paper - Fratelli Pedrini
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Comunità contrattuali: analogie e differenze Stefano Moroni [Testo della lezione al corso "Governing the commons", Fondazione CEUR - Facoltà di Economia Università di Bologna. Una versione estesa del presente paper è stata pubblicata in Grazia Brunetta e Stefano Moroni, La città intraprendente, Carocci, Milano, 2011, pp. 15-21]. 1.Definizioni Possiamo definire “comunità contrattuali” quelle forme organizzative a base territoriale (ossia legate a una specifica porzione di territorio) a cui i membri aderiscono volontariamente alla luce di un contratto unanimamente accolto e in vista dei benefici che ciò garantisce loro. Il contratto stabilisce, più precisamente, i diritti e i doveri dei membri della comunità contrattuale: tra i doveri rientrano il rispetto di regole di convivenza (regole d’uso dei beni immobili e degli spazi, e regole di condotta e di procedura di carattere più generale), così come l’obbligo a pagare un qualche tipo di contributo monetario o fornire qualche tipo di prestazione per garantire il funzionamento della comunità contrattuale stessa; tra i diritti sono contemplati l’uso di determinati beni e la disponibilità di servizi di vario genere. In termini generali, i modelli di comunità contrattuale sono fondamentalmente tre (tenendo presente che sto facendo qui riferimento esclusivamente a realtà sociali “a base territoriale”). Il primo modello, che possiamo identificare come “comunità contrattuale di proprietari”, prevede un gruppo di cittadini che possiedono proprietà immobiliari singolarmente e un insieme di aree collettive in comune gestite da un corpo elettivo; i membri entrano automaticamente a fare parte dell’associazione all’atto stesso di acquisto di un immobile, accettando in tal modo regole uniformi relative all’uso di spazi ed edifici e l’obbligo di versare periodicamente una quota associativa. Questo modello interessa soprattutto realtà immobiliari residenziali. Le homeowners associations, ossia le associazioni residenziali di proprietari che hanno ripreso a svilupparsi fiorentemente negli Stati Uniti, sono una sottoclasse di questo modello; si tratta di associazioni che possono essere costituite da una manciata di edifici residenziali, sino a enormi complessi con oltre 10.000 unità residenziali e più di 50.000 abitanti. (Erroneamente, sono di solito identificate tutte come gated communities). Il cohousing è un’altra sottoclasse interessante, caratterizzata dal richiedere che sia il gruppo stesso di individui coinvolti ad avviare l’operazione immobiliare in questione, prendendo parte attiva anche alla fase di progettazione. Requisito che rende questo sotto-modello adatto solo per realtà immobiliari di dimensioni contenute. Il secondo modello, che possiamo definire “comunità contrattuale di affittuari”, prevede un proprietario unico di una porzione di territorio che, dopo averlo opportunamente infrastrutturato e organizzato, ne affitta parti a individui disposti a versare un canone, continuando ad occuparsi della gestione e valorizzazione unitaria del complesso. Il proprietario unico ha interesse a gestire efficacemente il complesso al fine di elevarne il valore e potersi così assicurare adeguati versamenti dagli affittuari. D’altro canto, gli affittuari, accettando le regole d’uso contenute nei contratti d’affitto, contribuiscono all’impresa “comune” pagando il canone pattuito. L’elemento di forza del proprietario unico sta nel perseguire obiettivi di sviluppo desiderabili e condivisi di miglioramento della comunità intesa nel suo complesso. Questo modello, un tempo tipico della trasformazione di alcune città (ad esempio la Londra del diciottesimo e diciannovesimo secolo), è stato riproposto nel novecento dal formato insediativo e organizzativo dei centri commerciali, per estendersi poi a parchi tematici, centri per uffici e complessi residenziali. Il terzo modello, che possiamo identificare con il termine di “comunità contrattuale di comproprietari”, prevede che la proprietà immobiliare in oggetto sia posseduta collettivamente e i membri abbiano privilegi d’uso e obblighi a tal riguardo. Proprietà territoriali collettive e cooperative residenziali sono sottoclassi interessanti di questo modello. Le proprietà collettive erano un tempo forme consuete di utilizzo di terre comuni; tuttora permangono e hanno un ruolo in diverse realtà locali anche nel nostro paese. Le cooperative residenziali prevedono che l’intero complesso abitativo sia posseduto collettivamente: in questo caso, è la cooperativa che è proprietaria del suolo, degli edifici, degli spazi e delle attrezzature comuni; i singoli non possiedono dunque beni immobiliari, ma quote della cooperativa stessa che danno ad essi il diritto – a certe condizioni – di usare i beni della cooperativa (ad esempio, un appartamento). Il modello della cooperativa è più adatto a complessi residenziali di piccole dimensioni (ad esempio, singoli stabili). È soprattutto in questo caso che trova anche al giorno d’oggi applicazione. 2.Verso una teoria generale Per poter costruire una teoria generale delle “comunità contrattuali” è necessario poter specificare che cosa le varie forme di questo genere di comunità hanno in comune, al punto da poter essere collocate in una categoria unica, e cosa invece hanno di diverso, così da poter differenziare le varie forme entro la categoria più generale. 1.2.Dieci elementi in comune Primo elemento: proprietà privata (in forme plurime). Tutti e tre i modelli considerati (comunità contrattuali “di propritari”, “di affittuari”, “di comproprietari”) sono forme di proprietà privata; in tutti i casi infatti i proprietari – chiunque essi siano e quali che siano le regole reciproche che accolgono – possono, per definizione, eslcudere altri dall’accesso o utilizzo dei beni posseduti. È solo la banalizzazione novecentesca dell’idea di proprietà (semplicisticamente identificata con l’immagine di un singolo immobile posseduto da un singolo individuo per solitario uso personale) che può aver fatto pensare a molti contemporanei che alcuni dei sotto-modelli di comunità contrattuali richiamati in precedenza siano un “superamento” dell’idea di proprietà privata. Al contrario, le forme della proprietà privata sono sempre state plurime e varie. E continueranno ad esserlo se non impediremo il loro dispiegarsi – e l’innovazione continua in questo campo. Secondo elemento: territorialità. Le comunità contrattuali sono strettamente legate a un territorio identificabile, ossia, dotato di confini precisi (siano essi rimarcati o meno in termini fisici). L’individuazione di una specifica porzione di spazio è elemento costitutivo di ognuna delle forme possibili di comunità contrattuale. Terzo elemento: volontarietà d’adesione. L’adesione dei membri alle comunità contrattuali è di tipo volontario. Anche se in forme parzialmente diverse, in tutti e tre i modelli considerati si può in effetti parlare di comunità volontarie basate su scelte libere. Quarto elemento: contratto sociale reale (unanime). Nel caso delle comunità contrattuali – essendo le regole di convivenza automaticamente accolte all’atto di ingresso e adesione – si avrà l’effettiva unanimità di accettazione del “contratto sociale”. In altre parole, non è necessario ricorrere – come in genere si fa per legittimare la sovranità politica – all’idea di un contratto sociale ipotetico (che gli individui avrebbero sottoscritto qualora posti in una immaginaria posizione originaria), o a un contratto sociale implicito (che si assume gli individui accettino per il solo fatto di godere dei vantaggi garantiti da leggi vigenti), poiché, nel caso delle comunità contrattuali, il contratto è reale, espressamente accolto da tutti. Quinto elemento: reciprocità come elemento istitutivo (ma non esclusivo). La costituzione di una comunità contrattuale ha generalmente luogo nell’interesse mutuo dei membri: i componenti di una comunità contrattuale diventano cioé tali in virtù di rapporti di “reciprocità”. Questo ovviamente non esclude che una comunità contrattuale possa arrecare vantaggi anche a non membri, sia in termini indiretti e generali (ad esempio in caso di esternalità positive prodotte dalle attività che i membri intraprendono a proprio beneficio), sia in termini diretti e specifici (ad esempio nel caso di esplicita attività di “solidarietà” verso terzi). Sesto elemento: diritto dei privati. Le comunità contrattuali non sono solo “create”, ma anche “ordinate” dai membri. In altri termini, le comunità contrattuali generano il proprio “diritto”. Può essere interessante riconsiderare qui la tradizionale distinzione tra “diritto pubblico” e “diritto privato”. Entrambi sono ovviamente introdotti dallo stato; il secondo per disciplinare le relazioni possibili e legittime tra privati. È però importante distinguere il diritto privato in questo senso, ossia quella branca del diritto statuale che riguarda il tipo di interazioni che possono aver luogo tra i privati, e il “diritto dei privati”, inteso come quel tipo di regolazione che (nel rispetto della cornice del diritto privato) emerge liberamente e contrattualmente dall’interazione effettiva tra i privati. In questa accezione, mentre il “diritto privato” è sempre e comunque emanazione statuale (ossia posto dallo stato), il “diritto dei privati” è di origine non statuale (ossia introdotto dai privati). Riconoscere il ruolo e l’importanza del “diritto dei privati” – ossia quel genere di diritto prodotto, ad esempio, dalle comunità contrattuali – implica rifiutare l’ancora imperante positivismo giuridico secondo cui stato e diritto non possono non coincidere; questo apre opportunamente le porte ad una visione non più strettamente monistica del diritto e delle sue fonti. Settimo elemento: controllo e sanzione interni. Comunità contrattuali rette da forme di diritto di questo tipo prevedono generalmente forme interne di “controllo” volte a monitorare il comportamento dei componenti e, in particolare, il rispetto delle regole costitutive della comunità stessa. Inoltre, contemplano varie forme di “sanzioni” per i trasgressori, solitamente a intensità crescente: da semplici richiami per le trasgressioni minori, sino a sospensione temporanea di privilegi (ad esempio uso di certi beni o accesso a certi servizi), multe o provvedimenti ancor più drastici. Ottavo elemento: auto-finanziamento. Il funzionamento delle comunità contrattuali e il tipo di servizi che esse forniscono sono finanziati esclusivamente dai membri; tali comunità, dunque, si auto-sostengono. I contributi versati dai membri sono liberamente accettati entrando volontariamente a far parte delle realtà in questione. Le quote da versare – e le procedure di eventuale revisione delle stesse – sono fissate in un contratto originario e non possono essere arbitrariamente modificate in corso d’opera. Nono elemento: contributo in termini di beneficio. Nel caso delle comunità contrattuali i contributi versati dai membri vengono stabiliti e fissati in termini di rapporto diretto rispetto al beneficio atteso: in altre parole, pagano coloro che ottengono un corrispettivo in cambio – ed esattamente per quel tipo di corrispettivo. Si noti, inoltre, come i versamenti tendono a seguire i miglioramenti introdotti in un certo territorio, piuttosto che precederli (come accade generalmente nel caso delle amministrazioni pubbliche locali). Decimo elemento: beni territoriali collettivi escludibili. Le comunità contrattuali sono l’esempio lampante di come numerosi “beni” spesso e a torto ritenuti “pubblici” nel significato tecnico ortodosso – ad esempio, strade, piazze, parchi, servizi territoriali vari – possano essere invece perfettamente forniti da strutture private. Il punto interessante è che le comunità contrattuali sono spesso in grado di garantire infrastrutture e servizi più adeguati alle reali esigenze degli individui e sono in grado di farlo in modo più efficiente rispetto a quanto accade quando la fornitura è di carattere pubblico più tradizionale. Le homeowners associations statunitensi – ad esempio – riescono a rendere disponibili diversi servizi di qualità con una spesa pari alla metà circa di quanto costerebbero se fossero forniti pubblicamente nei modi tradizionali. In conclusione, si può dunque osservare che la “teoria tradizionale dei beni pubblici”, come teoria che individua quelle situazioni in cui la fornitura di certi beni non può che essere di tipo coercitivo, trova un’applicazione molto più limitata di quanto spesso presupposto. La varietà di beni collettivi (infrastrutture, attrezzature, servizi) che possono essere forniti in modi che non implicano la coercizione pubblica sembra essere ben più estesa di quanto generalmente ritenuto. In particolare, la gran parte dei “beni territoriali”, ossia i beni che sono “agganciati” a una specifica porzione di suolo, sono chiaramente escludibili. 1.3.Due elementi di differenza Due elementi di differenza – che consentono di demarcare i tre principali modelli individuati entro la categoria più generale delle comunità contrattuali – sono i seguenti. Primo elemento: regime proprietario. Un primo elemento che consente di differenziare le varie forme di comunità contrattuali tra loro è la forma proprietaria (privata) implicata: avremo “comunità contrattuali di affittuari” quando il complesso immobiliare è indiviso e posseduto da un singolo (concesso in uso temporaneo ad altri a fronte di un canone); avremo “comunità contrattuali di proprietari” quando il complesso immobiliare è parte suddiviso tra proprietari che ne hanno il possesso esclusivo e parte detenuto in comune; avremo “comunità contrattuali di comproprietari” quando il complesso immobiliare è detenuto per intero in comune. Secondo elemento: sistema decisionale. Il secondo elemento che consente di differenziare le varie forme di comunità contrattuali è rappresentato dal sistema decisionale utilizzato. Le decisioni “collettive” potranno essere affidate a un proprietario unico, come un imprenditore (nel caso delle “comunità contrattuali di affittuari”); oppure, a organi elettivi o assemblee di membri che decidono in base a maggioranza semplice, supermaggioranza o unanimità (nel caso delle “comunità contrattuali di proprietari” e delle “comunità contrattuali di comproprietari”). Diversamente da quanto certa letteratura sui fenomeni in oggetto assume, l’aspetto motivazionale (ossia, le ragioni specifiche per cui i membri di una comunità contrattuale accettano di farne parte) è invece scarsamente rilevante per distinguere una forma dall’altra: non è ad esempio vero che tutti i membri di tutte le homeowners associations statunitensi siano ossessionati dal problema della sicurezza, così come non è vero che tutti i membri di tutte le forme di cohousing condividano gli stessi valori o la stessa propensione all’apertura. Una volta sgombrato il campo da pregiudizi ideologici tutto ciò dovrebbe apparire ovvio, stante la complessità e pluralità motivazionale umana e la dimensione volontaria delle organizzazioni in questione (cosa che consente l’aggregazione in base alle più diverse ragioni e la differenziazione spinta). Non si può dunque che ribadire che il fenomeno delle comunità contrattuali merita una lettura nonideologica, ossia una lettura che eviti di definire a priori “forme buone” e “forme cattive”, per approfondire piuttosto il fenomeno nella sua originalità complessiva. Unico approccio peraltro possibile per evitare di costruire pericolose regolamentazioni ad hoc volte a favorire o penalizzare arbitrariamente alcune forme rispetto ad altre. Riferimenti bibliografici Brunetta, G., Moroni, S. (2008), Libertà e istituzioni nella città volontaria, Bruno Mondadori, Milano. Brunetta, G., Moroni, S. (2011), La città intraprendente, Carocci, Roma. Brunetta, G., Moroni, S. (2012), Contractual Communities in the Self-Organizing City, Springer, berlin.