Anno XVI

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Anno XVI
Laós
Rivista di scienze religiose e umanistiche
Istituto superiore di scienze religiose «San Luca»
Catania
Anno XVI - 2009
***
3 Settembre - Dicembre
...per dare al suo popolo la conoscenza della Salvezza
(Lc 1,77)
Edizioni Adelfós - Catania
Laós
Rivista di scienze religiose e umanistiche
quadrimestrale
***
Direzione Redazione Amministrazione
Associazione Adelfós
Tel. e Fax 095 313036 via Crociferi, 36B - 95124 Catania
Anno XVI - 2009 - 3
INDICE
Francesco Diego Tosto Mons. Francesco Chiusa: l’uomo.................................................... pag. 5
Margherita Fagone Mons. Francesco Chiusa: il pastore................................................. pag. 9
Angela Marchese Mons. Francesco Chiusa: il patrologo ............................................ pag. 13
Antonino Crimaldi Adulti nella fede la formazione teologica dei laici
secondo Mons. Chiusa..................................................................... pag. 23
Leone Calambrogio Le relazioni in Ebrei 13.................................................................... pag. 29
Nino Nuzzo «Usciamo dunque anche noi dall’accampamento…» (Eb. 13,14)........... pag. 33
Carlo Russo
Cristo sacerdote perfetto nella lettera agli Ebrei . ........................... pag. 37
Giovanni Russo
Il sacerdozio di Cristo e il ruolo della fede nella lettera agli Ebrei ... pag. 41
Fausto Grimaldi Sacerdozio levitico o Sacerdozio di Melchìsedec?.......................... pag. 45
Pasquale Munzone
Il sacerdote mistero di Riconciliazione........................................... pag. 49
Antonino De Maria Secondo l’ordine di Melchisedec..................................................... pag. 55
Francesco Aleo Il dono dello Spirito Santo nell’Epistola agli Ebrei
in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio..................... pag. 59
Giovanni Di Rosa Sacrificio della croce e recenti derive europeiste............................. pag. 79
Francesco R izzo
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza
una libera inter-mediazione d’amore nell’Università..................... pag. 87
Salvatore Latora
Per una filosofia compagna di vita nell’indagine politica:
una lezione ripresa dal Rosmini...................................................... pag.113
RECENSIONI
Francesco Diego Tosto Pietro Gibellini (ed.), La Bibbia nella letteratura italiana I:
Dall’Illuminismo al Decadentismo; La Bibbia nella letteratura
italiana II: L’età contemporanea, Brescia 2009.
Antonio Giovanni Pesce Giuseppe Pezzino, La fondazione dell’etica in Benedetto Croce,
C.U.E.C.M., Catania 2008, pp. 437.
Francesco Diego Tosto Il muro di vetro. L’Italia delle religioni. Primo rapporto 2009, a
cura di P. Naso e B. Salvarani, EMI, Bologna 2009.
Francesco Diego Tosto Giuliano Ladolfi, Per un nuovo umanesimo letterario, Interlinea
Edizioni, Novara 2009.
pag.121
pag.122
pag. 126
pag.127
Il Direttore e i collaboratori
dedicano questo numero della Rivista,
nel ventennale della sua scomparsa,
al Fondatore dell’Istituto di Scienze Religiose “San Luca”
mons Francesco Chiusa
che ne sognò la realizzazione come strumento
di apertura del sapere teologico
ai laici
Laós 16 (2009) 3, 5-8
ISSR «S. Luca» - Catania
Mons. Francesco Chiusa: l’uomo
di
Francesco Diego Tosto
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
Da bambino mi faceva paura. Quella tonaca nera che ondeggiava misteriosa nella
chiesa di Sant’Agata al Borgo avrei preferito non vederla. Calciando un pallone sempre
più forte e sempre più in alto nel cortiletto dell’oratorio, non potevo non colpire i vetri
della Parrocchia e mi toccava scappare o nascondermi. Non mi preoccupava tanto il
suo rimprovero – a quell’età sono tutti uguali – ma quello sguardo penetrante tra le
spesse sopracciglia mi inquietava non poco. Eppure la sua severità mi attraeva, non
concedeva nulla che non fosse il suo sacerdozio, il suo essere parroco; non lasciava
intravedere una storia diversa da quella che viveva, non portava segni di un’antica
primavera, sembrava essere nato così, un po’ ostile, diffidente, per tutti Padre Chiusa, e
anche per me. In quei primi anni di formazione, tra catechismi e preghiere, tra le cure
amorevoli di zelanti collaboratrici, non mi mancavano certo i punti di riferimento per
l’istruzione religiosa o per il gioco, ma c’era lui al centro, o forse un po’ più distante,
quasi “infastidito” da tanto agitarsi intorno a quel suo breviario, che non gli impediva
comunque di muovere gli occhi verso tutti con cenni decisi e nervosi del capo.
Mi allontanai, mi distrasse la scuola, mi coinvolsero altri amici, il tempo passò.
Non persi mai però il contatto con quell’ambiente che mi apparteneva e a cui mi
avvicinavo sporadicamente, forse spinto dalla nostalgia di quei giorni infantili e
indimenticabili o forse attratto da qualcosa di irrisolto dentro di me, dal bisogno di
continuare ad esplorare quella figura burbera e malinconica di un tempo. Mi ritrovai
ventenne, durante una celebrazione domenicale, inginocchiato al suo confessionale.
Non lo avevo scelto; era rimasto solo a confessare e mi avvicinai. Che sorpresa!
Avevo sprecato il mio tempo a studiare le parole giuste, a preparare il racconto dei
miei peccati. Quell’uomo non era affatto scomodo, aveva un cuore grande, seppe
incoraggiarmi e infondermi tanta fiducia e determinazione. Mi invitò a frequentare
il gruppo parrocchiale, accettai e da allora non ci separammo più.
Quanti ricordi, aneddoti, colloqui. Vorrei scrivere tanto ma ad una condizione:
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Francesco Diego Tosto
rispettare la sua intelligenza non esagerando, magari evitando contorni edificanti e
col proposito di descrivere l’uomo senza la benevolenza del tempo. Padre Chiusa (o
Monsignore, come in seguito lo chiamai per rispetto) era un sacerdote vero. Non si
risparmiava e non delegava. Il suo sacherdozio (diceva così per uno sfortunato incontro
di vocali e consonanti) era un dono di cui andava fiero, non un peso da trascinare o
una carica da esibire, era apostolato, preghiera, servizio. Dicevano in tanti che fosse
un accentratore, sottolineando così involontariamente la peculiarità del suo sacerdozio: non privare nessuno della sua parola e della sua esperienza, né i giovani o gli
anziani, né i catechisti o gli aspiranti, né i professionisti o i bambini. E questo non per
un atto di superbia o di malcelata vanagloria o per timore di perdere il controllo della
situazione, ma per un atto di amore, per una fede assoluta al suo mandato. Solo chi
lo conosceva bene può crederlo. Era solito dire a coloro che lo circondavano: «Non
ho nulla da dirvi a titolo personale, ma in quanto sacerdote». Accentrare significava
così per lui comunicare la sua fede, scoprire negli altri le necessità spirituali spesso
mai rivelate, e perciò assicurare la sua presenza, come Gesù tra i fedeli, comprese le
asprezze del carattere e le mal difese timidezze. Si, perché Padre Chiusa era un timido,
come pochi ne ho mai conosciuti, e celava dietro un atteggiamento forte non poche
insicurezze e fragilità. Le parole dure e i toni marcati rivelavano spesso delusione, più
nei suoi confronti che verso gli altri, per non aver saputo creare l’adeguata corrispondenza alle sue idee, a quei principi che avevano ispirato la sua condotta sacerdotale.
Anche da me avrebbe voluto di più. E i nostri rapporti, seppur buoni, oscillavano
in base alle mie “apparizioni” parrocchiali. Se mi vedeva spesso ero «Francescaccio»,
per cui il finto dispregiativo manifestava un affetto profondo; se invece latitavo mi
salutava con un eloquente: «Francesco … buono», dando al secondo termine lunga
pausa e tono di voce alquanto basso a voler esprimere la sofferenza di un “tradimento”;
se mi guardava negli occhi con quello sguardo, che mi aveva incuriosito da ragazzino,
mi chiamava «Francuccio», turbandomi, perché cadeva ogni barriera e avrebbe voluto
dirmi chissà cosa e avrebbe sperato che io comprendessi. Nessun mistero in tutto ciò.
Padre Chiusa a volte parlava in codice, perché aveva il massimo rispetto della libertà
degli altri e non voleva che le sue scelte fossero le mie; però, mi stimava tanto ed
essendo avanti negli anni a col fardello dei suoi acciacchi, avrebbe desiderato quasi
una totale dedizione alla sua causa. Non me la sentivo, pur rimanendo affascinato dai
suoi progetti e pur essendosi intensificata l’amicizia, estesa anche ai miei familiari.
Parlavamo, discutevamo ogni cosa, tanto pensavamo di avere lungo tempo davanti a
noi, quel tempo che poi inaspettatamente ci tradì.
In quegli anni la mia frequenza universitaria determinò una collaborazione con la
cattedra di Storia del Cristianesimo e lo studio della cultura protestante. Padre Chiusa
non gradì mai del tutto questa scelta; aveva timore che potesse disorientarmi e non
si rese conto del perché le mie forze non avrebbero potuto concentrarsi sulla scuola
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Mons. Francesco Chiusa: l’uomo
di teologia piuttosto che su questa nuova attività. Da parte mia nessuna scelta. Avrei
voluto far tante cose come mi capita di fare adesso; volevo assorbire da più parti,
fidandomi forse presuntuosamente delle mie risorse e non capivo perché avrei dovuto
scegliere. Il professore Sciuto rappresentava l’ambiente universitario e la possibilità
di coltivare qualche sogno, oltre agli interessi reali di ricerca. Padre Chiusa, invece,
era la mia famiglia, la mia storia, la mia crescita spirituale, non solo la cultura. Una
volta riuscii a metterli di fronte l’uno e l’altro in parrocchia e i duellanti scelsero
come argomento la dimostrazione dell’esistenza di Dio, un temino leggero che mise
in luce le caratteristiche di entrambi: dimesso e ancorato alle sue problematiche certezze Sciuto, battagliero e aperto al dialogo Chiusa, sebbene categorico nella difesa
del suo pensiero. Forse non si amarono mai, ma sono stati entrambi importanti per
me, che desideravo capire e che non stabilivo priorità; Padre Chiusa continuava ad
esercitare in me tanto fascino.
Il nostro indimenticato prete non amava quel che succedeva in altri ambienti parrocchiali, per così dire allargati, con vari responsabili, senza un’unica guida, e una
flotta di giovani, smaniosi di incontrarsi in un improvvisato «ufficio di collocamento»
(sono le sue testuali parole). Preferiva dire di no, a costo di farsi considerare antiquato
e a costo di vedere lo sparuto numero di giovani frequentanti ridursi sempre di più.
Egli non avrebbe mai rinunciato alle prerogative della sua azione cattolica: irrobustire
la fede prima di praticarla. Niente di astratto in tutto questo e nessuna concessione
a qualsiasi forma di ghetto, ma solo la consapevolezza che prima di «scendere al
pratico», prima di orientare nel concreto gli altri, occorre rivendicarsi a se stessi,
migliorarsi e crescere nella conoscenza della Parola. Non per niente si dedicò senza
risparmio alla fondazione del San Luca. A me tocca ricordare le amarezze, i sospetti,
le indifferenze che ha dovuto fronteggiare senza però arrendersi. Alcuni bocconi
amari Padre Chiusa li ha ingoiati in mia presenza, anche se spetta ad altri il grande
merito di averlo assistito in questi anni trepidanti; la mia è solo la testimonianza di
chi ha partecipato, ha avuto ed ha l’onore di insegnare in quell’istituto tanto amato
dal nostro sacerdote e di esserne stato nominato vice direttore. Secondo me, Padre
Chiusa è contento; lo percepisco da una sua foto in una parete della direzione. Ha il
volto sereno e accenna ad un sorriso compiaciuto, ma quanta responsabilità mi scende
da quel quadretto durante gli esami, durante i quali ho sempre l’impressione di averlo
accanto assieme ai suoi insegnamenti.
La mia carriera di docente è stata finora fortunata. Ho sempre ricevuto il calore
degli alunni, i quali, per quanto generosi, spesso ritengono di trovarsi di fronte a
persone già fatte e non si rendono conto che dietro le parole di un educatore c’è una
storia, una formazione, una serie di esperienze maturate e vissute. Nel modo di porgere agli altri il mio insegnamento c’è stato sempre Padre Chiusa. E quando dico ai
ragazzi di non far mai pace con i propri difetti o di non legarsi mai alle persone ma
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Francesco Diego Tosto
alle idee, è quella la mia fonte di ispirazione. Così come, quando mi ritrovo stanco
dopo un’intensa giornata di lavoro, mi viene in mente il suo impegno, la risposta
convinta alla sua vocazione. Mi è toccato in sorte di stare con lui fino a qualche ora
prima della morte. Lo andai a trovare perché mi chiese dei libri di latino cristiano utili
per gli studenti del San Luca; voleva infatti caratterizzare la disciplina affidatami con
testi specifici e che potessero essere propedeutici alla patristica. Era molto sofferente,
tormentato dalla tosse, un po’ sfiduciato; sfogliò i volumi con il solito interesse ma
con poca convinzione, poi ci salutammo, rimandando a momenti migliori il nostro
incontro. Mi avviai per le scale ma, colto quasi da un presentimento, tornai indietro
esortandolo a telefonarmi per qualsiasi necessità. Accolse di buon grado il mio invito, tuttavia tranquillizzandomi; chiusi la porta tra di noi e non lo rividi più. Dopo
qualche ora, il buon Dio lo richiamò a sé, lasciando nello smarrimento tutti quelli
che lo avevano apprezzato e amato.
Per anni ho pensato di scrivere di lui e non l’ho fatto, tranne che per una tesi di
una volenterosa corsista. Adesso si è ripresentata l’occasione. Abbiamo voluto in
questo numero della rivista – tra quelli che l’hanno conosciuto - ripercorrere la sua
vita, l’attività pastorale, la nascita e lo sviluppo del San Luca, la sua creatura, e il suo
impegno per la diffusione degli studi patristici. Ci siamo comunque limitati ad alcuni
elementi da ampliare, approfondire e rielaborare in prossimi e più organici lavori,
che possano mettere in luce questo devoto servitore della Chiesa come precursore
del dialogo e valorizzatore dei laici in quanto possessori ed accreditati divulgatori
del messaggio cristiano. Ci dà vigore una certezza: quando Padre Chiusa pensava
di offrire un’informazione teologica al laicato catanese, i tempi non si presentavano
disponibili in tal senso. E invece egli aveva ragione. Oggi il mondo ecclesiastico
percepisce una deriva teologica dovuta ad un’arida concettualizzazione della Parola
di Dio, in cui spesso la verità viene a mancare della sua forza dinamica e produttrice. Solo una teologia come risposta e azione dirompente in una società che cerca,
e non solo come polveroso recupero filologico, ha un grande avvenire. Scrivere di
Mons. Chiusa non è pertanto un’operazione nostalgica ma il dovuto tributo ad una
personalità dai risvolti attuali e costruttivi, che ha intuito con largo anticipo l’utilità
di una robusta formazione di tutto il popolo di Dio in direzione di un cristianesimo
che si apra alla vita e che non si compiaccia di un’arroccata solitudine. Ecco allora che
aver respirato tra le sue carte e le pareti da lui volute ha permesso che la sua presenza
rifiorisse tra noi. Ogni comprensione, in ogni caso, vada a chi ha scritto questa nota
come espressione di un affetto non so quanto veramente mostrato ma sinceramente
contenuto nel profondo del suo cuore. Ciao Monsignore
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Laós 16 (2009) 3, 9-12
ISSR «S. Luca» - Catania
Mons. Francesco Chiusa: il pastore
di
Margherita Fagone
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
Parecchi anni orsono, non ancora adolescente, approdai nel salone adiacente alla
Chiesa di S. Agata al Borgo, perché invitata da una compagna di scuola ad iscrivermi all’Azione Cattolica. Dopo un breve incontro con la Delegata, ebbi a conoscere
un Sacerdote che misurando il salone a grandi passi, recitava il Breviario con molta
devozione, non senza seguire l’andirivieni delle numerose ragazze che vi si avvicendavano schiamazzando.
Quella figura suscitò in me una reazione tra l’incuriosito e l’intimidito. Non avrei
neppure lontanamente immaginato che tra me e quel prete dallo sguardo severo e
benevolo ad un tempo, stava per iniziare un sodalizio che sarebbe durato oltre quarant’anni.
Non ero avvezza a frequentare gli ambienti ecclesiastici e l’unica cosa che mi
aveva persuaso ad inserirmi in un gruppo era stata la curiosità e la voglia di trovarmi tra coetanee, per svagarmi ed allacciare nuove amicizie. Questo e non altro. Ma
“l’altro” ben presto mi venne prospettato da quel sacerdote zelante ed intraprendente, quando cominciai a partecipare alle riunioni settimanali da lui presiedute. A quel
punto evidentemente la mie orecchie e soprattutto quelle del cuore, sentivano discorsi nuovi, parole convincenti, proposte suggestive. Mi rendevo conto, se così si può
dire, inconsapevolmente, che la voce suadente di quel prete interpretava le esigenze
delle nostre giovani menti e le nutriva di verità esposte con chiarezza e passione e
che, senza che ce ne accorgessimo, riuscivano a far breccia, a suscitare nei cuori
quelle risonanze che a lungo andare si sarebbero tradotte in propositi di fede vissuta.
I testi prodotti dal Centro Nazionale di Azione Cattolica sconfinavano in vere e
proprie lezioni di teologia minima, man mano adattata all’età delle giovani ascoltatrici. Ma alla teoria seguiva immediatamente la prassi: il giovane Parroco, dotato di
eccellenti capacità organizzative, divideva il folto numero di ragazze in gruppi di
attività diverse: assistenza ai poveri, iniziative a favore delle Missioni, incremento
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Margherita Fagone
della biblioteca per l’educazione alla lettura, promozione delle cosiddette “missioni” nei quartieri della Parrocchia con la recita del Rosario e le meditazioni guidate
dalle universitarie ex allieve del Sacro Cuore, dove Padre Chiusa insegnava religione e che egli aveva costituito nel gruppo “Mater Boni Consilii” della Congregazione Mariana.
Ed ancora: veniva riservata una cura particolare alla liturgia, con una speciale
attenzione al canto e alla formazione di un coro guidato dal Sac. Salvatore Toscano
che vantava un vasto repertorio di testi.
Il culto Eucaristico fu sempre l’oggetto primario delle sue attenzioni, poiché era
un innamorato dell’Eucaristia e questa sua profonda devozione seppe appassionatamente trasmettere in chi gli era vicino, sia con la parola che con l’esempio. Riuscì
ad avviare al sacerdozio e alla vita religiosa parecchi giovani proprio attraverso
l’amore a Cristo Eucaristia.
E volle dare a Cristo una dimora dignitosa, lavorando fino allo sfinimento,
quando si trattò di restaurare una Chiesa che pur contenendo opere d’arte notevoli,
all’inizio del suo Parrocato, si trovava in condizioni precarie. Si affaticò tantissimo
e non gli mancarono grossi dispiaceri durante l’esecuzione dei lavori. La Chiesa,
restituita splendida in tutti i particolari, fu inaugurata il Giovedì Santo del 1965.
Da uomo intelligente qual era, attivò una serie di cineforum durante i quali,
dopo la proiezione dei films apriva un dibattito sulle tematiche più interessanti.
E non solo questo: l’attività teatrale trovò in lui un convinto fautore, persuaso
com’era del gran peso che essa può avere nell’educazione dei giovani. Ai giovani
dell’GIAC era affidato questo settore di apostolato che per non pochi anni riscosse
grande successo.
Era un fervoroso pullulare di iniziative che facevano di questa porzione della
Chiesa una comunità attiva senza dispersioni, zelante senza bigotteria, entusiasta
senza esagerazioni.
Ho raccontato tutto questo perchè in ciò consiste il compito del Pastore e Padre
Chiusa seppe essere interprete fedele della missione che gli era stata affidata, sempre in piena sintonia con l’Arcivescovo e i responsabili della pastorale diocesana.
Seppe educare e formare soprattutto con la Confessione intere generazioni di
giovani e meno giovani: chi frequentò la Parrocchia nel trentennio 1950-’80 e oltre,
può ricordare che il confessionale era il luogo privilegiato per la formazione spirituale e che nei tempi liturgici forti vi trascorreva anche dieci ore al giorno con un
breve intervallo solo per il pranzo.
La direzione spirituale era da lui considerata un caposaldo per la crescita consapevole dell’impegno cristiano in chiave personale familiare e sociale.
La sua presenza in Parrocchia era continua e sempre disponibile per chiunque
avesse urgenza o comunque bisogno di un consiglio, di un parere, di un conforto.
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Mons. Francesco Chiusa: il pastore
Ciò costituiva per tutti un punto fermo di riferimento, anche se avrebbe potuto sembrare ai più superficiali un rifiuto ad uscire dalla sacrestia, un isolarsi dal mondo.
Non era così: tutto il lavoro di formazione compiuto con i suoi collaboratori tendeva a fare di essi il trait d’union tra la Chiesa e i non praticanti. La sua vita appartata
e il suo fare schivo che poteva apparire distaccato, non gli impediva di seguire
tutto e tutti con quella sua capacità d’intuizione e quella profonda umanità che si
nascondeva dietro il volto austero illuminato da uno sguardo vivo e sempre controllato: le reazioni e i sentimenti che talora avrebbero voluto esplodere di fronte
all’ingiustizia, venivano frenati da quello spirito di mortificazione che consigliava
agli altri, ma che per primo egli stesso si adoperava ad acquisire con la preghiera e
la meditazione sulle pagine bibliche e patristiche, che tanta parte ebbero nella sua
formazione già intrisa di cultura classica.
Ma mentre esercitava il suo ministero di Parroco, sin dagli anni ’60 cominciò a
mettere in atto quello che era stato il sogno della sua giovinezza: la fondazione di
un Istituto di Teologia per laici.
Antesignano del Concilio Vaticano II, si era reso conto che erano maturi i tempi
perché la Chiesa aprisse ai laici la conoscenza delle ricchezze della Rivelazione
approfondite nei testi teologici. Una riflessione e un ripensamento sulle verità della
fede, avrebbe contribuito a sanare la frattura tra mondo “laico” inteso in chiave
negativa e credenti. Cominciò quindi a raccogliere attorno a sé dei professionisti
disposti ad aiutarlo.
Già nel 1962 –’63, con la preziosa collaborazione di teologi come Mons. Santi
Pesce, di biblisti come Mons. Innocenzo Licciardello, di filosofi come P. Giuseppe
Calambrogio e sociologi come P. Giuseppe Bruno, ebbe inizio un corso di lezioni
trisettimanali frequentate da qualificati professionisti, parecchi dei quali provenienti dalla FUCI, di cui era stato Vice assistente negli anni ’45–‘50.
Dopo un ventennio di lavoro indefesso, l’Istituto intitolato a S. Luca, in data 31 Luglio 1986, otteneva il riconoscimento ufficiale con Decreto di erezione da parte della
Congregazione per l’Educazione Cattolica, strutturato in un quadriennio di studi con
relativa autorizzazione a rilasciare il titolo di Magistero in Scienze Religiose.
Alla sua morte, avvenuta il 3 Novembre 1989, la generosa disponibilità del Prof.
Leone Calambrogio, docente da molti anni presso l’Istituto e la sua elezione alla
successione del Fondatore, costituì la garanzia per la continuità dell’opera, oggi
degnamente diretta dal Prof. Giuseppe Calambrogio e vòlta alla formazione degli
operatori pastorali e degli insegnanti dell’IRC, con il riconoscimento della Laurea
di primo livello in Scienze Religiose, secondo le nuove disposizioni del Processo
di Bologna, in attesa dell’avvio del biennio di specializzazione per la Laurea Magistrale in Scienze Religiose.
A vent’anni della sua scomparsa, possiamo affermare che l’obiettivo del Fonda-
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Margherita Fagone
tore, pur tra tante difficoltà, continua ad essere perseguito con fedeltà ed impegno.
Concludendo questo suo breve profilo certo non esauriente, di lui si può ben ripetere che, come trascritto nell’immagine–ricordo: “Era come la fontana del villaggio:
tutti potevano attingere al suo grande cuore e alla sua illuminata intelligenza un
profondo amore per Cristo e la Vergine, uno zelo instancabile per le anime, un’appassionata ricerca per la verità”.
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Laós 16 (2009) 3, 13-22
ISSR «S. Luca» - Catania
Mons. Francesco Chiusa: il patrologo
di
Angela Marchese
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
In molti anni di insegnamento al San Luca Mons. Chiusa, latinista e grecista, si
dedicò espressamente alla Patristica, campo d’indagine da lui prediletto, sia essa
orientale che occidentale. In tale direzione, egli produsse numerosi studi per gli studenti, alcuni ben definiti, altri da completare. Quelli organicamente più elaborati
vennero resi in dispense ad uso scolastico, di anno in anno aggiornate sia nei contenuti che nelle indicazioni bibliografiche; gli altri in nostro possesso, sebbene più
approssimativi, costituiscono comunque un bagaglio inesauribile di dati, appunti,
glosse, utili per una eventuale ridefinizione metodologica dell’intera produzione. Ricavare da tale materiale eterogeneo una linea direttrice didattica dello studioso non
è compito agevole, dal momento che gli scritti non sono stati realizzati ai fini di una
pubblicazione, anche se nelle intenzioni di Padre Chiusa essi, avendo dovuto costituire il resoconto ultimo e maturo della sua attività scolastica, hanno ricevuto a tal fine
graduali e significativi miglioramenti in vista di una ipotetica stampa.
Fatte queste premesse, il compito che ci proponiamo è quello di far conoscere nelle
linee generali gli studi più completi, che si trovano negli archivi dell’Istituto di Scienze
Religiose San Luca di Catania, e nello stesso tempo scegliere ed offrire al lettore per
ogni ricerca effettuata alcuni stralci significativi da cui poter desumere il procedimento
espositivo e filologico adottato dal Nostro: una sorta di florilegio che, se non conterrà
i punti nevralgici di ogni dottrina o controversia, potrà illustrare intuizioni, schemi o
aspetti particolari. In questa sede vorremmo privilegiare - attraverso una scelta adeguata di testi - la moderna sensibilità mostrata da Mons. Chiusa verso il ruolo della donna
nella società e nella Chiesa in direzione di una profetica anticipazione che troverà nel
Concilio la sua espressione più concreta. Ci è sembrato, infine, opportuno prima delle
citazioni in corsivo dell’autore facilitare l’attenzione di chi legge, richiamando alla
mente alcune indicazioni orientative circa la struttura e le caratteristiche delle opere
patristiche esaminate, nonché presentare l’esposizione dei principali nuclei tematici.
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Angela Marchese
1. Giustino e Tertulliano
Le opere di Giustino e di Tertulliano, Padri della Chiesa molto cari e con passione
studiati da Mons. Chiusa, sono principalmente: Il dialogo con Trifone del primo e
l’Apologeticum dell’altro.
La prima opera è formata da 142 capitoli che si susseguono senza interruzione
e che sono ai moderni pervenuti senza l’introduzione e parte del capitolo 72. Nella
prima parte del testo Giustino fa leva sulle scritture profetiche contro i pagani per
evidenziarne il valore storico, soprannaturale e divino; troviamo altresì enunciate
le motivazioni che inducono i cristiani a non osservare la legge: essa è abrogata;
la giustificazione non è data dall’osservanza delle sue prescrizioni rituali, e infine
la circoncisione. Nella seconda parte Giustino enuncia le motivazioni della fede in
Cristo dedotte dalle profezie dell’A. T. Nell’ultima è contenuta l’affermazione che
tutte le nazioni che credono in Cristo e che seguono la Nuova Legge sono eredi delle
divine promesse e costituiscono il Nuovo Israele.
Per quanto riguarda l’Apologeticum esso è composto da 50 capitoli e presenta un
carattere prevalentemente difensivo. I temi in esso trattati sono: la difesa giuridica
dei cristiani; la stima per l’onestà e per la loro saggezza; la confutazione delle accuse
e la finalità dell’apologia (consapevolezza delle accuse; loro inconsistenza e falsità);
l’atteggiamento degli imperatori verso il cristianesimo; le norme che regolano l’onestà della vita e il comportamento delle donne, come risulta dal seguente brano tratto
dalle dispense di Mons. Chiusa sull’Apologeticum1
«Norme particolari per le donne: l’abbigliamento decoroso delle matrone, diverso da quello delle prostitute; la tutela della modestia; l’uso dell’oro, limitato
all’anulare del fidanzamento; l’astinenza assoluta dal vino, controllata con l’obbligo di baciare i congiunti, per giudicare l’alito. Dai buoni costumi della donna,
vincolata da tali norme, scaturiva la felicità dei matrimoni, per cui in quei seicento
anni, dalla fondazione di Roma, non si ebbe mai un divorzio.
Ma non solo queste norme sono state violate:quelle che riguardavano gli stessi
dei non hanno avuto migliore fortuna. Infatti, un’antica divinità italica, Libero, fu
soppressa, per volere di senato e consoli, a Roma e in tutta l’Italia, perché il suo culto era divenuto orgiastico. Altre divinità di estrazione straniera furono estromesse
dal consesso degli dei, “per mettere un freno al vizio di superstizioni vergognose ed
oziose”, ma sono state riammesse con tutti gli onori. Le tradizioni religiose, quindi,
in un modo o in un altro sono state interrotte».
1
Tutti i brani in corsivo presenti nell’articolo sono citazioni ricavate dagli scritti di Mons.
Chiusa.
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Mons. Francesco Chiusa: il patrologo
Come si può notare dal breve testo, ammirazione e delusione sono sentimenti
coesistenti. Da un lato Mons. Chiusa esalta il rigore di Giustino per la conservazione
di un’immagine pura della donna e della sua importanza nel vincolo matrimoniale,
dall’altro non viene elusa dal Nostro l’amarezza per la violazione di norme che Egli
riteneva fondamentali non solo per l’epoca in questione ma anche per le pressanti
esigenze della società moderna.
2. La Didachè
La Didachè viene composta tra il 50 ed il 70 d.C. probabilmente in Siria ed in
particolar modo ad Antiochia. Nella sua rivisitazione, Mons. Chiusa suddivide l’opera
in tre parti. La prima parte, quella etica, cc. I-VI; la seconda parte, quella liturgica, cc
VII-X e XIV; la terza parte, ovvero quella disciplinare, cc XI-XIII e XV-XVI. Viene
poi affrontata la questione degli “aspetti problematici” de La Didachè, come il doppio
titolo di H 54 affrontato dagli studiosi Bryennios, Harnack e Robinson e il problema
della pericope sugli aspetti di interpolazione, ritenuti per l’epoca un fatto singolare. La
parte etica distingue la “via della vita”, e la “via della morte”; la parte liturgica, affronta
tre sacramenti essenziali: il Battesimo, la Penitenza e l’Eucarestia. Il primo, istituito da
Gesù e conferito in virtù della sua autorità, ha come materia remota l’acqua, una forma
trinitaria e prevede il digiuno per due giorni, sia da chi riceve che da chi amministra il
sacramento. Nella Penitenza bisogna rendere grazie al Signore dopo avere confessato
i propri peccati. Per i più gravi la pena può anche essere la scomunica, mentre per
quelli meno gravi la separazione dalla comunità e la riconciliazione e reintegrazione
sacramentaria nella vita cultuale. Nell’Eucarestia, i cristiani nella sinossi domenicale sono chiamati a spezzare il pane, bere il vino e rendere grazie, quando essi sono
riuniti. Solo i battezzati possono “mangiare e bere” l’Eucarestia e, soprattutto, dopo
la confessione dei peccati e la riconciliazione con i fratelli di fede. I presbiteri ed i
diaconi presiedono l’assemblea e sono in stretta relazione con l’adunanza.
La terza parte tratta la struttura e la disciplina della Chiesa, Popolo di Dio riunito
dal Signore nel suo regno. Essa vive una fase terrena, dove il popolo di Dio raggiunge la santità, ed una fase escatologica, che coincide con la seconda venuta di Cristo,
ed infine una fase eterna nel Regno dei cieli. La Chiesa deve essere una, cioè molte
Chiese fuse in una; santa, in quanto gode della santità dei fedeli; cattolica, perché i
fedeli devono essere raccolti da ogni parte del mondo. I capi della comunità sono i
vescovi, i presbiteri e i diaconi, inoltre, occorre ricordare le personalità carismatiche,
suddivise in coloro che governano, come gli apostoli, i profeti, gli evangelisti e coloro che insegnano, come i dottori.
Il brano, qui di seguito riportato, riguarda la virtù della temperanza come moderatrice delle inclinazioni verso il piacere fisico. Il testo non riguarda solo la donna,
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Angela Marchese
come nel precedente brano, ma l’uomo, la vita coniugale e la famiglia; esso comunque ben si accorda con le norme indicate nell’Apologeticum, in cui la donna
riveste un’importanza fondamentale nell’edificazione di un rapporto e nella purezza
dell’istituzione familiare.
«La temperanza cristiana, virtù moderatrice dell’amore del corpo: l’amore del
corpo esige che si assicuri la santità fisica, sia per il valore intrinseco della vita terrena, sia ancora per la funzione strumentale del corpo e il naturale rapporto della
salute fisica con la santità dello spirito. La gerarchia dei valori umani postula, d’altra parte, che la salute fisica non subordini a sé tutte le altre sollecitudini, e giustifica
l’atteggiamento di chi sacrifica energie e floridezza fisica, per un bene superiore, in
misura ad esso proporzionata.
L’equilibrio armonioso tra le esigenze della santità fisica e la promozione dei
valori spirituali è assicurato dalla virtù della temperanza. Il suo oggetto materiale
è costituito da atti con i quali l’individuo si conserva e propaga la specie, in quanto
essi devono essere moderati, cioè desiderati o rifuggiti, secondo l’ordine della retta
ragione, illuminata dalla fede. Il motivo formale è la particolare onestà che si ha
nel moderare, secondo giusta misura, tutti gli atti che tendono alla conservazione
dell’individuo e della specie.
La Didachè non ci dice nulla della necessità della temperanza circa i piaceri
del gusto, ma dà dei precisi orientamenti circa la castità. Il suo oggetto specifico
è l’istinto genesiaco: la sua influenza va oltre l’istinto, si estende a quegli elementi
psicologici che determinano l’attrattiva spirituale ed integrano l’appetito sessuale.
Il primo grado della virtù della castità importa la resistenza alla tentazioni contrarie
alla purezza. La prontezza nel superare le tentazioni più tenaci porta l’anima al secondo grado della virtù. Infine l’irrobustimento della volontà conferisce allo spirito
tranquillità nel trattare i problemi di purezza ed equilibrio pieno nella valutazione
e nell’emotività: in questo caso si è nel terzo grado della castità, che esige sempre
l’opportuno riserbo.
Castità nell’ambito della vita coniugale: la Didachè ripete con energia il comando di Dio nella Scrittura (Es 20,15; Dt 5,19; Mt 19,18): “Non commettere adulterio” (2,2); nella via del male, agli omicidi, che precedono tutte le colpe, seguono
subito “gli adulteri” (5,1). È chiaro che all’adulterio, esperienza extra-coniugale
che poteva turbare assai la serenità della Koinonia, è attribuita una particolare e
specifica gravità tra i peccati di lussuria. La castità coniugale, in tal senso, importa
la fedeltà assoluta dei coniugi.
Castità fuori dell’ambito della vita coniugale:essa esclude ogni colpa diretta e
volontaria di impurità. Lo sforzo dell’attività venerea è orientato esclusivamente al
matrimonio; ogni esperienza extra-coniugale, proprio perché costituisce un’intrin-
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Mons. Francesco Chiusa: il patrologo
seca e sostanziale violazione e inversione dell’ordine voluto da Dio, assume una
gravità. C’è un’inversione che segue le vie dell’istinto: la “fornicazione”, ossia il
rapporto sessuale atto alla generazione, tra due persone non sposate. La Didachè
severa comanda: “Non commettere fornicazione” (2,2) e colloca tale colpa tra le
prime della via del male (5,1).
Castità della mente: essa esclude i peccati di pensiero. La conoscenza del male,
anche quando è pericolosa, non è in sé un male: le facoltà conoscitive assimilano a
sé l’oggetto, al contrario della volontà, che portandosi sull’oggetto, si assimila moralmente ad esso. La colpa si ha se al pensiero si accompagna il deliberato consenso
al male. Che poi il pensiero è strumentalizzato in rapporto al piacere venereo da
eccitare o alimentare, non viene a mancare solo la castità della mente. Il desiderio
impuro è l’atto della volontà con cui qualcuno intende compiere una cosa turpe: è
assoluto, se la volontà si proietta sull’oggetto quale è in sé; condizionato, quando
un tale si protende verso l’oggetto turpe apponendo una condizione (“se potessi”):
questa tuttavia, poiché si tratta di un oggetto proibito dalla legge di natura, non
vale a renderlo moralmente appetibile; tale desiderio quindi è in tutto equiparato a
quello assoluto. Nella Didachè non si ha alcun cenno ai peccati di pensiero. Sono,
invece, proibiti i desideri turpi, considerati veicolo alla fornicazione: “Figlio mio
non desiderare le donne, poiché la concupiscenza conduce alla fornicazione” (3,3);
e nella via della morte precedono immediatamente, al terzo posto, “le fornicazioni”,
di cui sono causa.
In questo lungo brano abbiamo voluto cercare un accordo, forse approssimativo,
con quello precedente, in direzione di un’inclinazione fortemente etica, che Mons.
Chiusa trovava negli scritti dei Padri e che voleva infondere presso quanti lo collaboravano nel suo apostolato. La “castità della mente” sembra proprio l’espressione emblematica del suo insegnamento: una dirittura morale che non scende al compromesso ma che sia abito del cristiano in tutte le sue manifestazioni. Frequentare una comunità per il nostro sacerdote significava vivere il cristianesimo ricavando alimento
da quelle antiche fonti, che non mancavano mai di essere menzionate o lette nelle
varie occasioni di incontro parrocchiale per essere poi vissute e diffuse nel pratico
quotidiano. L’edificazione di un istituto per laici rientra, pertanto, nella prospettiva
di una primaria e solida conoscenza teologica da concretizzare poi nella vita attiva;
scuola e vita sono considerate da Mons. Chiusa nella loro reciproca interazione.
3. Le Prime Costituzioni Ecclesiastiche
Alla Didachè, primo testo di catechesi morale, rituale, giuridica, si aggiunsero
presto scritti affini. Vi si nota la stessa pretesa di una origine o approvazione aposto-
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Angela Marchese
lica e il pregio di conservare molti usi e prescrizioni. Furono chiamati Costituzioni
nel significato di leggi ecclesiastiche o diritto canonico primitivo. Mons. Chiusa ne
propone un excursus ritenendo tali scritti fondanti la Chiesa primitiva. Ecco una
rapida rassegna.
Nel prologo delle Costituzioni di Ippolito si vuole fare conoscere con esattezza
la tradizione per mettere un freno alle innovazioni errate. Per quanto riguarda ad
esempio la consacrazione di un vescovo, essa avviene pubblicamente ed è il popolo
stesso che sceglie il candidato. I vescovi lo consacrano nel giorno della domenica.
Egli deve servire la Chiesa, rimettere i peccati e governarla. Le sue virtù devono
essere mansuetudine e purezza del cuore. Per quanto riguarda i laici essi sono i neoconvertiti e i catecumeni.
Il Battesimo ha un rapporto diretto con la professione di fede. Troviamo nelle
Costituzioni tre richieste di professione di fede, tre adesioni e tre immersioni nell’acqua. La Cresima è molto affine al rito attuale, in cui troviamo l’imposizione delle
mani da parte del vescovo e il segno della Croce sulla fronte. La Comunione avviene
nella messa pasquale e segue il Battesimo e la Cresima. Molto interessanti si rivelano, come nei casi precedenti, le norme per la vita cristiana, come il rito eucaristico,
l’importanza della preghiera e lo spirito di penitenza risalenti alla vita degli apostoli.
Altra opera, ricordata da Mons. Chiusa, è il Testamentum Domini Nostri Iesu
Christi , il cui testo greco è andato perso ma di cui possediamo le versioni copta,
etiopica, araba e siriaca. L’autore è ignoto e l’opera viene composta nella seconda
metà del V secolo. Nel primo libro, troviamo gli ammaestramenti del Signore ai discepoli, secondo le norme della vita cristiana.
Inoltre, particolare importanza merita La Didascalia, scritta da un ignoto autore
che presenta la sua opera come lavoro collegiale degli apostoli. Lo scrittore è un giudeo che si mostra contrario al giudaismo solo per nascondersi dai suoi persecutori.
È scritto in Siria e risale ai primi decenni del terzo secolo anche se l’autore vuole far
pensare che sia stato scritto a Gerusalemme. Il tema trattato è il valore della legge
giudaica e le norme costitutive e disciplinari.
Ancora un testo ricco di contenuti è l’Ordinamento Ecclesiastico degli Apostoli,
il cui autore è anch’esso anonimo perché vuole dare ad intendere che il Signore
stesso abbia chiesto ai dodici apostoli di formulare i precetti. Con molta probabilità
viene scritto in Egitto, piuttosto che in Siria, nel IV secolo più che nella prima metà
del terzo. Questo testo sembra destinato a sostituire La Didachè in un ambiente più
evoluto, come quello del quarto secolo, per questo la prima parte è un suo rifacimento, mentre la seconda contiene le norme sulla disciplina ecclesiastica.
Per quanto riguarda le Costituzioni Apostoliche c’è da dire che esso rappresenta
un documento che raccoglie le norme giuridico-liturgiche. L’autore anche in questo
caso è anonimo ed il suo pensiero teologico non è definibile. Il testo molto probabil-
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Mons. Francesco Chiusa: il patrologo
mente, viene redatto in Siria e precisamente ad Antiochia verso la fine del IV secolo
e gli inizi del V. Viene pubblicato per la prima volta nel 1563 a Venezia.
Per rimanere fedeli all’impostazione che abbiamo voluto privilegiare, sceglieremo adesso da quest’ultimo prezioso documento un brano sul ruolo sociale ed ecclesiale delle donne diaconesse, della loro funzione nel quotidiano e del loro apporto
all’organizzazione della vita religiosa.
«Alle diaconesse sono attribuiti compiti liturgici e caritativi, quali l’assistenza
al battesimo delle donne, la loro istruzione religiosa, le visite agli infermi. Che esse
siano semplicemente le mogli dei diaconi è da escludere perché la donna al tempo
degli Apostoli poteva ricevere dallo Spirito Santo il carisma della diakonia e successivamente lo stesso ufficio le è stato riconosciuto dalla Chiesa.
Rapporti tra Diaconesse e Vedove: nella Didascalia si parla non solo delle vedove bisognose da assistere, ma di altre cui sono affidati particolari incarichi ecclesiastici e che sono quindi associate alle Diaconesse negli impegni. Ci si domanda se si
tratti di due istituti distinti. È certo che nel III secolo Diaconesse e Vedove costituivano due diversi istituti, infatti le Costitutiones Apostolorum ripetutamente si riferiscono alle Diaconesse come collaboratrici insostituibili dei Diaconi, mentre le Vedove continuano a svolgere i loro incarichi particolari. In origine, invece, pare che
facessero parte di un’unica istituzione ascetico-caritativa della Chiesa che tendeva
a sdoppiarsi per la preminenza dell’ufficio delle diaconesse, le quali trasmettevano
gli ordini del Vescovo ai membri femminili della comunità e cominciavano a prestare
servizio liturgico secondario. L’apostolo Paolo ci parla delle vedove e le distingue
in tre categorie: quelle prive di soccorso umano ma pie, cui è dovuto il rispetto e
l’assistenza della carità comune della Chiesa; le vedove che hanno figli o nipoti su
cui incombe il dovere di un pio sostentamento; le vedove ammesse ad esercitare funzioni caritative a nome della Chiesa. Costoro dovevano avere non meno di sessanta
anni e lo stato di una sola vedovanza. Lavorando per la Chiesa potevano usufruire
del diritto acquisito di vivere in Chiesa. È probabile che le Diaconesse fossero scelte
tra queste vedove. S. Ignazio ci fa sapere che nel ruolo delle vedove erano ammesse
anche delle vergini. Non è improbabile che tra esse fossero scelte le Diaconesse.
La benedizione delle Diaconesse: le diaconesse ricevevano l’imposizione delle
mani dal Vescovo che invocava lo Spirito Santo, la stola e il calice, con il quale abitualmente potevano comunicarsi all’altare, riponendolo sul medesimo. Mettendo in
rilievo l’importanza dell’ufficio si assicurava alle diaconesse un aumento di grazia.»
Il brano si segnala per la sua attualità che vede nel diaconato una forza operosa
della Chiesa di Dio e per il ruolo attribuito alla donna, non certo secondario ma ribadito da Mons. Chiusa come fondamento per l’organizzazione della vita cristiana.
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Angela Marchese
4. Il Commonitorium di S. Vincenzo Di Lerino
La rivisitazione di questa opera è aperta da Mons. Chiusa con la biografia dell’autore e continua con la composizione del Commonitorium il quale, strutturato in due
parti, viene a perderne la seconda rimanendone solo la ricapitolazione finale.
Troviamo varie ipotesi sulla “scomparsa” del secondo Commonitorium; per gli
studiosi moderni non si tratta di una “scomparsa”, ma di una “volontaria rilegatura
nell’oblio” fatta dai contemporanei di Vincenzo, a favore del primo e della ricapitolazione finale.
Per quanto riguarda il contenuto dell’attuale Commonitorium, ovvero il primo
e la ricapitolazione del secondo, esso descrive ciò che abbiamo ricevuto dai nostri
padri spirituali e la ricerca di una regola certa per distinguere la verità dall’eresia
che si diffonde nella Chiesa..Proprio per questo Dio ci mette alla prova esigendo
fedeltà.Per questo il fedele non pregiudica mai il progresso del dogma ed il ricorso
alla tradizione è l’unico mezzo infallibile per vincere l’eresia.Per tali motivi bisogna
trasmettere ai posteri solo ciò che si è ricevuto dai Padri.La loro autorevolezza è
garanzia perenne di verità.
Mons. Chiusa prosegue con l’analisi del Canone Lerinense affermando che il
sensus fidei è un ottimo strumento di conservazione, trasmissione e penetrazione
della verità della fede. Esso è guidato dallo Spirito Santo e controllato dal Magistero.Il Canone Lerinense comunque è lontano dal percepire il deposito della fede in
uno stato di immutabilità cadaverica. La sua dottrina è così completa che il Concilio
Vaticano I – afferma il nostro studioso - ha fatto sua la formula contenuta all’inizio
del capitolo 23.
Costante preoccupazione del Canone è che il progresso non tradisca la fede. Questo progresso deve essere analogo alla crescita del bambino ed a quella delle piante
dove «anche se le membra del lattante sono piccole mentre quelle del giovane sono
più grandi, esse sono le stesse».
Anche i bambini, come le donne nei precedenti brani, assolvono un compito fondamentale. Essi sono gracili come i dogmi prima di attecchire nel cuore dei fedeli,
ma una volta divenuti adulti non perdono, anzi confermano quei caratteri specifici e
definiti per cui sono stati creati e allevati dalle amorevoli cure delle madri.
«Che la religione delle anime imiti lo sviluppo dei corpi. Questi spiegano ed
estendono le proporzioni con gli anni e tuttavia restano costantemente gli stessi.
Per quanta differenza ci sia tra l’infanzia nel suo fiore e la vecchiaia nella sua fine
di stagione, tuttavia è uno stesso uomo che è stato adolescente e diviene vecchio; è
un solo e medesimo uomo il cui taglio interiore ed esteriore si modificano, mentre
sussiste in lui una sola e medesima natura, una sola e stessa persona. Piccole sono le
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Mons. Francesco Chiusa: il patrologo
membra dei bambini lattanti e più grandi quelle dei giovani, e tuttavia sono le stesse.
Queste leggi del progresso devono applicarsi ugualmente al dogma cristiano: che
gli anni lo consolidino, che il tempo lo sviluppi, che l’età lo renda più maestoso;
ma che rimanga tuttavia incorrotto ed incontaminato, che sia completo e perfetto
in tutte le dimensioni delle sue parti, in tutte le sue membra e sensi; giacché esso
non ammette affatto alcuna alterazione, alcuna perdita dei suoi caratteri specifici,
alcuna variazione in ciò che ha di definitivo».
5. Le Confessioni di S. Agostino
Mons. Chiusa inizia la trattazione di quest’opera partendo dalla struttura del testo. Infatti egli lo divide in due parti: nella prima (libri I-IX) Agostino parla di sé,
dall’inizio della sua vita sino alla conversione; nella seconda (libri X-XIII) Agostino
mostra al lettore la sua situazione spirituale nel momento in cui scrive.
I libri I-IX, pertanto, formano l’elemento storico del libro, costituito dalla sua vita
e che si colloca dal 354, anno della sua nascita, al 387, anno della morte della madre
avvenuta subito dopo la conversione.
I libri X-XIII, invece, formano l’elemento dottrinale-psicologico costituito dalle
riflessioni che scaturiscono dal suo animo senza un termine di inizio, né uno di fine,
ma collocabile intorno al 397/398.
Mons. Chiusa ricostruisce minuziosamente i vari spostamenti affrontati da S.
Agostino durante la sua vita. Ci dice che inizialmente egli si trova a Tagaste, luogo dove nasce, e che poi si trasferisce a Madaura, dove studia grammatica. Il suo
viaggio prosegue verso Cartagine dove Agostino continua i suoi studi secondo le
ambizioni del padre. Fa ritorno a Tagaste dove inizia ad insegnare ma subito dopo
va via per tornare a Cartagine dove insegna e discute con i Manichei. Qui si fermerà
per nove anni. Continuano i suoi trasferimenti con meta Roma e poi Milano, dove
incontra Ambrogio che lo convertirà. Si trasferisce, successivamente, a Cassiago e
dopo fa ritorno a Milano dove riceve il Battesimo. Dopo si reca a Ostia Tiburtina per
imbarcarsi per l’Africa ma muore la madre. A questo punto Agostino si reca a Roma
e da lì a Tagaste per concludere il suo lungo cammino ad Ippona dove scriverà Le
Confessioni.
A tale elemento storico segue nella trattazione l’elemento dottrinale-psicologico, rappresentato dalle escursioni dell’autore nel proprio animo, ne momento in cui
scrive le varie vicende della sua vita; infine, buona parte viene dedicata all’aspetto
psicologico-morale, relativo alla crisi interiore di Agostino, alla consapevolezza del
peccato e alla ricerca di Dio.
Nelle Confessioni la donna non è soltanto oggetto di desiderio e di peccato, come
potrebbe apparire nella fase giovanile della vita di Agostino. Essa è soprattutto Mo-
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Angela Marchese
nica, madre, educatrice instancabile e punto di svolta per la conversione; la sua figura sembra così compendiare le caratteristiche virtuose che Mons. Chiusa ha attribuito
alla donna in varie pagine delle sue ricerche.
«Le preghiere di Monica sono esaudite solo per quello che rientra nel disegno
della conversione: La madre chiede al Signore che Agostino non parta da Cartagine. In questa preghiera c’è un oggetto vitale: che il figlio inquieto non si perda; ed
un punto accessorio: che egli non si stacchi da lei. Nel punto vitale, sollecitato dalla
fede, è esaudita: Agostino viaggia per la salvezza; nel punto secondario, il desiderio
possessivo del figlio, “comune a tutte le madri”, ed in lei assai più grande, che nasce “da una bramosia troppo carnale”, non è accontentata, perché la sofferenza del
distacco le serva di purificazione.
La madre: ha raggiunto il figlio a Milano dalla lontana Africa, “forte della sua
pietà”: durante il viaggio, con il mare in tempesta, ha prodigato coraggio agli stessi
marinai, che son soliti confortare gli altri. Ad Agostino che le comunica di non essere né manicheo né cristiano cattolico non mostra di esserne sorpresa come di una
notizia inattesa. È certa che Cristo pronunzierà su di lui una parola di resurrezione.
Profonde “più intense preghiere e lacrime”. Al convito di carità, che a Cartagine soleva apprestare ai fedeli nel tempio, sostituisce le elemosine e la pienezza “di affetti
più puri” nella partecipazione al Sacrificio eucaristico: ubbidisce così al Vescovo,
che ha voluto eliminare ogni confusione “con le pratiche superstiziose dei pagani” e
a cui sa di dovere amore e gratitudine per la nuova situazione spirituale del figlio.»
Molte ancora sono le opere patristiche a cui Mons. Chiusa dedicò le sue energie
di instancabile studioso e tanti altri sono i contenuti dogmatici a cui avremmo potuto
riferirci per consolidare con maggiore precisione la figura del teologo. La nostra
scelta ha voluto invece restringere il campo rimarcando alcune sue intuizioni, che
hanno avuto riscontro negli anni successivi nel mondo ecclesiastico. Parlare di Dio
non significa, infatti, solo penetrare nei meandri mistici della fede ma affrontare cristianamente, cioè operativamente, avvenimenti, personaggi e situazioni che la vita
ci propone. Questo assunto Mons. Chiusa aveva capito con profondità, cercando di
non separare mai la conoscenza di Dio dalla pratica dei suoi insegnamenti. Egli si
è così servito della scuola per diffondere la dottrina operativa del cristianesimo. La
Chiesa per superare le difficoltà umane richiede l’aiuto dei laici, diffusori e operatori
della Parola di Dio, e tra di essi non è trascurabile il servizio delle donne che, ispirate
dall’obbedienza di Maria, interpretano il ruolo di guida spirituale di ogni convivenza
civile orientata al raggiungimento della luce di Dio. Dalla patristica questo insegnamento giunge fino a noi e Mons. Chiusa ne è stato mediatore eccellente.
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Laós 16 (2009) 3, 23-27
ISSR «S. Luca» - Catania
Adulti nella fede
la formazione teologica dei laici secondo Mons. Chiusa
di
Antonino Crimaldi
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
Ho accettato volentieri la proposta di formulare qualche riflessione in ricordo
della figura e dell’opera di Mons. Chiusa, per sciogliere un duplice debito di riconoscenza nei suoi confronti: mi invitò, in anni lontani, a tenere l’insegnamento di
discipline filosofiche e di psicologia nell’Istituto S. Luca da lui fondato, e mi invitò,
altresì, a tenere incontri di formazione culturale per gli studenti universitari e per i
professionisti facenti parte dell’associazione da lui diretta, incontri ai quali egli era
solito partecipare con assiduità e in assoluta discrezione, mai rinunciando a una bonaria vigilanza, quando certe “arditezze” di linguaggio avrebbero potuto ingenerare
equivoci negli uditori. So, per averlo costatato direttamente, quanti ostacoli, provenienti anche, se non soprattutto, dagli ambienti ecclesiastici (e la cosa purtroppo,
non si verifica di rado), dovette superare per “difendere” il suo Istituto e per farlo
camminare con le proprie gambe. Ne fui testimone diretto allorché mi sollecitò a
partecipare, in rappresentanza dei laici, a una riunione in arcivescovado davanti a
Mons. Picchinenna nell’intento di ottenerne interventi risolutori a tutela del S. Luca.
Altri, più titolati e informati di me, potranno con maggiore precisione ed efficacia
delineare i lineamenti fondamentali della sua ricca personalità di studioso e di sacerdote. Io mi limiterò soltanto a indicare i tratti che, secondo la mia opinione, costituiscono gli aspetti ancora oggi più fecondi e più fruibili della sua notevole eredità
spirituale e culturale.
Mons. Chiusa, come sappiamo, fu un assiduo cultore degli studi patristici e si deve
a questa sua passione per la pagina dei Padri il fatto che, nel suo istituto fosse stato da
lui garantito uno spazio di insegnamento alla patristica di gran lunga più ampio rispetto ad altre discipline storiche e teologiche. Tale spazio, messo ora a repentaglio dalle
innovazioni didattiche promosse a getto continuo per venire incontro a nuove esigenze
di rimodulazione dei corsi teologici, sembra tutt’ora sufficientemente salvaguardato,
23
Antonino Crimaldi
ma non si sa fino a quando potrà esserlo. Prendo lo spunto dal preponderante interesse del personaggio per un settore di discipline che normalmente attengono a una più
elevata specializzazione teologica rispetto a quella prevista dagli istituti superiori di
scienze religiose, perché non mi sembra un dato secondario per chi voglia capire quale
tipo di progetto formativo-teologico-culturale ebbe in mente Mons. Chiusa e come
intese strutturarlo e portarlo avanti. Credo, infatti, che egli fosse stato appassionato
cultore e fautore delle ricerche in ambito patristico non solo a causa della sua personale propensione per questo tipo di indagini, ma anche per un motivo di importanza
e di portata più oggettiva e generale. I Padri, per lui, oltre a rappresentare un modello
irraggiungibile di approfondimento teologico, esegetico, morale, spirituale del cosiddetto depositum fidei, costituivano un modello, questo sì imitabile e riproducibile, di
riflessione teologica “in situazione”, di interpretazione dei contenuti della fede a partire dalle esigenze vitali implicite ed esplicite delle varie comunità cristiane. La teologia
dei Padri è polifonica e policentrica: Antiochia non è Alessandria, Alessandria non è
l’Africa romana e via dicendo, e tuttavia sotto le diversità nei diversi profili delle figure
e delle scuole teologiche, grazie alle diversità e ai diversi profili di figure e di scuole
emerge il grande mosaico, articolato, compiuto, unitario della doctrina fidei. Lo “stile”
dei Padri, a ciò penso quando cerco di raffigurami mentalmente la motivazione più
profonda dell’inclinazione di Mons. Chiusa per una stagione giustamente “mitica” del
pensiero cristiano delle origini, la quale, prima e dopo che i grandi concili ecumenici,
privilegiando il dibattito sulle questioni dogmatiche si configurassero come discussioni, dispute interne tra gli addetti ai lavori, tenne saldo il rapporto fede-vita vissuta si
attenne saldamente al principio basilare di ogni approfondimento teologico: tradurre
il linguaggio della fede nei linguaggi delle singole ben definite comunità cristiane,
come del resto si constata nei gradi documenti delle tradizione neotestamentaria.
Non ricordo “fibrillazioni” particolari nell’atteggiamento di Mons. Chiusa verso le innovazioni apportate dal Concilio Vaticano II, pur essendo stato, il periodo
immediatamente post-conciliare, contraddistinto da resistenze tenaci ed entusiasmi
incomprimibili. Certo è che, senza l’apertura al mondo contemporaneo proclamata
dall’assise conciliare sarebbe stato pressoché inconcepibile, da parte sua, il proposito di varare un’iniziativa, di creare una istituzione esplicitamente votata e dedicata
alla formazione teologica dei laici per renderli parte viva e attiva della comunità
ecclesiale. Certo è che, senza l’impulso conciliare, espressione di una chiesa, mater et magistra sì, ma per la prima volta disposta ad apprendere e imparare le vie
dell’umano guardando anche fuori dal suo recinto, a riconoscere e accogliere i valori
autentici dell’umano, fioriti e coltivati anche fuori dalle strade da lei percorse, i valori scaturiti dalla travagliata vicenda storica del mondo contemporaneo, non sarebbe
stato neppure oggetto della più brillante immaginazione l’idea di riscattare il laicato
da una condizione di “colpevole minorità”, aprendogli la prospettiva di una crescita
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Adulti nella fede: la formazione teologica dei laici secondo Mons. Chiusa
intellettuale e umana in campo teologico, in modo da metterlo in grado di esercitare
a pieno il suo ruolo insostituibile nella realtà ecclesiale e il suo impegno di testimonianza nella dimensione profana.
Riferendosi alla Christi fideles laici di Giovanni Paolo II, un teologo cui va la mia
massima stima (G. Ruggieri), ebbe a dire che in questa epressione c’è una parola di
troppo, la parola “laici”, quasi a voler sottolianare come, nella chiesa, l’unica qualifica
che conta sia quella di essere Christifideles: condivido pienamente. E prendo proprio
l’avvio da tale osservazione al precipuo scopo di porre in evidenza come il progetto
formativo di Mons. Chiusa esibisca la sua articolazione interna e la sua intrinseca
finalità: raggiungere la piena consapevolezza di ciò che significa e comporta la scelta
esistenziale di essere Christifideles. Su suggerimento di Leone Calambrogio, ne voglio
fare accenno traendo la specificità del percorso formativo ideato da Mons. Chiusa dalle indicazioni di validità perenne che si possono riscontrare nella Lettera agli Ebrei,
lo scritto neotestamentario anonimo, attribuito a un autore della cerchia di Paolo. È
chiaramente un discorso indirizzato a dei cristiani «che vivono in una situazione di
crisi per difficoltà esterne e interne alla comunità» (R. Fabris). Anzitutto, crisi di fede:
essi non vedono segni di compimento della salvezza promessa da Dio nell’Antico Testamento e realizzata in Cristo, sono vittime di pesanti discriminazioni, ostilità e violenze da parte dell’ambiente esterno, sono tentati da pensieri di defezione, sospettano
che le sofferenze patite siano il prezzo inutile ed esoso pagato alla suggestione di una
credenza illusoria. Proprio a questi cristiani, coinvolti in questa situazione, si rivolge
la lettera dell’anonimo autore per esortarli alla perseveranza, ed è avendo di mira le
difficoltà del presente, del loro presente, rispondendo ai loro dubbi e alle loro perplessità, facendosi carico del loro scoramento, che egli sviluppa la sua alta, avvincente
meditazione sul tema della salvezza apportata dal Cristo.
Trovo, dunque, in tale impostazione il nesso indissolubile che collega, deve collegare, ogni autentico approfondimento dei contenuti del cristianesimo con la reale situazione di vita delle singole comunità cristiane. Ciò implica, deve implicare, come
conditio sine qua non della riflessione teologica, una riattivazione continua, pur con
modalità proprie, del circuito vita-pensiero-vita: non c’è ricerca feconda se non in
funzione di esigenze vitali, non c’è serio impegno di scandaglio teologico se non in
vista di un potenziamento dell’esperienza vissuta della fede.
Ora, a me sembra che il coinvolgimento dei laici in un itinerario di studi teologici
promosso da Mons. Chiusa, itinerario fino a tempi recenti riservato prevalentemente
se non esclusivamente ai chierici, sia stato subordinato proprio a tale scopo: non
tanto o non solo formarli dal punto di vista teologico, attrezzarli con competenze
teologiche, bensì immettere nelle vene asfittiche del “fare teologia” in senso tradizionale, la linfa dell’esperienza vissuta del comune credente, sicché la formazione
teologica del laico non fosse una magnanima concessione a lui fatta dalla Chiesa,
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Antonino Crimaldi
ma un contributo prezioso che il laico offre con l’apporto della sua esperienza di vita
alla Chiesa stessa, affinché essa non perda mai, nel suo complesso il contatto con i
problemi reali, con gli sbandamenti, con le incertezze dell’uomo comune, ove sussistano, ma anche con l’enorme richezza e potenziale di testimonianza dal comune
fedele espressa nella vita vissuta, ove sussistano. In tal senso, “declericalizzare” la
teologia, diventa sinonimo di “desclerotizzare” la teologia.
Continuando a percorrere con lo sguardo le righe della Lettera agli Ebrei, non
posso trascurare il passo in cui l’autore esorta i destinatari a conseguire una fede
adulta a diventare adulti nella fede: “Su questo argomento abbiamo molte cose da
dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti a capire. Infatti voi, che a motivo
del tempo trascorso dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che qualcuno vi
insegni i primi elementi delle parole di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non
di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte non ha l’esperienza della dottrina della
giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido è invece per gli adulti,
per quelli che, mediante l’esperienza, hanno le facoltà esercitate a distinguere il bene
dal male”. (Ebr. 5, 11-14)
Lo sappiamo: è “adulto nella fede”, ha una fede adulta, chi si lascia condurre
dallo Spirito e compie le opere dello Spirito. La fede adulta è dono della grazia
e della cooperazione umana attivata e sorretta dalla grazia. Essa non necessita di
alcuna mediazione teologica. È piuttosto la teologia ad avere bisogno di porsi come
obiettivo ultimo una comprensione della fede finalizzata al raggiungimento di una
esperienza di fede matura e adulta, se non vuole scadere al rango di una vuota e
sterile erudizione, di puro artificio retorico o di produzione mitologica. La teologia,
intendo, cristianamente concepita. Ché si può essere teologi, e teologi “ferrati”, pur
essendo atei. E non a caso, Barth osservava che Feuerbach, l’ateo Feuerbach, conosceva la teologia e la dogmatica cristiana più e meglio di tanti teologi di professione.
Il nesso che lo studio della teologia e la formazione teologica deve mantenere con
la finalità del conseguimento di una fede adulta, oltre che per i chierici anche per i
laici, fu costantemente tenuto in considerazione da Mons. Chiusa nell’impostazione
dell’esercizio dell’insegnamento e della sua fruizione all’Istituto S. Luca. Andando
indietro con la memoria agli anni di esordio e di avviamento della sua scuola, posso, certo, ricordare il clima di “piccola bottega artigianale” che vi si respirava, ma
soprattutto, e questo è ciò che conta, la sensazione di trovarsi e di operare in una
vivacissima cellula di animazione cristiana, dove i rapporti interpersonali valevano
più di quelli istituzionali e quelli istituzionali più di qualunque gestione burocratica,
sebbene indispensabile. Potrei ancora a lungo esercitarmi a ricavare analogie tra
le indicazioni derivabili dall’impianto omiletico della Lettera agli Ebrei e le linee
direttrici del progetto formativo varato e realizzato dal fondatore del S. Luca. Per
esempio, ancora una volta, la connessione tra discorso teologico, approfondimento
26
Adulti nella fede: la formazione teologica dei laici secondo Mons. Chiusa
teologico e situazione storica concreta della comunità cristiana. Poiché la crisi della
comunità è crisi di fede, l’autore della lettera spende la sua parola di esortazione
riproponendo la tradizione veterotestamentaria attraverso le figure e gli eventi che
illustrano in modo esemplare il significato della dimensione esistenziale dell’aver
fede, del tener fede, del restare fedele: «Per la fede, Abele… Enoc… Noè… Abramo… Sara…», «Per fede», di nuovo, «Abramo…» e Isacco, Giacobbe, Giuseppe,
Mosè, Raab la prostituta ecc. (cfr. tutto il capitolo 11 sulla fede dei padri). Poiché la
crisi della comunità è crisi di speranza, l’autore insiste sull’evento unico e irripetibile
di Cristo, in cui si compiono tutte le promesse di salvezza fatte da Dio al suo popolo
nel Vecchio Testamento: il Cristo, Parola ultima e definitiva del Padre, unico sacerdote, l’unico a compiere i sacrificio perfetto in quanto con la sua vita e con la sua
morte sacrum facit nella sua umanità e con la sua umanità il dono totale dell’umano
a Dio, essendo egli stesso dono totale di Dio all’uomo. Da qui, inoltre, l’insistenza
sulla fedeltà di Dio alla sua promessa di salvezza che in Cristo non è più promessa
bensì attuazione piena e totale e infine, da qui tutte le connotazioni dell’aver fede
in rapporto alla salvezza portata a compimento dal Cristo: l’essere coerenti con ciò
che si crede nella propria vita, l’essere costanti nel credere, “professare la speranza”
che scaturisce “dalla pienezza della fede”, fino alla formulazione di una definizione
della fede giustamente celebre: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di
ciò che non si vede» (Ebr. 11, 1). Ecco, se mi è consentita qualche osservazione personale, la teologia, cristianamente intesa, è l’eterna reiterata riproposizione-racconto
di un unico evento, l’evento cristico, è l’eterno reiterato tentativo di ri-comprendere
la portata inesauribile di questo evento nelle sue molteplici implicazioni esistenziali, per viverle in pienezza, per sperarle e testimoniarle, l’eterno tentativo non di
riformare il cristianesimo, né di concettualizzarle o renderlo attuale, appetibile interessante a noi contemporanei, bensì di ri-trovarlo, per dirla con Kierkegaard e ritrovarlo anzitutto per la Chiesa, nella Chiesa e dalla Chiesa, abbandonando la velleità,
ogni pretesa, di insegnarlo prima di viverlo o senza viverlo (e ciò vale soprattutto
per chi si reputa custode rigoroso e intransigente della tradizione, perché il traditum,
la Parola, trascende ogni traditio e ogni tradere, la Parola è infinitamente oltre ogni
comprensione storica che di essa si raggiunge).
Mons. Chiusa ebbe profonda consapevolezza di che cosa comporti, a maggior ragione per i laici, studiare teologia in un tempo di penuria del senso (ma quale tempo non ha
sperimentato la penuria del senso), percepì intuitivamente le sfide del tempo alla fede,
avvertì la necessità di collegare indissolubilmente la fruizione dell’istruzione teologica
con l’esigenza di “confermare” la speranza cristiana in un mondo non soltanto fuori, ma
interno alla Chiesa, divenuto per molti aspetti indifferente, refrattario ad accoglierla, se
non ostile, e operò con le notevoli risorse della sua personalità in questa direzione. Perciò il tributo del ricordo nei suoi confronti si unisce alla gratitudine di chi lo conobbe.
27
Laós 16 (2009) 3, 29-32
ISSR «S. Luca» - Catania
Le relazioni in Ebrei 13
di
Leone Calambrogio
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
Il c 13 della lettera agli Ebrei presenta un sistema di relazioni che costituisce la
strada maestra del comportamento dei cristiani come singoli e come comunità. Esso
va dalla considerazione degli itineranti ai carcerati; dal matrimonio alla generosità
o meglio alla condivisione dei propri beni con gli altri; dal sacrificio di Cristo, con
l’affermazione della sua perenne identità, al sacrificio di lode che tutti i cristiani
devono rendere a Dio.
Tralascio tutti i problemi strettamente esegetici per cercare di capire lo sviluppo
di quelle relazioni che forse oggi costituiscono il banco di prova per l’autenticità
della vita cristiana. Quattro mi sembrano i punti su cui si impernia tutto il capitolo1.
1. L’amore fraterno resti saldo
Lo scenario che prospetta il capitolo 13 della lettera agli Ebrei nella prima parte
non è certamente confortante. L’autore afferma un principio che pesa come un macigno, ma che tradisce anche una crisi di grande portata.
Se si osserva quanto suggerisce l’autore ci si rende conto delle sue proporzioni investendo tutti gli aspetti della vita. Innanzitutto egli esorta a non dimenticare l’ospitalità, che dà per scontata e che deve essere fatta non solo per il suo significato di
condivisione, ma anche perché, come è avvenuto per il passato, può portare qualcosa
di importante. Infatti nel passato alcuni senza saperlo hanno dato ospitalità a degli
angeli v 2. Se si pensa ai missionari che andavano a predicare la parola di Dio si può
1
Per l’approfondimento si veda Vanhoy A. Gesù cristo il mediatore nella lettera agli Ebrei,
Cittadelle Editrice 2007; Nardoni E. Lettera agli Ebrei, in NCB Borla Città Nuova 2006;
Marchiselli-Casale C. La lettera agli Ebrei, Paoline 2005; Attridge H. W. La lettera agli
Ebrei, Editrice Vaticana 1999; Bourke M.M. L’Epistola agli Ebrei, in NGCB Queriniana.
Brescia 1997.
29
Leone Calambrogio
capire ancora di più della necessità dell’essere ospitali. Bisogna infatti accogliere ed
aiutare gli itineranti della parola.2
Insieme all’ospitalità bisogna ricordare i carcerati e quelli che vengono maltrattati. Si pensi a tutti quelli che a causa della fede vengono imprigionati, perseguitati,
maltrattati. Può la comunità cristiana abbandonare tutti costoro nelle mani dei carcerieri e di coloro che vogliono male ai compagni di fede? Certamente no. Per non
dimenticarli si rifletta su noi stessi:“anche voi avete un corpo”v 3 afferma l’autore.
Anche voi cioè potete avere lo stesso trattamento. Quindi le sofferenze che si portano
nel proprio corpo, nella propria carne non si possono dimenticare. Tenerle presenti
significa avere comunione con chi soffre.3
Il matrimonio è da tenere in considerazione. Esso sia rispettato da tutti e il letto
nuziale sia senza macchia v 4. Se in una società, con duemila anni di cristianesimo
presente, vi è la dissoluzione più assoluta per quanto riguarda matrimonio e sessualità, si immagini un po’ quale dovesse essere la situazione al tempo dell’autore della
Lettera agli Ebrei. L’autore è categorico usa due verbi che fanno accapponare la
pelle “sia rispettato… sia senza macchia”. E’ come se dicesse che i cristiani hanno
un dovere in più rispetto a tutto il genere umano per la salvezza che essi portano
nel mondo e per il Cristo in cui credono. Aggiunge addirittura che “fornicatori” ed
“adulteri” saranno giudicati da Dio v 4. Quasi a dire che non c’è scampo per tutti
quelli che non rispettano il matrimonio.4
L’assenza di avarizia nella condotta è un segno distintivo dei cristiani. Essi sanno
che hanno Dio dalla loro parte e quindi non pensino di essere soli o abbandonati. Vivano la loro vita non pensando a se stessi, ma agli altri condividendo ciò che hanno. La
loro generosità infatti viene sostenuta dalla presenza di Dio. La duplice citazione “non
ti lascerò…non ti abbandonerò”v 5 con “il Signore è il mio aiuto non avrò paura…”v 6
è una garanzia di quello che Dio fa per noi e della liberalità conseguente del cristiano.5
L’autore introduce il discorso sui capi6 esortando a ricordarli perché essi hanno
2
3
4
5
6
Nardoni ritiene che l’ospitalità è necessaria a causa dell’ostilità della società per arrivare sani
e salvi a Roma p 640; Marchiselli-Casale afferma che l’ospitalità è un allargamento della
carità fraterna ed un ricevere le potenzialità di annunzio cristiano che l’ospita porta p 598
Marchiselli-Casale esclude che l’autore pensi al corpo come una prigione, è convinto
invece che il corpo sia lo strumento della partecipazione alla sofferenza altrui p 599.
Marchiselli-Casale approfondisce il problema del matrimonio tenendo presente la teologia antico-testamentaria e la realtà del tempo di composizione della lettera pp 601-603;
Attridge lega il problema del matrimonio al codice di santità del Levitico p 634.
Attridge pensa ai cristiani provenienti dai ceti sociali benestanti. Non si deve fare affidamento sul denaro ma su Dio p 636.
Marchiselli-Casale pensa al discorso dei capi pensando al senso di corresponsabilità
della comunità p 608. L’esempio della fedeltà dei capi ha origine in Gesù Cristo secondo
Nardoni p 640.
30
Le relazioni in Ebrei 13
annunciato a loro la parola di Dio svolgendo così un ruolo fondamentale v 7. Si
esamini attentamente l’esito finale della loro vita e se ne imiti la fede. Mentre non si
dice di quali capi si parla, se di quelli attuali o di quelli del passato, l’autore afferma
un principio fermo: “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre” v 8. Da questa
affermazione si giustifica l’attenzione ai capi e l’esortazione a non farsi sviare da
dottrine varie ed estranee v 9. Questa attenzione è proposta in maniera interessante
perché viene motivata con l’affermazione che il cuore viene sostenuto dalla “grazia
e non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne fanno uso” v 9.
Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi per sempre
La seconda parte si apre in maniera solenne con una riflessione che non ammette
discussione: l’assoluta identità di Gesù nel tempo: Gesù è sempre lo stesso v 8. Quale la necessità di una tale affermazione? Certamente perché di fronte alle tergiversazioni, ai dubbi, alle discussioni si pone una pietra miliare dalla quale non è possibile
discostarsi. Ma soprattutto di fronte alle tante possibili teorie che cominciano a serpeggiare, una tale affermazione è indispensabile perché tutti coloro che aderiscono a
Cristo vengano rassicurati e non solo per questo, ma anche perché questa identità dà
valore a tutta l’opera salvifica dello stesso Gesù Cristo. Il suo sacrificio è irripetibile
perché Lui è irripetibile ed è sempre lo stesso. E’ irripetibile il suo sacerdozio, è irripetibile l’altare, che abbiamo, perché è Lui stesso.
Nasce da qui l’esortazione a non lasciarsi sviare da dottrine varie ed estranee. Esse
sono senz’altro diverse, offrono letture di Gesù Cristo non uguali, ma la sua identità è
sempre uguale nel tempo. Le dottrine estranee dicono di un Cristo diverso da quello
conosciuto e tramandato. E se ciò non bastasse si ascolti il cuore perché il rapporto
Cristo-cuore è diretto e non v’è necessità di mediazione: “…è bene che il cuore venga
sostenuto dalla grazia e non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro
che ne fanno uso”v 9. Questa è la dottrina che è grazia e che nutre il cuore, invece
è inutile e dannoso il cibo che non porta alcun giovamento. Se si considera il principio dell’identità di Gesù con l’esortazione a non lasciarsi sviare da dottrine varie ed
estranee perché confermati dal ricordo dei capi che hanno annunciato la parola di Dio
e di cui bisogna considerare la fine della vita e imitare la fede, è logico dedurre che la
garanzia della fede in Gesù è data dalla loro coerenza di vita e dalla loro fede.
Noi abbiamo un altare
Consegue che abbiamo un altare diverso da quello dell’Antico Testamento.7 Le
7
L’altare a cui si riferisce l’autore è il sacrificio di Cristo sul calvario
31
Leone Calambrogio
offerte di questo non possono essere consumate da coloro che prestano servizio nel
tempio ma vengono bruciate fuori dall’accampamento. Gesù subì la sua passione
fuori della porta della città. Bisogna uscire quindi dall’accampamento portando il
disonore della sua morte v 13. Non abbiamo quaggiù una città stabile ma andiamo in
cerca di quella futura v 14. L’assenza di una città stabile e la ricerca di quella futura
dicono della necessità della mobilità del cristiano. La residenzialità non si addice al
credente che deve essere sempre in movimento, non può essere attaccato alle cose
e alle situazioni, ma deve cercare ciò che serve alla redenzione e alla salvezza degli
uomini esistenti sulla terra. Segue da ciò il sacrificio di lode che ogni cristiano celebra nella sua vita.
Offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode
La vita del credente è intrecciata con quella di Gesù Cristo. Infatti tramite Lui si
offre a Dio continuamente un sacrificio di lode.8 E’ un sacrificio “frutto di labbra che
confessano il suo nome” v 15. Confessare il nome di Dio tramite Gesù Cristo significa realizzare un sacrificio di lode. Sarebbe la realizzazione del primo comandamento: “Non avrai altro Dio al di fuori di me”. E’ l’appartenenza all’unico Dio, l’esclusione di qualsiasi idolatria e una vita in perenne comunione con Dio. Riprendere in
toto ed in tutti i suoi aspetti la vita di unione con Dio, la dipendenza della vita stessa
dalla sua, l’impegno a testimoniarlo in tutte le sue manifestazioni: da quella familiare a quella professionale, da quella del divertimento a quella relazionale, costituisce
la novità che il credente porta al mondo. La vita di ogni singolo fedele diventa una
vita sacerdotale, portatrice di salvezza.
Conclusione
L’amore fraterno, la solidarietà con i carcerati e con quelli maltrattati, il matrimonio nella sua integrità, la condotta generosa e solidale, l’attaccamento ai capi sono
sorretti dalla perenne identità di Gesù Cristo perché base di queste relazioni.
Il suo sacrificio ci proietta verso una città futura, non terrena, sradicandoci dalla
resindezialità per immetterci nel dinamismo salvifico, trasformandoci in cittadini
del mondo dove il sacrificio di Cristo si attualizza nel sacrificio di lode di ogni
credente.
8
Connesso secondo Nardoni p 641 alle opere buone che i cristiani debbono compiere. Marchiselli-Casale p 625 richiama Osea 14,3 per indicare che frutto della labbra è simbolo
dell’attività dell’uomo.
32
Laós 16 (2009) 3, 33-36
ISSR «S. Luca» - Catania
«Usciamo dunque anche noi dall’accampamento…» (Eb. 13,14)
di
Nino Nuzzo
Istituto Superiore di Scienze Religiose - Messina
Premessa storico-teologica
Stiamo vivendo l’anno sacerdotale in un clima di vera tensione e riflessione spirituale, di ricerca teologica, e di verifica pastorale. La figura del prete resta più che mai
affascinante, nonostante una ufficiale cultura laica ed oscurantista voglia confinare
il sacro, il segno e il simbolo del cristianesimo: Cristo Gesù Crocifisso e mediatore
della nuova alleanza. La Lettera agli Ebrei è conosciuta come il testo biblico-teologico più esclusivo del sacerdozio cristiano nel contesto dei libri neo-testamentari.
Ampiamente è stato scritto della Lettera, dell’autore e del contenuto; ovviamente, se
l’autore fosse Paolo, nel congedarsi dai destinatari (anche questo punto è in discussione fin dal tempo di Clemente d’Alessandria e di Origene) l’ambiente e il luogo
dovrebbe essere Roma: «vi salutano dall’Italia» ( Eb.13,24), ma al di là delle disquisizioni esegetiche e storiche, il testo presenta aspetti fondamentali per una vera e
propria teologia del sacerdozio ministeriale.
Il Sacerdozio regale mariano
« In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione …» ( Eb. 5, 2).
Le mie riflessioni vanno focalizzate sul piano di quello che oggi i teologi chiamano il sacerdozio regale-mariano. Fin dal 1981 Giovanni Paolo II aveva evidenziato
quest’aspetto ministeriale-ecclesiologico nonostante il Vaticano II avesse ripreso e
sottolineato nei vari documenti (Lumen Gentium, Sacrosanctum Concilium, Presbiterorum Ordinis, etc..) il ruolo diaconale del sacerdozio. E’ noto che dal Concilio di
Trento tutta la teologia della ministerialità era concentrata sull’aspetto sacrificale del
sacramento per cui il sacerdote «si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e
33
Nino Nuzzo
ad offrire molte volte gli stessi sacrifici» (Eb. 10,11). La storia della teologia pre-conciliare ci riporta ai grandi fermenti innovativi soprattutto con la Nouvelle Thèologie
del centro della Fourvière dei pp. Gesuiti, presso Lione. Primo fra tutti il P. Henrì De
Lubac insieme ad altri confratelli teologi e biblisti, dei quali molti, saranno presenti
come esperti e periti nella stessa assise conciliare. La riscoperta della teologia dei
Padri portò a rivedere non solo la teologia sacramentaria ma tutto il complesso del
pensiero storico teologico. Pionieri di questa ri-costruzione culturale è stato il padre,
poi eletto cardinale, Hans Hurs von Balthasar. Dal De Lubac fu definito l’uomo probabilmente più colto della sua epoca e ritiene che la diagnosi spirituale da lui fatta
sulla nostra civiltà sia la più penetrante e calzante che si possa fare fu proprio lui a
parlare di notte oscura collettiva1.
Tra i più illustri discepoli e amici del teologo c’era l’allora professore e cardinale
Joseph Ratzinger, che scriveva. «La Chiesa non è un apparato; non è semplicemente
una istituzione… Essa è Donna. E’ madre. E’ vivente. La comprensione mariana della Chiesa è il più forte decisivo contrasto ad un concetto di chiesa puramente organizzativo o burocratico. Noi non possiamo fare la Chiesa, noi dobbiamo essere Chiesa…
E’ soltanto nell’essere mariani che diventiamo Chiesa. Nelle origini la chiesa, nacque
con il fiat emerso dall’anima di Maria. Questo è il desiderio più profondo del Concilio: che la Chiesa si risvegli nelle nostre anime. Maria ci indica la via».2 Noi leggiamo
nella lettera agli Ebrei che «Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma
gliela conferì colui che gli disse mio figlio sei tu» (Eb. 5,4). Il sacerdozio di Cristo
non è un potere. Lo ha espresso più volte Benedetto XVI ai sacerdoti e ai vescovi in
questi anni del suo pontificato. L’argomento è talmente vasto che io mi limito solo ad
una elencazione della presenza regale mariana del sacerdozio cattolico.
Sacerdozio mariano nella Chiesa
«Questi però attendono a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà
celesti…» (Eb. 8,5).
Gli stessi ordini monastici che avevano dato un grande impulso alla riforma della
Chiesa con l’epicentro abbaziale Cluny avevano svolto e dato a tutta l’Europa cristiana una lezione sociale, religiosa, spirituale, ma col tempo i benefici dei singoli
e della borghesia hanno contribuito a far scemare lo spirito evangelico: «Eppure io
sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc. 22,27). Uno dei motivi scatenanti la
rivoluzione francese fu la scandalo di una Chiesa divisa e contraddittoria, nonostante la presenza numerosa di tanti testimoni e santi a tutti noti, dell’alto e basso
1
2
Hans. H. von Balthasar, Gloria V, Jaka Book, Mi, 1977.
J. Raztinger, Die Ekkelsiologie des Zweiten Vatikanums, in IKZt 15 (1986)41-52.
34
«Usciamo dunque anche noi dall’accampamento…»
clero! Lo stesso dicasi della guerra civile della Spagna, dove la chiesa rifulse per la
sua coraggiosa ed eroica testimonianza . Eppure quelle figure di alti prelati travolti
da contingenze politiche dei regnanti del tempo offuscarono quel sigillo glorioso
di Cristo sacerdote che «offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb. 9, 14) e così il
sacerdote ripetizione di Gesù non dimentica che «senza spargimento di sangue non
esiste perdono » (Eb. 9,22).
Quante volte abbiamo sentito Cristo sì, Chiesa no, come se la chiesa non fosse il
Corpo e Capo di Cristo, e questo detto anti-clericale di odore massonico (Carducci
insegna), omologava la chiesa con i preti, sinonimo di potere, di ricchezza e di prestigio. C’è un passato che ancora scotta e che offre un profilo di Chiesa istituzione.
Probabilmente il profilo petrino, del primato, ha falsato non solo il ruolo sacerdotale
del servizio ma scambiandolo per un potere che non è, anzi è il contrario.
Sacerdozio mariano nel Magistero
«Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa»
(Eb.10,26)
Fin dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI, abbiamo sentito dire che la gente crede
più ai testimoni e ai predicatori se questi sono testimoni. In Francia abbiamo avuto
tanti sacerdoti: pensiamo Lacordaire e il Curato d’Ars. Due figure diverse. Due magisteri diversi.
Di quest’ultimo le sue catechesi, le sue omelie… ma soprattutto la sua vita. La
Chiesa insegna quando dialoga, o come affermava uno scrittore nostrano, quando
scende dal pulpito . E qui il richiamo è doveroso da Francesco d’Assisi a Madre Teresa, alla folta schiera dei missionari, preti, suore, laici, che condividono la sofferenza
e la precarietà della vita. Il magistero di Charles de Foucauld fino al martirio senza
poter dire la sua e non vedere alcun frutto hanno vissuto predicando solo l’amore e
il servizio silenzioso e nascosto. Per concludere le omelie o le prediche domenicali o
feriali… sono parola di Dio o di sfoghi, di collere, di richiami o richieste. La gente
quando torna a casa, è contenta,serena, ha avvertito che c’è un mondo nuovo e ha
sentito la nostalgia del cielo?
Sacerdozio mariano nelle Comunità
«Voi che dovreste essere ormai maestri per ragioni di tempo… siete diventati
bisognosi di latte e non di cibo solido» (Eb. 5, 12).
La liturgia,i sacramenti, la chiesa, l’addobbo, l’altare, le processioni, i segni tutto è un
inno al sacerdozio regale di Cristo. Regalità è coinvolgimento non recitazione teatrale.
35
Nino Nuzzo
Non autocelebrazioni, recite, esibizionismi. Il sacerdozio mariano è nessuno «senza
padre, senza madre» perché l’amore libero e casto di Cristo rende gli altri padri, madri,
fratelli, sorelle (Eb. 7, 3). Non appartiene né ai vicini del prete, né ai gruppi, né ai consigli
parrocchiali, ma il sacerdozio è porta aperta a tutti. E per tutti c’è posto, gli ultimi saranno i primi… La cosa più importante è che chi arriva, è il benvenuto e si senta accolto
anche se è un samaritano. La gente sentirà che è un padre non uno scapolo, perché questa è la più grande testimonianza del celibato e della verginità cristiana. E chi collabora
e chi porta il peso non ha amici della combriccola (perdonate il lessico) ma silenziosi testimoni che amano insieme al sacerdote-Maria, generano come Lei, la Chiesa-famiglia,
e che lui, il sacerdote, sia trovato in ginocchio più che può davanti all’Eucarestia (pardòn
lo Sposo!) senza mistificazioni o atteggiamenti borghesi. Sì, perché, la gente, ma soprattutto i giovani, restano ammaliati del loro pastore se lo vedono sempre vicino a LUI e
dopo tutto, ricordiamolo a noi e agli altri siamo servi inutili.
4. Sacerdozio mariano nel sociale
«Perciò anche Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori
della città» (Eb. 1312).
Mi viene da pensare a Don Benzi, l’ultimo prete della strada, che ci ha lasciato
un sacerdozio mariano ancora vivo come l’Abbè Pierre e migliaia di altri. Siamo
quasi 36 mila preti in Italia, più 13 mila religiosi. La gente ci vuole presenti: nelle
strade, nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole, nell’esercito, nei campi nomadi, negli stadi, nelle varie strutture, media, giornali. Ci vogliono vedere con la tonaca,col
colletto, con i paramenti puliti e le suppellettili più preziose per la liturgia.
Tutto va bene: importante che il nostro popolo non si rifugga nel clericalismo
dei due addetti al tempio uno per apprendere, l’altro per offrire sacrifici, mentre il
malcapitato chiedeva aiuto e «passarono oltre» (Lc. 10,34). Il sacerdozio mariano è
silenzioso, sollecito, umile, eroico, inosservato, dai grandi, dai vicini e dai lontani,
neppure dalla Chiesa, perché spesso il Padre permette anche l’Abbandono per il
Figlio, e la spada per la Madre (Lc. 2,35). Uscire fuori dal tempio, è sempre un
rischio per i cristiani e per i preti. Nella Via Crucis del Prete, Mazzolari scriveva
che è più comodo vedere e ordinare dal tavolo dei nostri uffici o sagrestie i dolori e
i problemi della gente evitando di entrare in trincea …a parte qualche eccezione,
quanti cristiani-sacerdoti-mariani ieri ed oggi vivono la dimensione del rischio,della
calunnia e della persecuzione, ignorati anche dalla stessa chiesa o dai superiori.
«Non abbandonate la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di costanza» (Eb. 10,36), «perché ancora un poco, infatti, un
poco appena e colui che deve venire, verrà e non tarderà» (Is. 26,20).
36
Laós 16 (2009) 3, 37-39
ISSR «S. Luca» - Catania
Cristo sacerdote perfetto nella lettera agli Ebrei
di
Carlo Russo
Bancario
Chi si accosta in maniera più approfondita alla Lettera agli Ebrei (fino a poco
tempo fa si leggeva nel lezionario della Messa: Lettera di Paolo Apostolo agli Ebrei.
Oggi il nome di Paolo non compare più in quanto quasi certamente l’autore è un
cristiano legato alla tradizione teologica e catechistica facente capo a Paolo) si rende
subito conto della novità in essa contenuta: Cristo è veramente sacerdote, anzi l’unico sacerdote perfetto.
Nessun altro scritto del Nuovo Testamento attribuisce a Cristo il titolo di “hiereùs
e archiereùs”, cioè “sacerdote” e “sommo sacerdote” e di “mediatore della Nuova
Alleanza”. In questa Lettera l’azione salvifica di Cristo viene riletta nel contesto di
due importanti cerimonie del Vecchio Testamento: 1) l’inaugurazione della prima
alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai; 2) la cerimonia della purificazione dei
peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno
dell’Espiazione.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali. Nella prima Mosè
ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue
delle vittime sacrificali (cfr Eb 9, 18-22). Nella seconda cerimonia invece, il sommo
sacerdote, dopo avere sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui
solo nel santuario, il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così
l’espiazione dei peccati del popolo (cfr. Eb 9, 6-10).
Tali sacrifici però mancavano di efficacia perché consistevano in immolazioni di
bestie e la bestia immolata è completamente incapace di entrare in comunione con
Dio e di purificare la coscienza dei fedeli dai peccati.
Cristo, invece, quale nuovo sacerdote, avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nell’offerta di se stesso, inaugurando così una nuova alleanza, così come
promesso da Dio, ben superiore rispetto all’antica. Così la Lettera: “Cristo invece,
venuto come sommo sacerdote di beni futuri… non con sangue di capri e vitelli, ma
37
Carlo Russo
con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una
redenzione eterna… il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso
senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire
il Dio vivente. Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza…” (Eb 9,11-15).
Infatti, il sacerdozio antico cercava di accostarsi a Dio per mezzo di un sistema di
separazioni rituali (tra popolo e sacerdoti, tra sacerdoti e sommo sacerdote, tra sommo sacerdote e vittima sacrificale). Questo sistema avrebbe dovuto funzionare come
una specie di piramide tra la terra ed il cielo, ma non essendo la vittima sacrificale in
grado di entrare in comunione con Dio né di trasmettere questa comunione al sacerdote affinché ne approfittasse il popolo, non riusciva a funzionare.
Nel sacerdozio di Cristo, invece, la separazione tra il sacerdote e la vittima non
esiste più, poiché Cristo, offrendo se stesso, è stato nello stesso tempo vittima e
sacerdote e similmente la separazione tra il sacerdote e il popolo sparisce perché il
sacrificio di Cristo è stato nei nostri confronti un atto di inimmaginabile solidarietà. Inoltre, a differenza del sacerdozio antico, quello di Cristo è costituzionalmente
aperto alla partecipazione. Tutti i credenti, infatti, godono ormai dei privilegi del
sommo sacerdote antico in quanto tutti hanno “piena libertà di entrare nel santuario
per mezzo del sangue di Gesù” (Eb.10,19); tutti godono della libertà dei figli di
Dio e hanno diritto di avvicinarsi continuamente con tutta franchezza al loro Padre
siano essi preti o semplici laici. Tutti sono invitati a “offrire continuamente a Dio
per mezzo di Cristo un sacrificio di lode” (Eb. 13,15) e sono esortati a fare del bene
e praticare la solidarietà. Queste offerte però non possono somigliare agli antichi
riti esteriori ma bensì devono consistere nel trasformare l’esistenza per mezzo della
carità divina. La carità ha due dimensioni inseparabili: l’amore di Dio e l’amore del
prossimo e come queste due dimensioni appaiono nel sacrificio di Cristo, così devono essere presenti nelle offerte dei cristiani.
“Cristo sacerdote”, ci dimostra la Lettera agli Ebrei, è nello stesso tempo liturgia
e vita. Infatti, il sacerdozio e il sacrificio di Gesù celebrati nelle adunanze dei fedeli
sono più che riti: sono esperienze di vita di Gesù che attraverso il rito toccano esperienze di vita dei fedeli, salvandoli dal male e donando loro la grazia della fedeltà
nella fede. Gesù, pertanto, è la vera e definitiva liturgia.
Tale inconfutabile verità dovrebbe essere sempre presente in tutti quei cristiani
che oggi sono attratti da diverse esperienze di celebrazione, di partecipazione a processioni, pellegrinaggi ed altro, mentre quasi rifuggono la partecipazione alla liturgia
della Chiesa quale la Santa Messa, i sacramenti. Evidentemente costoro non hanno
capito che queste ultime non sono celebrazioni povere, incomprensibili o peggio
ancora frutto di stereotipi, ma, al contrario sono per tutti una straordinaria grazia che
Dio ha voluto donarci in quanto la liturgia è via per giungere all’incontro con Dio.
Il cristiano sa che quando va a messa partecipa al sacrificio di Gesù. Ma probabil-
38
Cristo sacerdote perfetto nella lettera agli ebrei
mente dimentica che Gesù è il sacerdote di ogni Messa per cui il prete e l’assemblea
dei fedeli sono, ciascuno a loro modo, segno dell’azione dell’unico Prete. Il sacrificio che viene celebrato deriva sempre dall’unico sacrificio della Croce con il quale
Gesù ci mostra di essere sacerdote-salvatore, Cristo-prete solidale sino in fondo con
noi: Egli soffre come ogni uomo esposto alla prova della vita (Eb. 5,7-8) e quindi
diventato “in tutto simile ai suoi fratelli è stato per loro un sommo sacerdote misericordioso, fedele ai suoi impegni verso Dio…E ora egli può venire in aiuto di quelli
che sono nella tentazione, perché anche lui ha provato la tentazione e ha sofferto
personalmente (Eb. 2,16-18).
La vita cristiana è dunque da intendersi come una liturgia dell’esistenza. E’ una
vita che si snoda seguendo Gesù e che si affida con fiducia e senza riserve a Lui che
apre per tutti gli uomini la via all’incontro con Dio.
A questo punto alla luce di quanto sopra scritto, pare opportuno ribadire ancora
una volta l’importanza, seppure nelle rispettive differenze, sia del sacerdozio ministeriale, che del sacerdozio comune.
Il sacerdozio ministeriale consiste nell’essere sacramento della mediazione di
Cristo; quello comune consiste nell’offerta della nostra esistenza quotidiana a Cristo. Si tratta di due aspetti complementari dello stesso sacerdozio: da un lato la mediazione, dall’altro l’offerta. Cristo è il solo mediatore, l’unico che ci può mettere in
relazione con Dio, ma per raggiungere Cristo abbiamo bisogno a nostra volta della
mediazione del sacerdote che, quindi, è elemento essenziale ed indispensabile a questo fine. Ma per potere noi laici, sacerdoti comuni, aspirare alla mediazione di Cristo
attraverso quella del sacerdote ministeriale, dobbiamo offrire la nostra quotidianità
che dovrà essere permeata di carità e amore verso il prossimo in un’azione instancabile di esempio per gli altri.
Cristo “sommo sacerdote”, pertanto, è per noi sorgente inesauribile che trasforma
tutta la nostra esistenza in mezzo di unione sempre più profonda con Dio e con i nostri fratelli e sorelle, nella fede, la speranza e l’amore (cfr Eb. 10,19-25).
Ovviamente solo se noi lo vogliamo!
39
Laós 16 (2009) 3, 41-44
ISSR «S. Luca» - Catania
Il sacerdozio di Cristo e il ruolo della fede nella lettera agli Ebrei
di
Giovanni Russo
Università di Catania
Tra gli aspetti più significativi che Paolo (o chiunque l’abbia scritta) evidenzia
nella Lettera agli Ebrei, due mi sembra rivestano particolare rilevanza: Cristo sacerdote eterno e il ruolo della fede, mediata dallo stesso Gesù, autore e perfezionatore
della fede (Eb.12,2).
Egli, senza rinunciare al suo ruolo divino, ha lasciato la gioia dei cieli per sottoporsi alla massima ignominia: la croce. Con questo gesto, Gesù ha compiuto il più
grande atto d’amore: dare la vita per gli uomini, non soltanto per i Giudei, ma per
tutti gli uomini, per sempre.
Mi sembra molto importante evidenziare quest’atto d’amore e la sua incommensurabile grandezza. Infatti, soltanto per l’amore immenso che Dio ha per l’umanità
tutta e per stabilire una nuova ed eterna alleanza, Egli ha inviato Gesù (il cui nome,
ricordiamolo, significa Dio salva), la seconda persona della Trinità, sulla terra, in un
luogo sperduto, ai margini dell’immenso impero romano, per sopportare il sacrificio
della croce.
L’importanza dell’amore divino nel martirio della croce è preponderante su ogni
altra considerazione, perfino su quella che riguarda il dolore fisico e le umiliazioni
subite. Nel volume Introduzione al Cristianesimo (1968), Joseph Ratzinger scriveva:
“Non è il dolore in quanto tale che conta nel sacrificio della croce, bensì la vastità
dell’amore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’altare della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi, infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero
stati i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale”. Ratzinger, grande teologo, evidenzia in modo molto chiaro che le grandi sofferenze patite da Gesù e perfino
la croce, simbolo del sacrificio supremo, sono soltanto un mezzo, uno strumento
dell’atto d’amore da lui compiuto per la nostra redenzione. Gesù ha superato con
l’amore il dolore fisico della crocifissione, e con un altro atto d’amore ha perdonato il
rifiuto che gli uomini hanno manifestato nei suoi confronti. È quindi l’amore di Dio
41
Giovanni Russo
per l’umanità che fa del Cristo – attraverso la croce – il sacerdote eterno (perché la
redenzione è per sempre), e il mediatore della nuova alleanza (Eb. 12,24).
La lettera agli Ebrei (probabilmente la trascrizione di una o più omelie precedenti
la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte del generale Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano) risponde, tra l’altro, a tre grandi domande: Perché la morte in
croce? Perché il sacrificio di Gesù è nuovo e definitivo? Perché un sacrificio compiuto una volta per tutte? Nell’espressione “Tu sei sacerdote eterno alla maniera di
Melchisedek”, la lettera agli Ebrei vede la designazione del Cristo come un sacerdote diverso dagli altri, in quanto sacerdote non per prescrizione carnale (Eb.7,16), ma
in virtù del giuramento del Padre. Viene così abolita la legge precedente (“La legge
non ha portato nulla alla perfezione” Eb.7,19), per mezzo del giuramento divino. I
sacerdoti – essendo mortali e soggetti alla debolezza propria dell’uomo – dovevano
essere numerosi ed offrire in continuazione sacrifici a Dio perché né essi stessi né
il popolo erano senza peccato; essi offrivano in sacrificio sangue di altre vittime.
Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario,
procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli
e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano,
purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno
offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere
morte, per servire il Dio vivente? (Eb.10, 11-14). Ecco la necessità di immolare una
vittima: come, secondo la legge di Mosè, nella prima alleanza si facevano sacrifici,
che però dovevano essere offerti in continuazione, in quanto il popolo non veniva
purificato completamente, così il sacrificio definitivo, garanzia della nuova alleanza,
doveva essere un olocausto cruento. E quale sacrificio è maggiore - estremo atto
d’amore – di quello di offrire se stesso per sugellare, annullando il peccato, la nuova
ed eterna alleanza? Se il peccato viene perdonato, non sono necessarie altre offerte.
Può ben dirsi, come evidenzia Lonardo, che la novità cristiana consiste nel fatto che
Cristo ha riempito d’amore il dolore fisico della crocifissione, e che sia il sacrificio
che il sacerdote provengono da Dio stesso, anzi sono un suo dono.
Un altro aspetto che viene fatto risaltare nella Lettera agli Ebrei – tanto da dedicarvi tutto il capitolo 11 e parte del 12 - è l’importanza e il ruolo della fede, mediata
dallo stesso Gesù. Fede significa aver fiducia, confidare, affidarsi, possedere una
convinzione salda, ma significa anche essere fedele.
La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb. 11,1). Così inizia il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, che poi continua
illustrando il ruolo pratico della fede: “Senza la fede è impossibile essergli graditi;
chi infatti si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro
42
Il sacerdozio di Cristo e il ruolo della fede nella lettera agli Ebrei
che lo cercano” (Eb.11,6). Trovo interessante che l’estensore della lettera abbia inserito un lungo elenco di protagonisti biblici per spiegare l’importanza e il ruolo della
fede. Cominciando da Abele ed Enoch, e proseguendo per Noè, Abramo, Isacco,
Giacobbe, Sara, e via via enumerando, fino a Mosè e ad altri importanti personaggi
israeliti, compresa Raab, la prostituta di Gerico, che si fece complice delle spie inviate da Giosuè.
L’autore riporta le gesta che hanno reso importante ciascun personaggio citato
per la storia d’Israele e ne attribuisce il valore e il significato storico e simbolico alla
fede, anche nei casi di sofferenza, di tribolazione o perfino di martirio. Essi sono
testimoni per noi che, prendendo esempio da loro, dobbiamo liberarci dal peso del
peccato che è attorno a noi e proseguire con fermezza nel nostro cammino di fede.
Ma la fede da sola non è sufficiente e non è garanzia di conseguire la promessa
(Eb. 11,39). È necessario che ciascuno di noi si impegni in prima persona – dopo
essersi liberato dal peccato – a comportarsi da cristiano, seguendo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù: cercare la pace, allontanando ogni tentazione, restare puri
nell’animo e nel corpo, accogliere con animo aperto la Parola, amare i nostri fratelli,
non dimenticare i bisognosi nell’anima e nel corpo, non lasciarsi sviare da altre dottrine, pregare intensamente (mi sovviene qui il detto di Seneca, il quale in un’epoca
politeistica, affermava: La preghiera comincia parlando con Dio, ma deve finire
ascoltandolo). Paolo raccomanda questi comportamenti anche in altre lettere, (Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi
infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito,
cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere
e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi. (Ef.16-18)). ricordando che tutte le buone azioni, anche le più
elevate, sono niente senza la carità, cioè l’amore. È questo il fondamento di tutte le
cose; infatti Dio per amore ha creato tutte le cose, per amore ha dato suo figlio, e
questi per amore è morto per noi. L’importanza dell’amore viene anche ribadita da
Giovanni che nella sua lettera (3,11-21), afferma: Da questo abbiamo conosciuto
l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita
per i fratelli.
Queste esortazioni, vecchie di duemila anni, sono, secondo il mio giudizio, sempre attuali. Quante distrazioni, quante tentazioni sono attorno a noi al giorno d’oggi.
Viviamo immersi in un frastuono di voci e di rumori che non ci lascia pensare, che
non ci da mai il tempo di riflettere, di parlare con noi stessi e di ascoltare la voce
di Dio che ci parla attraverso la bellezza della natura, attraverso il nostro cuore e
la nostra coscienza. È per questo che ammirare uno splendido panorama, o un tramonto, o un’aurora, o anche il mare in tempesta o la pioggia, così come gli occhi di
un bambino o di un santo, ci distende, ci porta gioia, ci mette in pace con noi stessi:
43
Giovanni Russo
ascoltiamo la voce del creato e del suo creatore.
Leggendo con un poco di attenzione le lettere di Paolo, mi ha colpito la profondità del suo pensiero, il suo fare teologia a pochissimi anni dalla scomparsa di Gesù
dalla terra, la sua interpretazione chiara, decisa, inequivocabile del pensiero e della
missione di Cristo anche alla luce delle antiche scritture. I suoi scritti costituiscono
il fondamento del pensiero cristiano, tanto che Paolo è stato definito l’architetto del
cristianesimo, e - cosa a mio modo di vedere di considerevole importanza – sono
estremamente attuali, a volte in modo stupefacente. È per questo che le sue lettere
fanno parte di quella che viene definita parola di Dio.
Una cosa in cui noi cristiani, e particolarmente i cattolici, siamo forse carenti è
lo studio – o almeno la lettura attenta, meditata – delle sacre scritture. Credo che
una loro conoscenza non superficiale, arricchita di commenti qualificati, ci farebbe
prendere migliore coscienza del nostro essere cristiani. Per questo ritengo che ogni
parrocchia, ogni gruppo ecclesiale, dovrebbe portare avanti il progetto di leggere –
in appositi incontri – e approfondire il vero significato di quanto contenuto in tutte
le sacre scritture, dall’antico testamento fino all’apocalisse.
44
Laós 16 (2009) 3, 45-48
ISSR «S. Luca» - Catania
Sacerdozio levitico o Sacerdozio di Melchìsedec?
di
Fausto Grimaldi
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
La superiorità del sacerdozio di Cristo su quello vetero-testamentario nasce dalla
somiglianza tra Gesù e Melchìsedek. Il salmo 110, 4 dice: «Tu sei sacerdote per
sempre al modo di Melchìsedek». Melchìsedek era re e sacerdote nella Gerusalemme pre-israelita, ai tempi di Abramo. La Lettera agli Ebrei applica questo salmo al
sacerdozio di Cristo distinguendo tra sacerdozio antico, la cui origine è levitica e appartenente alla discendenza di Aronne, e il sacerdozio di Cristo, che non è di origine
levitica ma appartiene alla linea di Melchìsedek. Infatti, ad eccezione della Lettera
agli Ebrei, Cristo non è mai denominato sacerdote. Per essere sacerdote bisognava
appartenere alla tribù sacerdotale di Levi. Gesù non apparteneva alla tribù di Levi,
ma essendo discendente di Davide, apparteneva alla tribù di Giuda e, pertanto, non
compiva nessuna attività sacerdotale. Quest’ultimo «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio,
rimane sacerdote per sempre» (Ebr 7, 3).
Melchìsedek non ha antenati né discendenti, e il suo regno non ha né inizio né
fine. Questo concetto ci permette di fare un’analogia con Cristo che, come figlio di
Dio, è sacerdote per sempre (Sal 110, 4). Il sacerdozio di Cristo non si eredita, come
quello levitico, ma deriva esclusivamente dal volere e dalla chiamata di Dio1.
Inoltre «Melchìsedek offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo» (Gen 14,
18). Anche il gesto di offrire pane e vino in seguito verrà reinterpretato in chiave eucaristica e nel Canone Romano ne troveremo una sua traccia: «Volgi sulla nostra offerta il
tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchìsedek,
tuo sommo sacerdote». Melchìsedek è prototipo di Gesù ma anche sua prefigurazione2.
1
2
Cfr. A. Strobel, La Lettera agli Ebrei, Brescia 1997, 81-87.
Cfr. R. E. Brown – J. A. Fitzmyer – R. E. Murphy (ed.), Nuovo Grande Commentario
Biblico, Brescia 1997, 1221.
45
Fausto Grimaldi
Gesù riconosce i compiti affidati ai sacerdoti nell’AT e i loro privilegi. Ciononostante, Gesù critica aspramente l’estensione dei rituali di purificazione alla vita
quotidiana dei fedeli: ad esempio il lavaggio rituale delle mani prima di mangiare,
le tasse esageratamente salate da pagare al Tempio, l’abitudine di giurare sul Tempio stesso. Così Egli invita, contrariamente, alla misericordia e alla purezza di cuore
che sono graditi a Dio più di qualunque sacrificio3.
«I farisei e tutti i Giudei non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano
molte altre cose per tradizione. […] Ma Gesù rispose secondo la parola del profeta
Isaia: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7, 5-7).
Nella comunità neo-testamentaria non esistevano né sacerdozio né culto sacrificale. La stessa celebrazione dell’eucarestia non veniva intesa come sacrificio offerto a Dio dalla comunità. Pane e vino erano considerate come offerte attraverso le
quali Cristo dona agli uomini il frutto della sua morte. La Lettera agli Ebrei definisce Gesù Cristo sommo sacerdote escatologico, che donando se stesso in sacrificio,
ha attuato il sacerdozio eterno al modo di Melchìsedek. Con Gesù si inaugura la
liturgia della nuova alleanza assicurando ai suoi l’accesso a Dio.
Il ministero sacerdotale di Gesù ed il suo sacrificio escatologico sulla croce rappresentano la soppressione del sacerdozio vetero-testamentario. Sacerdozio e sacrificio assumono un nuovo significato. Infatti, la nuova liturgia è fondata sulla croce
del Messia.
Nella Lettera agli Ebrei l’autore applica a Cristo i titoli di sacerdote e grande
sacerdote e pontefice, e descrive la sua opera in categorie sacerdotali, insistendo
molto sulla differenza tra il sacerdozio antico e quello di Cristo. Il culto antico era
rituale, esteriore e convenzionale; il culto inaugurato da Cristo, invece, è reale, personale, esistenziale. Nel culto antico erano essenziali le separazioni tra sacerdote e
vittima (il sacerdote non può offrire se stesso perché è peccatore, la vittima non può
offrire se stessa perché è animale). In Cristo le separazioni sono abolite: vi è identità
tra sacerdote e vittima; tra sacerdote e Dio; tra vittima e Dio, in quanto il sacrificio
di Cristo è un atto di solidarietà con gli uomini4.
«Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio,
come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo
sacerdote, ma colui che gli disse: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato, gliela conferì
come è detto in un altro passo: Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di
Melchìsedek» (Eb 5, 4-6).
3
4
O. Betz, «Sacerdoti e Leviti», in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia,
Casale Monferrato 2005, 914-919.
Cfr. G. Ferraro, Il sacerdozio ministeriale. Dottrina cattolica sul sacramento dell’Ordine,
Napoli 1999, 89-101.
46
Sacerdozio levitico o Sacerdozio di Melchìsedek?
La chiamata di Dio è un elemento imprescindibile del sacerdozio. È sempre Dio
ha prendere l’iniziativa. Il sacerdote non assume da sé il sacerdozio, ma è scelto, è
costituito, è chiamato. Il sacerdozio non è una posizione alla quale una persona possa
elevarsi per essere così superiore ai suoi simili. Eppure, alcune volte, si confonde il
sacerdozio come una “scalata sociale” grazie alla quale si risolvono le frustrazioni
della propria vita. Esso non rappresenta una realizzazione sociale né una posizione di
prestigio che permette di appartenere ad una casta intoccabile, ma è un dono di Dio
che pone il sacerdote al servizio di Dio e dei fratelli5.
C’è qualcosa di impressionante nella prostrazione degli ordinandi: è il simbolo
della loro totale sottomissione di fronte alla maestà di Dio e contemporaneamente
della piena disponibilità all’azione dello Spirito Santo, che discende in loro come
artefice della consacrazione. Come nella messa Egli è l’artefice della transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, così nel sacramento
dell’Ordine Egli è l’artefice della consacrazione sacerdotale.
L’imposizione delle mani è continuazione del gesto già praticato nella chiesa primitiva per indicare il dono dello Spirito Santo in vista di una determinata missione.
Il sacerdozio al quale partecipano i presbiteri mediante il sacramento dell’Ordine, che è stato per sempre impresso per mezzo di un segno particolare di Dio, il
carattere, rimane in esplicita relazione col sacerdozio comune dei fedeli, cioè di tutti
i battezzati e, in pari tempo, differisce da esso essenzialmente, e non solo di grado
(LG 10). Così acquistano significato le parole dell’autore della Lettera agli Ebrei che
dice: «Scelto fra gli uomini…costituito in favore degli uomini» (Eb 5,1).
L’identità del prete è Cristo: Cristo entra nella nostra vita come una presenza di
identificazione, sia a livello di ciò che il prete deve essere, sia a livello di ciò che
deve fare.
Sacerdos alter Christus. Questo non avviene in virtù di un spontaneismo, ma
attraverso un impegno da portare avanti ogni giorno con volontà costruttiva6.
Il rapporto sacerdotale con Cristo, che scaturisce perennemente dal sacramento
dell’Ordine, tende alla progressiva configurazione a Lui. Il sacerdote ministeriale
ha la funzione specifica di essere nella Chiesa la perenne presenza di Cristo Capo.
Quindi il rapporto con Cristo non è semplicemente un rapporto nella fede e nella
carità, come quello di tutti i fedeli, poiché è caratterizzato da una funzione profondamente sacerdotale: la glorificazione di Dio attraverso la rivelazione del suo amore, la
salvezza del mondo attraverso la partecipazione della sua vita.
«Non illudiamoci di servire il Vangelo se tentiamo di diluire il nostro carisma
sacerdotale attraverso un esagerato interesse verso il vasto campo dei problemi tem5
6
Ibid., 92.
Cfr. G. M. Scozzaro, Scerdote, chi sei tu?, Misilmeri 1999.
47
Fausto Grimaldi
porali, se desideriamo laicizzare il nostro modo di vivere e di agire, se cancelliamo
anche i segni esterni della nostra vocazione sacerdotale. Dobbiamo conservare il
senso della nostra singolare vocazione, e tale interiorità deve esprimersi anche nella
nostra veste esteriore. Non vergogniamocene! Ma non siamo del mondo!» (G.P. II
Discorso al Clero di Roma¸ 9.11.1978).
In definitiva, risulterà sempre necessario agli uomini soltanto il sacerdote che è
consapevole del senso pieno del suo sacerdozio: il sacerdote che crede profondamente, che professa con coraggio la sua fede, che prega con fervore, che insegna
con profonda convinzione, che serve, che attua nella sua vita il programma delle
Beatitudini, che sa amare disinteressatamente, che è vicino a tutti e, in particolare,
ai più bisognosi7.
È bene sempre ricordare: che a nessuno dei sacerdoti è lecito meritare il nome
di mercenario, come di uno al quale le pecore non appartengono, di uno che vede
venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; egli è
un mercenario e non gli importa delle pecore (Cfr. Gv 10, 12 e ss.).
Il rischio, ai giorni nostri, è quello di ridurre il sacerdozio di Cristo in sacerdozio
“rituale/levitico”. Il gusto per l’arcano ha riportato in auge usi, gusti e gesti ormai facenti parte di un passato troppo lontano dalla predicazione e dall’azione di Cristo. Il
culto sacerdotale non è moda che si ripete riprendendo ‘colori’ già usati in un passato
prossimo; non rappresenta nemmeno una tendenza influenzata per lo più dalla cultura corrente; esso rimane e deve rimanere lo stesso nel tempo mostrando al contempo
la sua dinamicità e la su freschezza originaria. Insomma, dal culto sacerdotale secondo l’Ordine di Melchìsedek deve apparire una realtà invisibile e profonda: quella
del profeta e Messia Gesù.
In tutto questo ciascun presbitero dovrebbe interrogarsi sulla sollecitudine da assume sempre nell’azione pastorale e cioè «che gli uomini abbiano la vita e l’abbiano
in abbondanza affinché nessuno di loro vada perduto» (Cfr. Gv 17, 12). Sia questa
la sollecitudine che caratterizzi la personalità di ogni presbitero, e la sua identità
sacerdotale.
7
M. A. Carandente, Sacerdos in Aeternum, Cinisello Balsamo 2007.
48
Laós 16 (2009) 3, 49-53
ISSR «S. Luca» - Catania
Il sacerdote mistero di Riconciliazione
di
Pasquale Munzone
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
«Ogni sommo sacerdote scelto tra gli uomini e per gli uomini viene costituito
tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5,1).
L’autore della Lettera agli Ebrei desidera dare risalto al sacerdozio di Cristo per
sottolineare il passaggio tra l’antica e la nuova ed eterna alleanza. Passaggio attuato
attraverso il sacrificio redentore di Cristo. Tale sacrificio viene rinnovato e perpetuato
attraverso il ministero presbiterale. Scegliendo l’incipit del capitolo 5 desidero far
emergere il ruolo del sacerdote nella dimensione della misericordia.
Per meglio comprendere l’ottica su cui i versetti citati vogliono indirizzare la nostra
riflessione vogliamo prendere in esame il Rito di Ordinazione dove al momento degli
“Impegni dell’eletto”, il Vescovo si rivolge al candidato chiedendo:« Vuoi celebrare con
devozione e fedeltà i misteri di Cristo secondo la tradizione della Chiesa, specialmente
nel sacrificio eucaristico e nel sacramento della riconciliazione, a lode di Dio e per la
santificazione del popolo cristiano?»1. Cosciente di essere stato scelto fra gli uomini,
il sacerdote esercita il suo ministero con gioia e carità, unicamente intento a piacere
a Dio e non a se stesso. La grazia del sacramento dell’Ordine abilita il presbitero ad
essere più strettamente unito a Cristo, Capo e Pastore. Aderendo così alla missione
affidatagli da Cristo, il ministro sacro impegnandosi unicamente a unire i fedeli in
un’unica famiglia, esercita con diligenza, prudenza e umiltà il compito di medico e
padre nel rimettere i peccati in nome di Cristo e della Chiesa.
Nella Preghiera di Ordinazione il Vescovo, ad un certo punto, si rivolge così al
candidato: «Sia insieme con noi fedele dispensatore dei tuoi misteri, perché il tuo
popolo sia rinnovato con il lavacro di rigenerazione e nutrito alla mensa del tuo altare;
1
Conferenza Episcopale Italiana, Pontificale Romano riformato a norma dei decreti del
concilio ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, riveduto da Giovanni
Paolo II, Ordinazione del Vescovo, dei presbiteri e dei diaconi, Libreria Editrice Vaticana
1992, 113.
49
Pasquale Munzone
siano riconciliati i peccatori e i malati ricevano sollievo…»2.
Configurato a Cristo, il presbitero svolge il ministero di confessore con la capacità
di saper distinguere la malattia dell’anima per apportarvi i rimedi adatti; deve inoltre
con uno studio assiduo, sotto la guida del Magistero della Chiesa, e soprattutto con
la preghiera, trovare la scienza e la prudenza necessarie a questo scopo. Il discernimento degli spiriti è l’intima cognizione dell’opera di Dio nel cuore degli uomini
dono dello Spirito e frutto di carità3, che si acquisisce vivendo l’intimità con Cristo,
Maestro di misericordia. Non si può annunciare agli altri ciò che noi stessi non viviamo in prima persona. Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Novo millennio
ineunte afferma che «la vera eredità del Grande Giubileo è l’esperienza di un più
intenso incontro con Cristo»4. L’intimità con Lui è la sorgente da cui il sacerdote
attinge forza per vivere l’esperienza gioiosa del ministero.
Tra gli aspetti singolari di questo incontro, il sacramento della misericordia è tra
i più significativi nella vita spirituale del presbitero e di tutta la Chiesa. L’esempio
brillante del Santo Curato d’Ars, di cui celebriamo il 150° anniversario della morte,
vuole mettere in luce l’autentico atteggiamento del pastore d’anime che sprigiona
misericordia senza misura. Sentire la grazia del sacerdozio come un’abbondanza di
misericordia significa che l’identità presbiterale trova valore e merito nell’«essere»
ed «agire» in “persona Christi”.
La dimensione della misericordia, quindi, va intesa come assoluta gratuità di Dio;
come condiscendenza con cui Dio ci chiama ad operare come suoi rappresentanti;
come perdono che mai si rifiuta5. La misericordia di Dio è più forte del peccato e
il sacramento della riconciliazione ne è il segno più espressivo, quasi un secondo
Battesimo, come lo chiamano i Padri della Chiesa. Nella Confessione, la stessa
grazia del Battesimo si rinnova infatti, per un nuovo e ricco inserimento nel mistero
di Cristo e della Chiesa6.
Il compito primario del confessore è quello di lenire le ferite che il peccato procura, «versando l’olio della consolazione e il vino della speranza»7. Il ministro della
riconciliazione abbia sempre in mente che il sacramento è stato istituito per i peccatori.
2
3
4
5
6
7
ID., Pontificale Romano riformato a norma dei decreti del concilio ecumenico Vaticano II
e promulgato da Papa Paolo VI, riveduto da Giovanni Paolo II, Ordinazione del Vescovo,
dei presbiteri e dei diaconi, Libreria Editrice Vaticana 1992, 120.
Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Rituale Romano riformato a norma dei decreti del
concilio ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Rito della Penitenza, LEV
1993, 22.
Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo millennio ineunte, 6 gennaio 2001.
Cfr. ID., Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2001.
ID., Discorso al Clero di Todi e di Orvieto, 22 novembre 1981.
Cfr. Prefazio Comune VIII.
50
Il sacerdote mistero di Riconciliazione
«Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori a conversione» (Lc 5,32). Lo
straordinario segreto del sacramento della penitenza sta nel fatto che ministri sacri
e non, attingiamo tutti alla sorgente dell’amore del Signore per trovare la capacità
di ri-valutare il cammino cristiano.
«È bello poter confessare i nostri peccati, e sentire come un balsamo la parola
che ci inonda di misericordia e ci rimette in cammino. Solo chi ha sentito la tenerezza dell’abbraccio del Padre, quale il Vangelo lo descrive nella parabola del figliol
prodigo ‒ “ gli si gettò al collo e lo baciò “ (Lc 15, 20) ‒ può trasmettere agli altri lo
stesso calore, quando da destinatario del perdono se ne fa ministro»8.
Ritorniamo assiduamente, a questo Sacramento, perché il Signore possa continuamente purificare il nostro cuore rendendoci meno indegni dei misteri che
celebriamo. Chiamati a rappresentare il volto del Buon Pastore, e dunque ad avere
il cuore stesso di Cristo, dobbiamo più degli altri far nostra l’intensa invocazione
del Salmo 50: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo».
Il sacramento della misericordia, si pone anche come sostegno, orientamento e
medicina della vita sacerdotale9.
Il presbitero, allora, accoglie i penitenti che desiderano accostarsi al confessionale
perché lui già ne ha fatto esperienza e avverte l’esigenza di ripetere ai fratelli le
parole di Paolo ai Corinzi: «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come
se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi
riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20).
«Come all’altare dove celebra l’eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il
sacerdote opera in “persona Christi”. Il Cristo, che da lui è reso presente e che per
suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello, pastore deciso a cercare la pecora smarrita, medico che guarisce e conforta»10.
Il trittico “padre”, “medico”, “fratello” mette in risalto l’atteggiamento che ogni
presbitero deve coltivare nella sua vita spirituale e pastorale. Come padre in cerca
del figlio perduto, come medico che sutura le ferite della colpa, come fratello che
intesse rapporti di amicizia e di fraternità.
Il Sacerdozio è mistero indicibile della divina misericordia! Quante volte gli
Apostoli lo avranno meditato, ricordando il loro Maestro, le Sue parole e le parabole, i Suoi gesti e la preghiera per loro… e il comandamento nuovo: «come io vi
ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete
miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 34-35).
Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2001.
Cfr. ID., Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2001.
10
Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, 2
dicembre 1984, 29.
8
9
51
Pasquale Munzone
La misericordia di Dio dovrebbe inondare la vita del sacerdote, cominciando dai
pensieri, dal carattere, dagli atteggiamenti interiori che generano quelli esteriori.
Poter dire con S. Paolo: «noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16), significa
essere misericordiosi nella propria mentalità, nelle proprie intenzioni e azioni, nelle
parole come nei gesti, significa discernimento nelle scelte quotidiane. Per dirla con
il Vangelo, significa essere convertiti a Cristo come bambini (cfr Mt 18,3).
«Certo, caro amico sacerdote, è vero che ti viene richiesto tanto. Hai bisogno
di molta pazienza, di attenzione, discrezione e soprattutto di tanta compassione e
bontà. Ma non è forse vero che la ricompensa di Gesù è sovrabbondante? Quante
volte lo avrai sperimentato nel confessionale. Ad ogni assoluzione, il Signore dona
anche a te, che l’amministri in Suo nome, la partecipazione alla gioia che sgorga
dal Suo cuore per ogni peccatore che si converte (cfr Lc 15,10).
Quante volte poi sei stato aiutato, nel tuo sforzo di conversione, proprio ascoltando le confessioni dei tuoi penitenti. Oppure, quanta consolazione per il tuo cuore
sacerdotale ascoltare la confessione dei bambini, magari di coloro che si preparano
a ricevere la prima santa Comunione. Si prova la stessa gioia che sentiva Gesù nel
cuore davanti alla loro innocenza.
“Lasciate che i bambini vengano a me non glielo impedite” (Mc 10,14), ciò vale
anche per la confessione dei fanciulli, che imprime nelle loro chiare coscienze la
dolcezza della misericordia di Dio e fa loro gustare la gioia del perdono, di cui
anch’essi sentono di avere bisogno»11.
Si può affermare, quindi, senza sbagliarsi che il ministero della riconciliazione
rende sempre vivo nel presbitero il desiderio di invocare la misericordia del Padre
per tutti i figli che invocano il perdono. Il Curato d’Ars fu per tutta la sua vita
preoccupato per la salvezza, la sua e quella degli altri. La prima frase che disse
giungendo ad Ars al pastorello: “Tu mi hai mostrato la via di Ars, io ti mostrerò la
via del Cielo”; ossia, io tuo Curato, farò di te un santo. Ti immergerò nella misericordia di Dio e nella sua santità. Non appena giunto, egli si pose immediatamente
come un pastore che conduce quelli che gli sono confidati verso la salvezza. Quando
annuncia a sua madre che vuole essere sacerdote, egli le dice che è “per guadagnare
delle anime al Buon Dio”. Ecco ciò che rappresenta un sacerdote per quel fanciullo:
immergere le anime nella misericordia di Dio per fare in modo che scelgano Dio
e vivano di Lui. Ma prima di essere quel pastore illuminato, egli fu anche, come
ognuno di noi, un peccatore perdonato.
11
Congregazione per il Clero, Sacerdote sei mistero di Misericordia, Libreria Editrice Vaticana 2001, 13.
52
Il sacerdote mistero di Riconciliazione
Alcune considerazioni liturgico – pastorali
1. Riscoprire periodicamente, soprattutto nel tempo di Quaresima, la celebrazione comunitaria del sacramento della riconciliazione con la confessione e assoluzione individuale dove si manifesta la natura ecclesiale della penitenza.
2. Valorizzare le celebrazioni penitenziali proposte dal Rito della Penitenza
(Appendice II), utili nella vita del penitente per ravvivare lo spirito e la virtù della
penitenza, e per preparare una celebrazione più fruttuosa e incisiva. Si eviti che
queste celebrazioni vengano confuse, nell’opinione dei fedeli, con la confessione e
l’assoluzione sacramentale12.
3. Aiutare i penitenti a valorizzare l’esame di coscienza, della propria coscienza,
alla luce della parola di Dio, accompagnando i fedeli verso un’autentica esperienza di
misericordia nella contrizione dei propri peccati distinguendo la gravità della colpa.
4. Per beneficiare del rimedio salutare del sacramento della riconciliazione, il
fedele deve confessare al sacerdote, secondo la disposizione di Dio misericordioso,
tutti e singoli i peccati gravi che, con l’esame di coscienza, ha presenti alla memoria13.
5. Nell’accogliere il peccatore, infine, il confessore svolge un compito paterno,
perché rivela agli uomini il cuore del Padre, e impersona l’immagine di Cristo, buon
pastore.
Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Normae pastorales circa absolutionem
sacramentalem generali modo impertiendam, 16 giugno 1972, n. X: AAS 64 (1972), 513.
13
Cfr. Concilio di Trento, Sessio XIV, De Sacramento Poenitentiae, can. 7-8.
12
53
Laós 16 (2009) 3, 55-58
ISSR «S. Luca» - Catania
Secondo l’ordine di Melchisedec
di
Antonino De Maria
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
La lettera agli Ebrei, rispetto ad altri testi dell’epistolario paolino, non ha avuto
nel periodo patristico la stessa fortuna.
Già Origene, che pure notava la somiglianza con il pensiero dell’Apostolo, considerava il testo di altra mano, seppure di un discepolo che conosceva bene il pensiero
paolino e, menzionava l’opininone che si trattasse di Clemente o di Luca.1
Altri autori riferiscono che gli eretici negavano la paternità paolina del testo e, per
questo, ne ribadivano l’autenticità dell’attribuzione all’Apostolo delle genti.2
A parte di una tradizione frammentaria di testi interpretativi della Lettera, Teodoreto di Cirro3 e Efrem il Siro4 hanno scritto commentari, mentre il Crisostomo5 ha
trattato della Lettera in una serie di omelie. Si tratta, come è evidente, di autori di
scuola antiochena, o, come nel caso di Efrem, di tradizione siriaca, ad essa collegata.
Secondo l’ordine di Melchisedec
Il testo che intendo leggere con gli occhi di questi padri si trova in Ebrei 5, 6,
dove viene citato il sl. 110, preceduto dalla citazione del sl. 2. entrambi testi della
tradizione messianica. Il contesto è dato dalla lunga sezione che inizia nel cap. 2.
con intercalati altri temi secondo lo stile midrashico, e si conclude nel cap. 7. Tutta
la Lettera tratta il tema del sacerdozio di Cristo e della diversità di questo sacerdozio
da quello levitico, nel contesto della nuova alleanza che passa dalla figura alla realtà
e che come centro la fede in Cristo, impronta della sostanza divina (Eb. 1, 3).
1
2
3
4
5
Cfr. Origene, Frammenti sulla lettera agli Ebrei, citati in Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica 6, 25, 11-13.
Per esempio Severiano di Gabala e Teodoro di Mopsuestia.
Interpretazione della lettera agli Ebrei, PG 82.
Commento sulla Lettera agli Ebrei, SC 121.
Omelie sulla Lettera agli Ebrei, PG 63.
55
Antonino De Maria
Il tema del sacerdozio di Cristo inizia nel cap. 2, continuando con la sezione che
paragona Cristo a Mosè, sottolineando la superiorità del primo rispetto al secondo.
Cristo è il Figlio e Mosè il servitore; la casa è la Chiesa, il popolo della nuova ed
eterna alleanza, nella fede. Dopo il paragone con Mosè ritorna chiaramente il tema
sacerdotale che introduce il cap. 5.
Secondo A. Vanhoie6: “Solo l’epistola agli Ebrei applica a Cristo stesso i titoli di
sacerdote e di sommo sacerdote e gli attribuisce la qualità sacerdotale.”7 L’insigne
biblista conclude che “Rivelando esplicitamente il carattere sacerdotale del mistero
di Cristo, l’epistola agli Ebrei ha chiarito in modo nuovo l’insieme della cristologia.
Le categorie sacerdotali si sono manifestate preparate divinamente per dare una
comprensione più precisa e più profonda delle ricchezze di Cristo, che superavano
con ogni evidenza i limiti del messianismo regale. Ma è necessario fare anche l’osservazione contraria: illuminata dal mistero di Cristo, l’idea che ci si faceva del sacerdozio si è trovata trasformata e approfondita in modo stupendo. Bisogna parlare
di sintesi nuova. A partire da questa è divenuto possibile tutto un processo di altri
approfondimenti.”8 L’epoca dei Padri è riuscita a compiere questo approfondimento, a cogliere la prospettiva di questa nuova sintesi?
Il commento dei Padri
Partiamo dall’analisi dei commenti di Teodoreto, del Crisostomo e di Efrem, riguardo alla sezione in cui è menzionato il sl 110, cioè Eb. 4, 14 - 5, 10.
Teodoreto, che crede nella paternità paolina del testo, ritiene che il paragone con
Melchisedec, il cui sacerdozio è superiore a quello levitico, abbia un valore parenetico “perchè non sembri a coloro che ancora perseguono la via della legge che egli si
opponga alla legge e non difenda più la verità.”9 Ma il suo interesse è rivolto a quei
passaggi che potrebbero essere letti cristologicamente in una visione diversa dalla
sua cristologia: il passare attraverso i cieli non riguarda la sua divinità ma la sua
umanità secondo un’appropriazione diversa dei nomi, secondo una cristologia difisita, poichè la divinità non è circoscritta e “ Pur essendo qui in basso e conversando
con gli uomini, egli ha affermato di essere anche in alto.”10
La stessa preoccupazione è riscontrabile in un altro testo di Teodoreto anticirilliano nel quale scrive: “Fu la natura assunta a ragione della nostra salvezza che ha
provato le nostre stesse passioni senza aver peccato, non colui che assunse la natura
Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il nuovo testamento, LDC 1985.
Ibidem, p. 56.
8
Interpretazione della Lettera agli Ebrei 4.
9
Ibidem.
10
De civitate Dei, 16, 22.
6
7
56
Secondo l’ordine di Melchisec
umana per la nostra salvezza. All’inizio di questa sezione Paolo ci dice: Fissate bene
lo sguardo in Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo,
il quale è fedele a colui che l’ha costituito (Eb 3, 1-2).”11 La questione cristologica
e la disputa con la cristologia cirilliana fungono da chiave di lettura del testo sul
sacerdozio di Cristo.
La lettura di Crisostomo, meno preoccupata dalla questione cristologica, si pone
più sul livello pastorale e spirituale, ponendo il sacerdozio di Cristo in relazione alla
fede del credente: “Cosa vuol dire: accostiamoci con fiducia? Noi veniamo con fiducia perchè abbiamo un sommo sacerdote senza peccato che lotta contro il mondo
(Gv 16, 33), per questo dobbiamo sopportare ogni cosa ed essere liberi dal peccato.
Mentre noi siamo peccatori, dice l’Apostolo, il sommo sacerdote è senza peccato.
Perché dovremmo accostarci con fiducia? Perché ora è un trono di grazia, non un
trono di giudizio.”12 Il piano di lettura è dunque quello della relazione tra il credente, peccatore e Cristo, sacerdote della grazia. Nell’ottica della sua cristologia l’esse
sacerdote “non è un fatto di natura, ma di grazia e condiscendenza e umiliazione.”13
La condizione di Cristo sacerdote della grazia e l’uomo che cerca la grazia e la
misericordia del perdono dei suoi peccati indicano una comunanza, per cui Cristo
dona la grazia a coloro che si accostano nella fede. Teodoreto aggiunge che il trono
di cui parla Ebrei indica anche la funzione giudicatrice del sommo sacerdote che si
svolgerà nell’amore.14
Passando alla figura di Melchisedec, sviluppata nel capitolo 7 della Lettera, Agostino15 lega, come fà la teologia dei secoli successivi esposta nel registro iconografico di Ravenna, il sacrificio di questo re, sacerdote del Dio altissimo, all’eucarestia,
il sacrificio cristiano. Teodoreto si sofferma sulla tipologia di Melchisedec-Cristo, a
partire dal nome, re di giustizia e di pace che Paolo attribuisce a Cristo.16 Per Crisostomo la tipologia si legge nell’essere senza padre né madre, senza nascita né morte:
“ Dov’è la somiglianza con il Figlio di Dio? Nel fatto che non sappiamo né dell’uno
né dell’altro l’inizio e la fine. Di uno perchè non sono state scritte, dell’altro perchè
non esistono. Qui sta la somiglianza. Ma se vi è somiglianza in tutti questi aspetti,
allora non esisterebbero più il tipo e la realtà, sarebbero entrambe tipologie....”17 Più
chiaro è Teodoreto che nella distinzione delle nature trova la spiegazione all’essere
senza madre, in quanto Dio dal Padre, e senza padre, in quanto nato uomo solo dalla
Op. cit., 7.
Op. cit. 7.
13
Cfr. op. cit., 8; cfr. Crisostomo, op. cit. 17, 6.
14
Op. cit., 16, 6-7.
15
De civitate Dei, 16, 22.
16
Op. cit., 7.
17
Op. cit. 11, 23.
11
12
57
Antonino De Maria
Vergine Maria. La relazione tra il sacerdozio di Melchisedec e quelo di Cristo risulta
dalla tipologia: “uno era tipo dell’altro, l’altro la realizzazione del tipo. Rispetto al
sacerdozio, inoltre, Melchisedec non ha imitato Cristo il Signore; piuttosto, Cristo
è sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec: assumendo il sacerdozio
è vicino all’uomo, mentre accettando le offerte è vicino a Dio. Tuttavia nell’incarnazione il solo Figlio di Dio ingenerato è pure divenuto nostro sommo sacerdote
scondo l’ordine di Melchisedec, e non accogliendo in sé tale nuova posizione ma
nascondendo la natura divina e accettando l’umile condizione per amore della nostra
salvezza.”18 La relazione tra il sacerdozio di Cristo e i nuovi sacerdoti della Nuova
Alleanza passa attraverso l’idea di un nuovo sacrificio: i ministri dei sacramenti cristiani offrono il memoriale dell’unico sacrificio di Cristo, richiamando le sofferenze
di Cristo per noi, che sono segno della tenerezza dell’amore che proviamo nei suoi
confronti nell’attesa del godimento escatologico.19 A differenza dei riti ebraici che
sono carnali, figura della realtà, la liturgia cristiana è spirituale poichè ci mette in
comunicazione con la realtà divina espressa nei riti, dice Crisostomo.20 Si tratta dei
segni di una Nuova Alleanza che ha sostituito l’altra mancante e difettosa, e che
indicano che la noostra patria è il cielo. L’elemento escatologico, la dinamica escatologica della liturgia cristiana, del sacerdozio cristiano, è chiaramnete espressa da
Crisostomo, ma di una escatologia che inizia a realizzarsi in questo tempo, proprio
attraverso la liturgia: “Non permetterci di stare più a lungo sulla terra, perchè anche
ora è possibile, per chi lo desidera, non essere sulla terra... Se dunque siamo anche
vicini a Dio, siamo in cielo... Lasciaci rendere la nostra anima in cielo. Il cielo è
naturalmente chiaro; nemmeno in una tempesta diventa nero, perchè non cambia la
sua apparenza, ma le nuvole corrono insieme e lo ricoprono. Il cielo ha il sole e noi
abbiamo il sole di giustizia.”21
Conclusione
In conclusione non voglio riprendere quanto abbiamo letto secondo il metodo
della tipologia di Melchisedec e di Cristo ma invitare a leggere i Padri che si nutrono
della Scrittura per aver intelligenza del mistero di Cristo e di quanto ci è stato donato
da Lui.
Op. cit. 7.
Cfr. op. cit., 8; cfr. Crisostomo, op. cit. 17, 6.
20
Cfr. op. cit., 14, 3.
21
Op. cit., 16, 6-7.
18
19
58
Laós 16 (2009) 3, 59-77
ISSR «S. Luca» - Catania
Il dono dello Spirito Santo nell’Epistola agli Ebrei
in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
di
Francesco Aleo
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
Introduzione
A quel vasto movimento, emerso agli inizi del IV secolo, come frutto e conseguenza delle complesse implicazioni storiche, sociali, culturali, ecclesiali e spirituali
dell’inculturazione operata dal Cristianesimo primitivo, nella civiltà antica prima e
tardo-antica poi, si dà il nome di Monachesimo.1 In seno alle chiese locali, sparse
1
Offriamo, qui di seguito, una sintetica bibliografia sul rapporto fra Cristianesimo e società
antica: O. Cullmann, Cristo e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965; H. von Campenhausen,
Tradition and Life in the Church. Essays and Lectures in Church History, London e Philadelphia 1968; H.I. Marrou, La Chiesa nella civiltà ellenistica e romana, in Concilium (VII)
1971 67-82; R. Cantalamessa, Polis, patria e nazione nel sentimento della grecità e nel
primo cristianesimo, in “I primi cristiani, la politica, lo stato”, ed. Vita e Pensiero, Milano
1972, 70-76; M. Simon, La civilisation de l’antiquité et le Christianisme, Paris 1972; J.C.
Gager, Kingdom and Christianity. The social world of early christianity, Englewood Cliffs
1975; R. Cantalamessa, Roma e le concezioni cristiane del tempo e della storia nei primi
secoli della nostra era, in “Roma, Costantinopoli, Mosca”, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 1983, 31-62; A.D. Nock, La conversione, Laterza, Roma-Bari 1985; F. Parente,
L’idea di conversione da Nock ad oggi, in Augustinianum (XXVII) 1987 539-558; G.
Alföldi, Storia sociale dell’antica Roma, Il Mulino, Bologna 1987; R. M. Grant, Cristianesimo primitivo e società, Paideia, Brescia 1987; H. I. Marrou, Decadenza romana o tarda
antichità?, Jaca Book, Milano 1987; R. Uglione (a cura di), La città ideale nella tradizione classica e cristiana, Celid, Torino 1987; P. Brown, La società ed il sacro nella tarda
antichità, Einaudi, Torino 1988; C. Munier, Matrimonio e verginità nella Chiesa antica,
SEI, Torino 1990; R.L. Fox, Pagani e cristiani, Laterza, Roma-Bari 1991; G. Filoramo-S.
Roda, Cristianesimo e società antica, Laterza, Roma-Bari 1992; J. Danielou, Le origini del
Cristianesimo latino, EDB, Bologna 1993; E. R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di
59
Francesco Aleo
ormai per tutta l’oikouméne o «terra abitata», entro i confini dell’Impero Romano,
il Monachesimo si sviluppò spontaneamente e crebbe su un terreno che era stato
preparato e fecondato da forme di vita ascetiche pagane2 ed eterodosse.3
Quel terreno era l’ascetismo cristiano delle origini, nel quale confluirono gli insegnamenti, le tendenze e gli orientamenti presenti nelle comunità cristiane primitive
dove erano nati i Vangeli canonici e gli altri scritti. L’ascetismo cristiano si sviluppò
in maniera pressoché continua, durante il periodo nel quale si stava consolidando
la Chiesa, tanto in Oriente quanto in Occidente.4 L’ascetismo dei primi tre secoli fu un ascetismo domestico, costituito cioè dall’iniziativa autonoma di uomini e
donne, spesso appartenenti alle aristocrazie urbane, di ritirarsi in solitudine negli
appartamenti delle loro lussuose villae rurali o delle loro domus urbane. Nel IV secolo, l’ascetismo cristiano presentò formae peculiari di vita ascetica sia comunitaria
2
3
4
angoscia, La Nuova Italia, Firenze 1997; C. Azzara, Le invasioni barbariche, Il Mulino,
Bologna 1999, 13-30; S. Mazzarino, La fine del mondo antico, BUR, Milano 1999; P.
Veyne, La società romana, Laterza, Roma-Bari 2000; S. Mazzarino, Aspetti sociali del
IV secolo, BUR, Milano 2002; P. Siniscalco, Il senso della Storia, Rubbettino, Catanzaro
2003; G. Clemente, Guida alla Storia romana. Eventi, strutture sociali, metodi di ricerca,
Mondadori, Milano 2006; R.L. Wilken, I cristiani visti dai romani, Paideia, Brescia 2007.
L’ascetismo pagano, già esistente, nelle forme elleniche dell’Orfismo, del Pitagorismo ed
in quelle ellenistiche dell’Epicureismo e dello Stoicismo, aiutò i cristiani dell’antichità a
vivere le varie formae di vita scaturite dall’insegnamento di Gesù, proposte nei Vangeli e
nell’esperienza della comunità cristiana primitiva. Si veda per esempio la Vita di Apollonio
di Tiana di Filostrato, il “Gesù” dei pagani.
È il caso di quella corrente eterodossa, diffusa in Oriente e nota con il nome di Encratismo.
L’Encratismo non va confuso con l’ascetismo che assume varie forme in Asia Minore nel
IV secolo, cf. S. Elm, Virgins of God: the making of asceticism in Late Antiquity, Clarendon
Press, Oxford 1996, 99. Una tale confusione affievolisce l’elemento radicale contenuto
nell’enkràteia. G. Quispel, The study of Encratism, in U. Bianchi (a cura di), La tradizione
dell’Enkrateia: motivazioni ontologiche e protologiche, atti del colloquio internazionale, Milano, 20-23 aprile, ed. dell’Ateneo, Roma 1985, 35-82, vi vede, piuttosto, la continuazione di una tradizione, già presente, in particolare, nel Cristianesimo siriaco, cf. R.
Murray, The Exortation to candidates for Ascetical Vows at Baptism in the Ancient Syriac
Church, in “NTS” 21 (1974) 79. L’Encratismo professa, nel Cristianesimo, una radicalità
di vita che può arrivare fino al ripudio del matrimonio ed al celibato. S.K. Burns, Cappadocian Encratism and the Macarian Community, “SP” 37, Peeters Publisher, Leuven
2001, distingue l’enkràteia, intesa come «continenza» o «controllo di sé», dall’Encratismo
radicale od “inclusivo” che onora la continenza ed il celibato come superiori al matrimonio, considerando la verginità come la via preferita per la vita cristiana ma non l’unica e
dall’Encratismo “esclusivo” che non riconosce né salvezza né ingresso nel Regno di Dio al
di fuori del celibato, includendo il ripudio del matrimonio.
Per maggiori e più precise informazioni sulle origini dell’ascetismo cristiano e del Monachesimo antico si rinvia a V. Desprez, Le Monachisme primitif. Des origines jusq‘au
concile d‘Èphèse, ed. de Bellefontaine, Abb. De Bellefontaine 1998.
60
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
(cenobitica) sia individuale (anacoretica) in Occidente, con Martino di Tours, nelle
Gallie e con Antonio, in Egitto; in Oriente, con Efrem, in Siria. Sono queste formae
più complesse di vita ascetica e di ascetismo a poter definirsi monastiche e sono
queste, quindi, a costituire il Monachesimo antico, la cui origine non può spiegarsi
senza l’ascetismo cristiano, definibile come quell’orientamento che porta a vivere
le esigenze radicali contenute nei Vangeli canonici. Queste esigenze radicali, ai
primordi del Monachesimo, furono interpretate e vissute, in maniera arbitraria, da
movimenti ascetici radicali.5
Giovanni Crisostomo e lo Ps. – Macario Egizio furono figure rappresentative di
quel variegato ambiente ascetico che prese forma, nel IV secolo, nella regione compresa fra Antiochia e Costantinopoli. A causa della presenza di movimenti ascetici
radicali in quella regione, la vita ascetica fu promossa dai laici e disciplinata dai vescovi, alcuni dei quali erano asceti. I Padri cappadoci e Giovanni Crisostomo, nella
loro autorità di vescovi, agirono come pastori e talvolta come censori, nei confronti
di queste prime manifestazioni dell’ascetismo organizzato, noto come Monachesimo.6 Queste forti personalità elaborarono una dottrina spirituale elevata e formarono
discepoli quali Evagrio Pontico - discepolo di Basilio e di Gregorio Nazianzeno
- Gregorio Nisseno - sul quale ebbe un forte ascendente il fratello Basilio - e lo Ps.Macario Egizio. In particolare, Evagrio e lo Ps.-Macario elaborarono una cosiddetta
“mistica della luce” con dei tratti in comune, soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento sulla preghiera.7
In questo scenario i nostri due scrittori ecclesiastici occupano una posizione
particolare che non può essere perfettamente compresa con gli elementi spirituali, teologici, ascetici, ecclesiastici che contraddistinguono l’area antiochena né con
quelli peculiari all’area alessandrina. Infatti, la prospettiva che abbiamo modestamente evidenziato nel nostro studio prescinde da astratte definizioni di scuola e da
didattiche esposizioni di Patrologia greca, per puntare, invece, attraverso l’esame
degli scritti del Crisostomo e dello Ps. - Macario, all’autenticità della loro esperienza
5
6
7
Cf. Sozomeno, H.E., III,14,31, in “GCS”, 50, Berlin 1960, 123, il quale ci parla del movimento ascetico radicale degli eustaziani, diffuso nell’Armenia, nella Paflagonia e nel
Ponto, fondato da Eustazio di Sebaste, vedi anche F. Aleo, L’ “educare” in una comunità
monastica del IV secolo in Asia Minore: una Erotapòkrisis dello Ps. –Macario Egizio, in
“Laòs” (XV) 2008 1-2 45.
Tali movimenti erano caratterizzati dalla rottura dei legami familiari e sociali, dalla creazione di comunità miste di uomini e donne osservanti il celibato e la castità, fuori dell’inquadramento ecclesiastico, che contestavano il lavoro, la gerarchia ecclesiastica, i sacramenti e le forme della preghiera liturgica, cf. Sozomeno, l.c..
Sulla mistica della luce negli scritti del Corpus macarianum vedi F. Aleo (a cura di),
Pseudo-Macario. Discorsi, 37-43.
61
Francesco Aleo
spirituale ed alla testimonianza della loro vita cristiana. In particolare, si cercherà di
battere la pista dell’uso e della definizione dei generi letterari nella nascente Letteratura Cristiana antica nel Crisostomo e nello Ps. – Macario, allo scopo di meglio
evidenziare, nella peculiare comunicazione letteraria del genere, la forma della vita
ascetica, nonché la spiritualità dei due autori.8
La fede cristiana nella vita e nei generi letterari in Giovanni Crisostomo e
nello Ps. – Macario Egizio
La vita di Giovanni Crisostomo non si presta a facili generalizzazioni né a superficiali schematismi. Denominazioni quali “Padre della Chiesa d’Asia Minore del
IV secolo” o “autore ecclesiastico d’area antiochena” rischiano di non far emergere
a sufficienza il ritratto di un uomo e di un cristiano, le cui vicissitudini umane, politiche ed ecclesiastiche hanno forgiato il suo carattere e dato prova dell’autenticità
della sua vita e della sua testimonianza. Giovanni Crisostomo nacque ad Antiochia
di Siria nel 349, dal padre Secondo - importante funzionario militare appartenente
all’amministrazione di quella ricca e vivace provincia dell’Impero Romano - e dalla
madre Antusa - donna colta ed intelligente - cui dovette la sua formazione retorica
alla scuola del sofista e retore antiocheno Libanio, ostile al Cristianesimo.9 L’epiteto
di Crisostomo, «bocca d’oro», assegnatogli per la perizia della sua eloquenza, gli
fu riconosciuto in seguito, quando lo si accostò al cappadoce Gregorio di Nazianzo,
il quale, al pari dell’antiocheno, aveva preferito manifestare le proprie idee con il
genere letterario dell’omilìa piuttosto che con quello del tractatus. Questa scelta
non era soltanto retorica o letteraria, significava anche una scelta di campo. Il genere
dell’omilìa permetteva al Nazianzeno di spiegare ai suoi fedeli a Costantinopoli importanti e difficili argomenti teologici e dogmatici, come i problemi relativi alla fede
nella Trinità, ma di esprimere anche i propri sentimenti personali, come mostrano i
suoi carmina.10 Tuttavia, a differenza di Gregorio di Nazianzo che, con Basilio di
Riguardo alla nascita dei nuovi generi letterari nella Letteratura Cristiana antica, ci piace
citare C. Moreschini – E. Norelli, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina, I,
Morcelliana, Brescia 1996, Introduzione, 10: «Anche le forme e i generi letterari vengono
adattati alle esigenze della nuova fede: come sempre, la forma non è un rivestimento esteriore del contenuto, ma il modo in cui quest’ultimo si esprime.»
9
Su Giovanni Crisostomo, la sua vita e le sue opere, vedi: S. Döpp – W. Geerlings (a cura
di), Dizionario di Letteratura cristiana antica, Urbaniana University Press – Città Nuova,
Roma 2006, 408-416. Sulla sua produzione omiletica, vedi: C. Moreschini – E. Norelli,
Storia della Letteratura cristiana antica, II/1, Morcelliana, Brescia 1996, 209-231.
10
Su Gregorio di Nazianzo, la sua vita e le sue opere, vedi S. Döpp – W. Geerlings (a cura di),
Dizionario di Letteratura cristiana, 467-472. Sulla sua produzione omiletica e sui carmina,
vedi Moreschini – Norelli, II/1, 136–139; 167–175. Si rinvia alla lettura delle omilìai o ora8
62
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
Cesarea e Gregorio di Nissa, proveniva da una regione remota, qual era la Cappadocia, nella provincia d’Asia, Giovanni Crisostomo proveniva da una delle città più
importanti dell’Impero Romano, Antiochia, ricca di denaro e di cultura. L’impiego
dell’omilìa giovò all’antiocheno per assolvere all’impegno della predicazione della
Parola di Dio al popolo, inerente al proprio ministero - quello di presbitero ad Antiochia e, successivamente, quello di patriarca a Costantinopoli - non mancandogli
l’occasione di affrontare temi e problemi attuali della società del suo tempo e prendendo coraggiosamente posizioni scomode, talvolta non gradite al potere imperiale. Ricevuto il battesimo da Melezio, vescovo di Antiochia, nella Pasqua del 368,
frequentò l’asketérion di Diodoro di Tarso, ove seguì un programma di studi per
asceti ed apprese i principi dell’esegesi antiochena.11 Istituito lettore nel 371, dopo
la morte della madre, divenne monaco, trascorrendo un periodo di ascesi anacoretica, sulle montagne intorno ad Antiochia, sotto la guida di un monaco anziano, dal
371 al 378.12 Tornato ad Antiochia, vi fu ordinato diacono nel 380/381, dal vescovo
Melezio, quindi presbitero, dal suo successore Flaviano, nel 386. Consacrato con
l’inganno vescovo, divenne patriarca di Costantinopoli nel 397.13
A motivo dei suoi coraggiosi interventi per denunciare i costumi corrotti della
corte imperiale, Giovanni Crisostomo si inimicò l’imperatrice Eudossia e le influenti
cerchie del clero costantinopolitano, concludendo la sua vita esule, prigioniero e ramingo. Morì, infatti, a Comana nella regione del Ponto, in prossimità del Ponto Eusino, l’odierno Mar Nero, nel 407, a seguito degli strapazzi subìti per i continui viaggi
di spostamento, dovuti alla condanna all’esilio inflittagli dal Sinodo della Quercia,
nel 403, ribadita e resa definitiva dall’imperatore d’Oriente Arcadio, nel 404.
In Giovanni Crisostomo si scorgono i tratti del monaco–vescovo, pienamente
inserito nella vita ecclesiale ed ecclesiastica dell’Asia Minore nel IV secolo, all’interno di una società dall’elevato livello urbano. Il perseguimento dell’ideale ascetico
tiones di Gregorio di Nazianzo disponibili nella versione italiana di C. Moreschini (a cura di),
Gregorio di Nazianzo. Tutte le orazioni, Bompiani, Milano 2000 con testo greco a fronte.
11
Vedi M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, IPA, Roma 1981, 71-73; Idem,
Lettera e/o allegoria, IPA, Roma 1985, 167-174.
12
Vedi W. Mayer, What does it mean to say that John Chrisostom was a monk ?, “SP” 46,
2006, 455, il quale, in base alle fonti considerate, si chiede in quali termini esatti Giovanni
Crisostomo possa definirsi un monaco. Il suo impegno nella vita ascetica non sembra, infatti, impedirgli di accettare l’episcopato e la sede patriarcale di Costantinopoli. Piuttosto,
il concetto di monaco-vescovo, il rapporto fra virtù ascetica e polis nella tarda antichità e
quello fra ascetismo, inteso come virtù interiore e la sua manifestazione al mondo, nonché
il loro inquadramento ecclesiastico, vanno riconsiderati alla luce delle fonti che ci parlano
non solo del Crisostomo ma di tutte quelle personalità di spicco nello scenario dell’ascesi
in Asia Minore nel IV secolo.
13
L’”inganno” è un topos comune, ricorrente nel racconto della vita di altri Padri della Chiesa.
63
Francesco Aleo
non impedì all’antiocheno di mettersi al servizio della sua chiesa e della sua città.
Diverso è, invece, il caso dello Ps. – Macario Egizio cui è attribuito un considerevole corpus di scritti noto come Corpus macarianum.14 In questi scritti, in forma
di logoi, omilìai, erotapokrìseis, epistolài, il loro sconosciuto autore appare essere
un monaco cenobita e non un anacoreta, come invece era Macario Egizio, abate
dell’eremo di Sceti, nell’Alto Egitto. Gli scritti del Corpus macarianum non possono
essere quindi a lui attribuiti; ci si deve accontentare, a tutt’oggi, della denominazione di Ps. – Macario Egizio, in attesa di nuove e convincenti proposte degli studiosi.
Questi viveva in una comunità mista con «fratelli» e «sorelle», facendo pensare alle
fraternità dell’ascetismo siriaco e non alle comunità cenobitiche del deserto egiziano.15 La menzione, nei suoi scritti, del fiume Eufrate nel suo alto corso16 e di guerre
fra Romani e Persiani17 induce a ritenere che vivesse nell’area siro-mesopotamica,
probabilmente al confine dell’Impero Romano con l’Osroene, dopo la prima metà
del IV secolo, prima o poco dopo la campagna dell’imperatore Giuliano contro i
Persiani, avvenuta intorno al 363. È da escludersi, dunque, del tutto, la provenienza
di questi scritti dal milieu ascetico egiziano. La menzione del mese macedone Xanthikòs, tradotto con il mese latino, traslitterato in greco, di Aprìllios18 e la presenza
di numerosi latinismi, farebbe pensare, invece, ad un ambiente romanizzato, come
quello di una colonia romana, ove l’uso del latino era comune e nel quale questo
autore viveva. La menzione dei Goti insieme ai Persiani, come nemici comuni degli
imperatori,19 indurrebbe a pensare che i Goti siano considerati dall’autore, ancora
fuori dei confini imperiali; prima, quindi, della sconfitta di Adrianopoli del 378. Egli
conosce bene il cerimoniale della corte imperiale20 ed i gradi dell’esercito,21 nonché
Sull’identità dell’autore e sulle altre questioni, tuttora aperte, inerenti gli scritti del Corpus
macarianum, si rinvia a F. Aleo, Spirito Santo e Chiesa. Basilio di Cesarea e lo Ps. –Macario Egizio: due prospettive ecclesiologiche a confronto, Giunti Progetti Educativi – Studio
Teologico S. Paolo, Firenze – Catania 2009, 43-74.
15
La Vita Antonii di Atanasio d’Alessandria parla del genere di vita anacoretico, inaugurato
da Antonio nel deserto, in un forte romano abbandonato. Il Liber Graduum, nato, invece,
nell’ambiente ascetico siriaco, parla di un genere di vita cenobitico con i «Fratelli e Sorelle
del Patto». Per maggiori e più precise informazioni sulle origini dell’ascetismo siriaco si
rinvia a V. Desprez, Le Monachisme primitif, 485-500.
16
H. Berthold, Makarios/Symeon. Reden und Briefe. Die Sammlung I des Vaticanus Graecus
694 (B), I, Berlin 1973, Logos 14,26,27, (Coll. I), 169.
17
Log., 4,29,6,20, (Coll. I), Berthold, I, 66.
18
H. Dörries, Die geistlichen Homilien des Makarios, Berlin 1964, Omilìa, 5,404, (Coll. II), 61.
19
Log., 34,11,4, (Coll. I), Berthold, II, 39
20
Log., 32,8,18,25-29, (Coll. I), Berthold, II, 25.
21
Log., 8,4,2,10-13, (Coll. I), Berthold, I, 122.
14
64
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
l’organizzazione interna del palazzo imperiale del IV secolo.22 Dovrebbe appartenere, da altri indizi presenti nei suoi scritti, ad un ceto sociale elevato. Sembra, inoltre,
che l’autore faccia menzione di persecuzioni contro i cristiani, ma queste sembrano
rivolte contro cristiani eretici.23
Un monaco cenobita dell’Asia Minore, nel IV secolo, dunque, vivente in un’area
di confine con la regione siriaca, in un ambiente pervaso di fermenti di radicalismo evangelico, testimoniati da movimenti ascetici radicali, sottolinea, negli scritti
del Corpus macarianum, il primato dell’inabitazione personale dello Spirito Santo
nell’anima e nella Chiesa. Egli distingue fra una Chiesa visibile ed una Chiesa invisibile, fra l’uomo interiore e l’uomo esteriore, fra l’intelletto ed il cuore, fra il tempio e
l’altare del sacrificio. Questi testi ci riportano agli ambienti delle comunità monastiche, in cui i monaci o i giovani aspiranti alla vita ascetica ascoltavano le conferenze
dell’abate. In particolare, nelle erotapokrìseis – «domande e risposte» - ponevano ai
loro superiori, domande di carattere dottrinale, ma anche problemi ascetici e morali,
inerenti alla preghiera, all’umiltà, alla pratica delle virtù. Questi caratteri ci riportano
all’ambiente ed all’epoca in cui nacque l’Asceticon di Basilio di Cesarea, redatto
proprio in forma di erotapokrìseis, allo scopo di rispondere alle domande ed ai problemi posti da alcuni ambienti cristiani rigoristi dell’Asia Minore. L’Asceticon di
Basilio è interamente dedicato alla risoluzione di problemi peculiari alla vita comunitaria, anche se non mancano questioni di carattere morale e spirituale.
I testi dello Ps. – Macario propongono erotapokrìseis soprattutto di natura spirituale, inerenti alla mistica cristiana ed al discernimento, al riconoscimento dei segni
della presenza dello Spirito Santo nell’anima, dei falsi stati di grazia e via dicendo.
In particolare, i testi pseudomacariani appaiono approfondire l’introspezione psicologica e la rispondenza dell’uomo santificato alla grazia. L’insistenza sui poneròi loghismòi e sull’assalto delle passioni non propone un modello sereno di vita
cristiana ed una concezione positiva dell’uomo, a differenza di Basilio che si basa
sull’oggettività dell’ordine sacramentale.24 La condizione di essere degni di ricevere
lo Spirito Santo, la capacità di accoglierlo, in proporzione alla fede ed alla propria
disponibilità, infine, l’esclusione delle passioni che minacciano l’anima sono motivi
che ricorrono spesso negli scritti pseudomacariani e che ritroviamo anche nel De
Spiritu Sancto di Basilio che rappresenta il primo tractatus compiuto di pneumatologia cristiana.25 Certamente, la cultura e la spiritualità del grande vescovo cappadoce
Log., 8,1,5,12-15, (Coll. I), Berthold, I, 119.
Om., 15,160, (Coll. II), Dörries, 133.
24
V. Desprez, Le Pseudo-Macaire, in “Anselmiana”, 70, 1977, 191-192.
25
Basilio di Cesarea, De Spiritu Sancto, IX, in “SCh”, 17bis, Paris 1968, 108C,22,31, 325326; 109A,22,38; 23,3, 326,109C,23,14, 328.
22
23
65
Francesco Aleo
è nettamente superiore ed anche più matura, rispetto a quella del monaco, autore
degli scritti posti sotto il nome di Macario Egizio.
Ci siamo già occupati, in un precedente studio, di Giovanni Crisostomo e dello
Ps. – Macario Egizio, riguardo al ministero ed alla figura del sacerdote nei loro scritti.26 Nel presente, modesto studio, vorremmo occuparci dell’esegesi da loro compiuta sull’Epistola agli Ebrei, evidenziandovi, in particolare, il dono dello Spirito
Santo. La nostra scelta di affrontare e di accostare fra loro autori così diversi ma
contemporanei e viventi nella stessa area geografica, si giustifica con il fatto che
appaiono appartenere ad un milieu ascetico comune e si occupano entrambi, anche
se con accentuazioni diverse, della santificazione dell’anima operata dallo Spirito.27
Il problema dell’origine paolina e della canonicità dell’Epistola agli Ebrei
Sinteticamente, vogliamo ripercorrere le opinioni dei Padri sulle due principali
questioni inerenti all’Epistola agli Ebrei: la canonicità e l’origine paolina. Per quanto riguarda la questione della canonicità, Caio o Gaio, prete romano dell’inizio del
III secolo, la rifiuta.28 Optato di Milevi e Cipriano non citano l’Epistola agli Ebrei
insieme alle sette epistolae canoniche indirizzate alle chiese: Galati, Tessalonicesi,
Romani, Corinzi, Colossesi, Efesini, Filippesi.29 Il Frammento Muratoriano ed il
Catalogo Mommseniano non fanno menzione dell’Epistola agli Ebrei. La ragione di
questi dubbi fu l’uso fattone dai Montanisti e dai Novaziani, particolarmente di Eb
6,4-8, per negare la possibilità della remissione di alcuni peccati.
Sempre in Occidente, oltre a costoro, alcuni, pur ammettendo la canonicità
dell’Epistola, non ne riconoscevano l’origine paolina. Ireneo ed Ippolito, stando alla
testimonianza di Stefano Gobaro (VI sec.) citato in Fozio (IX sec.), negavano che
l’Epistola fosse di Paolo.30 Tertulliano attribuisce l’Epistola agli Ebrei a Barnaba.31 Vi
Vedi F. Aleo, Il ministero sacerdotale in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio: la lebbra del peccato, in “Laòs” (XVI) 2009 2 45-64.
27
C. Bosinis, Two platonic images in the rhetoric of John Chrysostom: “The wings of love”
and “the charioteer of the soul”, “SP” 46, 437-438, evidenzia la grande importanza riservata
all’inabitazione personale dello Spirito Santo nella predicazione di Giovanni Crisostomo.
Servendosi degli strumenti della retorica classica e dell’immaginario della filosofia antica,
soprattutto di quella platonica, l’antiocheno attinge, in particolare, al Fedro di Platone. F.
Aleo, Spirito Santo e Chiesa, Conclusioni, 16.201–220, fa notare, invece, come lo Ps. – Macario Egizio sia il primo autore a noi noto a sollevare e ad affrontare il problema ecclesiologico della divinità dello Spirito Santo, alla vigilia del Concilio di Costantinopoli del 381.
28
Eusebio, H. E., VI,20,3 in PG 20,573.
29
Cipriano, Ep. ad Fortunatum, 11,20 in PL 4,668.
30
Fozio, Bibliotheca, 121. 232 in PG 103,404.1104.
31
Tertulliano, De pudicitia, 20 in PL 2,1021.
26
66
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
sono, però, anche voci favorevoli alla canonicità ed all’origine paolina. Nella Chiesa di
Alessandria, Panteno, per testimonianza di Clemente Alessandrino in Eusebio di Cesarea e lo stesso Clemente, riferito direttamente da Eusebio, attribuiscono l’Epistola agli
Ebrei a Paolo.32 Clemente, però, pensa che Paolo abbia scritto in ebraico e che Luca
abbia tradotto in greco. Origéne pensa che le proposizioni dell’Epistola siano di Paolo,
ma la composizione sia di un altro autore rimasto sconosciuto.33 Altre voci autorevoli
della Chiesa alessandrina come Atanasio, Didimo ed i Padri Cappadoci propendono
per l’origine paolina; lo stesso dicasi per Agostino. In conclusione, la tradizione occidentale dal IV–V secolo e quella orientale, fin da principio, propendono sia per l’origine paolina sia per la canonicità. Per la verità, parecchi elementi, ad un’analisi del testo,
non favoriscono l’opinione dell’origine paolina sul medesimo piano delle altre tredici
lettere. Manca l’iscrizione con il nome dell’autore, il saluto e la menzione dei destinatari che sono soliti in Paolo. Inoltre, il modo di citare le Scritture è diverso: mentre
Paolo usa l’espressione: «com’è scritto» ed altre simili, l’Epistola agli Ebrei introduce
le citazioni con «Dio dice» (4,3; 8,8) e «lo Spirito Santo dice» (3,7). L’autore sembra
essere stato non un Apostolo ma un discepolo degli Apostoli (2,3-4). Manca, infine,
nell’Epistola agli Ebrei, un’elaborazione dottrinale di punti che hanno tanto rilievo in
Paolo, come quello dell’unione con Cristo, con Dio Padre, con lo Spirito Santo. Ancora, nell’Epistola la Chiesa è la casa di Dio, il popolo di Dio in cammino, una comunità
cultuale; mentre in Paolo troviamo l’insistenza sulla Chiesa come Sposa di Cristo,
come Corpo di Cristo, assenti nella nostra lettera. Così, mentre tutto l’orientamento
dell’Epistola agli Ebrei è teocentrico, quello di Paolo è cristocentrico.34
In realtà, nell’Epistola agli Ebrei, non si trova una teologia dello Spirito Santo
compiutamente delineata. L’attenzione è infatti concentrata sull’unico sacerdozio di
Cristo che ha compiuto «una volta per sempre» (5; 8; 9,11-14) l’offerta al Padre,
redimendo l’umanità dai suoi peccati. Tanto meno vi è una vera e propria pneumatologia. I tre luoghi testuali da noi esaminati e sui quali si volgerà l’attenzione del
presente studio, dedicato all’Epistola agli Ebrei, sono i seguenti: Eb 2,4; 6,4; 10,29.35
Questi versetti, in relazione all’azione esercitata dallo Spirito Santo, ci fanno comEusebio, H. E., VI,14,2-4 in PG 20,549.552.
Ibidem, VI,25,11-14, col. 584.
34
Per informazioni più complete si rinvia a S. Zedda (a cura di), Lettera agli Ebrei, San
Paolo, Cinisello Balsamo 1989, Introduzione, 8–22.
35
Eb 2,4: «mentre Dio convalidava la loro testimonianza con segni e prodigi e miracoli d’ogni
genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà.»; Eb 6,4: «Quelli infatti
che furono una volta illuminati, gustarono il dono celeste, diventarono partecipi dello Spirito
Santo»; Eb 10,29: «Pensate quanto maggiore sarà il castigo di cui sarà ritenuto meritevole
chi avrà calpestato il Figlio di Dio e considerato profano quel sangue dell’alleanza dal quale
è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia ?».
32
33
67
Francesco Aleo
prendere come lo Spirito è dono inerente al Figlio. Il dono dello Spirito Santo, così,
è inteso come carisma in Eb 2,4; come partecipazione allo Spirito Santo in Eb 6,4;
come grazia in Eb 10,29.
L’esegesi di Giovanni Crisostomo
L’attività omiletica di Giovanni Crisostomo è enorme, anche se, nella maggior
parte dei casi, la sua predicazione non si caratterizza per un particolare approfondimento speculativo della materia. Come predicatore il Crisostomo è di vena facile, entusiasta e sensibile a vari problemi etici e spirituali, sociali e politici. Non
si può dire, però, che l’esegesi del Crisostomo delle omelie sul N.T. apporti nuovi
motivi di analisi e di riflessione all’esegesi sul testo sacro. Tuttavia, l’esegesi del
predicatore può aiutare a comprendere i problemi della comunità ecclesiale nella
quale egli annunzia ed insegna la Parola di Dio e le proposte di soluzione che egli
avanza a partire dalla Scrittura. Giovanni Crisostomo si trova d’accordo con altri Padri sull’origine paolina e sulla canonicità dell’Epistola agli Ebrei.36 Le trentaquattro
Omelie sull’Epistola agli Ebrei appartengono all’ultimo anno del suo patriarcato a
Costantinopoli (403 – 404); furono pubblicate, dopo la sua morte, sulle annotazioni
stenografiche prese a suo tempo da un certo Costantino, presbitero di Antiochia.37 La
predicazione del Crisostomo, allora, si esercitò sull’Epistola agli Ebrei, proprio al
culmine degli attacchi mossi contro di lui dalla corte imperiale e da cerchie ecclesiastiche assai influenti ,fino a costringerlo a prendere la via dell’esilio.
Riguardo ad Eb 2,4, il Crisostomo osserva: «Qui mi sembra che si accenni velatamente a qualcos’altro: mi sembra che colà non siano poi molti a possedere dei
carismi ma che piuttosto li abbiano trascurati, divenendo assai pigri (nel metterli
a frutto). Perché siano dunque consolati e non vengano feriti, (Paolo) affida ogni
cosa alla volontà di Dio; Egli (Dio) sa a chi e che cosa apporta giovamento e così
distribuisce la grazia; cosa che fa nell’Epistola ai Corinzi dicendo: “Dio ha posto
ciascuno di noi come ha voluto” (I Cor 12,18) ed ancora: “A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene” (I Cor 12,7), secondo la sua volontà. Mostra
che il carisma consiste nella volontà del Padre. Spesso molti non hanno ricevuto i
carismi a motivo di una vita dissoluta e pigra; talvolta, però, anche coloro i quali
36
37
Giovanni Crisostomo, Homeliae in Haebraeos, Prologus in PG 63,9-14.
Il lavoro degli stenografi o tachigraf,i come venivano chiamati, era molto apprezzato ed
utile nell’antichità. Cicerone, per esempio, si serviva dell’opera tachigrafica del suo schiavo Tirone; nel Cristianesimo antico, ad Alessandria, ricordiamo il caso di Origéne per il
quale Ambrosio, un ricco gnostico, convertito da lui al Cristianesimo, mise a disposizione
un vero e proprio staff di tachigrafi per trascrivere le lezioni che egli teneva nel Didaskaléion di Alesssandria e le sue opere , in particolare quelle esegetiche.
68
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
conducono una vita buona ed onesta non li ricevono; perché mai ? Perché non vadano in rovina, non si montino la testa, non si impigriscano e non si insuperbiscano.
Infatti, anche senza carismi, la coscienza di una vita onesta è sufficiente per insuperbirsi, molto più di quanto avverrebbe se sopravvenisse la grazia.».38
Le osservazioni del Crisostomo sono acute e degne di essere menzionate, perché
collocano la comprensione di Eb 2,4 nel vivo della questione ecclesiale, riguardante
la fonte dei carismi. Da dove provengono, infatti, i carismi: dall’agire degli uomini
e quindi dai loro meriti ? Oppure, i carismi provengono da Dio, il quale ne dispone
come più gli piace ? L’antiocheno, ovviamente, si rifà a Paolo, citandone - nell’ordine seguito dal testo - I Cor 12,18; 7. La mutazione, apportata dal Crisostomo in I
Cor 12,18, conferisce alla citazione paolina un senso più ampio e significativamente
diverso rispetto all’originale.39 Il corpo, infatti, è omesso e le membra sono assimilate ai carismi o piuttosto alle persone che compongono, tutte insieme, quel corpo
che è la Chiesa. L’esegesi di Crisostomo è così largamente sottintesa, fatto comune
nella predicazione orale, nella quale il predicatore può permettersi di saltare alcuni
passaggi del suo ragionamento e di giungere subito alla conclusione. Il carisma più
grande e più vero consiste, allora, nel saper compiere la volontà di Dio con umiltà e
con spirito di servizio; non sempre, infatti, disporre di un carisma significa il saperlo
mettere a frutto È per compiere la sua volontà che Dio ci ha creati e ci ha posti nel
mondo e nella Chiesa.
In riferimento a Eb 6,4, il Crisostomo si sofferma sulla grazia comunicata nel battesimo: «Qui mostra molti doni. Perché tu apprenda, ascolta: “Sei reso degno di una
simile remissione (dei tuoi peccati) anche se il Maligno, Satana, l’estraneo, colui il
38
Giovanni Crisostomo, Hom. in Haebr. III in PG 63,33-34: Entau=qa kai¿ ti aÃllo
ai¹ni¿ttesqai¿ moi dokeiÍ: ei¹ko\j ga\r mh\ eiånai pollou\j e)keiÍ xari¿smata eÃxontaj, e)kleloipe/nai de\ tau=ta, aÀte nwqrote/rwn au)tw½n genome/nwn. àIn’ ouÅn au)tou\j kaiì e)n tou/t%
paramuqh/shtai, kaiì mh\ a)fv= katapeseiÍn, to\ pa=n a)ne/qhke tv= tou= Qeou= boulv=: au)to\j
oiåde ti¿ni ti¿ sumfe/rei, fhsiì, kaiì ouÀtw katameri¿zei th\n xa/rin: oÀper kaiì e)n tv= pro\j
Korinqi¿ouj poieiÍ le/gwn: ¸O Qeo\j eÃqeto eÀna eÀkaston h(mw½n, kaqwÜj h)qe/lhse: kaiì pa/
lin, ¸Eka/st% de\ h( fane/rwsij tou= Pneu/matoj di¿dotai pro\j to\ sumfe/ron, kata\ th\n au)
tou= qe/lhsin. Dei¿knusin oÀti to\ xa/risma kata\ th\n tou= Patro/j e)sti qe/lhsin. Polla/
kij de\ kaiì di’ a)ka/qarton bi¿on kaiì nwqh= ou)k eÃlabon polloiì xa/risma: e)ni¿ote de\ kaiì
kalo\n bi¿on eÃxontej kaiì kaqaro\n ou)k eÃlabon: ti¿ dh/pote; àWste mh\ e)ktraxhlisqh=nai,
wÐste mh\ fusiwqh=nai, wÐste mh\ r(#qumote/rouj gene/sqai, wÐste mh\ ple/on e)parqh=nai.
Ei¹ ga\r kaiì xwriìj xari¿smatoj au)th\ tou= kaqarou= bi¿ou h( sunei¿dhsij i¸kanh\ e)pa=rai,
poll%½ ma=llon, oÀtan kaiì h( xa/rij prosv=. A tutt’oggi, non è disponibile una versione ita-
liana delle Homm. in Haebraeos, la versione italiana è stata dunque curata dall’autore del
presente studio, cercando di rimanere aderente alla lettera del testo.
39
I Cor 12,18: «Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come
egli ha voluto»
69
Francesco Aleo
quale odia Dio, il distruttore, è assiso nelle tenebre; proprio tu sei stato subito illuminato, reso degno dello Spirito, del dono celeste, dell’adozione a figlio, del Regno
dei cieli, degli altri beni, dei misteri ineffabili e non essendo migliore degli altri, ma,
anzi, a te che eri degno della dannazione, è toccata in sorte la salvezza e l’onore;
come avrebbero potuto correggere i peccati più gravi, dal momento che avrebbero
potuto essere battezzati di nuovo ?”».40
Il dono dello Spirito è dunque offerto, comunicato, amministrato, nel Battesimo.
Il dono dello Spirito corregge le storture, ripara i guasti nell’anima dovuti al Maligno, a motivo del Peccato Originale. Poiché tutto questo è opera dello Spirito Santo,
il suo dono non può essere reiterato, perché, se è necessario un secondo battesimo
per correggere e riparare i danni prodotti dal Peccato, vuol dire che il primo non corregge e non ripara quei danni ed allora non contiene in sé lo Spirito Santo, non viene
da Dio. Inoltre, non essendo unico, il Battesimo non potrebbe partecipare dell’unità
di Dio Padre con il Figlio e dell’unicità del Padre e del Figlio.41 infatti, il Crisostomo
lascia intendere che il Battesimo, proprio poiché è un sacramento informato dallo
Spirito Santo, viene da Dio e debella il Maligno in maniera definitiva, altrimenti
non sarebbe efficace, non sarebbe Battesimo. Con il Battesimo, si ricevono tanti ed
incommensurabili doni, che non avrebbe senso reiterare il dono dello Spirito in esso
ricevuto. Per il Crisostomo, lo Spirito Santo è guida che indica all’anima la direzione
da prendere, direzione che riceve nell’adozione filiale. Il tono e lo stile dialogico del
Crisostomo richiamano quello delle Catechesi mistagogiche, altro genere della letteratura cristiana antica, di cui il Crisostomo ci ha fornito chiari ed illustri esempi.42
Riguardo a Eb 10,29, il Crisostomo osserva: «Ed in che modo qualcuno può ingannare il Figlio di Dio ? Qualora qualcuno avesse parte con Lui ai (divini) misteri
ed operasse il peccato, dimmi, non lo ha forse calpestato ? Non lo ha forse disprezzato ? Come, quando siamo calpestati, noi non abbiamo alcuna parola (da dire);
così, anche quelli che peccano non hanno alcuna parola di Cristo (da dire), per cui,
40
Giovanni Crisostomo, Hom. in Haebr. IX in PG 63,79-80: Polla\ e)ntau=qa dei¿knusi ta\
dw½ra: kaiì iàna ma/qvj, aÃkouson: Kathciw¯qhj, fhsiì, tosau/thj a)fe/sewj, e)n sko/t%
kaqezo/menoj o( e)xqro\j, o( pole/mioj, o( a)phllotriwme/noj, o( qeostugh\j, o( a)pollu/menoj: o( toiou=toj ouÅn e)cai¿fnhj fwtisqeiìj, Pneu/matoj a)ciwqeiìj, dwrea=j e)pourani¿ou,
ui¸oqesi¿aj, basilei¿aj ou)ranw½n, tw½n aÃllwn a)gaqw½n, musthri¿wn a)por)r(h/twn, kaiì ou)
de\ ouÀtw belti¿wn geno/menoj, a)ll’ aÃcioj me\n wÔn a)pwlei¿aj, tuxwÜn de\ swthri¿aj kaiì
timh=j, w¨j ta\ mega/la katwrqwkwÜj, pw½j aÄn du/naito baptisqh=nai pa/lin;
Cf. Ef 4,4-6: «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete
stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è
presente in tutti.
42
Si rinvia a A. Ceresa – Gastaldo (a cura di), Giovanni Crisostomo. Le catechesi battesimali, Città Nuova, Roma 1982.
41
70
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
anche così hanno peccato. Sei divenuto corpo di Cristo e ti consegni al diavolo così
da calpestarti ? Si dice: “Dopo aver reputato comune il sangue” “Che cosa significa comune ?”: quello impuro oppure quello che avanza (cf. Lv 3,13 b). Dopo aver
oltraggiato lo Spirito della grazia. Non avendo accolto il beneficio ha oltraggiato il
benefattore. Ti ha fatto figlio e tu desideri essere schiavo ? Viene a prendere dimora
presso di te e tu fai entrare i pensieri malvagi ? Cristo ha desiderato stabilirsi presso
di te e tu lo calpesti fra gozzoviglie ed ubriachezze ? Ascolteremo coloro i quali hanno preso parte indegnamente ai misteri (divini); ascolteremo coloro i quali si sono
accostati indegnamente a quella mensa; “Non date le perle ai cani perché non vi
calpestino con le loro zampe” (Mt 7,6) vale a dire, perché non li disprezzino, perché
non li (i misteri) spieghino (ai profani). Ma non dice questo, dice, bensì, una cosa
ancor più tremenda; incalza le anime con la paura; nondimeno è sufficiente rivolgersi a loro (alle anime) con un’ammonizione. Mostra, così, insieme, il dissidio, la
correzione ed esprime su di loro il giudizio, essendo l’argomento chiaro.».43
Qui il Crisostomo parla chiaramente dell’inabitazione divina in riferimento al rifiuto della grazia o dello «Spirito della grazia» di Eb 10,29 b. L’antiocheno identifica
l’inabitazione personale dello Spirito Santo con l’inabitazione di Cristo nell’anima
che si prepara, nel catecumenato, a conoscere e quindi a ricevere i divini misteri.
L’interpretazione del Crisostomo è allora resa chiaramente in chiave catecumenale
e la paura cui si riferisce, aiuta le anime che si preparano, ad accostarsi alla mensa
eucaristica (tràpeza) ed a compiere un cammino che le porti ad accogliere lo Spirito
Santo ovvero Cristo in loro. Un cammino coerente permette all’anima santificata di
non commettere più le stesse azioni e gli stessi peccati di prima. Se l’inabitazione di
43
Giovanni Crisostomo, Hom. in Haebr. XI in PG 63,144-145: Kaiì pw½j katapateiÍ tij
to\n Ui¸o\n tou= Qeou=; àOtan o( mete/xwn au)tou= e)n toiÍj musthri¿oij, a(marti¿an e)rga/zhtai,
ei¹pe/ moi, ou)xiì katepa/thsen au)to/n; ou)xiì katefro/nhsen au)tou=; Kaqa/per ga\r tw½n
katapatoume/nwn ou)de/na lo/gon eÃxomen: ouÀtw kaiì oi¸ a(marta/nontej tou= Xristou=
ou)de/na lo/gon eÃsxon, oÀqen kaiì ouÀtwj hÀmarton. Ge/gonaj sw½ma Xristou=, kaiì di¿dwj
sauto\n t%½ diabo/l%, wÐste katapateiÍn se; Kaiì to\ aiâma, fhsiì, koino\n h(ghsa/menoj.
Koino\n ti¿ e)sti; To\ a)ka/qarton, hÄ to\ mhde\n ple/on eÃxon tw½n loipw½n. Kaiì to\ Pneu=ma th=j
xa/ritoj e)nubri¿saj. ¸O ga\r th\n eu)ergesi¿an mh\ paradexo/menoj, uÀbrise to\n eu)ergeth/
santa. ¹Epoi¿hse/ se ui¸o/n: su\ de\ qe/leij gene/sqai dou=loj; hÅlqe kataskhnw½sai pro\j
se/: su\ de\ e)peisa/geij saut%½ ponhrou\j logismou/j; o( Xristo\j h)qe/lhsen i¸drunqh=nai
pro\j se/: su\ de\ au)to\n katapateiÍj dia\ th=j kraipa/lhj, dia\ th=j me/qhj; ¹Akou/swmen oi¸
a)naci¿wj tw½n musthri¿wn mete/xontej, a)kou/swmen oi¸ a)naci¿wj prosio/ntej tv= trape/zv
e)kei¿nv: Mh\ dw½te ta\ aÀgia, fhsiì, toiÍj kusiì, mh/pote katapath/swsin e)n toiÍj posiìn au)
tw½n: toute/sti, mh/ pwj katafronh/swsi, mh\ diaptu/swsin. ¹All’ ou)k eiåpe tou=to, a)ll’
oÁ tou/tou foberw¯teron hÅn: a)po\ ga\r tou= foberou= e)pisfi¿ggei ta\j yuxa/j: i¸kano\n ga\r kaiì
tou=to e)pistre/yai paramuqi¿aj ou)x hÂtton. Kaiì o(mou= te th\n diafora\n dei¿knusi, kaiì
th\n ko/lasin kaiì th\n kri¿sin au)toiÍj e)fi¿sthsin, aÀte tou= pra/gmatoj oÃntoj fanerou=.
71
Francesco Aleo
Cristo, nell’anima, viene accostata prima ai sacrifici di comunione dell’A.T. che la
prefigurano e la preparano – con il sangue di un animale sacrificato, «figura» o typos
del sangue di Cristo – questa, poi, si compie nell’Eucaristia, mistero che non a tutti
dev’essere rivelato. Abbiamo qui un riferimento ancora al catecumenato, in particolare alla disciplina dell’arcano.44 Il Crisostomo vi coglie l’occasione per evidenziare
come l’offesa contro lo Spirito, oppure contro la grazia ricevuta, può avvenire anche
dopo aver ricevuto il Battesimo.45 In questo caso, l’«ammonizione» posta durante
il Catecumenato – forse solo in parte assimilabile alla nostra attuale ammonizione
liturgica - deve evidenziare il dissidio fra il peccato e la grazia, avvertito dall’anima;
poi la correzione, quindi il giudizio. Senza ciascuno di questi gradi l’«ammonizione»
non è fruttuosa, non può - secondo il pensiero del Crisostomo - avvalersi efficacemente della paura suscitata nell’anima dal giudizio divino.
L’esegesi dello Ps. – Macario Egizio
Gli scritti del Corpus macarianum ci sono pervenuti in quattro collezioni, note
agli studiosi secondo la numerazione romana, come Collezioni I, II, III e IV, designanti anche quattro rispettive e diverse famiglie di manoscritti. L’antichità dei manoscritti è inversa, rispetto all’ordine seguito dalla numerazione romana, designante
Nel catecumenato o cammino dell’iniziazione cristiana si circondavano di segreto, durante
l’istruzione d’iniziazione, alcune dottrine e riti cristiani. La spiegazione dei quali era riservata al periodo in cui si svolgevano i riti ed al periodo postbattesimale. Con un’«ammonizione»
o paramythìa si ammonivano i battezzandi a conservare in seguito il segreto. Tale prassi si
denomina, con terminologia moderna, disciplina dell’arcano. Cf. V. Grossi – A. Di Berardino, La Chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni, borla, Città di Castello 1984, 66.
45
La possibilità di una caduta nel peccato e, quindi, la necessità o l’eventualità di una penitenza post-battesimale, fu il primo grosso problema che si presentò all’interno della Chiesa
primitiva. La corrente rigorista rappresentata da Il Pastore di Erma, Tertulliano, Ippolito,
risponde di no. Esiste, tuttavia, nei testi patristici, un ventaglio di sfumature: da chi rifiuta
il perdono per tutti i peccati considerati gravi, a chi invece lo esclude per alcune colpe
specifiche, come l’adulterio, l’aborto, l’apostasia o simili. Il rigorismo a volte intransigente
di alcuni, come Tertulliano, non ha a suo favore seri argomenti biblici o teologici, ma solo
argomenti di ordine psicologico, in quanto parte dal presupposto che l’indulgenza possa
aprire la porta ad altri peccati. Il Pastore di Erma ritiene che la penitenza post-battesimale
è possibile una sola volta nella vita per colpe veramente gravi. Tale penitenza sarà regolamentata e codificata già in Tertulliano, con digiuni e preghiere ed altre mortificazioni,
scaglionate per un periodo di tempo e sarà detta exomologhésis, cf. V. grossi – A. Di Berardino, La Chiesa antica, 183-184. Crisostomo, ormai verso la fine del IV secolo, appare
porsi su una linea “pastorale” che insiste sull’annunzio della Parola che assolve dai peccati
e sulla paramythìa del Catecumenato che spieghi in senso mistagogico - ovvero nell’imminenza che precede o segue il battesimo – il modo in cui non cadere nel peccato.
44
72
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
le singole collezioni, sicché i testi della Collezione IV - che si ritrovano tutti nella
Collezione I – sono più antichi rispetto a tutti gli altri e via di seguito. Solo le prime
tre collezioni ci tramandano scritti propri ed originali attribuibili allo Ps. –Macario.
I suoi scritti ebbero grande fortuna ed una vasta diffusione negli ambienti monastici
bizantini, come quelli del Monte Athos, da cui provengono i manoscritti più sicuri
e dalla scrittura più accurata.46 La fortuna di questi scritti va di pari passo con la
fioritura e la riscoperta della mistica cristiana, come testimonia il numero dei codici
manoscritti a noi pervenuti. Lo Ps. –Macario cita liberamente, assai spesso, il testo
scritturistico, ora scomponendo la citazione in brevi lemmi, ora ricomponendo un
lemma distinto con quello appartenente ad un’altra citazione biblica. Questo procedimento che talvolta muta notevolmente il senso della citazione biblica originaria,
può farsi risalire ad un’attività praticata in ambienti ascetici e monastici che avevano
grande familiarità con le Scritture.
Negli scritti del Corpus macarianum non appaiono frequentemente le citazioni
dell’Epistola agli Ebrei che abbiamo considerato e studiato nel caso di Giovanni Crisostomo. Lo Ps. – Macario Egizio non si pronunzia sulle questioni dell’autenticità paolina e della canonicità dell’Epistola agli Ebrei, probabilmente, perché
questo non rientrava negli interessi dell’ambiente ascetico e monastico cui apparteneva. Utilizza i testi dell’Epistolario paolino, soprattutto l’Epistola ai Romani, in
particolare Rom 8, ma anche I e II Epistola ai Corinzi, in particolare II Cor 6,16
ed il Vangelo secondo Giovanni, in particolare Gv 14,23, in ordine all’inabitazione personale dello Spirito Santo. Proprio in riferimento a quest’ultimo, importante
tema esegetico, lo Ps. – Macario cita in particolare Eb 6,4.
In un testo della collezione I, precisamente in una erotapòkrisis, pone, a commento di Eb 6,4, la seguente considerazione: «eppure gli illuminati, e coloro che hanno
gustato, cadono. Come vedi hai la volontà per accordarti con lo Spirito o per contristarlo. Certamente (lo Spirito) prende le armi, per entrare in guerra e combattere
contro i nemici; certamente fu illuminato, per poter far guerra alla tenebra.».47
Per le notizie inerenti alla tradizione manoscritta diretta ed indiretta degli scritti pseudomacariani si rinvia a V. Desprez (par), Oeuvres Spirituelles. Homélies propres à la Collection
III, in “SCh” 275, I, Paris 1980, Introduction, 13-31.
47
Log., 6,8 (Coll. I): kaiì oi¸ fwtisqe/ntej ga\r kaiì oi¸ geusa/menoi parapi¿ptousin. o(r#=j oÀti
46
eÃxei qe/lhma tou= sumfwnh=sai t%½ pneu/mati kaiì eÃxei qe/lhma tou= luph=sai. pa/ntwj
ga\r lamba/nei ta\ oÀpla, iàna a)pe/lqv ei¹j po/lemon kaiì a)gwni¿shtai kata\ tw½n e)xqrw½n,
pa/ntwj e)fwti¿sqh, iàna a)ntistrateu/shtai t%½ sko/tei. Si rinvia a H. Berthold, Makarios/
Symeon. Reden und Briefe. Die Sammlung I des Vaticanus Graecus 694 (B), in “GCS”,
I, Akademie Verlag, Berlin 1973, 90 per l’edizione critica ed a F. Moscatelli (a cura di),
Macario/Simeone, Discorsi e dialoghi spirituali/1, Ed. scritti monastici Abb. Di Praglia,
Abbazia Di Praglia 2003, 139, per la versione italiana.
73
Francesco Aleo
Il presente brano evidenzia il libero arbitrio dell’anima ed il primato della sua
volontà che ha il potere di accordarsi con lo Spirito Santo oppure di contristarlo.
Anche dopo aver ricevuto il dono dello Spirito si può cadere nel peccato. Il dono
dello Spirito, allora, non priva l’anima della sua responsabilità di fronte alla tentazione ed al Male; lo Spirito Santo, piuttosto, è un alleato che ci aiuta a vincere le
potenze delle tenebre.
Riguardo ancora Eb 6,4 abbiamo scelto un brano della Collezione II che osserva: «Quanti hanno gustato quel dono hanno in sé stessi un duplice sentire: gioia e
consolazione, timore e tremore, esultanza e compunzione.».48
L’affermazione dello Ps. – Macario va in direzione di un’esperienza autentica, reale, quasi sensibile degli effetti della presenza dello Spirito Santo nell’anima
santificata. Tale esperienza è ambivalente, non è netta né definibile, è, piuttosto,
esistenziale.
Nella Collezione III sempre a proposito di Eb 6,4 troviamo: «il secondo che
percepisce (aisthànetai) l’energia della potenza divina si avvicina ed entra in comunione con la natura divina.».49
Per lo Ps. –Macario, lo Spirito Santo opera nell’anima, prepara, promuove ed accompagna quella che chiama, in altri luoghi testuali, «attività spirituale» o ergasìa
pneumatiké, di cui l’anima non può non avere una percezione, quasi sensibile. L’italiano «percepisce» traduce il greco aisthànetai che indica, infatti, l’esperienza sensibile e
le percezioni sensoriali. Tale linguaggio e l’uso ardito di certe espressioni può prestare
il fianco ad accuse circa l’esperienza sensibile dello Spirito Santo, opinione eretica, che
si ritrova fra gli errori dei messaliani condannati al concilio di Efeso del 431.50 Tuttavia, è certo che, per il nostro autore, le esperienze della grazia e dello Spirito Santo,
nell’anima, non sono vaghe od aleatorie, ma sono esperienze reali e profonde.
48
Hom., 15,36,513-514 (Coll. II): oi¸ ga\r geusa/menoi e)kei¿nhj th=j dwrea=j eÃxousi ta\ a)mfo/
tera suno/nta au)toiÍj, xara\n kaiì para/klhsin, fo/bon kaiì tro/mon, a)galli¿asin kaiì
pe/nqoj. Si rinvia a H. Dörries, Die geistlichen Homilien des Makarios, in “PTS” 4, De
Gruyter, Berlin 1964, 148 per l’edizione critica ed a L. Cremaschi (a cura di), Pseudo –
Macario. Spirito e fuoco, Ed. Qiqaion com. di Bose, Magnano 1995, 205, per la versione
italiana.
49
Log., 18,1,4,50-51 (Coll. III): aÃlloj ouÂtoj kaiì aÃlloj e)keiÍnoj. ka)keiÍno me\n kalo/n, a)
ll’ o( duna/mewj qei¿aj <e)ne/rgeian> ai¹sqano/menoj ouÂtoj e)ggi¿zei kaiì koinwneiÍ fu/sei
qei¿#. Si rinvia a E. Klostermann, Neue Homilien des Makarios/Symeon, I: Aus Typus III in
“TU” 72, Akademie Verlag, Berlin 1961 per l’edizione critica, a V. Desprez (par), Oeuvres
Spirituelles. Homélies propres à la Collection III, in “SCh” 275, I, Cerf, Paris 1980, 222
con la versione francese ed il testo greco a fronte ed a F. Aleo (a cura di), Pseudo-Macario.
Discorsi, Città Nuova, Roma 2009, 130 per la versione italiana.
50
Per le notizie circa i messaliani ed il Messalianismo negli scritti del Corpus macarianum
si rinvia a C. Stewart, Working the earth of the heart, Clarendon Press, Oxford 1991.
74
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
Conclusioni
Le conclusioni cui vogliamo giungere, in questo breve studio, non pretendono
di essere definitive, ma desiderano indicare alcuni spunti per una nuova ricerca,
negli studi riguardanti l’ascetismo nel Cristianesimo antico. Ad un primo sguardo,
Giovanni Crisostomo, il monaco-vescovo, e lo Ps. – Macario Egizio, il monaco cenobita, appaiono essere due personalità ben distinte; in verità, sia la loro esperienza
monastica sia la loro formazione ascetica presentano degli elementi in comune.
Basti pensare che, nel terzo luogo testuale delle Homiliae in Haebraeos di Giovanni Crisostomo che abbiamo preso in considerazione, si fa menzione dei «pensieri malvagi» o poneroùs loghismoùs che ritroviamo negli scritti dello Ps. – Macario,
suggerendo se non un contatto, almeno una comune appartenenza al Monachesimo
d’Asia Minore e ad una medesima formazione ascetica. L’esperienza monastica
vissuta da Giovanni Crisostomo e dallo Ps. – Macario è importante, perché il loro
raffronto permette di accorgerci come Crisostomo, monaco-vescovo, si sia lasciato
alle spalle quell’esperienza, senza rinunziare alla sua formazione ascetica.51 Lo Ps.
– Macario, invece, a differenza dell’antiocheno, mostra di non voler aprire l’ascesi al mondo; vuole, piuttosto, definirla, precisarla ulteriormente e difenderla, ad
oltranza, in una comunità chiusa ad ogni influenza proveniente dall’esterno. Tale
difesa ad oltranza non è fine a se stessa, non è espressione di una corrente ascetica
intransigente o eterodossa; piuttosto, è il mezzo per far sperimentare all’anima,
santificata dalla grazia, l’esperienza del dono dello Spirito Santo. È all’insegna di
questa esperienza che lo Ps. – Macario parla dello Spirito come dono, utilizzando
l’Epistola agli Ebrei, nei luoghi testuali sopra evidenziati. Soprattutto Eb 10,29
consente a questo ignoto monaco cenobita di parlare di esperienza esistenziale dello
Spirito Santo che guida e protegge l’anima dal rischio di imboccare strade senza
uscita o di vivere esperienze mistiche illusorie ed errate. A differenza del Crisostomo, lo Ps. – Macario presenta il dono dello Spirito Santo in maniera che possa
essere gustato dall’anima attraverso un’esperienza fortemente individuale. Per il
monaco-vescovo antiocheno le cose non stanno così; tuttavia, in lui, è presente una
preoccupazione comune anche allo Ps. – Macario: la caduta nel peccato anche dopo
aver ricevuto il Battesimo. Tale preoccupazione ci consente di stabilire che il dono
dello Spirito Santo, per il Crisostomo e per lo Ps. – Macario, consiste nel Battesimo.
Per il Crisostomo, una tale eventualità lo induce a cercare il rimedio nello stesso
catecumenato che prepara al Battesimo i catecumeni. Questo rimedio lo trova nella
paramythìa o «ammonizione» che deve individuare prima il «dissidio» o diaphorà
51
Cf. F. Aleo, Il ministero sacerdotale in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio,
62-63.
75
Francesco Aleo
che esiste nell’anima del peccatore e che è quello che l’ha indotto a peccare; poi, la
«correzione» o kòlasis, adeguata al peccato; infine il «giudizio» o krisis verso il peccatore. Per lo Ps. – Macario, il peccato avviene perché l’anima, con la sua volontà, vi
ha acconsentito, potendo anche scegliere di non acconsentirvi. In tal modo, il peccato avviene non in un contesto ecclesiale, catecumenale, come per il Crisostomo, ma,
piuttosto, il peccato diventa soggettivo, riguarda l’anima dell’individuo. In questo
si può vedere un tratto rigorista dell’ascesi pseudomacariana che sembra accostarlo
all’Encratismo, filtrato attraverso l’apocrifo Vangelo di Tommaso.52
Il ruolo della volontà ha accentuazioni significativamente diverse nei due autori,
la sua importanza conferma, però, la matrice monastica ed ascetica della loro spiritualità. Così, se per lo Ps. – Macario la volontà è determinante nell’anima, perché
questa si decida per Dio o per Satana, per gli angeli o per i demòni, per la vita
secondo lo Spirito o per la vita secondo la carne. Per il Crisostomo, il dono dello
Spirito Santo è carisma e questo, nella sua vera essenza, consiste nel compiere la
volontà di Dio. Il carisma di compiere la volontà di Dio permette all’anima di vivere nella Chiesa la propria vita autenticamente cristiana.
Negli scritti pseudomacariani, la grazia inabita personalmente nell’anima grazie
allo Spirito Santo e l’anima avverte sensazioni, sentimenti ed emozioni come gioia
e consolazione, timore e tremore, esultanza e compunzione. Fra questi due stati, posti nell’anima, in apparente opposizione, ma in chiara specularità, come attraverso
una concordia-discors, si attua la vita di grazia dell’anima e, quindi, la vita cristiana
della persona, la quale percepisce lo stato di grazia ovvero la presenza dello Spirito
Santo in lei. Il genere letterario dell’Erotàpokrisis, ponendo un dialogo fra maestro e
discepolo, rende bene, anche espressivamente, questa dialettica presente nell’anima
inabitata dallo Spirito Santo. Il tema dell’inabitazione personale dello Spirito Santo
non lo troviamo in Giovanni Crisostomo ed è comprensibile, per il fatto che questo
tema si accostava pericolosamente all’eresia messaliana condannata nel Concilio di
Efeso del 431. Egli, però, si riferisce allo stesso insegnamento ascetico pseudomacariano sulla concordia discors degli stati d’animo influenzati dallo Spirito, quando
parla della diaphorà o del «dissidio» che sorge nell’anima riguardo alla decisione
da prendere nello scegliere di fare il male o di fare il bene. Si può così affermare
che il monaco-vescovo è più avanti, rispetto al monaco cenobita, nella dottrina sul
discernimento degli spiriti. Tuttavia, il fatto che, nell’Epistola agli Ebrei, non esista
una pneumatologia vera e propria o che questa vi sia appena accennata, consente
allo Ps. – Macario di sviluppare il tema dell’inabitazione personale dello Spirito
Santo, accogliendo la prospettiva del dono dello Spirito di Eb 6,4. Può dirsi, quindi,
52
Vedi A. Baker, Ps.-Macarius and the Gospel of Thomas, in “VC” (XVIII) 1964 215-225;
G. Quispel, The Syrian Thomas and the Syrian Macarius, ibidem, 226-235.
76
L’Epistola agli Ebrei in Giovanni Crisostomo e nello Ps. – Macario Egizio
che la recezione di Eb 6,4 nello Ps. – Macario vada incontro alle esigenze di una
spiritualità prettamente monastica ed agli interessi di un ambiente ascetico orientato
verso un’esperienza personale dello Spirito Santo. Anche in questo modo si giustifica il genere dell’Erotapòkrisis - domande dell’allievo e risposte del maestro – e
quello dell’Omilìa, che nello Ps. – Macario ha maggiormente i caratteri del Protrettico o più nello specifico dell’Esortazione spirituale. Da una prospettiva veramente
ecclesiale partono, invece, le considerazioni di Giovanni Crisostomo sull’Epistola
agli Ebrei. L’Omelìa del Crisostomo appare essere maggiormente in debito verso
l’Oratio della retorica antica; vi si vede, in particolare, la scuola del grande retore
pagano Libanio dal Crisostomo frequentata. In Eb 2,4, Crisostomo vi scorge la nozione ecclesiale di carisma; in Eb 6,4 il dono del Battesimo, comunicato attraverso
l’illuminazione e l’adozione filiale; infine, in Eb 10,29, il mistero dell’Eucaristia
con l’attenzione riservata ad una giusta e corretta paramythìa ovvero un’«ammonizione» liturgica, quindi, ecclesialmente situata. L’omelìa sull’Epistola agli Ebrei
si pone, allora, come a commento ed a supporto del catecumenato. Probabilmente,
l’assenza di una pneumatologia nell’Epistola agli Ebrei, induce il Crisostomo ad
affrontarne l’esegesi senza timore di affrontare argomenti scottanti o di prendere posizioni scomode, occupandosi di un argomento squisitamente teologico e di
natura “spirituale”. Ma era ormai tardi: di lì a poco, il patriarca di Costantinopoli
avrebbe preso la via dell’esilio.
77
Laós 16 (2009) 3, 79-85
ISSR «S. Luca» - Catania
Sacrificio della croce e recenti derive europeiste
di
Giovanni Di Rosa
Università di Catania
1. Sacerdozio di Cristo e sacrificio della croce tra storia e attualità
Attraverso il proprio Figlio, Gesù Cristo, Dio ha rivelato la propria volontà salvifica
nell’Incarnazione, realizzandosi la nostra redenzione con la sua morte e aprendosi
per noi le porte del cielo mediante la sua glorificazione1. Il drammatico epilogo della
vita terrena di Gesù, affidato alla morte ignominiosa per crocifissione, è certamente
scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, ma al contempo è espressione per il
popolo cristiano della indicibile (e ingiusta) sofferenza alla quale il Figlio di Dio
non si è voluto sottrarre e della profonda umiliazione subìta per realizzare il disegno
salvifico del Padre. Attraverso questo gesto Gesù Cristo, vero e Sommo sacerdote,
assicura la redenzione come rimedio universale per un’esigenza universale; proprio il
sacrificio della croce, irripetibile, si attualizza nella santa Messa in modo incruento2.
In questo contesto può allora comprendersi come l’immagine del Cristo crocifisso
certamente è rappresentativa e perennemente rievocativa di un fatto storicamente
accaduto, come dimostrato dalle molteplici fonti a disposizione, ed è altresì tradizionalmente affidata alla esposizione nei luoghi di culto di questa visiva raffigurazione.
La croce, dunque, come simbolo di fede, rievocazione di un accadimento, segno
indiscutibile della profonda umanità di Dio, strumento di morte immaginato per i più
comuni e feroci ladroni dell’epoca, che (non a caso) oggi viene drammaticamente
richiamata da quegli episodi di intolleranza che investono le minoranze cristiane in
1
2
V., in proposito, la Lettera agli Ebrei (in particolare, ma non solamente, il Prologo), una cui
edizione, con introduzione ed efficace commento, può leggersi in La Bibbia di Navarra.
Nuovo testamento, 3, Milano, 1994, p. 255 ss.
Possono al riguardo rileggersi le belle pagine di J. Escrivà, L’Eucaristia, mistero di fede e
d’amore, in È Gesù che passa3, Milano, 1982, p. 181 ss.
79
Giovanni Di Rosa
diverse parti del mondo (talune regioni dell’Africa e dell’Asia) e raggiungono le più
crude vette dell’orrore allorché riservano ai testimoni di Cristo la stessa tragica sorte
del proprio Maestro. Tali avvenimenti sono chiaramente espressione di una profonda
avversione (meglio, di odio) rispetto a manifestazioni di religiosità che, peraltro, sono
spesso indirizzate ad alleviare le sofferenze e le difficoltà delle popolazioni locali, in
quanto si traducono in opere materiali di carità, testimonianza del credo evangelico.
Tuttavia, diversamente da questi fatti che, pur nella loro sconvolgente efferatezza,
non sono certo particolarmente presi in considerazione dall’opinione pubblica nazionale e internazionale (salva qualche rara presa di posizione indotta dai pressanti
inviti al dialogo e al rispetto reciproco tra le religioni da parte del Sommo Pontefice),
il richiamo alla croce e al crocifisso è tornato (si fa per dire) di grande attualità a
motivo di una controversia giudiziaria che ha riguardato il tema dell’esposizione del
crocifisso nelle aule scolastiche della nostra Repubblica e che è di recente approdata
(ma non definitivamente) alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
2. Il crocifisso e la spiccata sensibilità della Sig.ra Soile Tuulikki Lautsi
Tutto ha inizio allorché la cittadina finlandese Soile Toulikki Lautsi, in proprio e
quale madre dei figli minori Dataico e Sami Albertin (nati rispettivamente nel 1988 e
nel 1990), alunni all’epoca (siamo nel 2002) della scuola media “Vittorino da Feltre”
di Abano Terme (rispettivamente III e I media), agisce in giudizio dinanzi al giudice
amministrativo di primo grado per chiedere l’annullamento della deliberazione del
27 maggio 2002 del Consiglio di Istituto della scuola nella parte in cui respinge la
proposta di escludere tutte le immagini e i simboli di carattere religioso negli ambienti scolastici in ossequio al principio di laicità dello Stato italiano, lasciandoli
invece esposti nelle aule, ravvisando la violazione (appunto) del principio di laicità
dello Stato (ai sensi degli artt. 3 e 19 Cost., nonché dell’art. 9 della Convezione dei
diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848) nonché del
principio di imparzialità della Pubblica Amministrazione (ai sensi dell’art. 97 Cost.).
Il giudice adìto sospende il giudizio e rimette alla Corte costituzionale la questione
di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del testo unico 16 aprile 1994, n.
297, come specificati rispettivamente dall’art. 119 del regio decreto 26 aprile 1928, n.
1297 (all. C) e dall’art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965, nella parte in cui
includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche, nonché del predetto t.u. n.
297/1994 nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni più risalenti di cui
ai rr.dd. nn. 965/1924 e 1297/1928, in riferimento al principio di laicità dello Stato3.
3
Si tratta della decisione di T.A.R. Veneto (ord.), 13 novembre 2003, n. 56, in Banche dati
giuridiche Infoutet.
80
Sacrificio della croce e recenti derive europeiste
La Corte costituzionale, investita della vicenda, dichiara manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità avanzata in quanto concernente norme
regolamentari (appunto quelle contenute nei regi decreti sopra menzionati) e non
disposizioni di legge, ai sensi di quanto previsto per il giudizio di costituzionalità
dall’art. 134 Cost. 4. Il giudice amministrativo, decidendo pertanto nel merito, respinge il ricorso con motivazioni che, sia sotto il profilo strettamente giuridico sia
sotto l’aspetto socio-culturale ma, non ultimo, dal punto di vista del corretto rapporto
delineato tra principi religiosi e organizzazione dello Stato, si lascia apprezzare
(ovviamente non dalla ricorrente) per l’equilibrio e l’attenta disamina delle questioni sottese5. Se, poi, si volesse incisivamente riassumere la posizione espressa dal
giudicante potrebbe riportarsi quel passo della motivazione nella quale si afferma
che «nel momento attuale, il crocifisso in classe presenta una valenza formativa e
può e deve essere inteso, sia come il simbolo della nostra storia e cultura e conseguentemente della nostra stessa identità, sia quale simbolo dei principi di libertà,
eguaglianza e tolleranza e infine della stessa laicità dello Stato, fondanti la nostra
convivenza e ormai acquisiti al patrimonio giuridico, sociale e culturale d’Italia. Il
segno della croce quindi va considerato – nella sua collocazione scolastica – anche
come simbolo religioso del cristianesimo (…) nella misura in cui i suoi valori fondanti di accettazione e rispetto del prossimo – che ne costituiscono come visto le
fondamenta e l’architrave – sono stati trasfusi nei principi costituzionali di libertà
dello Stato, sancendo quindi visivamente e in un’ottica educativa la condivisione di
alcuni principi fondamentali della Repubblica con il patrimonio cristiano»6.
Insoddisfatta delle motivazioni addotte dal giudicante la Sig.ra Soile Toulikki
Lautsi ricorre dinanzi al giudice superiore per l’annullamento della decisione ritenuta
fondamentalmente errata, ribadendo l’incompatibilità dell’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche con il principio costituzionale della laicità dello Stato.
Il nuovo giudicante, individuato nella laicità un principio fondamentale del nostro
ordinamento costituzionale e rilevatane peraltro la sostanziale storicità, legata cioè
al divenire dell’organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, ha modo di precisare
(ma in un certo senso anche ribadire quanto affermato nel precedente giudizio) che
«in una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il
crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per
credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata e assumerà un significato
non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di
4
5
6
Il riferimento è a Corte cost. (ord.), 13 dicembre 2004, n. 389, in Banche dati giuridiche
Infoutet.
La pronuncia è di T.A.R. Veneto, 22 marzo 2005, n. 1110, in Banche dati giuridiche Infoutet.
T.A.R. Veneto, 22 marzo 2005, n. 1110, cit.
81
Giovanni Di Rosa
richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile e intuibile (al pari di ogni
simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono
e ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile.
In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da
quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a
prescindere dalla religione professata dagli alunni»7. Questo tipo di impostazione,
che chiaramente mette in campo il rapporto (ritenuto a torto incrinato dalla ricorrente) tra principi costituzionali ed esposizione del crocifisso in un luogo pubblico,
porta il giudicante a concludere coerentemente che «la decisione delle autorità
scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule
scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità
proprio dello Stato italiano»8.
3. (Segue). Errare è umano ma perseverare è …
Nonostante i due gradi di giudizio la Sig.ra Soile Tuulikki Lautsi non ritiene
soddisfacenti le indicazioni ricevute dai giudici italiani, che pure sono fedeli interpreti
del dettato costituzionale (basti pensare al riguardo al significativo richiamo alla previsione di cui all’art. 7 Cost.), e passa ad adire la Corte europea dei diritti dell’uomo,
organo deputato a verificare il rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che il
nostro Paese (tra pochi) ha ratificato con legge 4 agosto 1955, n. 848. Tale Corte, che
ha sede a Strasburgo, va subito distinta dalla Corte di Giustizia della Comunità europea
che, invece, è organo giurisdizionale rappresentativo degli attuali 27 Paesi membri
dell’Unione europea a cui ognuno degli Stati membri può rivolgersi «quando reputi
che un altro Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi a lui incombenti in virtù
del presente trattato» (art. 227, comma 1 Trattato), in considerazione del fatto che essa,
come ultimo grado di giudizio, «assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e
nell’applicazione del presente trattato» (art. 220, comma 1 Trattato).
Le rimostranze rivolte dalla ricorrente nei confronti del sistema giuridico italiano
e delle relative decisioni (sinora) ad ella non favorevoli concernono questa volta il
ritenuto contrasto con taluni principi della richiamata Convenzione e, in particolare,
con il diritto riconosciuto a ciascuno di garantire ai propri figli un’istruzione e un
insegnamento conformi alle proprie convinzioni religiose e filosofiche nonché con
il diritto alla propria libertà di pensiero e di religione. Più precisamente, vengono
richiamati, rispettivamente, l’art. 2 del Protocollo n. 1 (annesso alla Convenzione)
7
8
Cons. Stato, 13 febbraio 2006, n. 556, in Banche dati giuridiche Infoutet.
Cons. Stato, 13 febbraio 2006, n. 556, cit.
82
Sacrificio della croce e recenti derive europeiste
ai sensi del quale «Nessuno può vedersi rifiutare il diritto all’istruzione. Lo Stato,
nell’esercizio delle funzioni nel settore dell’istruzione e dell’insegnamento, rispetterà
il diritto dei genitori a veder garantiti l’istruzione e l’insegnamento conformemente
alle loro convinzioni religiose e filosofiche» e l’art. 9 della Convenzione secondo cui
«Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo
diritto implica la libertà di cambiare religione o convinzione, come pure la libertà di
manifestare la sua religione o la sua convinzione individualmente o collettivamente,
in pubblico o privato, con il culto, l’insegnamento, le pratiche e il compimento dei riti.
La libertà di manifestare la sua religione o le sue convinzioni non può essere oggetto di
altre restrizioni rispetto a quelle che, previste dalla legge, costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine,
della salute, della morale pubbliche, o alla protezione dei diritti e libertà degli altri».
4. (Segue). La singolare decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo:
un nuovo illuminismo al servizio del relativismo
La Corte europea, posta la (in sé condivisibile) premessa che «la scuola non
dovrebbe essere il teatro di attività di proselitismo o predicazione; dovrebbe essere
un luogo di unione e confronto di varie religioni e convinzioni filosofiche, dove gli
allievi possono acquisire conoscenze sui loro pensieri e rispettive tradizioni»9, rileva
(per la verità apoditticamente) che il sussistente dovere di neutralità e imparzialità
dello Stato impone a quest’ultimo l’obbligo di «astenersi dall’imporre, anche indirettamente, credenze nei luoghi dove le persone sono dipendenti dallo Stato o anche nei
posti in cui le persone possono essere particolarmente vulnerabili»10, come appunto
nel caso dell’istruzione dei bambini. Ciò comporta che, attesa la preminenza in capo
al crocifisso, tra i vari possibili significati, di quello religioso, «l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente
al situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle
aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e
il diritto dei bambini scolarizzati di credere o di non credere»11, con la consequenziale
condanna dello Stato italiano, posta l’incoercibilità della pronuncia, al versamento
nei riguardi della ricorrente, entro tre mesi a contare dal giorno in cui la sentenza
sarà divenuta definitiva (ossia in assenza di ricorso da parte dello Stato italiano o, a
seguito di ricorso, in caso di conferma della decisione da parte della Corte europea in
Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 novembre 2009, in www.lucacoscioni.it/rassegna
stampa/crocifisso nelle scuole/sentenza corte europea.
10
Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 novembre 2009, cit.
11
Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 novembre 2009, cit.
9
83
Giovanni Di Rosa
composizione allargata), della somma di euro 5000 (cinquemila), per danno morale,
più ogni importo che può essere dovuto a titolo d’imposta.
Se raffrontata con le precedenti decisioni dei giudici italiani la decisione della
Corte europea veramente sembra smarrire taluni principi fondanti del nostro ordinamento, così come efficacemente esposti nelle sentenze dei giudici amministrativi
sia di primo sia di secondo grado. In particolare ciò che colpisce è l’assoluta trasposizione di questioni del tutto differenti e, come tali, oggetto di una disciplina di
carattere sovranazionale affatto distinta; in altri termini, come è possibile ritenere,
solo per soffermarci su uno dei possibili aspetti esaminabili, che l’esposizione del
crocifisso sia contraria alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e come
tale va esclusa, trasformando pertanto un diritto alla espressione in un diritto che
obbliga, in sostanza, alla eliminazione del crocifisso, imponendo pertanto un dovere
di astensione e, peggio, di rimozione? Non solo, ma occorre altresì interrogarsi su
quale valenza abbia dato la Corte europea proprio a quel principio di laicità, tanto
sbandierato anche dalla ricorrente, che piuttosto sembra assumere, nella decisione
assunta, i contorni del pericoloso e pernicioso laicismo.
5. Chi ha paura del crocifisso?
La questione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è nuova e
può essere appropriato ricordare talune riflessioni, opera della scrittrice e giornalista
Natalia Ginzburg (scomparsa nel 1991), apparse sul quotidiano nazionale L’Unità
del 25 marzo 1988 (e di recente per l’occasione riprese dal Corriere della Sera), nelle
quali si affronta in maniera assolutamente laica (nel senso migliore del termine) l’argomento. In proposito, rilevato che il crocifisso non genera alcuna discriminazione,
opportunamente si evidenzia che «Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona
di spine, i chiodi evocano le sue sofferenze. La croce, che pensiamo alta in cima al
monte è il segno della solitudine della morte. Non conosco altri segni che diano con
tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del
mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere
semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto
sulla Croce per amore di Dio e del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti,
traditi e martoriati per una loro fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di
loro sui muri delle scuole non c’è l’immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai
detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli, tutti, ricchi e poveri, credenti e non
credenti, Ebrei e non ebrei, neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva mai detto
che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini».
La rilettura di queste poche righe, a mo’ di sintesi del pensiero della Ginzburg,
84
Sacrificio della croce e recenti derive europeiste
appare assolutamente e straordinariamente in sintonia con quanto affermato dai
giudici italiani a contestazione della pretesa di rimozione del crocifisso dalle aule
scolastiche, mettendo in evidenza il senso profondo della raffigurazione (ed esposizione) di un uomo appeso al legno della croce, a testimonianza dell’incontestabile
innervamento dei principi della religione cristiana (e cattolica) all’interno della società
civile che si riconosce sotto questo profilo (così come per tanti altri) debitrice del
pensiero cristiano. Non si tratta allora solamente di una bella tradizione ma di una
profonda condivisioni di valori che, mettendo al centro l’esperienza umana (nella
gioia così come nel dolore), consente di mantenere vivo il più alto rispetto per l’altro,
quantunque (e per fortuna) diverso da sé.
Al riguardo la non accettabile presa di posizione della Corte europea simboleggia
piuttosto, ancora una volta, i rigurgiti di un’offensiva laicista e, come ebbe a rilevare
qualche tempo fa un illustre pensatore, «la ripetuta insistente affermazione di laicità
non può che assumere il senso di subordinazione culturale, e di disinteresse per quelli
che sono i valori propri della morale religiosa, confinati al più nel privato, quando lo
sono; ed è quel che avviene»12. Pertanto, oltre agli svarioni giuridici in cui è incorso
il giudice internazionale (quale restrizione e indottrinamento possa mai provenire,
per chi non crede, da un pezzo di legno, con correlativa affermata lesione di libertà
fondamentali, costituisce davvero un’incomprensibile mistificazione normativa, con
consequenziale riconosciuta sussistenza del diritto soggettivo alla rimozione dell’oggetto in questione), è proprio un malinteso senso di laicità a rappresentare, ancora una
volta, il cavallo di Troia per negare dignità alle profonde convinzioni (espressione
delle proprie radici socio-culturali, oltre che religiose) di un’intera Nazione.
12
A. Del Noce, L’ora d’una nuova laicità, ora in Cristianità e laicità, a cura di F. Mercadante e P. Armellini, Milano,1998, p. 112..
85
Laós 16 (2009) 3, 87-112
ISSR «S. Luca» - Catania
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza:
una li­­bera inter-mediazione d’amore nell’Università
La Madonna sorregga il cor e la mente
di chi regge l’Università di Catania
di
Francesco Rizzo
Università di Catania
1. Storia dello Studium Generale e La prima prolusione dell’Università di Catania
1.1 Premesse storiche
L’Università degli Studi di Catania o Siciliae Studium Generale o Almo Studio, è
fondato il 19 ottobre del 1434 da Alfonso il Magnanimo. È la più antica della Sicilia
e la 13a in Italia. Ha oltre 63.000 studenti ed è una delle maggiori Università italiane.
Pietro Geremia (1399-1452) – teologo, giurista, esegeta, riformatore del clero e
scrittore umanista – nella creazione della nostra Università svolge un ruolo importante. Su incarico delle magistrature cittadine, si reca a Roma per impetrare dal Papa
Eugenio IV la Bolla costitutiva del Siculorum Gymnasium che porta la data del 18
aprile e riceve dopo il regio exequatur di Alfonso d’Aragona. Nel mese di settembre
l’abate benedettino Giovanni l’affida nelle mani di Geremia e di Pietro Speciale, Razionale del Regno, perché la consegnino al suo destinatario, il Vescovo di Catania.
L’Università così è autorizzata a tenere diversi insegnamenti: Teologia speculativa, dommatica e morale; Diritto civile, canonico e feudale; Istituzioni romane;
Medicina, Chirurgia; Filosofia, Logica, Matematica ed Arti liberali. Può inoltre
conferire in esclusiva Lauree, Baccellierati (baccalauream) ed altre licenze (simili
a diplomi professionali).
Gli allievi del Collegio Domenicano di Palermo devono quindi presentarsi a Ca-
87
Francesco R izzo
tania per il conseguimento dei titoli; Messina, invece, ottiene nel 1548 la concessione dello Studium, che però perde a seguito delle ribellioni del 1674-1678. Le licenze
sono in Medicina e Chirurgia e in utroque (entrambi), i Baccellierati in Teologia,
Medicina ed Arti, mentre le Lauree (il titolo più prestigioso) in Teologia, Diritto
canonico, Diritto civile (e in utroque), Arti liberali, Medicina e Chirurgia. I corsi
iniziano il 19 ottobre 1445, con sei docenti e vengono inizialmente tenuti in una costruzione che sorgeva in Piazza del Duomo, a fianco della Cattedrale di Sant’Agata,
nei pressi dell’attuale Seminario dei Chierici. La prima Laurea risulta conferita al
siracusano Antonio Mantello nel 1449. Nel corso del XVI secolo sono rilasciati
circa venti-venticinque titoli all’anno, mentre alla fine del secolo si arriva anche a
50 titoli all’anno.
Nel 1684 l’Università si trasferisce nei locali fino ad allora occupati dall’ospedale
«San Marco» (spostato nell’ex-monastero di «Santa Lucia», nei pressi dell’attuale
Ospedale Vittorio Emanuele, in via Ospedale Vecchio), fino al 1693 quando il terremoto ne distrugge la fabbrica. Da allora le attività si svolgono in alcuni locali alla
Marina, fin quando non sono terminati i lavori per la costruzione del nuovo Palazzo
dell’Università (iniziati nel 1696 sulle rovine del precedente edificio), che diviene
sede definitiva sino ad oggi. Nel XVII secolo lo Studium gode di una buona reputazione in quanto è uno dei pochi, nel Regno di Spagna, a rilasciare titoli degni di
considerazione (al pari delle Università di Salamanca, Valladolid ed Alcalà).
Nel 1779 si ha una riforma dello Studium: in quel periodo gli studenti erano circa
duemila. Le cattedre vengono portate a trenta (con una prevalenza di cattedre in
Legge e Medicina). Nel corso dell’Ottocento nascono altre istituzioni: l’Accademia
Gioenia per lo studio delle Scienze naturali, su progetto di Giuseppe Gioeni d’Angiò
nel 1824, l’Osservatorio meteorologico nel 1835, per iniziativa di Carlo Gemmellaro,
l’Osservatorio Astronomico e l’Orto botanico nel 1858. Nasce anche la cattedra di
Economia politica. Nello stesso secolo, avviene una forte riduzione del numero di
studenti, causato dall’istituzione dell’Università di Palermo nel 1805 ed il ripristino
dell’Università di Messina nel 1838. Il crollo del numero degli studenti è in parte
frenato da un provvedimento del re Ferdinando II, che determina il bacino territoriale delle tre università siciliane (Catania ha l’esclusiva per gli studenti della sua
provincia, di quella di Noto e di Caltanissetta).
Con l’Unità d’Italia entra in vigore la Legge Casati che ripristina l’ufficio del
Rettore (abolito nel 1779), prevedendo che venga eletto tra i professori (e non più tra
gli studenti dell’ultimo anno, come prima dell’abolizione) e stabilisce cinque facoltà
per l’Università: Filosofia, Lettere, Giurisprudenza, Scienze fisiche e matematiche, e
Teologia. È abolito il provvedimento di Ferdinando II e nel 1862 la legge De Sanctis
ne stabilisce il declassamento al secondo ordine. Nel 1867 gli iscritti sono appena
143. Dal 1877 è il potere locale a sostenere finanziariamente e politicamente l’Uni­
88
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
versità, che riesce così a rilanciarsi ed essere riammessa, nel 1885, tra le Università
di primo ordine. È l’epoca dei Majorana (Salvatore ed i figli Giuseppe, Angelo e
Dante) e di De Felice.
Tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento è l’era d’oro dell’Ateneo: sono
docenti e ricercatori Mario Rapisardi, Luigi Capuana per la letteratura, ma anche
una grande quantità di scienziati. In questi anni si rafforza lo storico asse LeggeMe­di­cina, le due facoltà «forti» che danno luogo a Ordini professionali «forti».
Con i Cinquecento anni dalla nascita dell’Università, iniziano il consolidamento
e l’espansione territoriale ed edilizia dell’Ateneo: si sviluppano gli insediamenti di
Via Androne e sorge il Palazzo delle Scienze (insieme alla nuova Facoltà di Economia). L’Università entra tra i poteri forti del capoluogo, si accresce il numero
degli studenti (in particolare di Medicina) e aumenta la presenza di cliniche universitarie presso gli ospedali cittadini. Nel corso del Rettorato di Cesare Sanfilippo
(1950-1974) si avviano i progetti e la realizzazione della Cittadella Universitaria e
del Nuovo Centro Universitario Clinico-Scientifico di S. Sofia (il Policlinico) e la
Facoltà di Giurisprudenza si insedia a Villa Cerami.
Nel successivo Rettorato di Gaspare Rodolico (1974-1994) si ha l’insediamento
delle Facoltà scientifiche nella nuova Cittadella, mentre si sceglie di lasciare le
Facoltà umanistiche nel centro storico, si stabilisce la Facoltà di Lettere e Filosofia nel prestigioso Monastero dei Benedettini, l’allargamento di Giurisprudenza,
l’acqui­si­zione del Palazzo Sangiuliano, per i servizi amministrativi, e si realizza
la sistemazione della Facoltà di Scienze Politiche al Palazzo Paternò-Raddusa.
Negli anni Novanta, a seguito dell’ulteriore aumento del numero di studenti e della
diversificazione della domanda tra le Facoltà, si ingrandisce e diversifica l’offerta
formativa; si ha inoltre la nascita delle sedi decentrate, ospitanti svariati corsi di
laurea. Nel 1998 sorge la Scuola Superiore di Catania.
1.2 L’Ateneo oggi
La sede centrale dell’Università è a Catania, in Piazza Università 2. Attuale Rettore Magnifico è il prof. Antonino Recca eletto il 2 ottobre 2006 con 1010 voti e
ri-eletto il 27 aprile 2009, alla prima votazione, con voti 1172.
L’offerta formativa, in attesa che venga applicato il Decreto 22 ottobre 2004, n.
270, è costituita da 73 Corsi di Laurea di I° livello, 54 di II° livello, 9 magistrali.
Per la formazione post-Laurea sono attivi Master universitari (in numero variabile
di anno in anno) e 102 Corsi di Dottorato di Ricerca. L’Università è organizzata in
dodici Facoltà: Agraria; Architettura (a Siracusa); Economia e Commercio; Farmacia; Giurisprudenza, Ingegneria; Lettere e Filosofia; Lingue e Letterature Straniere;
Medicina e Chirurgia; Scienze della Formazione; Scienze Matematiche, Fisiche e
89
Francesco R izzo
Naturali; Scienze Politiche. Le Facoltà si suddividono in 50 Dipartimenti. Si registrano tredici centri di ricerca.
1.3 La prima prolusione dell’Università di Catania
1. La prima prolusione che inaugura la pluri-secolare vicenda storica del Siciliae
Studium Generale è opera di Geremia, uno degli interpreti più sensibili della cultura
e della spiritualità del secolo XV. Il 18 ottobre 1445, un giorno prima dell’inizio ufficiale dei corsi, Geremia pronuncia un discorso in cattedrale a cui egli stesso dà il titolo di Sermo de laude scientiarum sed praesertim Theologiae (In lode delle scienze
e in particolare della teologia). È una lezione bella e buona che mira al­l’intelligenza
della mente e alla sapienza del cuore, passando per la spirituale saggezza dell’anima.
È mossa dalla ardente speranza che la nuova Università sappia illuminare docenti e
studenti nella ricerca di quello scrigno prezioso che custodisce la ricchezza vera della sapienza della conoscenza e delle virtù. In essa «pensieri antichi e nuovi saperi»
– simpatetici e somiglianti – vengono armonizzati concettualmente ed espressi per
«rappresentare la mirabile polifonia del Creato» [Giordano L., Migliorino F., Romano V. (2002), (a cura di), La memoria ritrovata. La prima prolusione del­l’Università
di Catania. Il discorso in lode delle scienze di Pietro Geremia. (18 0ttobre 1445),
stampato presso la Tipografia Universitaria, Catania, p. 2].
2. Il discorso inizia così: «Ringrazio il mio Dio continuamente per voi, per la
grazia di Dio che v’è stata data in Cristo Gesù, perché siete stati arricchiti in Lui di
ogni cosa, di ogni parola e scienza» (1 Cor 1, 4-5). E continua con la «nota: “siete
stati resi”, cioè nella speranza, perché – da quando ha avuto inizio lo Studio in
questa città di Catania – potete ormai sperare di acquisire ogni scienza» (ibidem,
p. 5), in nome di dio che è «fonte della sapienza» (cfr. Sir 1, 5); «Il Signore è il Dio
delle scienze» (1 Sam 2, 3). L’Apostolo Paolo, a proposito dei filosofi, dice: «In realtà
l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che
soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro
manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato» (Rm 1, 18-19; Geremia cita solo il v. 19
che ho messo in corsivo). «A sua lode dunque diremo alcune parole di elogio della
scienza. Ma prima si saluti la Vergine, etc.» (ibidem). La Madonna entra così, per la
prima volta, ufficialmente nell’Università degli studi della nostra città.
3. «Siete stati resi ricchi» (1 Cor 1, 5) non di oro e argento e pietre preziose, come
coloro che sono avvelenati dalla cupidigia, ma di «scienza»: scienza in generale, in
senso largo, comprendente la sapienza e le virtù [Socrate affermava che le virtù sono
conoscenze – come dice il Filosofo nel VII libro dell’Etica (3, 1145b-1146a) – e tutti
90
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
i peccati o gli errori sono ignoranze: «Si sbagliano quanti operano il male» (Pro
4); in secondo luogo parla della scienza in particolare o in senso stretto, ordinata
alla beatitudine umana; in terzo luogo parla della scienza ancor più in particolare
o in senso ancora più stretto, della teologia, «che è più eccellente di tutte le altre»
(ibidem, p. 7)].
La scienza sazia in maniera più esaustiva; il suo possesso è più sicuro o meno ingannevole; conferisce più felicità. L’oro e l’argento non sono vere ricchezze, perché
non saziano l’animo, anzi lo «an­gustiano e lacerano» per cui il Salvatore li chiama
«spine» (cfr. Lc 8, 14). La scienza entra nell’anima, l’oro e l’argento no. «L’avido non
sarà colmato dal denaro» (Qo 5, 9).
Il possesso della scienza è più sicuro, perché l’oro e l’argento si accumulano con
difficoltà e si perdono con facilità. «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove la
ruggine e la tignola consumano e dove i ladri scassinano e rubano» (Mt 6, 19).
La scienza rende più felici ed inebria: «Che giova allo stolto avere ricchezza,
dato che la sapienza non la può comprare?» (Pro 17, 16); «Accumula ricchezze e non
sa chi le avrà in eredità» (Sal 38, 7). L’uomo che possiede la scienza è (già) beato.
Quindi sia ai saggi, sia a coloro che educano e (in-)formano gli altri è destinata una
gloria eminente nella vita futura. «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le
stelle in eterno» (Da 12, 3). Chi – laico, chierico, sacerdote – acquisisce la scienza
non è schiavo del peccato ed è senza vizi: «Ama la scienza delle Scritture e non
amerai i vizi della carne» (Girolamo a Paolino, epist 125, 11, 2).
Ecco perché chi è stato reso ricco di ogni scienza (cfr. 1 Cor 1, 5) svolge una
funzione mirabile, insostituibile, (quasi) sacerdotale e fa diventare più belli, buoni
e felici i propri allievi. Anche se coltiva, arricchisce e insegna Economia, come me.
Durante mezzo secolo di attività didattica, alimentata dalla passione conoscitiva
o ricerca, all’inizio dell’Anno accademico o scolastico, nella prima lezione, rivolgendomi ai giovani ho sempre detto: «Il corso raggiungerà il suo massimo risultato
se giunti alla fine dell’anno sarete più belli, fisicamente e spiritualmente, realizzati, sereni, contenti, motivati, pronti, cioè, ad affrontare il futuro gioiosamente nel
nome di Dio e al servizio degli uomini». Può un economista permettersi di fare un
simile discorso in-augurale? Certo, a condizione che sappia e voglia ri-significare,
re-interpretare, ri-comprendere e re-in-cantare la Scienza Economica. Cose apparentemente strane e paradossali, di cui dirò qual-cosa più avanti.
4. La scienza rende l’uomo beato e felice se la sua beatitudine consiste nella conoscenza di Dio, come com-provano l’Antico e il Nuovo Testamento. La «scienza
dispone l’uomo, lo guida e lo prepara» ad «una triplice conoscenza di Dio e delle
cose divine» (ibidem, p. 21). La prima conoscenza avviene mediante la ragione
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Francesco R izzo
naturale, ed è buona; la seconda si verifica per rivelazione divina, ed è migliore; la
terza è frutto della visione superna, ed è ottima.
La prima conoscenza si ottiene per mezzo delle creature, «dalla cui conoscenza
si giunge alla conoscenza di Dio per dimostrazione, come attraverso gli effetti si
risale alla causa» (ibidem, p. 23; cfr. Rm 1, 20: «Infatti, dalla creazione del mondo
in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle
opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità»; Sap 13, 5: «Infatti
dalla grandezza e bontà delle creature, ragionando, si può conoscere il loro autore»).
Mi concedo qualche notazione. La concezione della scienza naturale ed umana
oggi è un tantino diversa da quella che si aveva nel 1445, anno in cui Geremia
dettò la prima prolusione nella nostra Università. Quindi la «conoscenza di Dio per
dimostrazione, come attraverso gli effetti si risale alla causa» è un’affermazione da
assumere con il beneficio dell’inventario e alla luce della rivoluzione scientifica ed
epistemologica che ci ha fatto sostituire il sapere deterministico con la conoscenza stocastica o probabilistica, le certezze con le incertezze, le immutabilità con le
mutabilità, etc. Il tema andrebbe, quindi, ripreso e sviluppato, ma lo rinvio ad altra
sede e circostanza. Dunque, non sono più o tanto sicuro che «questa conoscenza
di Dio, ossia questo modo di conoscere Dio, ce lo (dia) sicuramente la Scienza della Metafisica», senza fare torto a chi la pensa diversamente. Può la Scienza della
Metafisica dimostrare l’esistenza di Dio attraverso il rapporto causa-effetto?
È certo, però, che la scienza allenta le incomunicabilità sub-sistemiche o autopoietiche e personali, e facilità l’interazione com-unicativa, com-unitaria e comunionale. La scienza è, cioè, la lingua universale per antonomasia che ha trovato
nel­l’Information & Communication Technology il messaggero o veicolo più globale,
veloce e sicuro.
Ciò premesso, sarebbe anche interessante sapere come e perché «tutte le altre
scienze e arti liberali prodotte dall’uomo» (ibidem, p. 23) dovrebbero essere di servizio della Scienza della Metafisica. Scrive Geremia:
4.1 «Innanzitutto serve la Filosofia Naturale, perché – come dice il Filosofo
– una creatura o una cosa si conosce solo quando se ne conosce la causa: oggetto
dell’intelletto è ciò che una cosa è, cioè l’essenza della cosa, come è detto nel terzo
libro Dell’anima (3, 429a; 8, 431b-432a).
Poiché per fare questa speculazione si richiede la salute fisica, a questo serve la
Medicina, che è a servizio della Filosofia Naturale. Povera Medicina, serve solo
per evitare le malattie! Ma non può essere utile per mantenere ed accrescere il bene
psico-fisico delle persone, dato che il corpo sano rende la mente sana?
4.2 In secondo luogo serve la Filosofia Morale, attraverso la quale si purifica
92
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
l’animo e si rende possibile la conoscenza di Dio, delle creature e della natura.
«Sgravato dalle passioni che schiacciano verso il basso, l’animo veda la natura della luce incorporea e immutabile, dove vivono le cause di tutte le nature create»
(ibidem, p. 27) [cfr. Boezio (cons. I, metr. 7, 1-4); Aristotele (Etica); Agostino (De
civitate Dei, VIII 3)].
Sulla immutabilità e sulle sue conseguenze, quando si accetta(va) l’opinione che
i corpi celesti fossero immutabili e che, di conseguenza, la loro luminosità fosse costante, ci sarebbe tanto da dis-dire. Mi limito a ricordare che Galileo Galilei aveva
visto nel cielo una «stella nuova», la cui luminosità variava nel tempo. Si trattava di
un enigma inspiegabile: la nuova fonte di luce non poteva essere una stella. Com’era
possibile che un cielo incorruttibile contenesse un oggetto variabile? Ciò entrava,
dunque, in conflitto con la credenza diffusa e generalizzata che le essenze celesti
fossero immutabili. La verità si è che la Filosofia Naturale, attestata a dimostrare un
sistema globale, si sarebbe dovuta mettere da parte, lasciando il posto alla «sensata
esperienza» dell’empirica scienza moderna. Del resto, è risaputo che Giovanni Paolo
II nel 1979, un anno dopo la sua elezione, prese una netta e chiara posizione a favore
della riabilitazione del sostenitore della teoria copernicana in opposizione a quella
aristotelico-tolemaica.
Il Papa che aveva manifestato l’intenzione, riabilitando Galileo, di riconciliare la
Scienza e la Fede, nel 1992 affermò che «l’errore dei teologi del tempo, nel sostenere
la centralità della terra, fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura
del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della Sacra
Scrittura» (Tornelli A., “Niente giardini vaticani per la statua di Galileo”, il Giornale, 4 settembre 2008). Purtroppo il dibattito sul processo a Galileo non s’è ancora
concluso e si continua ad accusare la Chiesa, – com’è accaduto in 400 anni di storia
che ci separano dal fatidico 1609, anno in cui, grazie al suo «Tubo ottico» o «cannocchiale», lo scienziato aveva mostrato con successo che la Luna era … un’altra Terra
– di «oscurantismo» ecclesiastico, spesso impropriamente. D’altra parte, non sono
pochi i nostalgici che ancora vorrebbero ripristinare quella combutta o commistione
tra Filosofia aristotelica e «Inquisizione cattolica» che fece scorrere tanto sangue,
più di donne considerate streghe che di stregoni uomini, procurando un grande male
alla Chiesa di Cristo. E tutto ciò, come se, il Concilio Vaticano II, che si concluse 44
anni fa, non si fosse mai verificato.
Come aveva sostenuto «l’eretico ostinato e impenitente» Giordano Bruno, la
Terra non era più il centro dell’Universo, ma un pianeta minore del Sistema solare
(uno dei tanti «mondi» che popolavano lo «spazio immenso». Tuttavia, l’astro-fisico
Giovanni Keplero, copernicano convinto, aveva obiettato che le prove di cui disponeva Galileo Galilei, non erano ancora sufficienti o risolutive per affermare una nuova concezione del cosmo. Le prove della rotazione della Terra attorno al Sole, come
93
Francesco R izzo
quasi sempre accade quando si verifica una rivoluzione scientifica, incominciarono
a conoscersi più di un secolo dopo. Non mi posso intrattenere sull’invito che il Cardinale Bellarmino aveva fatto a Galileo di avere migliori e maggiori garanzie dei
movimenti terrestri, prima di contrastare le credenze degli uomini di fede (religiosa)
che credevano che la terra fosse immobile, a causa della interpretazione letterale
della Bibbia. «A nostro avviso –scrive Giulio Giorello recensendo Odifreddi P., Hai
vinto Galileo! (Mondadori, 2009) –, però, non è tanto questione di scienza e fede o di
assolutezza della “verità” scientifica, quanto di diritto (politico) all’errore anche da
parte di grandissimi scienziati. Togliete la possibilità di commettere sbagli (e magari
spacciarli per cogenti dimostrazioni) e non avrete più libertà di ricerca» (Giorello
G., “L’impossibile impresa di Galileo: scienza e fede sotto il segno della libertà”,
Corriere della Sera, 29 novembre 2009). Principio epistemologico (oltre che diritto
politico) degli scienziati e libere scelte di fede e di scienza non possono non essere
uniti alla libertà della speranza o speranza della libertà.
4.3. «In terzo luogo serve alla conoscenza di Dio l’Economia» (ibidem, p. 27), in
quanto ci dobbiamo fare carico dei bisogni dei nostri prossimi, trattando o amando
gli altri come trattiamo e amiamo noi stessi (cfr. Sir 17, 12; Mt 22, 39).
Anche il Filosofo afferma le stesse cose nel IX libro dell’Etica (3-4, 1156a-1157b).
«Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele» (1 Tm 5, 8). Quindi,
bisogna istruire, curare ed amare la propria famiglia e gli altri cittadini di una città
o di uno Stato. A questo serve l’Economia, una parte fondamentale della Filosofia
Morale, che quando si occupa del benessere di un Paese o Nazione si associa alla Politica, divenendo Economia Politica, che è un’altra parte (un quarto luogo) della Filosofia Morale. Alla Politica sono sottoposte la Scienza del Diritto Canonico e Civile.
L’Economia ha un ruolo primario, rilevante e decisivo sia per conoscere o amare
Dio, sia per conoscere o amare gli uomini e le donne della propria e delle altrui famiglie. Ho sempre sostenuto, difeso e dimostrato il ruolo primario del­l’Eco­no­mia,
spesso, senza raccogliere l’approvazione né dei laici(sti) né dei cleri(cali) (fra i tanti
altri, cfr. Rizzo F., “Sacerdozio: una eternità derivata, manifestata nel presente e
protesa nel futuro”, Laòs, Anno XVI, 2009).
4.4. In quinto luogo sono a servizio della conoscenza di Dio anche le Arti Liberali:
a. la Grammatica, scienza del parlare e scrivere;
b. la Dialettica: «Ogni discorso resta a mezzo, perché l’uomo non riesce a concluderlo» (Qo 1, 8); quindi, «l’inizio di ogni azione è nel discorso, e prima di ogni
opera c’è il consiglio … C’è chi è abile per insegnare a molti, ma è inutile a se stesso. C’è chi fa il bravo nel parlare, ma è odiato … non gli è stata data dal Signore la
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Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
piacevolezza, ed è stato privato di ogni sapienza. Se uno è sapiente con se stesso, se
ne vedono i frutti anche sul suo corpo … Il saggio riceverà onore nel suo popolo e il
suo nome vivrà per sempre» (Sir 37, 16; 19-22; 26);
c. come terza serve anche la Retorica;
d. come quarta serve la Musica, che è scienza dilettevole;
e. come quinta serve l’Astronomia;
f. come sesta serve l’Aritmetica;
g. come settima serve la Geometria.
L’Aritmetica, la Geometria e la Musica, «conteng(o)no verità tuttavia non sono
scienze religiose» (ibidem, p. 35).
Irrilevante e riduttivo è il ruolo che Geremia assegna, nella prima conoscenza
di Dio e delle cose divine, a queste ultime tre scienze ritenute «non religiose»,
sebbene «contengano verità». I tempi in cui egli è vissuto solo in parte possono
giustificare questo giudizio che, purtroppo, s’è protratto nei secoli successivi fino
ai nostri giorni ed è responsabile dei gravi ritardi tecno-scientifici del nostro Paese
e di una certa ritrosia o indisponibilità a cogliere il rapporto che vi è tra la fede e la
ragione scientifica nell’ambiente religioso, da parte di molti teologi che privilegiano
in maniera esclusiva la finalistica o teologica comunicazione o dialettica metafisica
con la ragione filosofica.
«La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si
innalza verso la contemplazione della verità … Molteplici sono le risorse che
l’uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità … Tra
queste emerge la filosofia … La Chiesa … non può che apprezzare l’impegno della
ragione … Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità
concernenti l’esi­stenza dell’uomo … anch’io rivolgo lo sguardo a questa peculiare
attività della ragione … Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di
avere concentrato la sua attenzione sull’uomo … una ragione carica di interrogativi
ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere … Sono stati così costruiti
sistemi di pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti del
sapere, favorendo lo sviluppo della cultura e della storia. L’antropologia, la logica,
le scienze della natura, la storia, il linguaggio … in qualche modo l’intero universo
del sapere è stato abbracciato» (Giovanni Paolo II, Fides et Ratio. Lettera enciclica
circa i rapporti tra fede e ragione, Paoline, Milano, 1998, nn. 1, 2, 3, 5, pp. 3-9).
Come si vede da queste prima pagine dell’enciclica, al centro dell’analisi sono
riconosciute la (ragione della) fede e la (ragione della) filosofia, mentre la (ragione
della) scienza resta ai margini, se non viene esclusa dalla conoscenza di Dio e del
«senso delle cose e della stessa esistenza dell’uomo» (Giovanni Paolo II, ibidem, p. 3).
Bisogna, comunque, attingere all’«economia della Rivelazione» (Dei Verbum, n. 2)
o economia dell’amore per conoscere la verità su Dio e sulla salvezza degli uomini,
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Francesco R izzo
resa manifesta, possibile e splendente dall’incarnazione di Cristo.
5. La seconda conoscenza di Dio si ha per rivelazione divina, si tratta, cioè,
di conoscenze che sono di fede: «La fede dipende dunque dalla predicazione e la
predicazione a sua volta si attua attraverso la parola di Cristo» (Rm 10, 17); «Se non
crederete, non comprenderete» (Is 7, 9; secondo una variante del testo).
La sapienza di Dio viene rivelata per mezzo del suo Spirito. I filosofi, pur potendo
conoscere Dio secondo la prima via, senza la seconda conoscenza, non lo glorificarono
o non gli resero grazie: «Senza fede è impossibile piacere a Dio» (Eb 11, 6).
«Questa conoscenza ce la insegna la Scienza della Teologia, che è di gran lunga
più eccellente e più nobile delle altre scienze» (ibidem, p. 39). Ma più eccellente
della Teologia è, a mio avviso, la scienza dell’amore com-penetrata con l’amore
della scienza: «Per essere ministri al servizio del Vangelo è certamente utile
lo studio con un’accurata e permanente formazione pastorale, ma è ancor più
necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore”
con Cristo» (Benedetto XVI, «“Lasciamoci conquistare da Cristo”», Avvenire, 20
giugno 2009).
La Dichiarazione «Nostra Aetate» (28 ottobre 1965) dei I Documenti del Concilio
Vaticano II al n. 5 riporta un v. della Sacra Scrittura che dice: «Chi non ama, non
conosce Dio» (1 Gv 4, 8) o chi non ama, è morto. L’arte è la via della bellezza, la
bellezza – Lo Splendore della Verità (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, Milano,
Edizioni Paoline, 1993) – raggiunge e annette la libertà dello Spirito, lo Spirito del
Signore è Amore. Nasce così il misterioso diagramma o quadrato di Dio: Amore,
Verità, Libertà, Bellezza (cfr. Rizzo F., “Etica dei valori economici o economia dei
valori etici. Eco-nom-etica”, Laós, Anno XI, 2, luglio-dicembre, 2004, p. 15).
6. «La terza conoscenza di Dio si ha mediante la visione» (ibidem, p. 39).
«Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo
realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto
lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora
rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui,
perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 1-2; le parole che ho messo in corsivo
sono quelle citate da Geremia). Se siamo figli di Dio, e «lo siamo realmente», siamo
come Dio, cioè, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Allora conoscere (amare)
lui e conoscere (amare) noi è la stessa cosa, quando sapremo, ciò che ancora non è
stato rivelato, come saremo, vedremo che saremo simili a lui, che si manifesterà e
noi lo «vedremo come egli è» e come noi siamo. Quindi, conosceremo come egli
è, quando, vedendolo, conosceremo che gli somigliamo, perché la sua immagine si
rifletterà su di o sarà specchiata in noi. Migliore conoscenza di questa, secondo la
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Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
quale egli si incarnerà o identificherà nuovamente in noi, non ci può essere.
Per cui San Paolo dice: «La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra
profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà
… Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora lo vedremo
faccia a faccia» (1 Cor 13, 9; 10; 12). Scomparirà, cioè, il nostro vecchio modo di
essere o la nostra forma di carne, allorché la presente o futura venuta di «ciò che è
perfetto», fa o farà sparire noi che siamo imperfetti e il nostro sguardo o la nostra
faccia s’in­do­verà o combacerà o identificherà nella o con la sua faccia o sul suo
sguardo.
Alla perfetta conoscenza di Dio non si arriva solo attraverso la guida della
Teologia, ma anche con qualunque altra scienza, purché stracolmi della scienza
dell’amore. Difatti alla fine del capitolo 20 del Vangelo di Giovanni, che non è
l’ultimo perché è seguito dall’Appendice, quasi editoriale, del capitolo 21, quel che
è detto – «Molti altri segni fece Gesù, in presenza dei suoi discepoli, ma non sono
stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il
Cristo, il figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,
30-3l) – non si riferisce solo a quelli che hanno studiato Teologia o che hanno altri
requisiti o benemerenze che non siano la Grazia di Cristo ottenuta dalla fede in
Dio Padre, di Gesù e nostro: il Signore dà ai santi la santità, ai semplici la sapienza
e lascia gli intellettuali ed i saggi nell’ignoranza delle cose di Dio e degli uomini.
«Noi tutti (nessuno escluso) a volto scoperto contemplando la gloria del Signore,
siamo trasformati (mi verrebbe di scrivere tras-informati) in quella medesima
immagine, di gloria in gloria, come dallo Spirito del Signore» (2 Cor 3; le parole
in corsivo sono mie).
Attraverso le tre vie – buona, ottima e superna – in un crescendo rossiniano
conosceremo e ameremo Dio (nelle tre Persone divine) e tutte le persone umane
costituenti le comunità che vivono nel Creato che custodiscono gelosamente e
preziosamente.
Le tre vie della conoscenza sono di-segnate, rispettivamente, dalle Scienze,
dalla Teologia e dalla Fede, ma la Scienza dell’amore e l’amore della Scienza, con
l’intervento della Fede, completano la Teologia. Il rapporto complementare tra le
Scienze della natura e dell’uomo e la Scienza della Teologia e della Filosofia, deve
essere inter-mediato in modo privilegiato dall’Economia. La teologia mantiene
l’eccellenza quando è ecclesiale, sapiente e redentrice, al contrario la perde se è
castale, esclusiva e predicatoria. Infine, tra la Scienza e la Fede intercorre una
relazione di affinità e dis-affinità, simmetria e a-simmetria, naturale e soprannaturale, che ultimamente ho analizzato in Rizzo F., “Fede, ragione e scienza
dell’uomo”, Laós, 3 Anno XV, 2008; Economia della vita, della scienza e della
fede. Il muschio che manca(va), in corso di stampa.
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Francesco R izzo
Concludo questa prima parte: rilevando la scarsa importanza data dalla bellissima
prolusione alle Scienze Matematiche, Fisiche, Chimiche, etc., tenendo, anche, nel
giusto conto i luoghi ed i tempi in cui Geremia la tenne; la Fede e le Scienze sono
distinte, se non contrapposte [perché queste ultime «non sono (definite) scienze
religiose», ibidem, p. 35], secondo una visione storicamente, culturalmente e
teologicamente condizionata o determinata; oggi la Scienza è tanto bella, importante
ed utile da reclamare e meritare ben altri giudizi.
2. Il culto dell’Immacolata nell’Università di Catania
1. In questo contesto storico-culturale-biblico-ecclesiale mi piace inserire le
manifestazioni di culto per la Vergine Immacolata registrate anche nella nostra
Università di Catania – narrate con qualche iniziale riferimento al Regno delle due
Sicilie –, prima ancora che la Chiesa, circa un secolo e mezzo fa quest’anno, proclamasse solennemente il Dogma dell’immacolato concepimento.
1.1 La Madonna del Pozzo di Capurso (Ba) – alla quale è dedicato il Santuario
Santa Maria del Pozzo (cfr. Mariella M., Il Santuario di Capurso nella storia e
nella tradizione, Capurso, Edizioni LMP, 1979) – ha dato luogo ad uno dei culti
più importanti del Mezzogiorno ed è conosciuta come una ex co-patrona del Regno
delle due Sicilie assieme a San Gennaro.
L’immagine della Santa Vergine venne insignita di un altro grande onore dal
re di Napoli, come racconta il citato storico locale Mariella. Nel 1849, dopo i fatti
politici – preceduti dalla rivolta autonomistica in Sicilia (12 gennaio 1848) e dalla
concessione ad opera di re Ferdinando II della costituzione al Regno delle due
Sicilie (29 gennaio), ritirata un anno dopo a conclusione della prima guerra d’indipendenza – «che scossero tutta la Penisola, il duca di Serracapriola, come Sindaco
Apostolico degli Alcantarini di Lecce, si preoccupò di salvaguardare i diritti dei
suoi protetti, chiedendo al re Ferdinando II la conferma del Regio Patronato sulla
Provincia Monastica da lui rappresentata. L’iniziativa partiva dai Frati, i quali suggerirono anche l’idea di implorare dalla sovrana maestà un attestato di particolare
benevolenza per il Convento-Santuario di Capurso, acconsentendo alla incoronazione in oro dell’im­ma­gine della Madonna del Pozzo, per i tanti miracoli prodigiosi
compiuti da essa. La richiesta, secondo la prassi, approdò prima al Consiglio di
Stato che, nella riunione del 23 maggio 1850, la fece propria e la presentò al re
Ferdinando II, che ancora memore del pellegrinaggio a Capurso ai piedi della Madonna, concesse con piacere l’approvazione, profondamente convinto di far cosa
gradita a tutti i suoi sudditi».
Non sto a continuare il racconto edificante di questo avvenimento o dei nume-
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Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
rosi privilegi e indulgenze concessi da Clemente XI, Benedetto XII e XIV, Pio VII,
Gregorio XVI e, infine, Pio IX, allora sul soglio pontificio. Il 14 settembre 1851, il
Capitolo Vaticano emanò il decreto della «solenne incoronazione in oro della sacra
immagine della Madonna del Pozzo».
Durante la festa dell’incoronazione si era pensato di eleggere la Madonna del
Pozzo a Protettrice principale e Patrona di Capurso ma, per una serie di difficoltà
burocratiche, la cerimonia si svolse soltanto il 13 giugno successivo, cioè nel 1852.
Per aumentarne il prestigio, lo stesso Pio IX con un rescritto autografo del 23 giugno 1854, l’anno del dogma dell’Immacolata Concezione, autorizzava il Capitolo di
S. Giovanni in Laterano ad aggregare la chiesa di S. Maria della Misericordia degli
Alcantarini di Capurso alla patriarcale Arcibasilica Lateranense, madre di tutte le
chiese del mondo cristiano. La decisione fu sancita con la Bolla dell’8 luglio, rinnovabile ogni 15 anni.
1.2 A ravvivare il sentimento religioso dei cittadini e a sospingerlo in modo
particolare verso la Vergine Maria, grande mediatrice tra l’uomo e Dio, contribuirono non poco le calamità e le sventure, come spesso accade, specialmente dopo la
proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione avvenuta, come detto, nel
1854.
Per la verità il culto della Vergine, riconosciuta priva del peccato originale a
partire dal Concilio di Trento del maggio-giugno 1546 che si rimise alla Bolla di
Sisto IV in cui era dichiarato tale insegnamento della Chiesa, s’era diffuso con il
sorgere delle «Congregazioni mariane» che si svilupparono prima in Sicilia, dove
quella di Siracusa venne considerata la madre di tutte le Congregazioni mariane
del mondo. Anche nel Collegio dei Gesuiti di Catania sorse una «Congregazione
mariana aggregata a quella del Collegio Romano, come la prima di Sicilia e quinta
nell’ordine cronologico universale» (Naselli C., “Catania e la sua Università nella
storia del culto dell’Im­ma­co­la­ta”, Estr. da Catania. Rivista del Comune, se II, Anno
II, n. 1, luglio-settembre 1954, p. 71).
Nel 1643 Filippo IV emanò l’ordine per assumere in tutti i domini del regno la
Vergine come Patrona e protettrice.
2. Nel 1654 il Senato catanese elesse particolare Patrona della città la Vergine
Immacolata. L’elezione e il voto, secondo gli storici catanesi (Privitera, Amico,
etc.), si verificarono solennemente il 1655, il lunedì di Pentecoste, nella Chiesa dei
Conventuali di S. Francesco, nelle mani del Vicario Generale, con le modalità simili a quelle con le quali si erano svolte a Palermo le stesse cerimonie.
Il testo del voto, in onore dell’Immacolata, conservato nelle Biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero, stampato su una sola faccia di un piccolo foglio,
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Francesco R izzo
ornato di una «minuscola e piuttosto rozza incisione raffigurante l’Immacolata»
(ibidem), s’incentra sul riconoscimento della verità dell’Immacolata Maria Madre
di Dio concepita senza peccato originale. Tale voto, di fatto, era un’aggiunta alla
«professione di fede» che determinate categorie di persone dovevano pronunciare,
secondo le decisioni e la formula approvate dal Concilio di Trento.
Considerando la qualità e la quantità delle categorie di persone «obbligate» a
fare la professione di fede cattolica, si può pensare quanto sia stata grande la diffusione che il «voto dell’Immacolata» ebbe nella nostra città, che era, anche, centro
fiorente di studi e sede dell’unica Università siciliana autorizzata a conferire lauree.
3. «Come c’entrassero con i dogmi e i problemi della Chiesa gli studi e l’Uni­
ver­sità, non è difficile spiegare: quelli e questa, a Catania come altrove, continuavano ad essere di piena giurisdizione dell’autorità ecclesiastica, e suprema autorità
dello Studio era il Vescovo stesso col titolo di Cancelliere» (ibidem, p. 73). Ma
tale spiegazione mi sembra impari e inadeguata. Questa conferenza-preghiera o
meditazione-contemplazione mira a interpretare, comprendere e spiegare il culto
dell’Immacolata nell’Università (della nostra città, come in altri Atenei) mediante
ragioni più profonde inerenti al sacerdozio della scienza e alla rivoluzionaria economia mariana in-centrati sull’Amore della Verità.
Gli Atti del Sinodo Bonadies (Vescovo di Catania nel 1668) contenevano l’elenco di quanti, svolgendo, anche privatamente, attività di insegnamento, dovevano
pronunziare la professione di fede cattolica nella diocesi di Catania, cioè, oltre ai
canonici della Cattedrale, le autorità accademiche, non esclusi il Notaio, il Vice
Cancelliere, pur non avendo questi ultimi funzione didattica, gli studenti laureandi o dottorandi, etc. Il patronato dell’Immacolata votato dalla città di Catania
del 1654, indusse a stabilire che, coloro ai quali era fatto obbligo di pronunziare la
professione di fede cattolica dovevano impegnarsi anche, con giuramento di voto,
a riconoscere e a difendere l’Im­macolata Concezione di Maria. Regole analoghe
vigevano negli altri Studi, con formule più o meno lunghe ed elaborate.
Nel diploma di laurea dell’Ateneo di Catania nei secoli passati veniva segnata l’immagine della Madonna, almeno fino al 1778. Con le «Istruzioni» del 1779,
scomparvero dal «privilegio dottorale» figure ed ornamenti. Ma per circa due secoli la professione di fede cattolica e il giuramento di voto per Maria costituiscono
una memoria tanto alta e forte da non potere essere completamente dimenticata o
cancellata. Bisogna trovare il modo opportuno per riprenderla, onorarla e praticarla, obiettivo (non esclusivo) che mi propongo di raggiungere con questa relazione.
A tal proposito edificante ed esemplare mi sembra il richiamo solenne, ufficiale
e (ormai) consolidato che l’Ar­ci­vescovo Mons. Salvatore Gristina fa continuamente
del rapporto tra (la festa di) S. Agata e l’impegno-programma di solidarietà che di
100
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
anno in anno viene indicato e realizzato. Una iniziativa della nostra Università, simile o dissimile, della stessa portata educativa, comportamentale ed etico-sociale,
potrebbe essere opportuna, anzi confermerebbe la divinità umana o umanità divina
delle comunità di fede e di scienza protese, anche, a rafforzare l’unità e la coesione
sociale della diocesi, della città, della provincia e di tutto il territorio che gravita attorno all’ Ateneo catanese, particolarmente significative e utile nei momenti
difficili della vita delle persone e della collettività. Naturalmente, si tratta di un
progetto ambitissimo che, andando oltre queste povere parole e la manifestazione
dei miei personali convincimenti, deve essere rimesso alle possibilità-volontà della
autorità accademica, religiosa, etc. A me non resta che l’augurio della speranza che
ciò possa realizzarsi.
Infine, ritengo utile e conducente ricordare che ogni Studio aveva, oltre la Madonna, i suoi Santi prediletti. A Catania andavano per la maggiore la Patrona S.
Agata, S. Francesco di Paola, S. Tommaso e altri Dottori della Chiesa. Strettamente
ispirato alla tradizione dell’Ateneo stesso appare, dunque, il bel gonfalone che si ha
modo di ammirare nei giorni delle solennità accademiche al Rettorato nel Palazzo
centrale dell’Ateneo, e nel quale splende in alto, fiancheggiata da S. Agata e da S.
Francesco di Paola, l’immagine dell’Immacolata mirabilmente trapunta a colori su
fondo dorato. Io ho, già, avuto l’onore e il piacere, qualche anno fa, di accompagnare, assieme a due dipendenti dell’Università, il prestigioso gonfalone – ideato e
realizzato in occasione della Vª ricorrenza centenaria del 1934 – nella celebrazione eucaristica e nella processione che si svolgono l’8 dicembre ad iniziativa della
Chiesa di S. Francesco all’Immacolata di Catania.
4. Il Sinodo Bonadies prevedeva punizioni per chi non ottemperasse ai suoi
obblighi ecclesial-culturali e accademici o avesse manifestato opinioni diverse da
quelle approvate dai Pontefici. Cose di tempi diversi che nessuno, penso, sogni
di attuare oggi. Il Vescovo Michelangelo Bonadies era francescano, cioè religioso
dell’Ordine tra i più zelanti nel culto dell’Immacolata. Per questo la suddetta Chiesa
di S. Francesco di Assisi è dedicata all’Immacolata per tradizione popolare. Non
sarebbe male se questa famiglia francescana che la regge rilanciasse o rinverdisse
il culto religioso (non solo popolare) di questo grandissimo Santo, un quasi Cristo,
di cui porto con orgoglio ed umiltà il nome. Maria, la madre di Gesù, e Francesco,
il poverello d’Ass­isi, formano un’accoppiata con-vincente, fornendo un esempio
di vita cristiana uni-duale di cui le persone e la società dei nostri tempi abbiamo
assoluto e insostituibile bisogno.
Sia l’eruzione spaventosa dell’Etna nel 1669, sia lo sventurato, terribile e catastrofico o apocalittico terremoto del Val di Noto del 1693, che distrusse totalmente
la città capoluogo e la mia Occhiolà (oggi, Grammichele), furono occasioni per
101
Francesco R izzo
manifestare con maggiore forza e trasporto la fede in Dio e la fiducia filiale (oltre
che per gli uomini soprattutto) per la Madonna, nostra grande madre mediatrice
insuperabile. Queste sentite manifestazioni di fede erano rese più solenni per la
partecipazione ufficiale dell’Università, con gli studenti guidati dal Vescovo Cancelliere e dai professori.
Ulteriori testimonianze documentali del «voto» e del culto dell’Immacolata in
Sicilia si trovano nella nostra Civica biblioteca, nei quindici grossi volumi di Cristoforo Amico con il titolo Cronologia e genealogia universale del mondo dalla
sua origine sino al tempo presente (Mss. A. 47-61), specialmente in quelli aventi i
numeri 48, 52, 53. Amico visse tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del
Settecento, nel tempo in cui il culto per l’Immacolata ebbe la sua diffusione maggiore (cfr. ibidem, p. 79).
3. Allora, che, come e perché fare?
1. Giunti alla conclusione del racconto commentato della pratica popolare, dei
costumi e bisogni culturali e dell’esperienza cultuale, liturgica ed ecclesial-religiosa
riguardanti Maria Immacolata, desidero ribadire il carattere contemplattivo, pro-attivo e pro-positivo di questo o-maggio o ringraziamento intellettual-spirituale alla:
«Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso
d’etterno consiglio,/ tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che il suo fattore/
non disdegnò di farsi sua fattura./ … In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate» (Dante Alighieri, La
Divina Commedia. Paradiso, a cura di Natalino Sapegno, Milano-Napoli, Riccardo
Ricciardi Editore, Canto XXXIII, vv. 1-6; 19-21).
Quindi, è possibile chiedersi: ci sta male la Madonna – in quanto esempio, modello, memoria storica, ideale di maternità divina ed umana – all’Università, luogo
di educazione personale alla vita (sapere-essere), di formazione o apprendimento
della preparazione o competenza (sapere-conoscere), dell’acquisizione del knowhow professionale e/o manageriale (sapere-fare) e dell’assunzione della capacità o
potere di risolvere con la propria ricchezza (in senso vero e generale) gli altrui problemi (sapere-avere)? In un momento come quello che stiamo vivendo, in cui: la
vita, dall’inizio alla fine naturale, sembra essere entrata in un tunnel senza uscita
o caduta in una crisi globale irreversibile; la scienz-arte dell’uomo o della donna,
naturale o umana, che pure ha raggiunto livelli insperabili e meravigliosi, pare che
abbia smarrito la strada della ricerca del bene (etica) e della bellezza (estetica); la
fede in Dio, che alimenta la speranza e ci riempie di Carità nella Verità (Benedetto
XVI, San Paolo, Libreria Editrice Vaticana, 29 giugno 2009), appare una virtù fuori
tempo o limitata a pochi; l’esistenza e la conoscenza della Madonna, che, oltre alla
102
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
«misericordia», alla «pietate», alla «magnificenza», comprende tutte le «bontà-te»
(virtù) di una «creatura», sono estranee o incompatibili con l’organizzazione, la funzione e il fine dell’Università?
L’intera vita terrena non basta per cor-rispondere a queste due («rizz-agliate»
di) domande. Mi limito, allora, tra le molteplici, se non infinite, risposte possibili, a
sceglierne qualcuna per campione, consigliando a coloro che avessero desiderio di
saperne di più o avessero, addirittura, idee diverse di cfr. Rizzo F., Economia della
vita, della scienza e della fede. Il muschio che manca(va), in corso di stampa.
La fede non ottunde, ma incoraggia e illumina l’ingegno, la genialità e la libera creatività di artisti, scienziati e studiosi che eleggono, venendone nobilitati,
l’Univer­si­tà come la sede o Istituzione primaria in cui si apprende a vivere (prassi
esistenziale) e conoscere (azione o dominio cognitivo) insieme, in un modo mirabile, irripetibile, impareggiabile ed elevato. La Madonna, madre di Gesù Cristo e
nostra, di-mostra una fede esemplare, inimitabile e irraggiungibile da qualunque
altra creatura, perché essa è stata raggiunta da un privilegiato amore di Dio [il
lettore non può sapere che queste parole sono causa ed effetto di una meravigliosa
sincronicità che si è verificata il 29 novembre 2009 alle ore 08.00. Sia lodato il Signore. Ora e sempre].
2. «“Salve, piena di grazia, il Signore è con te”… ella rimase turbata… Ma
l’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato la grazia presso Dio. Ecco
tu concepirai nel grembo e darai alla luce un figlio. Lo chiamerai Gesù”… Allora
Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo?”. L’an­
ge­lo le rispose: “Lo Spirito Santo scenderà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti
coprirà con la sua ombra; perciò quello che nascerà sarà chiamato santo, Figlio di
Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio e
questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”.
Disse allora Maria: “Ecco la serva del Signore; si faccia di me come hai detto tu”.
E l’angelo partì da lei» (Lc 1, 28-31; 34-38).
Coloro che vanno alla ricerca dell’ignoto, creando, inventando e scoprendo ciò
che si spera, senza vederlo con gli occhi, ma con il cuore e la mente, rendendo
possibile a tutti quello che molti, la stragrande maggioranza, ritengono impossibile
[(mentre scrivo le parole di questa proposizione a Rai Uno, nella trasmissione La
vita in diretta, condotta da Lamberto Sposini, alla quale fra poco parteciperà Tony
Recca, il nostro Magnifico Rettore, discutono di amori possibili e impossibili. Inoltre, di cose possibili che possono diventare impossibili e impossibili che possono
diventare possibili ho parlato stamani a lezione con i ragazzi di Ingegneria del recupero edilizio e ambientale (Rea). È un caso? No, è un’altra delle tante sincronicità o
coincidenze quotidiane che contrassegnano la vita mia e degli altri], hanno bisogno
103
Francesco R izzo
di una minor fede, perché si fidano a priori solo della certezza della loro esperienza
creativa o intuizione pre-corritrice dei tempi e delle idee, oppure possono trarre
dall’esemplare e straordinaria esperienza di Maria, la forza e l’energia, per accogliere l’inim­magi­na­bile, l’imprevisto, l’imponderabile, l’incredibile per molti? Lascio alla vostra personale riflessione o meditazione il compito di dare, liberamente,
contenuto alla risposta da dare alla domanda. Non aggiungo altro sulla possibilità
dell’im­possibilita o sull’impossibilità della possibilità. Una sola cosa è certa: nulla è
impossibile a Dio.
3. La capacità di ascolto e il linguaggio non verbale del musicale silenzio –
fatto di aperture di cuore, sospiri d’anima, com-mozioni di sentimenti, emozioni
del­l’in­tel­ligenza, impero o suoni di segni – di Maria dovrebbero essere praticati
all’Università più che in ogni altro luogo o teatro della vita e della scienza, perché
l’Almo Studio o Siculorum Gymnasium di Catania o è com-unicazione (paritaria, reciprocante, solidale, rispettosa), com-unione (d’amore) e com-unità (d’intenti,
fini e mezzi) o non è Università. Quindi ci dobbiamo ad-operare tutti, ognuno per
quel che sa, può e vuole, affinché la nostra Università – aprendosi, dialogando e
collaborando, sempre più, con quanti perseguono questi fondamentali obiettivi e
facendo tesoro della guida illuminata, ferma, dritta e sicura del Magnifico Rettore
prof. Antonino Recca, con l’unisono apporto di personale tecnico-amministrativo,
professori e studenti – consolidi, con intensità crescente, la sua singolare e onorata
missione di ecclesia (assemblea) e accademia di uomini e donne (credenti e non
credenti) che conoscendo amano, amando sperano e sperando, con fede in Dio e
fiducia negli uomini, conoscono il Padre, rendendo sereni, sazi e felici i cuori propri
e altrui. In queste condizioni difficili da registrare, ma non impossibili da creare,
si raggiungono le vette alte dell’etica – portate o sfiorate dalle nubi del cielo, della
terra e del mare che fanno compagnia al Signore – le quali assicurano il rispetto, la
conservazione e la valorizzazione del diritto – impresso dal Creatore nel cor e nella
mente delle creature – alla dignità, alla libertà ed a perseguire la felicità.
4. Mi è capitato, fra l’altro, di scrivere, a conclusione dell’Introduzione de Il
valore dei valori (Milano, FrancoAngeli, 1ª ed., 1990 e 2ª ed., 2003, p. 28): «Io “credo” che l’Universo sia uscito dall’amore (non dal silenzio) e rientrerà nell’amore
(non nel silenzio). E come la musica, l’Universo è un amore potenziale che diviene
attuale; l’amo­re (al pari del silenzio, ma con una maggiore probabilità di rendere
possibile l’im­possibile) è il momento in cui tutto è possibile». “L’anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio gioisce in Dio, mio Salvatore” (Lc 1, 46-47),
per avermi dato la grazia di conoscere nel (e in) silenzio l’amore di Dio e l’amore
degli uomini, che è il più grande valore divino e umano» (le parole dentro paren-
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Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
tesi, tranne «e in», sono state aggiunte ora per spiegare meglio il significato delle
due proposizioni richiamate): «L’amore dell’uomo, primo valore nell’ordine terreno, assicura le condizioni della pace, sia sociale che internazionale, affermando la
nostra fraternità universale» (Paolo VI, Octogesima Adveniens. Lettera apostolica
del Santo Padre Paolo VI per l’80° anniversario della «Rerum Novarum», Edizioni
Paoline, Roma, 20-5-1971, n. 23).
Il Cantico o Magnificat di Maria continua così: “Perché ha guardato l’umiltà
della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi
cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza
del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i
potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della
sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”. Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua»
(vv. 48-56).
Dopo aver sentito l’annuncio della nascita di Gesù e prima di pronunziare il
Magnificat «Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una
città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta
ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena
di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto
il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?
Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato
di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole
del Signore”» (Lc 1, 39-45).
Queste due creature hanno portano due bambini nel grembo: Elisabetta «ricolma» o «piena» di Spirito Santo, pur essendo vecchia, ha concepito un bambino per
grazia del Signore che si chiamerà Giovanni (che significa, proprio, Il Signore fa
grazia) e «sarà grande davanti al Signore» (Lc 1, 15); Maria «coperta» dalla potenza dell’Al­tis­simo con la sua ombra, mediante la discesa dello Spirito Santo avrà un
«figlio che chiamerà Gesù e sarà grande» (cfr. Lc 1, 31-32): «Dio … in questi giorni,
ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per
mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo figlio, che è irradiazione della sua
gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola
… ed è diventato tanto superiore agli angeli. Infatti a quale degli angeli Dio ha mai
detto: Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli
sarà per me figlio? E di nuovo, quando introduce il primogenito nel mondo, dice:
Lo adorino tutti gli angeli di Dio. E mentre degli angeli dice: È lui che fa i suoi
angeli come venti, e i suoi ministri come fiamma di fuoco, del Figlio invece afferma:
105
Francesco R izzo
Il tuo trono, Dio, sta in eterno, e: Scettro d’equità è lo scettro del tuo regno; hai
amato la giustizia e odiato l’iniquità … E ancora: Tu, Signore, da principio hai
fondato la terra e opera delle tue mani sono i cieli» (Eb 1, 1-10).
Maria coperta dalla potenza dell’Altissimo concepisce Gesù, Elisabetta porta
nel grembo Giovanni che sarà pieno di Spirito Santo sin dal suo seno. Queste due
figure sono degne d’esser prese a modello mirabile di virtù da imitare da tutte le
donne, che coprendosi (coperte) invece di scoprirsi (scoperte), vogliono riacquistare la dignità loro sottratta, con o senza connivenza, dal mondo iniquo e maschilista
che pre-ferisce denudarle, piuttosto che immaginarle come sono, cioè delle magnifiche creature di Dio donate agli uomini per vincere, nel nome del Signore, la
loro solitudine, fra l’altro contraria alla perpetuazione della specie umana. [Digito
queste parole nel giorno dedicato in tutto il mondo alla lotta contro le violenze alle
donne, per una ulteriore sincronicità o sintonia d’amore].
Inoltre Maria ed Elisabetta, forti della presenza diretta e indiretta del Signore
nel loro corpo, manifestano una solidarietà femminile di cui solo le donne sono
capaci. E ciò accade a maggior ragione in questa circostanza, di rilevanza strategica per l’evan­ge­lizzazione e promozione umana nella storia della salvezza, perché:
«“Ancora in verità vi dico che, se due di voi sulla terra saranno d’accordo su qualche cosa da chiedere, qualunque essa sia, sarà loro concessa dal Padre mio che è
nei cieli. Infatti dove sono riuniti due o tre nel mio nome, ivi sono io, in mezzo a
loro”» (Mt 18, 19-20).
A parte il «due o tre», che possono dare luogo al rapporto sesqui-altero 3/2 molto frequente o presente nella Bibbia, nella musica (pitagorica), in cui si può trovare
una nota rafforzata corrispondente ad una nota e mezzo, nella terza legge di Keplero, nella formula di capitalizzazione esponenziale (legge di potenza), scoperta
da me, etc., due o più donne o uomini riuniti nel nome del Signore, dentro e fuori
l’Università, sono una forza di coesione sociale ed umana su cui si fonda l’unità di
un Paese, di uno Studio, di una comunità.
A questo proposito, e mi avvio alla conclusione, il Magnificat è il manifesto
d’amore più rivoluzionario che esista e che conferisce, da solo, alla Madonna il
diritto-dovere di partecipare alla vita di una Nazione, Regione, Città, Comunità o
Istituzione, compresa quella universitaria. Difatti l’Università, come sostengo da
sempre, educa e forma i giovani affinchè acquisiscano o migliorino la personalità o
soggettività sociale o la personalità o soggettività professionale. Gli aspetti o i momenti più rilevanti dell’acquisizione della soggettività sociale sono quelli religiosi
(economia della salvezza) etici (personali e sociali), politici (riferiti agli elettori e
agli eletti), sociali (relativi alle leggi e al linguaggio); mentre quelli più rilevanti per
l’acquisizione della soggettività professionale sono inerenti al know-how manageriale (privato e pubblico) e al know-how professionale o tecnico (privato e pubblico)
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Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
(per l’appro­fon­di­men­to di questo schema-manifesto diretto agli studenti, cfr. Rizzo F., Dalla rivoluzione keynesiana alla nuova economia. Dis-equilibrio, tras-informazione e co-efficiente di capitalizzazione, Milano, FrancoAngeli, 2002, p. 533).
Il potente, dolce e femminile Salmo o Cantico di Maria è un inno solenne che
esalta e nobilita: l’umiltà, il servizio, il succedersi delle generazioni nella storia della
salvezza, la grazia e la potenza divine che si dispiegano in favore degli umili e dei
poveri, la dispersione degli uomini dalla mente orgogliosa e superba, il rovesciamento dei potenti dai troni, l’innal­za­men­to degli umili e dei derelitti, la giustizia
sociale ed economica a vantaggio degli affamati e a danno dei ricchi rimandati a
mani vuote, la fedeltà alla promessa fatta ai nostri padri dal Signore, che interviene
sempre in soccorso del suo popolo, aiutandolo con fedeltà e misericordia. A mio
giudizio, con questo magnifico Magnificat la Madonna ha pieno e stracolmo titolo
profetico, regale e sacerdotale per entrare dentro l’Università e stare con i suoi figli,
fratelli di suo Figlio. Colei che ha dato la forma di carne e sangue a Gesù Cristo,
unico e vero sacerdote, diventa la madre (del sacerdozio) della Chiesa. Se è possibile congiungere la fede e la scienza, non è impossibile riprendere, con le modalità
dettate dai tempi che viviamo, il dialogo tra la Madonna e l’Università, eccellente
missione sacerdotale.
5. Certo, nessuno credo che pensi di ripristinare il culto mariano del voto in
onore dell’Immacolata, com’era nel Seicento e nel Settecento fino alle «Istruzioni»
del 1779, ma una qualche forma di impegno solenne dei laureandi e dottorandi, in
uno con il corpo accademico e il personale amministrativo, a comportarsi in un
modo eticamente o moralmente ineccepibile mi sento di ipotizzarlo, naturalmente,
rinviandone decisione e forme alle autorità accademiche (Rettore, Senato accademico, Facoltà, Corsi di studio, Dottorati, Master, Scuole di specializzazione, etc.)
e utilizzando anche la possibile collaborazione autorevole e sapiente del Vescovo
della nostra Chiesa e/o, se opportuno o necessario, di responsabili o guide di altre
religioni. Sono certo, comunque, che una tale pratica non ridurrebbe, ma eleverebbe
la natura o cultura laica dell’insegnamento universitario e della ricerca scientifica.
E in ogni caso, solo con una rivoluzione o rinnovata co-scienza etica, forse nel
medio-lungo periodo, facendo la volontà di Dio e rilanciando la dignità degli uomini, potremo rendere il mondo in cui viviamo più bello e visibile, pieno di «Pace
e Bene» (come salutava S. Francesco d’Assisi).
Forse non sarebbe fuori luogo fare in occasione della vittoria del concorso per
entrare nell’organico dei docenti, dei ricercatori e del personale tecnico-amministrativo del­l’Università o in occasione del conseguimento di Lauree, Dottorati, Master,
etc., una sorta di giuramento o pronunciamento etico o un qualcosa di simile. Le
considerazioni che rassegno non hanno nemmeno la dignità e la forma di proposte,
107
Francesco R izzo
ma sono semplicemente un’esternazione del bisogno di creare le condizioni perché
quanti lavoriamo, insegniamo, ricerchiamo e studiamo nell’Università affrontiamo
una seria discussione, sull’opportunità o meno, e sui possibili ed eventuali modi di
realizzazione concreta, di assumere provvedimenti adeguati per meglio raggiungere l’obiettivo di elevare la co-scienza etica a cui ispirare i nostri atteggiamenti e
comportamenti esistenziali e conoscitivi. Beninteso, restando più salda che mai la
convinzione, maturata in mezzo secolo di attività didattica e di ricerca, che in ogni
caso non dovrebbe mai venir meno la libertà o laicità degli studi universitari e non.
Del resto, sono fermamente convinto che il più grande laico di tutti i tempi, che
sono, erano e verranno, resta sempre Gesù Cristo. Chi come o più di lui è capace
di mettere la sua vita in croce per affermare e difendere il diritto di dignità, libertà
e gioia impresso da Dio Padre nel cuore di ogni uomo e donna? In conseguenza di
questa strategia escatologica, la Madonna incarna la pienezza della sapienza e della
salvezza umana. Per questo il Natale è un «mistero» pasquale, cioè, non qualcosa
che non si può capire, bensì qualcosa che non si finisce mai di capire, dispiegando il
nostro desiderio di vita eterna, cioè, che non finisce mai.
4. La pratica mariana accompagna e rende, anche quando si affrontano amarezze, marosi e umiliazioni, serena, fiduciosa e piena di speranza la (mia) vita, contrassegnata dal triangolo dolce e rassicurante delle tre madri: la prima è la Madonna
Maria, che sostiene il sacerdozio comune o ordinato della Chiesa; la seconda è la
mamma naturale Teresa, che sostiene, tramandandoci la fede, il sacerdozio popolare, profetico e regale; la terza è Rosina, mamma di Maria Laura, mia moglie.
L’Immacolata è la mediatrice per eccellenza che ha favorito e caratterizzato, fra
l’altro, la conoscenza di e con tre Vescovi eletti, nell’ordine, nella nostra diocesi:
a)Ho conosciuto l’Arcivescovo Mons. Domenico Picchinenna – venuto a Catania dal giugno 1971 al 1 giugno 1988, inizialmente coadiutore cum jure successionis dell’allora Arcivescovo Mons. Guido Luigi Bentivoglio, gli subentra il 16 luglio
1974 – in occasione di un’esposizione della statua della Madonna di Fatima in Cattedrale, dove ero stato invitato con Lidia Curcio a fare qualche considerazione ed
esprimere il mio pensiero sui Santuari e il culto mariani. L’Arcivescovo era presente
e seduto, in modo raccolto e insaccato, sulla poltrona dell’altare usata solitamente
da chi svolge e dirige celebrazioni eucaristiche o cerimonie liturgiche. Mi venne,
in quella circostanza, di esprimere una convinzione che s’è consolidata sempre più
col passare del tempo. I Santuari, specialmente quelli di Maria Immacolata, sono
luoghi sacri di preghiera e speranza sanciti dalla pietà cristiana, dalla tradizione popolare e dalla esperienza religiosa, ma vengono dopo dei Tabernacoli dove si trova
il Santo dei Santi, Gesù Cristo, che è il vero ponte tra Dio e gli uomini, in quanto
«capo che guida la salvezza» (Eb 2, 10), unico «sommo sacerdote … che entrò una
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Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
volta per sempre nel santuario … con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una
redenzione eterna» (vv. 9, 11-12); egli è «sacerdote per sempre» (v. 6). Mons. Picchinenna, durante la mia lunga, intensa e filiale frequentazione con lui, successiva a
quel provvidenziale incontro, mi confessò: «Quella sera mi sei sembrato duro, ma
poi, conoscendoti meglio, ho scoperto che sei dolce».
b)Dopo qualche mese dalla elezione nella nostra diocesi di Mons. Luigi Bommarito – Arcivescovo di Catania dal 1° giugno 1988 al 7 giugno 2002 – a cui Mons.
Picchinenna mi aveva presentato con generosa stima, in occasione di un convegno
nazionale delle Comunità ecclesiali di base che si svolgeva a Roma, a Santa Maria
in Trastevere, il nuovo Arcivescovo, il 6 dicembre 1991, mi mandò ad Agrigento,
sede dalla quale proveniva, per parlare della Madonna nella Chiesa dell'Immacolata piena di fedeli in festa. Fui molto onorato, da laico, di quell’incarico di fiducia che riconosceva la mia particolare sensibilità o vocazione mariana e apriva la
prospettiva di una collaborazione con il Pastore venuto da Agrigento che si rivelò
profonda, continua e proficua: in quegli anni, fra l’altro, la diocesi di Catania istituì
la scuola di Impegno sociale e politico che ebbe tanto successo e fu frequentata da
circa duecento persone. Mons. Bommarito è ritornato qualche mese fa per celebrare in cattedrale, quale Arcivescovo emerito, un’importante ricorrenza sacerdotale
ed episcopale. Ha fatto un’omelia bellissima, invitando la Chiesa di Catania a dare
maggiore spazio ai laici che, secondo una sua antica convinzione, devono essere
considerati veri collaboratori e corresponsabili ecclesiali.
c)Quando l’Arcivescovo Mons. Salvatore Gristina – a Catania dal 7 giugno 2002
–, in una mattina di qualche anno fa, concluse la celebrazione eucaristica nella chiesa di San Francesco all’Immacolata in occasione della festa della Madonna dell’8
dicembre, scese dall’altare e venne, prima di salutare qualunque altra autorità civile
e militare presente, a congratularsi e felicitarsi con me ed i due dipendenti dell’Università, situati accanto al suo prestigioso gonfalone, capii la capacità o forza d’attrazione spirituale e religiosa esercitata sul nostro Arcivescovo da Maria e dalla nostra
modesta presenza, che al di là dei meriti che non avevamo, evocava e ripeteva il
culto dell’Immacolata nell’Università di Catania. L’amore per la Madonna era tanto
grande che, esplicitandosi, coinvolse anche noi. Da quel momento in poi, spero di
poterlo dire, il rapporto personale con Mons. Gristina diventò più forte, significativo e utile per svolgere il mio servizio di delegato del Magnifico Rettore Recca al
fine di mantenere e rendere più efficace il rapporto dell’Università con la Chiesa,
seppure e sempre nel rispetto della distinzione e autonomia dei ruoli. Ancora una
volta la mediazione dell’Immacolata Concezione aveva intensificato umanamente e
finalisticamente la dimensione personale e istituzionale della mia conoscenza del (e
collaborazione con il) nostro Arcivescovo.
Per molti anni nel mese di maggio ho svolto omelie e commenti che fanno da
109
Francesco R izzo
corona del «Rosario Vivente» alla mia vita, in cui tutte le amarezze, sofferenze ed
esperienze dolorose si sono trasformate in saggezza esistenziale, sapienza conoscitiva
e ricchezza dell’anima. Desidero sciogliere questa conferenza in un canto alla Madonna e in una preghiera per coloro che ci vogliono male e bene. Sono nato, ho vissuto e
morirò poverino, ma amando Dio e gli uomini, ho subito una metanoia o trasformazione che mi consente di adempiere, al meglio, la mia missione terrena e di avere fede,
speranza e carità da testimoniare per l’evangelizzazione e la promozione umana.
[Il 27 novembre s’è verificato un evento che ha oscurato i giorni immediatamente precedenti la data della conferenza. Il 30 novembre, come sono solito fare ogni
mattina, prima di recarmi in aula per tenere la lezione (che la preferisco dialogata),
ho aperto il Vangelo di Marco ed è uscita, a caso, la pagina, sincronica con il grave
evento, che riporto: «Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: “Perché i discepoli di Giovanni e i
discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?”. Gesù disse
loro: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finchè hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà
loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. Nessuno cuce una toppa di panno grezzo
su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno
strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi”» (Mc 2, 18-22).
Concludo, questo piccolo saggio sul Culto della Madonna nell’Università di Catania, rileggendo e (riflettendo sui) vv. appena riportati, che hanno illuminato nuovamente la mia vita, e narrando ciò che è opportuno e possibile dire, almeno per ora,
di e su questa ulteriore sincronicità. Meditando a lungo sulla Parola di Dio scritta
da Marco, che compensa e sopravanza le stolte parole degli uomini, ho tratto l’insegnamento che bisogna scegliere tra il vecchio (probabilmente i vecchi usi del giudaismo, cfr. Mc 7, 3-4; 17) e il nuovo, il Vangelo. Però, un’interpretazione metaforicamente estensiva può far trarre da questa parabola enigmatica il senso che bisogna
scegliere tra la vecchia e la nuova concezione economica. Ciò è confermato, anche,
dalla frase enigmatica che verso le 03.30 dello stesso 30 novembre, nel dormiveglia
che ha preceduto il mio risveglio, ho «pensato»: «I navigatori di cielo, di terra e di
mare», che, naturalmente, vanno all’av­ven­t urosa e pericolosa, ma ap-pagante ricerca
del nuovo, al fine di abbandonare il vecchio. Inoltre in uno schema che figura a p. 48
di un mio libro (Rizzo F., Dalla rivoluzione keynesiana alla nuova economia … op.
cit. ) e che riporta un quadro delle tre episteme, nella seconda delle quali, in corrispondenza di Economisti ambientali, v’ha: «Vino nuovo nell’otre vecchio». Non v’è
alcun dubbio che i consueti travagli e sofferenze di gestazione, espressi dalla sincronicità costituita dalla scelta tra il vecchio e il nuovo modo di intendere l’economia,
provvidenzialmente, fanno parte o sono arte del rinnovamento, che nel nome di Dio
110
Economia Maria-logica e sacerdozio della scienza: una li­­bera inter-mediazione d’amore
e per la capacità e il bene degli uomini, non può non riguardare, continuamente, la
vita, la scienza e la fede. Qualunque sia il costo che, giustamente o ingiustamente,
bisogna pagare. È il 2 dicembre 2009.
«Deponi, Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione,/ e rivestiti dello splendore della gloria di Dio per sempre./ Indossa il manto della giustizia che viene da
Dio,/ poni sulla tua testa il diadema della gloria dell’Eterno./ Dio, infatti, mostrerà
il tuo splendore/ a ogni creatura che è sotto il cielo./ Sarai chiamato, da Dio, per
sempre: “Pace di giustizia” e “Gloria di pietà”./ Alzati, o Gerusalemme,/ sta’ in piedi
sull’altura e guarda verso oriente: vedi i tuoi figli riuniti, da occidente fino a oriente,/
per la parola del Santo,/ esultanti per il ricordo di Dio./ Si sono allontanati da te a
piedi, incalzati dai nemici;/ ora Dio te li riconduce in trionfo/ come sopra un trono
regale./ Perché Dio ha deciso di spianare/ ogni alta montagna e le rupi perenni,/ e
di riempire i torrenti appianando il terreno,/ affinché Israele proceda sicuro sotto la
gloria di Dio./ Anche le selve e ogni albero odoroso/ hanno fatto ombra a Israele per
comando di Dio./ Infatti, Dio guiderà Israele con gioia/ alla luce della sua gloria,/
con la misericordia e la giustizia che vengono da lui» (Bar 5, 1-9)
Questa breve composizione consolatoria, ispirata alle profezie di Isaia – rievocate da Marco (1, 1-8) che con la storia di Giovanni il precursore, inizia il Vangelo di
Gesù, Figlio di Dio – dell’Invito alla gioia di Baruc (=Benedetto) l’ho letta e meditata venerdì 4 dicembre, 7 giorni dopo l’accadimento tenebroso che ha (com-)mosso
la sincronicità che continua e si chiude con la profezia dell’amico e segretario del
profeta Geremia. Gerusalemme o Israele rappresenta qualunque persona o comunità, quindi anche me, che dopo avere indossato la veste del lutto e dell’afflizione,
viene rivestito (o trasfigurato dallo) dello splendore della gloria, avvolto nel manto
della giustizia di Dio e con il diadema di gloria dell’Eterno sul capo, sarà chiamato, per sempre, dal Padre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà». Trasformando la
Gloria, donata a tutti dalla Misericordia di Dio, in pietà – per quanti sono stati da
noi per-donati o per quanti di noi siamo stati per-donati – s’è «ricondotti in trionfo
come sopra un trono regale». Dopo, sotto la protezione di Dio, si cammina diritti,
sicuri e spediti, con gioia alla luce della sua gloria, con la «misericordia e la giustizia
che sono sue». Misericordia e giustizia sono il migliore augurio o regalo natalizio e
materno che possiamo fare agli altri o ricevere noi. Misericordia e giustizia furono
le due ali che portano in cielo o i due piatti della bilancia che governa la terra che
l’anno scorso, proprio alla vigilia di Natale, riconobbi ed augurai a Tony Recca,
Magnifico Rettore dell’Università. Per una serie di circostanze, avvenimenti e coincidenze, la cui narrazione o scoperta richiederebbe spazi e tempi impossibili, anche
quest’anno invoco per gli altri e per me la Gloria della Misericordia e la Pace della
Giustizia delle quali, professori e studenti, nessuno escluso, abbiamo fame e sete.
Ma per «spianare ogni alta montagna e le rupi perenni» e «colmare le valli livellan-
111
Francesco R izzo
do il terreno», onde procedere senza incertezze, per strade appositamente preparate
e raddrizzate, «sotto la gloria di Dio», non bisogna mai dimenticare che quando s’è
in esilio, umiliati e afflitti, bisogna essere consapevoli e co-scienti che la sofferenza
della prova o la prova della sofferenza espia, purifica e redime tutti: «Chi semina
nelle lacrime/ mieterà con giubilo./ Nell’andare, se ne va piangendo, portando la
semente da gettare,/ ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni» (Sal
125, 5-6). L’incarnazione di Natale – culla della speranza o «pane della vita» – rende
nuova (e dà senso al) la vita, anticipando la resurrezione di Pasqua – speranza della
croce o «calice della salvezza» – che rende nuova (e da senso al) la morte, segnando
l’inizio di una nuova vita o dell’eterna salvezza che non finisce mai. Ma ora scrivo
la parola fine della scrittura che racconta la sincronicità delle sincronicità che mai
finisce. È il 4 dicembre 2009.]
Conferenza tenuta il 2 dicembre 2009 sul tema Il culto di Maria nell'Università
di Catania nella chiesa San Francesco all'Immacolata.
112
Laós 16 (2009) 3, 113-119
ISSR «S. Luca» - Catania
Per una filosofia compagna di vita nell’indagine politica
una lezione ripresa dal Rosmini
di
Salvatore Latora
Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca” - Catania
Sono i problemi della vita, quelli quotidiani che ti spingono a riflettere, e per
continuare a pensare ti rivolgi ai grandi maestri del passato.
Questa volta ci rivolgiamo a Platone, al Platone politico, al divino Platone, di
cui il filosofo e matematico inglese, Alfred Whitehead scrisse che tutta quanta la
filosofia non è altro che una serie di note a margine di Platone!
Un’altra precisazione occorre tenere presente, che Platone, grandissimo scrittore, riteneva tuttavia, che le cose di maggior valore non erano affidate ai rotoli di
carta, si trasmettono con la vita, con la lingua parlata, cioè con la testimonianza!
(Lettera VII). E’ la via apofatica o della negazione, le cui motivazioni stanno nella
ispirazione religiosa, orfico-pitagorica del suo Autore, come cercheremo di vedere.
Tuttavia, una salutare contraddizione farà di Platone, per i suoi Dialoghi, uno
dei più grandi scrittori di tutti i tempi. In secondo luogo, per Platone, la Politica
sintetizza tutti i presupposti etici, metafisici e religiosi della sua filosofia.
Proprio in questo importante documento autobiografico che è la VII Lettera,
egli descrive come dalla crisi in cui venne a trovarsi da giovane, quando, a contatto
con uomini politici corrotti, fu portato a meditare per tutta la vita sul modo di impostare su solide basi le strutture di uno stato rinnovato.
«Un tempo, nella mia giovinezza, egli scrive, ho provato ciò che tanti adolescenti
provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi
subito alla vita politica… (I suoi parenti erano impegnati in politica, infatti gli zii,
Crizia e Carmide fecero parte del Governo aristocratico dei Trenta Tiranni). M’illusi,
egli continua, né c’è da stupirsi, giovane com’ero! M’immaginavo, infatti, che quegli
uomini politici avrebbero governato la città riconducendola dalle vie dell’ingiustizia
su quelle della giustizia, e quindi attentamente consideravo quello che avrebbero fatto.
Mi accorsi però che in breve tempo quegli uomini fecero sembrare oro il precedente
113
Salvatore Latora
regime politico» (VII lett., 324b-326b). E fra gli altri misfatti (pur subentrato il governo Democratico a quello dei Trenta!) resta sconvolto dalla condanna a morte per
empietà del suo caro maestro e vecchio amico, Socrate, che egli non esita a proclamare, il più giusto del tempo suo. Fu allora irresistibilmente portato a lodare la retta
filosofia e si pose il problema del rapporto ideale fra filosofia e potere.
«Alla fine mi resi conto che tutte le città di allora erano mal governate,… e fui
necessariamente indotto a fare l’elogio della vera filosofia, e a dire che solo essa
consente di vedere ciò che è giusto nelle cose pubbliche e in quelle private. Dunque,
le generazioni umane non si sarebbero mai potute liberare dalle sciagure, finché al
potere non fossero giunti i veri e autentici filosofi oppure i governanti delle città
non fossero divenuti, per una grazia divina, essi stessi veri filosofi. Questi pensieri
avevo in mente quando venni in Italia e in Sicilia per la prima volta. Appena giunto
mi disgustò la vita che qui era chiamata felice» (Ivi).
Furono queste delusioni che portarono Platone a rivedere fin dalle fondamenta il
problema, per creare uno stato basato sulla giustizia, che egli analizza nelle sue opere, la più importante delle quali è la “Repubblica” (in 10 libri), e per le applicazioni
pratiche: nel “ Politico” e nelle “Leggi”.
E’ errato considerare Platone filosofo utopico, senza tenere conto anche di queste
altre due opere; come errato è il detto di Marx, secondo cui i filosofi si sarebbero
limitati ad interpretare il mondo piuttosto che cambiarlo!
Ciò è smentito da Platone stesso, che sotto l’invito di Dione compie ben tre viaggi
a Siracusa, rischiando anche la vita e la propria libertà, perché egli si vergognava di
apparire un uomo capace solo di parole!
“Repubblica” non significa una forma di governo, ma, come dal latino res publica, traduce il termine greco Politèia, è un trattato di filosofia politica, un’analisi per
individuare le condizioni prime che permettano la giustizia nel pubblico convivere,
una prospettiva sul dover essere, una utopia, che non è un dato ma una tensione,
un modello ideale, a cui continuamente commisurarsi se si vuol vivere moralmente
secondo giustizia; non è un trattato di politica. La Politica la scriverà Aristotele,
mentre lo stesso Platone tratterà del modo di funzionare della “politèia prima” nel
«Politico, Sull’arte del governare» e nelle «Leggi. Sulla legislazione». Queste tre
opere si completano a vicenda.
Politica va intesa come ordinamento della polis e riguarda la società e le istituzioni della città, piuttosto che uno Stato, nel senso moderno del termine.
Ne la Repubblica troviamo un sistema filosofico completo che abbraccia la teoria
della conoscenza (Mito della Caverna); un’antropologia triadica,
(Mito della biga alata, Fedro,246 A-D) che corrisponde alla tripartizione degli
organi dello stato: c’è infatti un perfetto parallelismo fra individuo e stato e le leggi
di armonia dell’uno valgono anche per l’altro; va seguita un’appropriata pedagogia
114
Per una filosofia compagna di vita nell’indagine politica una lezione ripresa dal Rosmini
per l’uomo politico, che solo a cinquant’anni può mettersi a governare lo stato ideale!
Il virtuoso vive alla luce dell’eterno e la ricompensa della giustizia sarà l’amore degli
dei e la possibilità di farsi simile a loro e godrà della felicità, non solo nell’eterno ma
a cominciare dalla vita attuale.
E’ questa base religiosa e mistica che costituisce l’ispirazione di fondo dell’opera
di Platone, e siccome l’anima è immortale, se sarà virtuosa, godrà di una eterna felicità, non solo nell’al di là, ma a cominciare da quaggiù sulla terra!
«Ecco, caro Glaucone, in quale modo si è salvato questo mito (quello di Er, il cui
nome si riscontra anche nel vangelo di Luca 3,28!)) e non è andato perduto. Ed esso,
invero, può a sua volta salvare noi, se gli presteremo fede; così potremo attraversare il
fiume Lete indenni e non contaminare l’anima. Se dunque daremo retta a quanto ho
detto, convincendoci che l’anima è immortale ed è potenzialmente capace di assumere su di sé ogni genere di bene e di male, terremo sempre la via che sale verso l’alto,
comportandoci in ogni circostanza secondo giustizia unita a saggezza. Così potremo
essere in pace con noi stessi e con gli dei, sia nel nostro soggiorno su questa terra,
sia in seguito, quando avremo riscosso i premi della giustizia come fanno i vincitori
allorché raccolgono i trofei nel trionfo. Ci toccherà, insomma, felicità quaggiù sulla
terra e nel viaggio millenario che abbiamo illustrato» (Repubblica, X 620D- 621D).
Qui troviamo una straordinaria similitudine con un passo del Vangelo:
«Com’è difficile per quelli che sono ricchi entrare nel regno di Dio! I discepoli si
meravigliarono che Gesù dicesse queste cose, ma egli aggiunse:
Figli miei, non è facile entrare nel regno di Dio! Se è difficile che un cammello
passi attraverso la cruna di un ago, è ancora più difficile che un ricco possa entrare
nel Regno di Dio. I discepoli si meravigliarono più di prima e cominciarono a domandarsi l’un l’altro: Ma allora chi potrà mai salvarsi? Gesù li guardò e disse: Per
gli uomini è una cosa impossibile, ma per Dio no! Infatti tutto è possibile a Dio.
Allora Pietro si mise a dire:
E noi? Noi abbiamo abbandonato tutto per venire con te. Gesù rispose: Io vi
assicuro che se qualcuno ha abbandonato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli,
campi… per me e per il messaggio del Vangelo riceverà già in questa vita, insieme
a persecuzioni, cento volte di più…e nel mondo futuro la vita eterna» (Mc 10, 23-31).
Va osservata questa perfetta corrispondenza fra i due testi: saggezza filosofica e
sapienza religiosa si integrano a vicenda?
Come potrà spiegarsi questa corrispondenza?
Occorre tenere presente che Platone, spinto dalla sua ansia di ricerca viaggiò
molto, fu in contatto con le sedi pitagoriche dell’Italia meridionale, visitò Creta e
l’Egitto e conobbe le pratiche dell’orfismo, si può dire che Platone «sia una sorta di
vaso di raccolta della religiosità antica, anche extra e preellenica: è comunque certo
che egli fonda, insieme, la filosofia e la mistica dell’Occidente, le quali non hanno
115
Salvatore Latora
senso senza di lui»1.
Qui cominciano ad apparire modi diversi per affrontare e dare senso alla realtà:
c’è la via della ragione, del lògos, o la via della Scrittura, oppure il confronto fra
le due, ma per non restare su un piano di confronto parallelo, bisogna riscoprire il
fondamento mistico.2
Ma bisogna fare i conti con il problema del male: nel cristianesimo si risponde
con il Peccato originale: in Platone con il mito della caduta dell’anima per una
colpa imperscrutabile che fa sì che le tre parti di essa: parte razionale, irascibile
e concupiscibile per mancanza di forza dell’auriga perde il suo interno equilibrio
e le tre facoltà sovvertono i loro ruoli, se non si rivestono delle tre rispettive virtù:
temperanza, fortezza, sapienza e giustizia che è l’armonia di tutte e tre (Qui sono
teorizzate quelle che verranno indicate come le quattro virtù cardinali; nel Catechismo è indicata la prudenza al posto della sapienza). E dato che il corpo politico non
è altro che un corpo in grande, un macroantropo, il male politico non è altro che
la incapacità degli uomini a vivere secondo giustizia. Le forme degenerative della
ideale costituzione politica, sono quattro, strettamente connesse tra di loro in un
processo dissolutivo verso il peggio: timocrazia, oligarchia, democrazia (sinonimo
di anarchia), tirannide e, per quella corrispondenza di cui si diceva, Platone descrive
le corrispettive caratteristiche dell’uomo timocratico, mosso dall’ambizione; oligarchico, democratico e tirannico!3
In sostanza il male politico non è che l’immagine ingrandita del male morale: e
identica ne è la causa, cioè la rottura dell’unità dello stato, per effetto di un conflitto
tra le classi sociali, provocato sempre da corruzione intellettuale (Ivi.546 d).
Le prime due forme, timocrazia e oligarchia sono caratterizzate rispettivamente dal
predominio dell’irascibile e del concupiscibile; anche le altre due, democrazia e tirannide, sono frutto anch’esse del predominio dell’irrazionale, in modo diffuso, nella prima;
in senso patologico e degenere, nella seconda. Il rimedio sta sempre in una corretta edu1
2
3
Per l’importanza di questo aspetto,cf. s.Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla,
Roma 1999, pp. 45 ss., 55-56.. ; L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1968, 6.4312- 6.432. Giorgio Colli, la nascita della filosofia, Adelphi, Milano
1975, specialmente:« Misticismo e dialettica» e «La ragione distruttiva». Luciano Canfora, Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, Sellerio, Palermo 2000
Repubblica, VIII, IX. Per l’esposizione di questo aspetto del male politico come immagine
ingrandita del male morale, Cf. Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia
di Platone, CEDAM, Padova, 1968, p 243 ss.; Simone Weil, Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 1996, p. 30 ss. e Boscarino-Piscione, Giustizia e legge. Modelli filosofici della
dimensione giuridica da Platone a Tommaso d’Aquino, Ed. Greco, Catania 1993.
Simone Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Roma 1999, p.39. Possiamo aggiungere, per conto nostro, questo sorprendente confronto fra Platone, Apologia di Socrate
(41 D) e Repubblica (X 613A); e il brano della Sapienza(3,1-9).
116
Per una filosofia compagna di vita nell’indagine politica una lezione ripresa dal Rosmini
cazione impartita fin dalla più tenera età, a coloro che sono destinati a fare i governanti.
Le categorie individuate da Platone sono tre: quella dei produttori (contadini,
artigiani, commercianti); quella dei custodi o guerrieri, che hanno il compito della
difesa dai nemici esterni e dell’ordine al suo interno; e quella dei governanti il cui
compito è quello di guidare la città verso il suo bene, che si realizza quando ciascuna categoria svolga bene il proprio compito: questa è la giustizia, che è la somma di
tutte le virtù.
Nel Politico Platone individua tre tipi di costituzione: monarchia, aristocrazia,
politeia, che a loro volta hanno corrispettivamente tre forme degenerative: tirannide,
oligarchia, democrazia.
Nelle Leggi, l’ultima e più ampia opera di Platone, che comprende quasi tutti i
temi della filosofia politica e non solo, l’A. indica la finalità che il legislatore deve
proporsi, che è quella di realizzare una costituzione mista (es. in Creta e a Sparta),
in cui si introduce il meglio della monarchia, cioè la concordia o l’unità; l’elemento caratteristico dell’aristocrazia, cioè la saggezza, e ciò che distingue la politeia,
cioè la libertà.
La maggior parte dei poteri è affidata a un Consiglio notturno, che si riunisce
di notte per non essere influenzato da nessuno nelle sue deliberazioni!
Simone Weil, a proposito di Platone, scrive: «Egli si ispira ora a filosofi anteriori,
di cui possediamo dei frammenti e di cui egli ha assimilato i sistemi in una sintesi
superiore, ora al suo maestro Socrate, ora a tradizioni greche segrete di cui non
sappiamo quasi nulla se non da lui, la tradizione orfica, la tradizione dei misteri di
Eleusi, la tradizione pitagorica che è la madre della civiltà greca, e molto probabilmente alle tradizioni d’Egitto e di altri paesi d’Oriente… Platone è un mistico autentico, e addirittura il padre della mistica occidentale»4. Platone, oltre che sostenitore
4
Valter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962. «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus.Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la
bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha
il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede
un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai
suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal
paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo on
può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro,a cui egli volge le
spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera» (Tesi: IX). «Il passato reca con sé un indice segreto
che lo rinvia alla redenzione… Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le
generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi,
come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto» (Tesi II ).
117
Salvatore Latora
della seconda navigazione, quella filosofica, che va oltre la conoscenza sensibile,
intuisce che si può attraversare il mare della vita su più solida barca affidandosi
a una divina rivelazione: è questa la prospettiva della terza navigazione (Fedone,
85, c-d). E ancora, come ricorda la Weil (op. cit. p. 54 Platone nella Repubblica (II, 360 ss.) parla dell’esperienza del giusto che sarà crocifisso: «Il giusto che
persevera in questo suo atteggiamento sarà flagellato, torturato, incatenato, gli si
bruceranno gli occhi, e al culmine di tutti i mali sarà impalato».
E ancora la Weil, in un’altra sua opera: «Platone conosceva chiaramente ‒ vi
allude nelle sue opere ‒ i dogmi della Trinità, della Mediazione, dell’Incarnazione,
della Passione, e le nozioni di grazia e di salvezza mediante l’amore.
Egli ha conosciuto la verità essenziale, cioè che Dio è il Bene. Ed è l’Onnipotenza solo per sovrappiù. Il Cristo ha indicato la sua affinità con Prometeo dicendo: -Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra, e cos’altro posso desiderare se già
l’incendio divampa? - La sua affermazione “Io sono la Via” va accostata al Tao cinese, termine che letteralmente significa la via, e metaforicamente per un verso il
metodo della salvezza, per l’altro il Dio impersonale che è quello della spiritualità
cinese, ma che, sebbene impersonale, è il modello dei saggi e agisce incessantemente. La sua affermazione “Io sono la Verità” fa pensare a Osiride, Signore della
Verità. Quando il Cristo dice- in una delle sue affermazioni più importanti - “coloro che fanno la verità (poiuntes alétheian, Gv. III, 21), usa un’espressione che non
è né greca né ebraica, si tratta di un semitismo. E’ invece egizia. Maat vuol dire al
tempo stesso giustizia e verità. Questo è significativo. Di certo la Sacra famiglia
non è andata in Egitto invano»5.
Ma che significato può avere questo discorso sul piano politico attuale e prima
ancora sul piano storico?
L’interpretazione di questa lettura di Platone si ispira a W Benjamin e ai suoi
principi di filosofia della storia di carattere messianico-escatologico , per cui il
lavoro dello storico si muove nel senso di ridestare “il non ancora” nella sua attualità, per accendere la favilla della speranza! (opponendosi così alla ontologizzazione Heideggeriana)6; e a Simone Weil che ha indagato sulle intuizioni precristiane
5
6
ID., Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 2003, pp. 30-31. ID., Lettera a un religioso,
Adelphi, Milano 2003, pp. 30-31. ID., L’ombra e la grazia (meglio: La pesantezza e la
grazia), Bompiani, Milano 2003.ID., Lezioni di filosofia, Adelphi, Milano 2004.
Valter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962. «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus.Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la
bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha
il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede
un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai
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Per una filosofia compagna di vita nell’indagine politica una lezione ripresa dal Rosmini
nella cultura greca, secondo cui la saggezza contenuta in quelle tradizioni è la stessa
saggezza che si ritrova nel Vangelo; ma ciò che è soprattutto interessante nelle opere
della pensatrice francese, malgrado la sua breve esistenza, è il suo sforzo di offrire
un’interpretazione sovrannaturale a tutto ciò che è naturale!
Alla luce di questi due Autori, innovativi nel campo della storiografia contemporanea, abbiamo guardato il problema politico, a cui vorremmo aggiungere: la Sociologia storicistica di Luigi Sturzo e L’apocalittica messianica di Sergio Quinzio;
senza trascurare naturalmente gli scritti di Hannah Arendt, quelli di Jurgen Habermas, di John Rawls, di Norberto Bobbio etc.
suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal
paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo on
può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro,a cui egli volge le
spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera». (Tesi: IX). «Il passato reca con sé un indice segreto
che lo rinvia alla redenzione… Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le
generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi,
come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto» (Tesi II ).
119
RECENSIONI
Pietro Gibellini (ed.), La Bibbia nella
letteratura italiana I: Dall’Illuminismo
al Decadentismo; La Bibbia nella letteratura italiana II: L’età contemporanea,
Brescia 2009.
In un’epoca in cui la letteratura religiosa
viene ancora confinata entro ambiti para-letterari e circoscritti nel tempo (soprattutto dal Medioevo all’età controriformistica e con qualche sporadica traccia colta qua e là in altre epoche), giunge
opportuna l’iniziativa diretta dal Prof.
Pietro Gibellini che – insieme alla collaborazione di Nicola Di Nino – raccoglie
una serie di saggi intenti a valorizzare il
rapporto esistente tra letteratura e Sacra
Scrittura in Italia. L’esito della ricerca,
sebbene l’opera non si prefigga alcun
obiettivo di organicità e di sistematicità, appare ai nostri occhi straordinario,
dal momento che colma una notevole
lacuna della nostra critica, oltre a sottolineare una colpevole cecità di fronte ad
un patrimonio biblico-letterario ricco ed
articolato ma poco valorizzato.
I due volumi pubblicati, relativi al periodo intercorrente tra l’Ottocento e
l’età contemporanea, e ai quali ne seguiranno altri destinati a coprire le epoche
precedenti, sono da considerare vere e
proprie “riscritture del sacro”, in quanto testimoniano il frequente ricorso alle
fonti bibliche da parte di numerosi autori, peraltro diversi per formazione culturale, estrazione sociale, fondamenti del
pensiero. Tali autori attingono religio-
samente o laicamente a quell’immenso
vocabolario biblico, secondo la nota
definizione di P. Claudel, come da una
radice europea dalla precisa identità culturale. Non per niente la Bibbia è stata
definita da N. Frye “il grande codice” da
cui ricavare origini, miti e linguaggi della civiltà occidentale.
Il merito, pertanto, della pubblicazione
di Gibellini è quello di aver recuperato
essenzialmente l’aspetto letterario dei
testi sacri, indagati spesso secondo criteri storico-critici e, di conseguenza, depauperati dalla ricchezza di simboli, immagini, miti e degli archetipi dell’immaginario umano che unificano e integrano
tutta l’esperienza letteraria occidentale.
Al lettore spetta il compito non facile di
sapere entrare in questo paesaggio ricco
e variegato, in cui le deformazioni del
tempo destano le fonti dal sonno e dalla
polvere delle biblioteche.
Gli autori contenuti nel primo volume,
da Parini a Pascoli, passando tra Alfieri, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Verga e
quelli che affollano il secondo, da D’annunzio a Tozzi, da Saba ad Ungaretti,
da Luzi a Pasolini, attraversano epoche
diverse, ne assumono molteplici categorie culturali, esprimono angolazioni ideologiche eterogenee, ma in questa loro
diversità testimoniano un rapporto col
sacro aperto a varie possibilità di luce e
di conoscenza, ad una visione dialettica.
Siano essi poeti dialettali ( a cui i volumi danno rilevante credito ) o in lingua
italiana, narratori realistici o fantasiosi o
121
Recensioni
ancora autori di opere teatrali, attingono alla Bibbia per lunghi tratti della loro
produzione per cercare di comprendere
l’incomprensibile, quel senso della vita
per cui la letteratura svolge un ruolo di
autentico scandaglio spirituale.
In ultima analisi, le voci presenti nei preziosi volumi della Biblioteca Morcelliana, in questo loro attingere ad un insostituibile repertorio di allegorie, simboli
e metafore, costituiscono – spiegano i
curatori – un coro, un dinamico incrocio
“verticale e orizzontale” tra comprensione, tolleranza e carità, quasi “un moto
ecumenico, allargato ai non credenti”,
per cui la ricerca del divino muove il
suo anelito dalla comune humanitas.
Non esistono in tal modo barriere confessionali: l’uomo naturaliter religiosus
tenta di approdare al mistero e di catturarne la totalità, mantenendo fede alla
sua identità originaria e non perdendo di
vista il comune obiettivo di orientare il
suo cammino verso l’Assoluto. Per fare
ciò la condizione umana, senza abdicare dalla propria autonomia intellettuale,
non si riconoscerà più all’interno di vieti e rigidi schieramenti ma si aprirà alle
sorgenti del suo essere, continuando a
bussare alle porte della teologia, della filosofia, della scienza ma non trascurando anche quelle della letteratura che, pur
muovendosi fra traslazioni e percorsi
“irregolari”, si è alimentata e si alimenta
con profitto alle fonti bibliche.
Francesco Diego Tosto
Giuseppe Pezzino, La fondazione dell’etica in Benedetto Croce, C.U.E.C.M., Catania 2008, pp. 437.
In altre opere l’A. si è impegnato nello studio del liberalismo e di altri ampi
aspetti dell’etica crociana, ma in questo
suo ultimo lavoro vuole andare oltre,
vedere fin dove spinge le sue radici una
filosofia che volle essere, e seppe esserlo, palestra di vita per tante generazioni
di studiosi.
E quella filosofia fu palestra di vita perché dalla vita si faceva ispirare, e alla
vita concreta, quella che gli uomini vivono, seppe restituire quel mondo che
certo astrattismo le aveva tolto. Infatti,
afferma Pezzino, «l’indagine crociana
sull’attività morale trova il suo più alto
grado di maturità» nella Filosofia della
pratica, perché è qui che troviamo, per
la prima volta in modo compiuto, i «due
modi fondamentali di definire l’azione
morale: 1) volizione etico-utile; 2) volizione che ha per oggetto l’universale»
(p. 359), come a dire che la vita morale dell’uomo non può elevarsi al di là
dell’uomo, ma neppure restarvi al di
sotto. E questo punto fondamentale, che
restituisce all’uomo la sua dignità perché
non lo abbassa a bestia e non lo deprime
per le mete che non può raggiungere, costò anni di intensa riflessione al filosofo,
e fu un’attività speculativa che non ebbe
mai fine, se non proprio negli ultimissimi
anni della vita.
Un’intensa speculazione che l’A. ricostruisce con altrettante densissime pagine, tanto che bisogna seguire attentamen-
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Recensioni
te gli sviluppi di un’analisi che, come «il
dialogo fra Croce e Hegel si svolge sul
piano del confronto critico e spregiudicato» (p.107 e p.138), non cede all’acquiescenza dell’accettazione passiva.
Metafora della vita, che non conosce
requie se non davanti alla morte o alla
follia, l’equilibrio del sistema fu sempre
in bilico, perché non appena al filosofo
pareva di aver superato un’aporia, ecco
che ne spuntava un’altra. Ma la difficoltà
era insita nel progetto stesso della filosofia di Croce, perché saldare ma non annientare, unire ma non annullare, distinguere ma non dividere la morale dall’utile significa, in fin dei conti, coniugare
l’universale e il particolare, e non solo.
Perché significa pure unire e distinguere, ad un tempo, filosofia e storia, teoria
e prassi. Significa, infine, ricondurre ad
unità non già un’umanità intera, ma una
molteplicità di uomini, ciascuno col proprio vissuto e con la propria dignità.
È su questa molteplicità di piani che si
muovono e la ricerca crociana e la ricostruzione filosofica che ne fa Pezzino, il
quale nota come «nell’unità-distinzione,
infatti, reale è l’unità dei distinti e reali sono i distinti» (p. 203). Non era una
prova facile, e Croce incomincia il suo
apprendistato con la memoria del 1893,
e già lì è possibile vedere come il filosofo abruzzese muova dal particolare
dei suoi studi storico-eruditi al generale
della ricerca metodologica perché sollecitato dai primi: «Dalla necessità di
fornire un’adeguata risposta ad un problema storico, nasce quindi questa prima
esperienza filosofica di Croce. E questo
esser figlia della terra e della vita sarà
sempre, d’allora in poi, il principale motivo di vanto e la precipua caratteristica
di ogni sua indagine filosofica» (p.19).
Infatti, perfino lo stesso far ricadere la
storia sotto la categoria dell’arte era un
modo per salvare quelle individualità,
quel patrimonio umano che è in ciascun
uomo e che è, ancor più, ciascun uomo:
un patrimonio che, una volta disperso,
come ogni opera d’arte non sarebbe più
stato possibile ri-creare esattamente. Ci
sono cose al mondo che, una volta passate, non ritornano più, con buona pace di
ogni riduzionismo positivista.
Questo «essere figlia della terra» è riscontrabile anche nell’incontro col marxismo (p.61), al “fuoco” del quale, ricorderà Croce nel Contributo alla critica di
me stesso, «bruciai altresì il mio astratto
moralismo», ed è indicativo che proprio
da queste prime mosse Croce rifiuti ogni
forma di filosofia della storia, il «mattatoio dei popoli» per usare un’espressione
hegeliana. Nelle Tesi di estetica (1900),
poi, « egli [Croce] sostiene che l’utile
rientra nella sfera dell’attività spirituale,
e non già in quella della passività naturale» (p.79), e tuttavia, quando si rischia
il pericolo dell’indifferentismo morale e
del permissivismo, ecco che «l’analogia
fra attività teoretica e quella pratica cessa, quando si pretende di trasferire il concetto dell’economico, in quanto amorale
o moralmente indifferente, nell’ambito
morale; perché una tale pretesa equivarrebbe a costruire una sorta di categoria
etica di azioni né morali né immorali,
bensì lecite» (p. 86).
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Recensioni
A questo primo momento ne segue un
secondo, che getterà un’ampia luce sullo
sviluppo del sistema: sono gli anni dei
Lineamenti di Logica (1904-05) e del
Saggio sullo Hegel (1906). Sul primo
scritto l’A. si sofferma a lungo, non solo
perché in esso è possibile trovare i prodromi di alcuni punti poi emergenti nella
Filosofia della pratica, ma anche perché
qui «la sola forma logica dello Spirito è
la filosofia, laddove le scienze naturali
non costituiscono altro che una forma di
attività pratico-economica». Così «la filosofia si asside sovrana nel secondo grado della sfera teoretica» (pp. 104-105),
permettendo di eliminare la distinzione
tra res extensa e res cogitans: un immanentismo che riduce la realtà al Soggetto, al «soggetto come Pensiero, come
Libertà o Spirito, e non già come Tizio
o Sempronio». Questo immanentismo,
che non è né relativista né solipsista, è
«superamento di tanti dualismi di origine
illuministica, dell’astrattezza kantiana e
di ogni altra dottrina che condanni alla
sterilità l’ideale», e Croce lo ritrova in
Hegel, in cui «il problema … della morale si collega a quello più vasto del senso
della storia: al rapporto che intercorre fra
l’attività del singolo e quella dell’universale». Croce, per l’A., tenta sempre di
mantenere l’equilibrio tra i due aspetti,
apportando «delle aggiunte, quasi dei
contrappesi, ogni qualvolta è sollecitato
a ricomporre l’equilibrio», e la conferma
di ciò va ricercata nell’«accettazione del
concetto di universale concreto».
Prodromi questi, soprattutto i Lineamenti, che «aprono varchi vistosi nella rigi-
da riduzione della storia ad arte», e che
permettono a Croce di «intraprendere il
cammino che lo porterà alla sintesi di
filosofia e storia», e di risolvere così il
problema di un universale che si incarna, di una filosofia che «abbandona ogni
pretesa di “purezza”, che equivale alla
sterilità, per farsi – come il mitico Anteo,
che della terra è figlio ed alla terra ritorna per prendere nuova forza – filosofia
mondana» (p.186). Già nei Lineamenti,
infatti, egli aveva accennato al concetto di Spirito come «organismo», come
«circolo», alla distinzione tra le scienze
e la filosofia, affermando l’autonomia di
questa e la sua concretezza. Con la Filosofia della pratica (1908-09), ora Croce
parla di unità-distinzione di teoria e pratica: «Dunque, distinzione nell’unità, e
unità nella distinzione: è questa la chiave
di volta che salda l’arco del sistema filosofico crociano. Si provi a togliere tale
punto di raccordo, e all’istante crollerà
a pezzi l’intera struttura concettuale»
(p.185). Egli stesso, del resto, «si misurò
costantemente col principio di unità-distinzione durante la sua lunga vita, fornendo di persona, e non senza travagli o
persecuzioni, l’esempio di come la cultura si leghi alla vita, senza perciò stesso
asservirsi a interessi pratici».
Tuttavia, nella Filosofia della pratica coesistono due modi di concepire la storia:
o come «vertice» della conoscenza o,
«spostando la storia dal momento estetico a quello filosofico», come unione di
storiografia e filosofia. Sarà nella Logica
che, tramite l’identificazione di giudizio
definitorio e giudizio individuale, «la
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Recensioni
questione del rapporto filosofia-storia
trova la sua soluzione», perché cadendo
la distinzione dei due giudizi, cade pure
quella fra «verità di ragione e verità di
fatto»: «il pensamento o definizione del
concetto si lega a precise condizioni individuali e storiche». Così, «l’idealismo
crociano giunge… all’identità di filosofia
e storia; perché, nella concretezza della
sintesi a priori di definizione e giudizio
individuale, c’è anche la concretezza del
pensiero che, creando se stesso, qualifica l’intuizione e crea la storia» (p. 200).
Questo monismo si riflette «nell’ambito
della filosofia della pratica», superando
la distinzione tra «l’atto spirituale della
volizione» e «l’atto fisico dell’azione».
Ma, se non c’è spazio per una «morale
di mere intenzioni o dei buoni propositi», ciò non comporta una identificazione
della volizione-azione con il successo o
accadimento: l’uomo non vive in un vuoto pneumatico, e come i corpi conoscono
l’attrito, così la volizione-azione dell’uomo conosce le relazioni con il mondo dei
simili e con quello degli enti, «Libera, ma
non astrattamente incondizionata». E tuttavia, come si pone la questione dell’individuo e del tutto? Non c’è pericolo del
riproporsi di un nuovo dualismo? Citando
una lettera di Croce ad Antoni del 1948, e
analizzando l’opera del 1917, l’A. mostra
come Croce si liberi da quel «dualismo
fra un giudizio storico individuale, in cui
si confonde il giudizio pratico con l’atto
pratico, ed un giudizio storico cosmico».
Solo con Teoria e storia della storiografia si avrà «la definitiva riduzione di
quest’ultimo [giudizio pratico] a “valuta-
zione pratica”, che sorge nella coscienza
dell’individuo operante» (p. 236).
Ma intanto, stavano maturando in Croce i semi di quella categoria etico-utile,
che saranno «il fondamento filosofico di
quella storia etico-politica, che Croce teorizzerà per la prima volta nel 1924», e
che porteranno, pur sotto la spinta decisiva dei ben noti fatti di quegl’anni, al
«nuovo» concetto di morale come «promozione della vita» quale è espresso in
Storia come pensiero e come azione del
1938. Ora, per Pezzino, le conclusioni a
cui giunge Croce alla vigilia del secondo
conflitto mondiale sono ancora la riprova del metodo crociano: sviluppo filosofico interno al sistema che è, al contempo, risposta alle sollecitazioni della
vita. E questo, nonostante il rischio di
squilibrio all’interno del sistema, innalzando la morale sopra tutte le altre categorie. Ma è un rischio che Croce corre,
dovendo scegliere tra la concezione del
suo idealismo come laica religione della libertà, che si nutre del confronto col
mondo cristiano (pensiamo allo scritto
del 1942, Perché non possiamo non dirci cristiani), e quella Fine della civiltà
(1946), che può vedere «l’umana civiltà… spazzata via per sempre dalla forza
demoniaca della vitalità animalesca».
Tuttavia, è proprio questo il grande merito della filosofia crociana, e quello di
Pezzino è l’averlo mostrato non al di
là dell’equilibrio, in sé assai precario e
comunque continuamente ricercato dal
sistema, ma proprio partendo da ciò: lo
storicismo di Croce, infatti, non volle
essere una pianificazione del reale, una
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Recensioni
filosofia della storia che tracciasse il
cammino monotono dell’umanità verso
il pieno compimento additato, ma una
descrizione della vita e, ad un tempo,
una sua promozione; e se Marx gli servì
per ritornare alla terra di Anteo, la guerra
scellerata dei nuovi barbari non poté che
produrre uno sguardo assai più ampio di
quello che si ferma alla contemplazione orgiastica del proprio vile interesse.
Semmai, Croce sbagliava nel pensare di
poter guadagnare, preventivamente, ciò
che la vita umana ben si guarda dal ritenere conquistato anche per un solo attimo del proprio sviluppo, e di abbassare il
suo sistema ad un livello che, inconsciamente, egli aveva già superato. Moralità
ed utilità sono i due polmoni dell’esistenza: compito dell’uomo è dosarne
il giusto apporto di ossigeno, perché di
troppo ossigeno si muore, o quanto meno
ci si inebria. Ed è un compito da svolgere
e non un risultato da ottenere, perché non
ci è stata data la soluzione, una per tutti e
definitivamente, e non ci è possibile leggere nel taccuino del maestro. Ma è proprio questa santa ignoranza della giusta
miscela, che va ricercata per quanto e per
quello che si può, che ci rende responsabili. E responsabili perché liberi.
Antonio Giovanni Pesce
Il muro di vetro. L’Italia delle religioni.
Primo rapporto 2009, a cura di P. Naso e
B. Salvarani, EMI, Bologna 2009.
Si sentiva da più parti la necessità di
avere un’analisi dettagliata sull’odierna
situazione religiosa in Italia, un rapporto
statistico sul fenomeno della multiculturalità oggi molto diffuso anche nel nostro
Paese. P. Naso e B. Salvarani - studiosi e
promotori del dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale – offrono ai lettori
un agile strumento ricco di dati, documenti, eventi e personaggi inerenti a tale
problematica, che rendono il volume “un
unicum nel panorama editoriale italiano”.
Il Rapporto si suddivide in tre parti: la
prima (Analisi) presenta alcuni testi intorno agli aspetti più significativi del
pluralismo religioso – le comunità di
fede, l’informazione, la formazione, la
religiosità popolare, i sincretismi –; la
seconda (Profili) descrive la personalità dei protagonisti nazionali del mondo plurireligioso; la terza (Documenti e
dati) accoglie fatti, riferimenti e bibliografie sul tema, da aggiornare - secondo
le previsioni dichiarate - ogni due anni.
Lo scopo dei curatori è quello di ottenere un “riconoscimento culturale e
politico” della complessità della scena
religiosa, ancora oggi assente in Italia,
a causa di pregiudizi e resistenze che ritardano il diritto alla libertà. Questo è il
motivo che ha determinato la scelta del
titolo: la nostra nazione si trova di fronte
ad un “muro di vetro”, che pur facendo
vedere il pluralismo non permette di interagire con esso. Ne deriva un’arretratezza rispetto alla gran parte dell’Unione
europea e l’impellente bisogno di operare
una svolta; il mosaico delle religioni non
serve a nessuno se esso significa scarsa
conoscenza e sterile eterogeneità. L’incontro con i musulmani, con le comunità
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Recensioni
ebraiche, con le chiese evangeliche ha il
valore dell’integrazione; occorre, pertanto, cominciare dai media o dalle scuole
per far sì che la voce del dialogo diventi
uniforme e produttiva.
Le buone pratiche sono già in corso, ma
bisogna conoscerle; le esperienze e i progetti non mancano, ma bisogna realizzarli nonostante le difficoltà; i protagonisti
delle iniziative spirituali, sociali e politiche in tale direzione richiedono ulteriori
testimonianze al di là del consenso più o
meno ad esse riconosciuto. Con tale suggestivo proposito si apre la pubblicazione
del primo rapporto riguardante il dialogo
religioso italiano e, a tal fine, preziose
risultano le pagine dedicate ai recapiti, agli organigrammi e alle bibliografie
poste in fondo al testo: uno strumento di
consultazione per bene operare.
In sintesi conclusiva, un libro di numeri
e di idee: uno stimolo a capire il fatto religioso non solo come cultura ma come
mappa di una geografia trascurata e da
valorizzare.
Francesco Diego Tosto
Giuliano Ladolfi, Per un nuovo umanesimo letterario, Interlinea Edizioni,
Novara 2009.
Globalizzazione, tecnologia, pensiero debole, genetica sono tutti fenomeni
che rendono la postmodernità complessa e difficile da interpretare. Ciò impone
all’uomo contemporaneo una rifondazione gnoseologica, orientata a superare
ogni consolidata certezza per non cadere
nel riduzionismo, nella semplificazione
del sapere, nella superficialità. Tale situazione per certi versi paralizzante determina – a parere di Giuliano Ladolfi,
autore dell’ottimo saggio, oltre che direttore con Marco Merlin della rivista
“Atelier” – una diversa possibilità ermeneutica della realtà, fondata sullo stimolo dialettico suscitato paradossalmente
dalla “provvisorietà”, per cui il sapere
è tanto più fecondo quanto più produce
nuovi modelli di conoscenza.
L’uomo non è una realtà definita, ma che
si apre al mondo e alle sue provocazioni
in un continuo intreccio di contrasti e di
sorprendenti corrispondenze. Questa peculiare “liquidità” dell’epoca contemporanea ha il carattere della velocità, si rifiuta come riferimento comportamentale
e indebolisce ogni tutela o collaborazione, promuovendo invece la competitività; essa riduce, inoltre, il successo di una
progettazione verso l’incerta direzione
di un’apprensiva instabilità. All’interno
di questo contesto storico-culturale, Ladolfi tenta arditamente di riagganciare il
ruolo della poesia alla nuova realtà antropologica. Sembrerebbe un’operazione improbabile solo al pensiero che la
vera poesia rifugge dall’odierno mondo
economico, dalla cultura “emporiocentrica”, dalla mercificazione; ma se il grido di allarme postmoderno farà sì che la
poesia, anziché emarginarsi, proverà a
testimoniare i valori umani sempre più
in correlazione ai molteplici ambiti del
sapere e del progresso, sarà possibile allora credere in un nuovo umanesimo e in
una nuova figura di intellettuale. Questi
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Recensioni
avrà l’arduo compito di “procedere a
un’opera di re-incanto dei valori culturali”, in cui la demolizione non sarà più
appagante ma lascerà spazio alla verità
che costruisce se stessa.
La cultura, al primo livello della scala dei
valori, non permetterà mai alle mode di
favorirne l’oblio, non utilizzerà la logica
del “tempo breve”, ma uscirà dal pensiero “espressivo” per attingere al pensiero “rivelativo” (L. Pareyson). Solo una
critica “dialogica” permetterà alla poesia
di vivere la sua libertà, quella libertà che
opera uno “scatto” dal dato, dal precostituito. Ladolfi auspica in tal modo una
critica che sappia ricreare e modificare,
che legittimamente interpreta, nel senso che si apre all’alterità, all’implicito e
all’apporto conoscitivo altrui. Se il poeta
è il rivelatore, il critico sarà l’homo qaerens alla ricerca di significati e di verità.
L’ottimo volume del poeta e studioso
piemontese apre di certo un dibattito,
non parte da impostazioni preconcette
ma si fonda su una capillare lettura di
testi poetici del Novecento (alle cui caratteristiche dedica tra l’altro un intero
capitolo) e sulla consapevolezza che la
“globalità” della realtà umana richiede la
conoscenza di molteplici discipline inte-
ragenti tra di esse e volte a cogliere nessi, simboli e relazioni nascoste. Proprio
la letteratura si presta allo scopo: come
strumento completo di indagine, viene
definita da Friedrich Schlegel la somma
manifestazione dello spirito umano nel
suo divenire. Il poeta contemporaneo,
in altre parole, trovandosi di fronte alla
complessità della vita, non si smarrirà
tra i meandri di nuove conoscenze ma
perseguirà la sua vita artistica unica e
irripetibile. Essa scaturirà dalla dignità
della persona umana, anche se non priva
di risvolti negativi; anzi saranno proprio
essi a prepararla alla comprensione dei
limiti della realtà ed alla selezione dei
valori supremi: giustizia, libertà, accettazione del prossimo, equilibrio, pace,
ricerca della verità, speranza nel bene e
nel progresso umano. Non è facile riassumere questi valori positivi all’interno
di una realtà tanto complessa e sfuggente, ma la poesia anche oggi – è questo
l’auspicio di Ladolfi - non abdicherà mai
dalla sua stessa essenza: essere una poesia “a misura d’uomo” per trovare una
sua nuova “solidità”, e in quanto tale
cercare di valorizzare l’infinito coacervo di mutazioni del suo mondo interiore.
Francesco Diego Tosto
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Libri ricevuti
FUCI, Orizzonti della Cittadinanza a cura di S. Sanchini, T. Torresi Ed. Studium
Roma 2009 pp 415.
A. De Maria, Credo nello Spirito Santo La santa Chiesa Excerpta ex Diss. Ad Doctoratum in Theologia et Scientiis patristicis Roma 2009
Condizioni di abbonamento
«Laós» 2009
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