da ventuno Paesi per riflettere sul tema della leadership nella Regola di san Benedetto. Dom Wolf ha ringraziato il Pontefice per la costituzione apostolica Vultum Dei quaerere e ha ricordato le iniziative intraprese fin dal 1979 per sviluppare il dialogo tra le religioni, in particolare gli incontri con i buddisti Zen e, da alcuni anni, con esponenti musulmani. Chiesa chiamata a puntare sempre più sull’essenziale, i monaci e le monache custodiscono per vocazione un peculiare dono e una speciale responsabilità: quella di tenere vive le oasi dello spirito, dove pastori e fedeli possono attingere alle sorgenti della divina misericordia. Per questo, nella recente Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, così mi rivolgo alle monache, e per estensione a tutti i monaci: «Sia per voi ancora e sempre valido il motto della tradizione benedettina “ora et labora”, che educa a trovare un rapporto equilibrato tra la tensione verso l’Assoluto e l’impegno nelle responsabilità quotidiane, tra la quiete della contemplazione e l’alacrità del servizio» (n. 32). Cercando, con la grazia di Dio, di vivere da misericordiosi nelle vostre comunità, voi annunciate la fraternità evangelica da tutti i vostri monasteri sparsi in ogni angolo del pianeta; e lo fate mediante quel silenzio operoso ed eloquente che lascia parlare Dio nella vita assordante e distratta del mondo. Il silenzio che voi osservate e di cui siete i custodi sia il necessario «presupposto per uno sguardo di fede che colga la presenza di Dio nella storia personale, in quella dei fratelli e delle sorelle che il Signore vi dona e nelle vicende del mondo contemporaneo» (ibid., 33). Pur se vivete separati dal mondo, la vostra clausura non è sterile, anzi, è «una ricchezza e non un impedimento alla comunione» (ibid., 31). Il vostro lavoro, in armonia con la preghiera, vi rende partecipi dell’opera creativa di Dio e vi fa «essere solidali con i poveri che non possono vivere senza lavorare» (ibid., 32). Con la vostra tipica ospitalità, voi potete incontrare i cuori dei più smarriti e lontani, di quanti si trovano in una condizione di grave povertà umana e spirituale. Anche il vostro impegno per la formazione e l’educazione della gioventù è molto apprezzato e altamente qualificato. Gli studenti delle vostre scuole, attraverso lo studio e la vostra testimonianza di vita, possano diventare anch’essi esperti di quell’umanesimo che promana dalla Regola Benedettina. E la vostra vita contemplativa è anche un canale privilegiato per alimentare la comunione con i fratelli delle Chiese O rientali. L’occasione del Congresso Internazionale rafforzi la vostra Federazione, affinché sempre più e meglio sia al servizio della comunione e cooperazione tra i monasteri. Non lasciatevi scoraggiare se i membri delle comunità monastiche diminuiscono di numero o invecchiano; al contrario, conser- vate lo zelo della vostra testimonianza, anche in quei Paesi oggi più difficili, con la fedeltà al carisma e il coraggio di fondare nuove comunità. Il vostro servizio alla Chiesa è molto prezioso. Anche nel nostro tempo c’è bisogno di uomini e donne che non antepongono nulla all’amore di Cristo (cfr. Regola di San Benedetto, 4, 21; 72, 11), che si nutrono quotidianamente della Parola di Dio, che celebrano degnamente la santa liturgia, che lavorano lieti e operosi in armonia con il creato. Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per la vostra visita. Vi benedico e vi accompagno con la mia preghiera; e anche voi, per favore, pregate per me, ne ho bisogno. Grazie. Nomina episcopale in Spagna La nomina di oggi riguarda la Chiesa in Spagna. Javier Salinas Viñals ausiliare di Valencia È nato a Valencia il 23 gennaio 1948. Ordinato sacerdote a Valencia il 23 giugno 1974, ha ottenuto il dottorato in catechetica presso la Pontificia università Salesiana di Roma nel 1982. Nell’arcidiocesi di Valencia è stato coadiutore nella parrocchia di San Jaime, di Moncada (1974-1976); formatore nel seminario minore (1976-1977); assistente diocesano del movimento junior di Azione cattolica (1977-1978); delegato episcopale di catechesi (1982-1992); cappellano nel collegio Seminario Corpus Christi di Valencia (1987-1992); vicario episcopale (1990-1992). Nominato vescovo di Ibiza il 26 maggio 1992, ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 6 settembre successivo. È stato trasferito alla diocesi di Tortosa il 5 settembre 1997. È stato anche amministratore apostolico della diocesi di Lleida dall’8 marzo 2007 al 16 luglio 2008. Il 16 novembre 2012 è stato trasferito alla diocesi di Mallorca.