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J. R. Ward
Lover Avenged
UN AMORE INFUOCATO
UN ROMANZO DELLA CONFRATERNITA DEL PUGNALE NERO
Titolo dell'opera originale:
Black Dagger Brotherhood: Lover Avenged
Traduzione dall'americano di Paola Pianalto
Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il
prodotto dell'immaginazione dell'Autrice o usati in modo fittizio. Qualunque
rassomiglianza con fatti, località, organizzazioni o persone, vive o defunte, è del tutto
casuale.
Copyright © Jessica Bird, 2009
All rights reserved including the right of reproduction
in whole or in part in any form.
© 2011 Mondadori Direct S.pA.
per Mondolibri, Milano
This edition published by arrangement with NAL Signet,
a member of Penguin Group (USA) Inc.
www.mondolibri.it
Dedicato a Te:
Bene e Male non sono mai stati termini più relativi
che quando applicati a quelli come te.
Ma sono d'accordo con lei. Per me sei sempre stato un eroe.
Ringraziamenti
Con immensa gratitudine ai lettori della Confraternita del Pugnale Nero e
in particolare alle ragazze!
Grazie infinite: Steven Axelrod, Kara Cesare, Claire Zion, Kara Welsh e
Leslie Gelbman.
Grazie, Lu e Opal, e grazie inoltre ai nostri Mods e a tutti i nostri Hall
Monitors, per tutto ciò che fate spinti dalla vostra bontà d'animo!
Come sempre con molta riconoscenza al mio Comitato Esecutivo: Sue
Grafton, Dott.ssa Jessica Andersen e Betsey Vaughan. E con grande stima
all'incomparabile Suzanne Brockmann e alla sempre favolosa Christine
Feehan (e famiglia).
A D.L.B. - dire che ti ammiro sarebbe scontato, ma è così. Ti voglio bene.
Baci. Mamma.
A N.T.M. - che ha sempre ragione, ma riesce comunque a farsi volere bene
da tutti noi.
A LeElla Scott - che è orgogliosa di se stessa, ragazzi, eh, sì, altro che.
Alla piccola Kylie e alla sua mamma - perché le amo moltissimo.
Niente di tutto ciò sarebbe possibile senza: il mio affettuoso marito, che è il
mio consigliere, assistente e visionario; la mia meravigliosa madre, che non
potrò mai ripagare per tutto l'amore che mi ha dato; i miei familiari (sia di
sangue che di adozione) e i miei più cari amici.
Oh, e con affetto alla dolce metà di WriterDog, come sempre.
Tutti i re sono ciechi.
I migliori lo sanno e non usano solo gli occhi per comandare.
Capitolo 1
«Il re deve morire.»
Quattro paroline piccole piccole. Prese una per una non erano niente di
speciale, ma insieme richiamavano ogni sorta di nefandezza: Assassinio. Alto
tradimento. Regicidio.
Morte.
Negli istanti carichi di tensione immediatamente successivi, Rehvenge
rimase in silenzio, lasciandole aleggiare nell'aria opprimente dello studio,
quattro punti cardinali di una bussola oscura e malefica che conosceva molto
bene.
«Non dici niente?» chiese Montrag, figlio di Rehm.
«No.»
Montrag batté le palpebre, giocherellando col foulard di seta annodato al
collo. Al pari di quasi tutti i membri della glymera, aveva le pantofole di
velluto ben piantate sulla sabbia finissima della sua classe sociale, il che
significava che era molto signorile e raffinato. Con la sua giacca da camera,
gli eleganti pantaloni gessati e - oh, cavolo, ma erano proprio ghette, quelle? sembrava uscito dalle pagine di Vanity Fair. Di cent'anni fa, tipo. E con tutta
la sua boria e le sue idee brillanti del cazzo era come Kissinger senza un
presidente, quando si trattava di politica. Tutto analisi e nessuna autorità.
Il che spiegava quell'incontro, no?
«Non fermarti proprio adesso», lo incoraggiò Rehv. «Sei già saltato giù dal
tetto. L'atterraggio non potrà essere in alcun modo più dolce.»
Montrag si accigliò. «Mi riesce difficile vedere la situazione con la tua
leggerezza.»
«E chi sta ridendo ?»
Qualcuno bussò alla porta dello studio e Montrag voltò la testa di lato;
aveva il profilo di un setter irlandese: tutto naso. «Avanti.»
La doggen che ubbidì al comando fece il suo ingresso curva sotto il peso del
servizio d'argento. Reggendo un vassoio di ebano grande come una veranda,
attraversò faticosamente la stanza col suo carico.
Finché non alzò la testa e vide Rehv.
Allora rimase di sasso.
«Il tè lo prendiamo qui.» Così dicendo, Montrag indicò il basso tavolino tra
i due sofà foderati di seta su cui erano seduti. «Qui.»
La doggen non si mosse, gli occhi fissi sul volto di Rehv.
«Si può sapere cosa ti prende?» fece Montrag, mentre sul vassoio le tazze
cominciavano a tremare tintinnando. «Posa qui il tè, sbrigati.»
La doggen chinò il capo, farfugliò qualcosa e avanzò lentamente, un passo
dopo l'altro, neanche si stesse avvicinando a un serpente pronto a colpire.
Tenendosi il più lontano possibile da Rehv, posò il vassoio, e con mani
tremanti, riuscì a stento a sistemare le tazze sui piattini.
Quando fece per afferrare la teiera era ormai chiaro che avrebbe rovesciato
tè dappertutto.
«Lascia, faccio io», si offrì Rehv, allungando una mano.
Nel ritrarsi bruscamente, la doggen perse la presa sul manico della teiera,
che precipitò in caduta libera.
Rehv afferrò con entrambe le mani l'argento rovente.
«Ma cosa combini!» esclamò Montrag, balzando su dal divano.
La doggen si fece piccola piccola, coprendosi il volto con le mani. «Mi
dispiace, padrone. Davvero, sono...»
«Oh, sta' zitta, e portaci del ghiaccio...»
«Non è colpa sua.» Con tutta calma Rehv spostò la presa sul manico e versò
il tè. «Io sto benissimo.»
Gli altri due lo fissarono come in attesa di vederlo saltar su, agitando la
teiera colma al grido di ahia-ahia-ahia.
Rehv invece posò la teiera d'argento e, guardando Montrag negli occhi
slavati, chiese, «Una zolletta o due?»
«Vuoi... vuoi che ti faccia portare qualcosa per quell'ustione?»
Rehv sorrise, mostrando per un attimo le zanne al padrone di casa. «Sto
benissimo, grazie.»
Apparentemente offeso perché non poteva fare nulla, Montrag rivolse la
sua stizza contro la cameriera. «Sei un disastro. Lasciaci soli.»
Rehv lanciò un'occhiata alla doggen. Le emozioni della giovane gli
apparivano come una griglia tridimensionale di paura, vergogna e panico,
una fitta trama che riempiva lo spazio intorno a lei, esattamente come le ossa,
i muscoli e la pelle.
Stai tranquilla, le comunicò tramite il pensiero. Sistemo tutto io.
Sul volto di lei si dipinse un barlume di sorpresa, ma le spalle si rilassarono
e, quando si voltò, appariva molto più distesa.
Una volta uscita la cameriera, Montrag si schiarì la gola rimettendosi a
sedere. «Non credo che potrà mai migliorare. E assolutamente incapace.»
«Cominciamo con una», disse Rehv lasciando cadere una zolletta di
zucchero nel tè. «Poi vediamo se ne vuoi un'altra.»
Allungò la tazza, ma non troppo, così Montrag fu costretto ad alzarsi di
nuovo dal divano e protendersi sopra il tavolino.
«Grazie.»
Tenendo stretta la tazza, Rehv indusse un cambiamento nella mente del
padrone di casa. «Le femmine si innervosiscono sempre, con me. Non è stata
colpa sua.»
Poi, all'improvviso, mollò la presa e Montrag arrancò per non lasciarsi
sfuggire di mano la sua Royal Doulton.
«Oops, attento a non rovesciare», disse Rehv, accomodandosi di nuovo sul
divano. «Sarebbe un vero peccato macchiare questo bel tappeto. Aubusson,
giusto?»
«Ehm... sì.» Montrag si sedette di nuovo, accigliato, quasi non riuscisse a
spiegarsi perché tutt'a un tratto avesse cambiato idea sulla sua cameriera.
«Ehm... sì, esatto. Mio padre lo acquistò molti anni fa. Aveva un gusto
squisito, vero? Abbiamo fatto costruire questa stanza apposta per il tappeto,
perché è grandissimo, e il colore delle pareti è stato scelto espressamente per
dare risalto alle tonalità del pesca.»
Montrag si guardò intorno nello studio, sorridendo tra sé mentre
sorseggiava il tè, il mignolo alzato per aria come una bandiera.
«Com'è il tè?»
«Perfetto, ma tu non ne vuoi?»
«Non sono un gran bevitore di tè.» Rehv attese che l'altro si portasse la
tazza alle labbra. «Dunque, parlavi di assassinare Wrath?»
Montrag sputacchiò l'Earl Grey, schizzando il davanti della giacca da
camera rosso sangue e macchiando lo splendido tappeto di paparino.
Vedendolo tamponare fiaccamente le macchie con la mano, Rehv gli porse
un tovagliolo. «Ecco, usa questo.»
Montrag prese il quadrato damascato, si asciugò goffamente il petto e poi
fece altrettanto col tappeto, anche in questo caso senza il minimo risultato.
Evidentemente era il genere di maschio abituato a sporcare, ma non a pulire.
«Dicevi?» mormorò Rehv.
Montrag buttò il tovagliolo sul vassoio e si alzò, lasciando perdere il tè e
cominciando a camminare su e giù. Si fermò di frontea un grande paesaggio
montano e parve ammirare la scena drammatica col suo soldato coloniale
intento a pregare rivolto al cielo.
«Lo sai, vero, che tanti nostri fratelli di sangue sono morti nel corso degli
attacchi dei lesser», disse, come rivolto al quadro.
«E io che credevo di essere stato nominato leahdyre del consiglio solo in
virtù della mia brillante personalità.»
Montrag lo guardò truce da sopra la spalla, il mento piegato nel classico
modo aristocratico. «Ho perso mio padre, mia madre e tutti i miei cugini di
primo grado. Li ho seppelliti a uno a uno. Credi che sia stato piacevole?»
«Domando scusa.» Rehv si mise la mano destra sul cuore e chinò la testa,
anche se non gliene fregava un accidente. Non intendeva lasciarsi manipolare
dalla litania dei lutti, specie visto che le emozioni dell'amico esprimevano
avidità, e non sofferenza.
Montrag diede le spalle al dipinto e la sua testa prese il posto della
montagna su cui si ergeva il soldato coloniale... tanto che l'omino in uniforme
róssa sembrava stesse cercando di arrampicarsi sul suo orecchio.
«La glymera ha subito perdite senza precedenti in quei raid. Non solo in
termini di vite, ma di beni materiali. Case depredate, oggetti d'arte e
d'antiquariato trafugati, conti bancari prosciugati. E Wrath cos'ha fatto?
Niente. Non ha mai dato risposta alle ripetute richieste di chiarimento su
come fossero state localizzate le residenze di quelle famiglie... sul perché la
confraternita non ha fermato gli attacchi... su dove sono finiti tutti quei beni.
Non esiste un piano in grado di assicurarci che non succederà di nuovo,
nessuna garanzia che, rientrando a Caldwell, i pochi aristocratici rimasti
sarebbero al sicuro.» Montrag s'infervorò per davvero; la sua voce, alzandosi,
riecheggiò contro il soffitto dorato. «La nostra razza si sta estinguendo e
abbiamo bisogno di una vera guida. Per legge, tuttavia, finché il cuore batterà
nel petto di Wrath, il re è lui. Ma la vita di uno solo vale le vite di tanti?
Interroga il tuo cuore.»
Oh, Rehv lo stava facendo eccome, stava guardando dentro quel muscolo
nero e malvagio. «E poi?»
«Poi assumiamo il controllo e facciamo ciò che è giusto. Durante il suo
mandato Wrath ha rivoluzionato le cose... Guarda cosa ne è stato delle Elette.
Adesso hanno il permesso di circolare sulla Terra... inaudito! E la schiavitù è
stata dichiarata fuori legge, così come la per le femmine. Beata Vergine
Scriba, tra un po' nella confraternita ci sarà qualcuno con la sottana. Se
prendiamo il potere possiamo annullare ciò che Wrath ha fatto e legiferare in
modo adeguato al fine di preservare i vecchi usi e costumi. Possiamo
organizzare una nuova offensiva contro la Lessening Society. Possiamo
trionfare.»
«Stai usando un sacco di "possiamo", al plurale, ma chissà perché ho come
l'impressione che non sia esattamente quello che hai in mente.»
« Be', naturalmente dovrà esserci una sorta di primo tra pari.» Montrag
lisciò i baveri della giacca assumendo l'atteggiamento di chi sta posando per
una statua di bronzo o per una banconota, forse. «Una persona di valore e di
grande levatura morale.»
«E ih che modo verrà scelto questo modello di virtù?»
«Finalmente ci trasformeremo in una democrazia, attendiamo da lunga
pezza una democrazia che sostituirà l'ingiusta e iniqua convenzione della
monarchia...»
Mentre Montrag continuava col suo bla-bla, Rehv si mise comodo, accavallò
le gambe e unì la punta delle dita. Seduto sul soffice divano del padrone di
casa, le sue due metà entrarono in conflitto, il vampiro si scontrò col
symphath.
Con l'unico vantaggio che l'alterco in corso nel suo intimo sovrastò il
rumore di quello sproloquio nasale della serie "so tutto io".
L'opportunità era evidente: sbarazzarsi del re e assumere il controllo della
razza.
L'opportunità era impensabile: uccidere un vampiro di valore, un ottimo
condottiero e... un amico, per certi versi.
«... e sceglieremmo chi deve guidarci, obbligandolo a rendere conto del suo
operato davanti al consiglio. Ci assicureremmo che le nostre preoccupazioni
trovino il dovuto riscontro.» Montrag tornò verso il divano, si sedette e si
mise comodo, quasi si apprestasse a blaterare del futuro per ore. «La
monarchia non funziona e la democrazia è l'unico modo per...»
«Democrazia, in genere, significa che ciascuno ha il diritto di votare», lo
interruppe Rehv. «Nel caso ti sfugga la definizione.»
«E infatti sarebbe così. Tutti noi del consiglio faremmo parte del comitato
elettorale. Tutti avrebbero il diritto di votare.»
«Per tua informazione, tutti comprende giusto un paio di persone in più
oltre a "tutti quelli come noi".»
Montrag gli scoccò un'occhiata carica di "oh per piacere sii serio". «Non mi
dirai che vuoi affidare le sorti della razza alle classi inferiori?»
«Non dipende da me.»
«Potrebbe.» Montrag si portò la tazza di tè alle labbra e lo guardò al di
sopra del bordo con occhi penetranti. «Potrebbe, assolutamente. Tu sei il
nostroleahdyre.»
Guardando Montrag, Rehv vide chiaramente tutto il percorso, come se
fosse lastricato e illuminato da potenti lampade alogene: se Wrath veniva
ucciso, la sua stirpe reale sarebbe finita perché non aveva ancora avuto figli.
Le società, in particolare quelle in guerra come i vampiri, aborrono i vuoti di
potere, perciò un cambiamento radicale dalla monarchia alla "democrazia"
non era impensabile come sarebbe stato in un'altra epoca, più sana e più
sicura.
I membri della glymera potevano anche essere fuori Caldwell, nascosti nelle
case sicure sparse in tutto il New England, ma quel branco di decadenti figli
di puttana aveva soldi e influenza da vendere e da sempre voleva prendere il
comando. Con quel piano, ora finalmente potevano ammantare le loro
ambizioni coi panni della democrazia, fingendo di prendersi cura del
popolino.
La natura oscura di Rehv era in fibrillazione, un criminale recluso ansioso
di ottenere la libertà vigilata: misfatti e giochi di potere erano una pulsione
innata per i suoi consanguinei e una parte di lui voleva creare quel vuoto...
per poi infilarcisi dentro.
«Risparmiami la propaganda», disse interrompendo le presuntuose
farneticazioni di Montrag. «Cosa suggerisci, esattamente?»
L'altro fece gran mostra di posare con cautela la tazza di tè, quasi stesse
scegliendo con cura le parole. Figurarsi. Montrag sapeva perfettamente cosa
stava per dire, Rehv era pronto a scommetterci. Quello non era il tipo di cosa
che si può improvvisare così, sui due piedi, e altri ne erano al corrente. Per
forza.
«Come ben sai, il consiglio deve riunirsi tra un paio di giorni a Caldwell
proprio per avere udienza col re. Wrath arriverà e... si verificherà un evento
mortale.»
«Wrath è sempre scortato dai fratelli, non esattamente il genere di ostacolo
facile da aggirare.»
«La morte ha molte maschere. E può esibirsi su molti palcoscenici diversi.»
«E il mio ruolo sarebbe...?» Anche se già lo sapeva.
Gli occhi chiari di Montrag erano come il ghiaccio, gelidi e luminescenti.
«So che tipo sei. Dunque so esattamente di cosa sei capace.»
Non era una sorpresa. Da venticinque anni Rehv era un boss della droga e,
pur non avendo mai sbandierato la sua occupazione davanti ai membri
dell'aristocrazia, i vampiri frequentavano regolarmente il suo club e in
parecchi ingrossavano le file dei suoi clienti "chimici".
Nessuno, tranne i fratelli, sapeva del suo lato symphath... e, potendo
scegliere, Rehv l'avrebbe tenuto nascosto anche a loro. Negli ultimi vent'anni
aveva pagato profumatamente la sua ricattatrice per mantenere il segreto.
«Ecco perché mi rivolgo a te», concluse Montrag. «So che sei in grado di
gestire la faccenda.»
«Verissimo.»
«In quanto leahdyre del consiglio ricopriresti una posizione di enorme
potere. Anche se non verrai eletto presidente, il consiglio dovrà starti a
sentire. E lascia che ti rassicuri sulla Confraternita del Pugnale Nero. So che
tua sorella è sposata con uno dei suoi membri. I fratelli non subiranno
conseguenze.»
«Non pensi che la cosa li farà incazzare? Wrath non è solo il re. È anche uno
di loro.»
«Proteggere la nostra razza è il loro mandato primario. Ovunque andiamo
noi, loro devono seguirci. E sappi che in molti pensano che ultimamente
stanno facendo un pessimo lavoro. Ritengo che forse avrebbero bisogno di
una guida migliore.»
«Da parte tua. Giusto. Naturale.»
Sarebbe stato come affidare il comando di una divisione blindata a un
arredatore: un sacco di chiacchiere vuote finché uno dei soldati avrebbe
messo a tacere per sempre quell'incapace mezzacalzetta.
Proprio un piano coi fiocchi. Altro che.
E tuttavia... chi diceva che Montrag dovesse essere il presidente eletto? Gli
incidenti possono capitare ai re come agli aristocratici.
«Devo dirti», riprese Montrag, «come mi diceva sempre mio padre, che la
tempistica è tutto. Dobbiamo procedere senza indugio. Possiamo contare su
di te, amico mio?»
Rhev si alzò in piedi, torreggiando sull'altro vampiro. Con una rapida
tiratina ai polsini della giacca, si raddrizzò il completo Tom Ford prima di
afferrare il bastone. Non aveva la minima percezione del proprio corpo, non
sentiva niente: né i vestiti né il peso che passava dal fondoschiena alle piante
dei piedi o il manico del bastone nel palmo ustionato. L'intorpidimento era
un effetto collaterale del farmaco che utilizzava per impedire al suo lato
malefico di emergere in presenza di chi symphath non era, la prigione in cui
rinchiudeva i suoi impulsi da Sociopatico.
Gli bastava saltare una dose per tornare al suo stato naturale, però. Nel giro
di un'ora il male che c'era in lui si ridestava, pronto a entrare in gioco.
«Allora, cosa ne dici?» lo incalzò Montrag.
Bella domanda.
A volte nejla vita, tra la miriade di decisioni banali come cosa mangiare,
dove dormire e come vestirsi, ci si presenta un vero e proprio bivio. In questi
momenti, quando la nebbia della relativa irrilevanza si dirada e il fato ci
impone di far ricorso al libero arbitrio, si può solo decidere di andare a destra
o a sinistra... non c'è modo di infilarsi nel sottobosco tra i due sentieri, a bordo
di un fuoristrada, nessuna possibilità di scendere a patti col dilemma che ci
troviamo davanti.
Bisogna rispondere all'appello e fare la propria scelta. Senza possibilità di
invertire la rotta.
Naturalmente il problema era che muoversi all'interno di uno scenario
morale era qualcosa che Rehv aveva dovuto imparare da autodidatta per
mimetizzarsi tra i vampiri. Aveva appreso la lezione, sì, ma solo fino a un
certo punto.
E le droghe che assumeva funzionavano solo così così.
D'un tratto il volto pallido di Montrag si colorò di sfumature sul rosa
pastello, i suoi capelli scuri divennero blu magenta e la giacca da camera
color ketchup. Mentre tutto si tingeva di rosso, il campo visivo di Rehv si
appiattì, mostrandogli il mondo come su uno schermo cinematografico.
Il che, forse, spiegava perché per i symphath era così facile usare le persone.
Quando il suo lato oscuro prendeva il sopravvento, l'universo aveva la
profondità di una scacchiera e i suoi abitanti erano pedine per la sua mano
onnisciente. Nessuno escluso. Nemici... e amici.
«Ci penso io», dichiarò Rehv. «Come hai detto tu, so cosa fare.»
«La tua parola.» Montrag tese il palmo liscio. «Dammi la tua parola che
tutto avverrà nella massima segretezza.»
Rehv lasciò pendere quella mano per aria, ma sorrise, rivelando ancora una
volta le zanne. «Fidati di me.»
Capitolo 2
Wrath, figlio di Wrath, correva lungo uno dei vicoli diCaldwell,
sanguinando in due punti. Aveva un taglio allaspalla sinistra provocato da
un coltello seghettato e uno squarcio alla coscia per il quale doveva
ringraziare l'angolo arrugginito di un cassonetto dell'immondizia. Il lesser
davanti a lui, quello che Wrath stava per sventrare come un pesce, non era
responsabile di nessuna delle due ferite: erano stati i suoi due amichetti
canuti e profumati come ragazzine a fare il danno.
Appena prima di essere ridotti a una coppia di sacchi di letame, una
trentina di metri più indietro, tre minuti prima.
Il bastardo lì davanti era il suo vero bersaglio.
Il non morto correva a più non posso, ma Wrath era più veloce... non solo
perché aveva le gambe più lunghe, e malgrado perdesse come una cisterna
arrugginita. Anche il terzo lesser sarebbe morto, non c'era il minimo dubbio.
Era una questione di principio.
Il lesser aveva scelto la strada sbagliata, quella notte... non nel senso del
vicolo in cui si era infilato. Quella era forse l'unica cosa giusta che faceva da
decenni, perché la privacy era importante, quando si combatteva. L'ultima
cosa che i fratelli o la Lessening Society volevano in quella guerra, era
coinvolgere la polizia umana, foss'anche solo quando si soffiavano il naso.
No, l'errore fatale del bastardo era stato uccidere un vampiro civile un
quarto d'ora prima. Col sorriso sulle labbra. Davanti aWrath.L'odore di
sangue fresco di vampiro aveva attirato il re verso il trio di assassini, intenti a
trascinare via uno dei suoi civili. Quelli avevano capito subito di trovarsi
davanticome minimo a un membro della confraternita, infatti il lesser lì avanti
aveva ucciso il civile per avere le mani libere e potersi concentrare
completamente sullo scontro, insieme alla sua squadra.
La cosa triste era che l'arrivo di Wrath aveva risparmiato al civile una morte
lenta, dopo le terribili torture che avrebbe subito in uno dei campi di
persuasione della Società. Ma gli rodeva comunque vedere un innocente in
preda al terrore, sbudellato e buttato come un cartoccio vuoto sull'asfalto
ghiacciato.
Quindi il figlio di puttana lì avanti doveva morire.
Occhio per occhio, e poi era anche una questione di stile: ne andava del suo
onore.
In fondo al vicolo cieco, il lesser si voltò di scatto preparandosi allo scontro, i
piedi ben piantati per terra e il coltello alto nel pugno. Wrath non rallentò la
sua corsa. A metà strada estrasse una delle sue hira shuriken, le micidiali stelle
ninja usate nelle arti marziali, e in modo plateale lanciò l'arma con uno scatto
del polso.
A volte è bello far sapere all'avversario cosa lo aspetta.
Il lesser seguì la coreografia alla perfezione, spostando il baricentro e
abbandonando la posizione da combattimento. Accorciando le distanze,
Wrath lanciò un'altra stella ninja e poi un'altra ancora, costringendo il lesser
ad accovacciarsi.
Il Re cieco si smaterializzò, riprendendo forma proprio sopra quello stronzo
e azzannandolo alla nuca. Il sangue dolciastro del lesser aveva il sapore del
trionfo, e un grido di esultanza non si fece attendere quando Wrath agguantò
quella carogna per le braccia.
La vendetta fu un gioco da ragazzi, come schioccare le dita. O le ossa, nella
fattispecie.
Il lesser lanciò un urlo quando entrambe le clavicole uscirono dalla cavità
articolare, ma l'ululato di dolore non andò lontano perché prontamente
Wrath gli tappò la bocca con la mano.
«Questo è solo l'antipasto, tanto per scaldarsi», sibilò Wrath. «E importante
sciogliersi un po', prima di fare ginnastica.»
Il re rovesciò il non morto sulla schiena e lo guardò. Dietro gli occhiali
avvolgenti, i suoi occhi debolissimi erano più acuti del solito, l'adrenalina in
circolo nell'autostrada delle sue vene gli aguzzava la vista. Ottimo. Aveva
bisogno di vedere bene l'essere che stava per uccidere, e non per garantire
l'accuratezza del colpo di grazia.
Il lesser lottava disperatamente per respirare, la pelle del suo viso aveva una
lucentezza irreale, plastica, come se la struttura ossea fosse rivestita di quella
roba con cui si fanno i sacchi di granaglie; aveva gli occhi sbarrati, e un odore
dolciastro simile al sudore di un animale spiaccicato sulla strada in una notte
torrida.
Wrath sganciò la catena d'acciaio appesa alla spalla del suo giubbotto da
motociclista e srotolò le maglie lucenti da sotto il braccio. Stringendo la
pesante catena nella mano destra, l'avvolse intorno al pugno, allargando
l'ampiezza delle nocche e potenziandone i duri contorni.
«Dì "cheese".»
Wrath colpì il lesser all'occhio. Una. Due. Tre volte. Il suo pugno era un
ariete, l'orbita, sotto di lui, cedette come una minuscola porticina. A ogni
impatto il sangue nero schizzava fuori spargendosi dappertutto, sulla faccia
di Wrath, sul giubbotto e sugli occhiali da sole. Lui lo sentiva, malgrado gli
indumenti di pelle, ma ne voleva ancora.
Quel cibo non gli bastava mai, ne era ghiotto.
Con un sorriso stentato lasciò andare la catena, che colpì l'asfalto sudicio in
una risata metallica, raccapricciante, quasi si fosse divertita quanto lui. Sotto
di lui, il lesser non era morto. Anche se di sicuro stava sviluppando massicci
ematomi subdurali al cervello, davanti e dietro, sarebbe sopravvissuto,
perché c'erano solo due modi per uccidere un lesser.
Uno era trafiggerlo al petto con i pugnali neri che i fratelli portavano
agganciati al torace. Questo rispediva il pezzo di merda al suo creatore,
l'Omega, ma era solo una soluzione temporanea perché il Male avrebbe usato
quell'essenza per tramutare un altro umano in una macchina assassina. Non
era una morte vera e propria, ma una dilazione.
L'altro modo, invece, era permanente.
Wrath tirò fuori il cellulare e fece un numero. Quandò una profonda voce
maschile con l'accento di Boston rispose, disse, «Ottava e Trade. Tre a terra.»
Butch O'Neal, alias the Dhestroyer, il Distruttore, discendente da Wrath,
figlio di Wrath, reagì in modo flemmatico, com'era nel suo carattere. Senza
scomporsi. Tranquillo. Lasciando ampio spazio all'interpretazione nelle sue
parole:
«Oh, per amor del cielo. Mi prendi in giro? Wrath, devi assolutamente
piantarla con questa storia. Basta con questo secondo lavoro. Sei il re, adesso.
Non sei più un fratello...»
Wrath chiuse il telefono di scatto.
Già. L'altro modo per sbarazzarsi di quei figli di buona donna, il modo
definitivo, sarebbe arrivato sul posto nel giro di cinque minuti. Con la bocca a
rimorchio. Purtroppo.
Wrath si accovacciò sui talloni, riavvolse la catena intorno alla spalla e alzò
gli occhi sul riquadro di cielo notturno visibile al di sopra dei tetti. Mentre
l'adrenalina rifluiva, riusciva a malapena a distinguere lo scuro profilo degli
alti edifici dallo sfondo piatto della galassia; strizzò gli occhi con forza.
Non sei più un fratello.
Col cavolo. Non gli importava cosa diceva la legge. La sua razza aveva
bisogno che lui fosse più che un burocrate.
Con un'imprecazione nell'Antico Idioma, fece mente locale perquisendo il
giaccone e i calzoni del lesser in cerca di un documento. In una tasca sul
sedere trovò un portafoglio sottile con dentro una patente di guida e due
dollari...
«Credevate... che fosse uno dei vostri...»
La voce del non morto era a un tempo stridula e maligna, e quel suono da
film dell'orrore scatenò di nuovo l'aggressività di Wrath. Di botto la vista si
acuì, consentendogli di mettere quasi a fuoco il suo nemico.
«Che cosa hai detto?»
Il lesser abbozzò un sorriso, quasi non si fosse accorto che metà della sua
faccia aveva la consistenza di una frittata molliccia. «È sempre stato... uno dei
nostri.»
«Di che cazzo parli?»
«Come... credi», a quel punto il lesser trasse un faticoso respiro, «che
abbiamo trovato... tutte quelle case, quest'estate...»
L'arrivo di un veicolo interruppe bruscamente la frase e Wrath voltò la testa
di scatto. Grazie al cielo era la Escalade nera che sperava e non qualche
umano armato di un cellulare col colpo in canna, pronto a sparare una
chiamata al 911.
Butch O'Neal scese dal posto di guida, la bocca che già andava a ruota
libera. «Sei uscito di testa, cazzo? Ma cosa dobbiamo fare, con te? Devi
piantarla di...»
Mentre lo sbirro continuava a smadonnare, Wrath riportò lo sguardo sul
lesser. «Come avete fatto a trovarle? Le case?»
Quello scoppiò in una risata, il flebile sibilo che ci si aspetta di sentire da
uno squilibrato. «Perché lui le conosceva. C'era stato... in tutte quante... ecco
come.»
Poi il bastardo svenne e scuoterlo non servì a rianimarlo. E non servirono
neanche un paio di ceffoni.
Wrath si alzò in piedi con un senso di frustrazione. «Fai il tuo dovere,
sbirro. Gli altri due sono là in fondo, dietro al cassonetto dell'altro isolato.»
Lo sbirro si limitò a guardarlo. «Non dovresti combattere.»
«Sono il re. Posso fare quel cazzo che mi pare.»
Wrath fece per allontanarsi, ma Butch lo afferrò per un braccio. «Beth sa
dove sei? Quello che fai? Glielo hai detto? O sono io l'unico a dover
mantenere il segreto?»
«Tu preoccupati di questo», così dicendo, Wrath indicò il lesser. «Non di me
e della mia shellan.» Poi si liberò della stretta di Butch, che gli gridò dietro,
«Dove stai andando?»
Wrath gli andò sotto a muso duro. «Pensavo di recuperare il cadavere di un
civile per caricarlo sulla Escalade. C'è qualche problema, figliolo?»
Butch non arretrò di un millimetro. A ulteriore dimostrazioneche avevano
lo stesso sangue.
«Se ti perdiamo come re, l'intera razza è fottuta.»
«E intanto ci restano solo quattro fratelli sul campo. Ti piace questo
cornicino? A me no.»
«Ma...»
«Fai il tuo lavoro, Butch. E non impicciarti del mio.»
Wrath ripercorse la trentina di metri che lo separavano dal punto in cui era
iniziato lo scontro. Illesser che aveva picchiato erano dove li aveva lasciati: per
terra che si lamentavano, gli arti piegati secondo angolazioni innaturali, il
sangue nero che confluiva in luride pozze sotto i loro corpi. Ma ormai non
erano più una sua preoccupazione. Girando dietro il cassonetto, guardò il
civile morto e gli mancò il respiro.
Si inginocchiò e, con delicatezza, scostò i capelli dal volto massacrato del
vampiro. Chiaramente aveva reagito, incassando una gran quantità di colpi
prima di essere pugnalato al cuore. Ragazzo coraggioso.
Il re lo prese per la nuca, infilò l'altro braccio sotto le sue ginocchia e
lentamente si alzò. Da morto era più pesante che da vivo. Mentre si
allontanava dal cassonetto diretto verso la Escalade, ebbe la sensazione di
tenere tra le braccia l'intera razza e fu lieto di avere gli occhiali da sole.
Nascondevano gli occhi lucidi.
Oltrepassò Butch, che di corsa stava andando verso i lesser feriti per portare
a termine la sua missione. Quando i passi dello sbirro si spensero, Wrath udì
una lunga, profonda inspirazione, simile al sibilo di un palloncino che
lentamente si sgonfia. I conati di vomito che seguirono furono molto più
rumorosi.
Mentre l'inalazione e il vomito si ripetevano, Wrath stese il morto sul sedile
posteriore della Escalade e gli frugò nelle tasche. Non c'era nulla... niente
portafogli, niente telefonino, neanche la carta di una gomma da masticare,
«Cazzo.» Wrath si voltò, sedendosi sul paraurti posteriore del SUV. Uno dei
non morti lo aveva ripulito nel corso del corpo a corpo... il che significava
che, dal momento che tutti i lesser erano appena stati inalati, il documento
d'identità del civile era stato polverizzato.
Butch risalì barcollando il vicolo in direzione della Escalade; sembrava
sbronzo e non profumava più di acqua di colonia. Puzzava di lesser, neanche
si fosse rotolato come un maiale in mezzo al pesce marcio, coi vestiti foderati
di salviettine profumate e un paio di deodoranti per auto alla vaniglia sotto le
ascelle.
Wrath si alzò e chiuse il portellone della Escalade.
«Sicuro di farcela a guidare?» chiese, mentre Butch si sedeva con cautela al
volante con l'aria di chi sta per dare di stomaco.
«Sì. Sto bene.»
Wrath scosse la testa nel sentire quella voce roca e si guardò intorno. I
palazzi non avevano finestre che affacciavano sul vicolo, e far venire Vishous
per guarire lo sbirro non avrebbe richiesto troppo tempo, ma tra gli scontri e
la ripulita generale, nell'ultima mezz'ora era successo anche troppo.
Dovevano andare via di lì.
In principio Wrath aveva in mente di scattare col videofonino una foto al
documento del lesser, di ingrandirla fino a riuscire a leggere l'indirizzo e
andare a recuperare il vaso di quello stronzo. Ma non poteva lasciare Butch
da solo.
Lo sbirro parve sorpreso nel vederlo salire accanto a sé. «Dove...»
«Portiamo il cadavere alla clinica. V può raggiungerti lì e prendersi cura di
te.»
«Wrath...»
«Litighiamo strada facendo, ti spiace, cuginetto?»
Butch mise in moto il SUV, uscì in retromarcia dal vicolo e fece inversione
nella prima traversa che incrociarono. Quando imboccò la Trade svoltò a
sinistra e puntò verso i ponti che si stendevano sopra il fiume Hudson.
Guidando stringeva convulsamente il volante, non perché fosse spaventato,
ma perché di sicuro stava cercando di trattenere la bile nello stomaco.
«Non posso continuare a mentire così», farfugliò mentre giungevano
dall'altra parte di Caldwell. Un piccolo conato fu seguito da un colpo di tosse.
«Sì che puoi.»
Lo sbirro si voltò verso Wrath. «Mi sento troppo in colpa. Beth ha il diritto
di sapere.»
«Non voglio che si preoccupi.»
«Questo lo capisco...» Butch fece un suono strozzato. «Un secondo.»
Lo sbirro accostò al margine ghiacciato della strada, spalancò la portiera e
vomitò a vuoto, come se il fegato avesse ricevuto ordine di evacuazione da
parte del colon.
Wrath abbandonò la testa all'indietro, un dolore sordo dietro entrambi gli
occhi. Non era affatto una sorpresa. Ultimamente soffriva di emicranie come
gli allergici starnutano.
Butch tirò dentro un braccio tastando tutto il cruscotto, il busto ancora
piegato fuori dalla Escalade,
«Vuoi l'acqua?» chiese Wrath.
«S...» Un altro conato inghiottì il resto della parola.
Wrath prese una bottiglia di Poland Spring, la stappò e la mise in mano a
Butch.
Tra un conato di vomito e l'altro lo sbirro bevve un sorso d'acqua, ma non
riuscì a tenerla giù,
Wrath tirò fuori il telefonino. «Adesso chiamo V.»
«Dammi solo un minuto.»
Ce ne vollero almeno dieci, ma alla fine lo sbirro riuscì a raddrizzarsi e
ripartì. Per un paio di chilometri rimasero tutti e due in silenzio, il cervello di
Wrath macinava all'impazzata, mentre il mal di testa peggiorava.
Non sei più un fratello.
Non sei più un fratello.
Ma invece doveva esserlo. La sua razza aveva bisogno di lui.
Si schiarì la gola. «Quando V arriva all'obitorio devi dirgli che hai trovato il
cadavere del civile e hai fatto il cattivo con i lesser.»
«Vorrà sapere perché ci sei anche tu.»
«Diremo che ero nell'isolato lì accanto, a un incontro con Reh- venge allo
ZeroSum, e ho sentito che avevi bisogno di aiuto.» Wrath si protese verso
Butch e gli strinse con forza il braccio. «Nessuno deve scoprirlo, intesi?»
«Non è una buona idea. Non è affatto una buona idea.»
«Col cazzo.»
Ripiombarono nel silenzio; i fanali delle auto sulla corsia opposta della
superstrada gli davano un fastidio bestiale, malgrado le palpebre abbassate e
gli occhiali. Per evitare la luce, Wrath voltò la faccia di lato, fingendo di
guardare fuori dal finestrino.
«V sa che qualcosa bolle in pentola», borbottò Butch dopo un po'.
«E può continuare a chiedersi cosa sia. Io devo stare sul campo.»
«E se rimani ferito?»
Wrath si coprì la faccia col braccio nella speranza di proteggersi da quei
maledetti fari. Dannazione, adesso era lui ad avere la nausea.
«Non succederà. Nonpreoccuparti.»
Capitolo 3
«Sei pronto per il tuo succo, papà?»
Non ottenendo risposta, Ehlena, figlia di Alyne, smise di abbottonarsi
l'uniforme. «Papà?»
Dal fondo del corridoio, sull'onda dei soavi violini di Chopin, le giunse il
rumore di un paio di pantofole che strusciavano sul nudo assito e una flebile
cascata di parole, come un mazzo di carte che viene mescolato.
Ma bene. Si era alzato da solo.
Ehlena raccolse i capelli in un nodo che poi fermò con un fermaglio bianco.
A metà del turno di lavoro avrebbe dovuto rifare lo chignon. Havers, il
medico della razza, esigeva che le sue infermiere fossero ordinate, stirate e
inamidate come tutto il resto, alla clinica.
La qualità, ripeteva sempre, è fondamentale.
Uscendo dalla camera da letto, Ehlena prese una borsa a tracolla nera che
aveva comprato da Target. Diciannove dollari. Un furto. Dentro c'erano la
gonnellina e il dolcevita, imitazioni di un modello griffato che si sarebbe
messa un paio d'ore prima dell'alba.
Un appuntamento. Doveva andare a un appuntamento.
Per arrivare in cucina bisognava salire una rampa di scale, e la prima cosa
che fece quando emerse dal seminterrato fu puntare verso un vecchissimo
frigorifero fuori moda. Dentro c'erano diciotto bottigliette di Ocean Spray
CranRaspberry, succo di mirtillo e lampone, in tre file di sei. Ne prese una
dalla prima fila, poi con cura spostò avanti le altre, in modo che fossero tutte
allineate le pillole erano dietro la polverosa pila di libri di cucina. Ehlena ne
tirò fuori una di trifluoperazina e due di loxapina e le mise in un tazzone
bianco. Il cucchiaio d'acciaio inox che usò per frantumarle era leggermente
piegato, come tutti gli altri.
Erano quasi due anni, ormai, che schiacciava le pillole così.
Quando ci versò sopra il CranRas, la sottile polverina bianca si sciolse in un
mulinello sul fondo della tazza; per essere sicura di mascherare bene il sapore
delle medicine, Ehlena aggiunse due cubetti di ghiaccio. Più freddo era
meglio era.
«Papà, il succo è pronto.» Posò la tazza sul tavolino, proprio sopra un
cerchio di nastro adesivo che indicava dove andava messa.
sei armadietti dall'altra parte della stanza erano ordinati e relativamente
vuoti, come il frigo; da uno di essi Ehlena tirò fuori una scatola Wheaties, e da
un altro una scodella. Dopo essersi versata i fiocchi di cereali, prese il cartone
del latte e, non appena ebbe finito di usarlo, lo rimise al suo posto: accanto ad
altri due cartoni identici, con l'etichetta Hood bene in vista.
Guardò l'orologio e passò all'Antico Idioma. «Papà? Adesso devo proprio
andare.»
Il sole era tramontato, il che significava che il suo turno, che iniziava un
quarto d'ora dopo che faceva buio, stava per cominciare.
Lanciò un'occhiata alla finestra sopra il lavello della cucina, anche se non
poteva vedere quanto era buio. I vetri erano coperti con dei fogli di alluminio
sovrapposti e fissati all'intelaiatura con del nastro adesivo.
Se anche lei e suo padre non fossero stati vampiri che rifuggivano la luce
del giorno, quegli scuri in foglio di alluminio avrebbero coperto comunque
ogni finestra della casa: come palpebre abbassate sul resto del mondo, lo
chiudevano fuori, contenendolo in modo che quella misera casetta in affitto
fosse protetta e isolata da minacce che solo suo padre riusciva a percepire.
Una volta terminata la Colazione dei Campioni, lavò e asciugò la scodella
con degli asciugamani di carta, perché spugne e panni spugna erano banditi,
e la rimise a posto insieme al cucchiaio che aveva usato. «Papà?»
Ehlena si appoggiò contro il bancone di formica scheggiato e attese,
cercando di non guardare troppo da vicino la tappezzeria sbiadita o il
pavimento di linoleum tutto consumato.
La casa era poco più che una squallida baracca, ma lei non poteva
permettersi altro. Tra le visite mediche a suo padre, le medicine e l'infermiera
a domicilio, del suo salario non restava granché, e già da tempo aveva
esaurito il poco che restava dei soldi, degli argenti, dei pezzi d'antiquariato e
dei gioielli di famiglia.
Riuscivanoastentoastare a galla.
Eppure, quando vide comparire suo padre sulla soglia della cantina, Ehlena
non potè fare a meno di sorridere. I sottili capelli grigi sparavano in fuori in
un'aureola lanuginosa che lo faceva assomigliare a Beethoven, e anche gli
occhi, esageratamente attenti e frenetici, gli conferivano l'aria del genio folle.
In compenso stava molto meglio, non lo vedeva così da tanto tempo. Tanto
per cominciare si era infilato nel modo giusto la logora vestaglia di raso e il
pigiama di seta - con le allacciature sul davanti, la giacca e i pantaloni
coordinati e la cintura annodata. Era pulito, anche, fresco di bagno e
profumato di lozione dopobarba.
Era una contraddizione vivente: aveva bisogno che il suo ambiente fosse
immacolato e in perfetto ordine, ma la sua igiene personale e quello che si
metteva addosso non gli importavano per niente. Anche se forse non era poi
così assurdo. Preso com'era dai suoi pensieri intricati, era troppo assorto nei
suoi deliri per avere consapevolezza di sé.
Le medicine aiutavano, però, tant'è vero che, quando incrociò il suo
sguardo, suo padre la vide per davvero.
«Figliola cara», disse nell'Antico Idioma, «come stai stasera?»
Ehlena rispose come lui preferiva, nella loro lingua madre. «Bene, papà. E
tu?»
Alyne si inchinò con la grazia dell'aristocratico che era per nascita e che era
stato per ceto sociale. «Come sempre sono deliziato dal tuo saluto. Ah, sì, la doggen
mi ha versato il succo. Molto gentile da parte sua.»
Suo padre si sedette con un frusciare di tessuti e maneggiò la tazza di
ceramica come se fòsse finissima porcellana inglese. «Dove stai andando?»
«Al lavoro. Vado al lavoro.»
Suo padre si accigliò, sorseggiando il succo. «Sai bene che non approvo che
lavori fuori casa. Una signora della tua estrazione sociale non dovrebbe impiegare le
ore in tal modo.»
«Lo so, papà. Ma mi rende felice.»
Il volto del vecchio si addolcì. «Be', allora è diverso. Non comprendo la giovane
generazione, ahimè. Tua madre seguiva la casa, la servitù e i giardini e ciò era più che
sufficiente a impegnare le sue nottate.»
Ehlena abbassò gli occhi, pensando che sua madre avrebbe pianto nel
vedere come si erano ridotti. «Lo so.»
«Fai pure come desideri, in ogni caso, io ti vorrò sempre bene.»
Ehlena sorrise a quelle parole, che sentiva ripetere da una vita. E sulla loro
scia aggiunse, «Papà?»
Lui abbassò la tazza. «Sì?»
«Stasera farò un po' tardi.»
«Veramente? E come mai?»
«Vado a prendere un caffè con un amico...»
«Cos'è quello?»
Il cambiamento di tono la indusse ad alzare la testa e a guardarsi intorno
per vedere cosa... Oh, no...
«Niente, papà, davvero, non è niente.» Corse a prendere il cucchiaio che aveva
usato per schiacciare le pillole e si precipitò al lavandino, neanche avesse
un'ustione da bagnare immediatamente con l'acqua fredda.
«Cosa... cosa ci faceva lì?» disse suo padre con voce tremante. «Io...»
Ehlena asciugò svelta il cucchiaio e lo infilò nel cassetto. «Vedi? Non c'è più
niente. Vedi?» Indicò il punto in cui poco prima era posato .il cucchiaio. «Il
bancone è pulito. Non c'è niente.»
«Era lì... l'ho visto. Gli oggetti di metallo non vanno lasciati... Non è sicuro... Chi
l'ha lasciato... Chi l'ha lasciato fuori.,. Chi ha lasciato il cucchiaio...»
«La cameriera.»
«La cameriera! Di nuovo! Dev'essere licenziata. Gliel'ho detto... non bisogna
lasciare fuori niente di metallo non bisogna lasciare fuori niente di metallo non
bisogna lasciare fuori niente di metallo- loro-ci stanno-guardandoepunirannochidisubbidiscesonopiùvicinidi- quantopensiamoe...»
All'inizio, quando suo padre aveva, avuto i primi attacchi, Ehlena,
vedendolo agitato, ricorreva al contatto fisico, convinta che una pacca sulla
spalla o il conforto di una mano fossero d'aiuto. Adesso sapeva che non era
così. Meno stimoli sensoriali riceveva il suo cervello, più in fretta passava la
crisi isterica: su consiglio dell'infermiera che lo assisteva, Ehlena gli faceva
notare la realtà una volta sola e poi evitava di muoversi e di parlare. Era
dura, però, vederlo soffrire e non poter fare niente per aiutarlo. Specie
quando si agitava per colpa sua.
Suo padre scuoteva la testa avanti e indietro, i capelli arruffati in una
ridicola zazzera crespa, mentre nella sua stretta convulsa il CranRas
schizzava fuori dalla tazza, rovesciandosi sulla mano solcata da vene in
rilievo, sulla manica della vestaglia e sul tavolo tutto rovinato. Sulle sue
labbra tremanti il ritmo convulso delle sillabe accelerò, il suo disco interno
prese a suonare sempre più veloce, il rossore della follia si diffuse su per il
collo sbocciando sulle guance.
Ehlena pregò che non fosse uno di quelli brutti. Gli attacchi, quando
arrivavano, variavano per intensità e durata e i farmaci aiutavano a
contenerle entrambe. Ma a volte la malattia aveva la meglio sui rimedi
chimici.
Quando le parole divennero concitate al punto da risultare incomprensibili
e suo padre lasciò cadere la tazza per terra, Ehlena non potè fare altro che
aspettare, pregando la Vergine Scriba che
la crisi passasse alla svelta. Coi piedi incollati a quello schifo di linoleum,
chiuse gli occhi stringendosi le braccia intorno al busto. Se solo si fosse
ricordata di mettere via il cucchiaio. Se solo... Quando la sedia di suo padre si
rovesciò all'indietro sul pavimento, Ehlena capì che avrebbe fatto tardi al
lavoro. Di nuovo.
Gli umani erano proprio delle bestie, pensò Xhex guardando il mare di teste
e spalle pigiate intorno al bar della sala comune dello ZeroSum.
Sembrava che un allevatore avesse appena riempito la mangiatoia e le
vacche da latte si stessero accalcando per arrivare alle granaglie.
Non che le caratteristiche bovine dell'Homo sapiens fossero un male. La
mentalità da mandria era più facile da gestire, dal punto di vista della
sicurezza, e in un certo senso, proprio come con le mucche, uno poteva
guadagnarsi da vivere grazie a loro: quella ressa intorno alle bottiglie si
risolveva in un salasso per i portafogli, e la marea di denaro fluiva in
un'unica direzione: dentro le casse del locale.
La vendita di alcolici andava benone. Ma la droga e il sesso a pagamento
avevano margini di profitto anche maggiori.
Xhex costeggiò lentamente il bordo esterno del bancone, smorzando con
occhiate severe i pensieri torridi di uomini eterosessuali e donne omosessuali.
Dio, proprio non riusciva a capire. Non c'era mai riuscita. Malgrado non
portasse altro che magliette attillate e calzoni di pelle e si tagliasse i capelli a
spazzola come un soldato, attirava l'attenzione tanto quanto le prostitute
seminude nell'area VIP.
D'altra parte, ultimamente il sesso estremo e trasgressivo andava di moda e
i cultori dell'asfissia da autoerotismo, delle frustate sul sedere e del sesso a tre
con tanto di manette erano come i topi nelle fogne di Caldwell: dappertutto e
in libera uscita di notte. Il che, ogni mese, si traduceva in oltre un terzo dei
profitti del club.
Grazie infinite.
A differenza delle ragazze, tuttavia, lei non si faceva mai pagare per fare
sesso. In realtà non lo faceva proprio, il sesso. Tranne che con Butch O'Neal,
quello sbirro. Be', tranne che con quello sbirro e...
Giunta davanti al cordone di velluto dell'area VIP, diede un'occhiata
all'interno del settore esclusivo del club.
Merda. Lui era lì.
Proprio quello che le ci voleva quella sera.
L'oggetto preferito della sua libido era seduto in fondo, al tavolo della
confraternita, in mezzo ai suoi due amichetti che, comeuna sorta di cuscinetto
protettivo, lo separavano dalle tre ragazze strette sul divanetto. Accidenti,
com'era grosso in quel séparé, tutto in tiro, in T-shirt Affliction e giubbotto di
pelle nera, a metà tra quelli dei biker e quelli antiproiettile.
Sotto c'erano delle armi. Pistole. Coltelli.
Com'erano cambiate le cose. La prima volta che era comparso lì dentro era
alto come uno sgabello da bar, i muscoli appena sufficienti a fare
sollevamento pesi con uno di quei bastoncini da cocktail. Adesso, però, non
era più così.
Mentre lei rivolgeva un cenno del capo al suo buttafuori e saliva i tre
gradini, John Matthew alzò lo sguardo dalla sua Corona. Malgrado la
penombra, i suoi occhi blu scuro brillarono quando la vide, scintillando come
zaffiri.
Certo che andava proprio a cercarseli col lanternino. Quel figlio di puttana
aveva appena superato la transizione. Il re era il suo whard. Viveva con la
confraternita. Ed era pure muto.
Cristo. E lei che credeva che Muhrder fosse stato una pessima idea. Si
poteva sperare che avesse imparato la lezione, più di vent'anni prima, con
quel fratello. Ma invece nooooo...
Guardando quel ragazzino riusciva a pensare a una sola cosa: lo vedeva
nudo, sdraiato su un letto con l'uccello turgido in mano e il palmo che andava
su e giù... finché il suo nome non gli usciva dalle labbra in un gemito
silenzioso e lui veniva sopra gli addominali a tartaruga.
La tragedia era che quella non era una fantasia. Quei servizietti manuali
succedevano veramente. E spesso, anche. Come faceva a saperlo? Perché,
come una scema, gli aveva letto nel pensiero e aveva visto la versione
registrata fedele-come-dal-vivo.
Nauseata da se stessa, Xhex si inoltrò nella sala VIP tenendosi alla larga da
John, e andò a parlare con la responsabile delle ragazze. Marie-Terese era una
brunetta con due gambe favolose e un'aria da riccona. Tra le ragazze più
ambite, era una professionista seria e dunque adattissima al ruolo di "capoprostituta": per nulla vendicativa o capricciosa, non faceva mai dispetti o
ripicche, arrivava sempre puntuale e lasciava a casa le eventuali rogne della
sua vita privata. Era una donna in gamba con un lavoro orribile, che faceva
soldi a palate per un'ottima ragione.
«Come andiamo?» s'informò Xhex. «Ti serve qualcosa da me o dai miei
ragazzi?»
Marie-Terese lanciò un'occhiata alle altre prostitute, gli zigomi alti
catturarono la luce soffusa facendola apparire non solo sessualmente
attraente, ma decisamente bella. «Per ora stiamo bene. Al momento ce ne
sono due sul retro. È tutto normale, a parte il fatto che la nostra amica non
c'è.»
Xhex aggrottò le sopracciglia.«Di nuovo Chrissy?»
Marie-Terese inclinò la magnifica testa di lunghi capelli neri.
«Bisogna fare qualcosa per quel galantuomo del suo fidanzato.»
«Qualcosa è stato fatto, ma non è bastato. E se quello è un galantuomo io
sono Estée Lauder, cazzo.» Xhex serrò i pugni.
«Quel figlio di puttana...»
«Capo?»
Xhex si voltò a guardare da sopra la spalla. Al di là della montagna di
muscoli del suo buttafuori, che cercava di attirare la sua attenzione, diede
un'altra bella occhiata a John Matthew. Che la stava ancora fissando.
«Capo?»
Xhex si concentrò. «Cosa?»
«C'è qui uno sbirro che vuole vederla.»
Senza staccare gli occhi dal buttafuori, Xhex disse, «Marie-Terese, dì alle
ragazze di staccare per dieci minuti.»
«Subito.»
La capo-prostituta si mosse lesta, anche se all'apparenza camminava con
tutta calma sui tacchi a spillo; avvisò ognuna delle ragazze battendo
leggermente sulla loro spalla sinistra, poi bussò una volta su ogni bagno
privato, in fondo al corridoio buio sulla destra.
Mentre le prostitute sgomberavano il locale, Xhex disse, «Chi e perché.»
«Detective della Omicidi.» Il buttafuori le porse un biglietto da visita. «José
de la Cruz, così ha detto di chiamarsi.»
Xhex prese il biglietto; sapeva perfettamente perché quel tizio era lì. E
perché Chrissy non c'era. «Parcheggialo nel mio ufficio. Arrivo tra due
minuti.»
«Ricevuto.»
Xhex si portò l'orologio da polso alle labbra. «Trez? iAm? Abbiamo rogne.
C'è la polizia. Dite agli allibratori di stare buoni e a Rally di far sparire la
roba.»
Quando dall'auricolare le giunse conferma, fece una rapida verifica che
tutte le ragazze fossero sparite; poi tornò verso il settore del club aperto a
tutti.
Nel lasciare l'area VIP, sentì su di sé gli occhi di John Matthew e cercò di
non pensare a quello che aveva fatto, due giorni primi, all'alba, quando era
tornata a casa... e a quello che molto probabilmente avrebbe fatto anche alla
fine di quella serata, una volta rimasta sola.
Maledetto John Matthew. Da quando si era insinuata nel suo cervello e
aveva visto cosa si faceva ogni volta che pensava a lei... aveva fatto
altrettanto.
Maledetto. John Matthew.
Ci mancava solo questa.
Si fece strada senza tanti complimenti tra la mandria di umani e, quando
diede una gomitata a una coppia di ballerini, quasi sperò che uno di loro si
lamentasse così da poterli sbattere fuori a calci in culo.
Il suo ufficio era al mezzanino, in fondo, il più lontano possibile dal
mercimonio sessuale e dalle trattative e compravendite che si svolgevano
nell'ufficio di Rehvenge. In quanto responsabile della sicurezza, era la
principale interfaccia con i piedipiatti e non c'era motivo di farli avvicinare al
"movimento" più dello stretto necessario.
Ripulire le menti degli umani era un trucchetto comodo, ma aveva le sue
complicazioni.
La porta dell'ufficio era aperta e Xhex esaminò il detective da dietro. Non
era altissimo, ma aveva una corporatura robusta che le piacque. Il soprabito
sportivo era di Men's Wearhouse, le scarpe di Florsheim. L'orologio che
spuntava dal polsino era un Seiko.
Quando lui si voltò a guardarla, i suoi occhi, castani e intelligenti, le fecero
pensare a Sherlock Holmes. Forse non aveva molta grana, ma non era uno
stupido.
«Detective», lo apostrofò chiudendo la porta e passandogli accanto per
prendere posto dietro la scrivania.
L'ufficio era a dir poco spoglio. Niente quadri. Niente piante. Neppure un
telefono o un computer. I fascicoli nei tre schedari ignifughi chiusi a chiave
riguardavano solo il lato lecito degli affari e il cestino della carta straccia era
un tritadocumenti.
Il che significava che il detective de la Cruz non poteva aver scoperto
assolutamente niente nei 120 secondi che aveva passato da solo nella stanza.
De la Cruz tirò fuori il distintivo e glielo mostrò. «Sono qui per una delle
vostre dipendenti.»
-Xhex finse di sporgersi in avanti per controllare il distintivo, ma non ne
aveva bisogno. Il suo lato symphath le diceva tutto ciò che doveva sapere: le
emozioni del detective erano la corretta miscela di sospetto, preoccupazione,
risolutezza e incazzatura. Prendeva sul serio il suo mestiere, ed era lì per
lavoro.
«Quale?» chiese Xhex.
«Chrissy Andrews.»
Xhex si appoggiò all'indietro, sulla sedia. «Quando è stata uccisa?»
«Come fa a sapere che è morta?»
«Niente giochetti, con me, detective. Per quale altro motivo uno della
Omicidi dovrebbe fare domande su di lei?»
«Scusi, sono in modalità interrogatorio.» De la Cruz fece scivolare il
distintivo nella tasca interna della giacca e si accomodò sulla sedia dallo
schienale rigido di fronte a lei. «L'inquilino che abita sotto di lei, al suo
risveglio ha visto una macchia di sangue sul soffitto e ha chiamato la polizia.
Nessuno nel palazzo ammette di conoscere la signorina Andrews, e lei non
ha nessun parente che possiamo contattare. Durante la perquisizione
dell'appartamento, tuttavia, abbiamo rinvenuto delle dichiarazioni dei redditi
da cui risulta che era impiegata presso questo club. In sostanza, ci serve
qualcuno in grado di identificare il cadavere e...»
Xhex si alzò in piedi, le parole lurido figlio di puttana le risuonavano nel
cervello. «Lo faccio io. Mi lasci solo organizzare i miei uomini prima di
uscire.»
De la Cruz batté le palpebre, come se fosse sorpreso da tanta velocità.
«Vuole... ehm, vuole un passaggio fino all'obitorio?»
«È al St. Francis?» «Sì.»
«Conosco la strada. Ci vediamo lì tra venti minuti.»
De la Cruz si alzò lentamente, gli occhi acuti fissi sul volto di lei, quasi
cercasse qualche segno di trepidazione. «Allora ci conto.»
«Non si preoccupi, detective, non sverrò alla vista di un cadavere.»
Lui la squadrò da capo a piedi. «Sa... non so perché, ma la cosa non mi
interessa.»
Capitolo 4
Rientrando a Caldwell, Rehvenge avrebbe tanto voluto andare direttamente
allo ZeroSum. Ma sapeva di non poterlo fare.
Era nei guai.
Dopo aver lasciato la casa sicura di Montrag, nel Connecticut, aveva
accostato la Bendey al ciglio della strada due volte per iniettarsi la dopamina.
La sua droga miracolosa, tuttavia, sembrava non fare effetto. Se in macchina
ne avesse avuta ancora si sarebbe sparato in vena un'altra dose, ma l'aveva
finita.
Non gli sfuggiva l'ironia di uno spacciatore di droga che doveva correre di
volata dal suo fornitore; peccato che sul mercato nero non ci fosse più
domanda per quel neurotrasmettitore. Per come stavano le cose al momento,
poteva rifornirsi solo per vie legali, ma prima o poi doveva trovare un'altra
soluzione. Se era abbastanza scaltro da spacciare ecstasy, coca, erba,
metamfetamina, OxyContin ed eroina attraverso i suoi due club, di sicuro
poteva trovare il modo di procurarsi anche delle fiale di dopamina.
«Ah, dai, datti una mossa. È solo una cavolo di bretella d'uscita. Mica sarà la
prima volta che ne vedi una.»
Sull'autostrada aveva viaggiato veloce, ma adesso che era in città il traffico
rallentava la sua corsa, e non solo perché era congestionato. Mancandogli il
senso della profondità, calcolare la distanza tra il suo paraurti e quello
dell'auto che aveva davanti era insidioso, perciò doveva procedere con molta
più cautela di quanto avrebbe voluto.
E poi c'era quel pezzo di idiota col suo catorcio di milleduecento anni e la
mania di frenare ogni due secondi.
«No... no... per la miseria, non cambiare corsia. Già così non vedi un
accidente dallo specchietto retrovisore...»Rehv inchiodò perché Mister
Timido evidentemente meditava di spostarsi sulla corsia di sorpasso e
sembrava convinto che il modo per farlo fosse fermarsi di botto.
Di solito Rehv adorava guidare. Lo preferiva persino allo smaterializzarsi
perché era l'unico momento in cui, sotto l'effetto dei farmaci, sentiva di essere
se stesso: veloce, agile, potente. Guidava una Bentley non solo perché era chic
e poteva permetterselo, ma per i seicento cavalli sotto al cofano. Essere
intorpidito e doversi affidare a un bastone per non perdere l'equilibrio lo
faceva sentire un vecchio storpio per quasi tutto il tempo, ed era bello essere...
normale.
Naturalmente la mancanza di sensibilità aveva i suoi vantaggi. Per
esempio, quando tra un paio di minuti avrebbe sbattuto la fronte contro il
volante, le stelle le avrebbe solo viste. Il mal di testa? Nessun problema.
La clinica provvisoria della razza dei vampiri era a una quindicina di
minuti oltre il ponte che stava per imboccare; la struttura non bastava a
soddisfare i bisogni dei pazienti, essendo poco più che una casa sicura
riconvertita in ospedale da campo. Tuttavia quella soluzione di ripiego, al
momento, era l'unica di cui disponeva la razza: una riserva chiamata in
campo perché il quarterback si era rotto una gamba.
Dopo gli attacchi sferrati dai lesser durante l'estate, Wrath, coadiuvato dal
medico della razza, stava cercando di individuare una nuova collocazione
stabile per la clinica, ma, come tutto, la cosa richiedeva tempo. Con tutti i
luoghi saccheggiati dalla Lessening Society, nessuno pensava che fosse una
buona idea utilizzare uno dei beni di proprietà della razza, perché Dio solo
sapeva quanti altri ne erano stati scoperti. Il re stava cercando di acquistare
un altro immobile, ma doveva essere in un posto appartato e sicuro e...
Gli tornò in mente Montrag.
La guerra era arrivata davvero al punto di assassinare Wrath?
La domanda retorica ispirata dalla sua metà vampiresca, quella ereditata
dalla madre, gli attraversò la mente senza innescare la benché minima
emozione. Era il calcolo a dominare i suoi pensieri, un calcolo libero da ogni
moralità. La conclusione cui era giunto nel lasciare la dimora di Montrag non
cambiò, anzi, venne riconfermata con fermezza.
«Oh, beata Vergine Scriba, ti ringrazio», bofonchiò quando la bagnarola che
aveva davanti si levò di mezzo e la sua uscita comparve provvidenzialmente
come un dono del cielo, segnalata da un cartello catarifrangente verde.
Verde...?
Rehv si guardò intorno. La mano di rosso aveva cominciato a ritrarsi dal
suo campo visivo e gli altri colori del mondo ricomparivano a poco a poco,
attraverso la foschia bidimensionale. Trasse un profondo sospiro di sollievo.
Non voleva arrivare alla clinica strafatto.
Come previsto cominciò a sentire freddo, anche se nella Bentley di sicuro
c'erano almeno ventun gradi; allungò la mano e alzò il riscaldamento. I
brividi erano un altro indizio, positivo per quanto spiacevole, che il farmaco
cominciava a fare effetto.
Sin dalla nascita aveva dovuto mantenere segreto quello che era veramente.
I divoratori di peccati come lui avevano due possibilità: o si spacciavano per
normali o venivano deportati nella colonia nella parte settentrionale dello
stato di New York, allontanati dalla società come rifiuti tossici. Che lui fosse
un meticcio, per metà vampiro, non aveva importanza. Se eri anche solo in
minima parte symphath eri considerato uno di loro, e a ragione, I symphath
amavano troppo il male che avevano dentro per poter essere affidabili, questa
era la verità.
Bastava pensare a quella sera, per esempio, a quello che era disposto a fare.
Una chiacchierata ed era pronto a premere il grilletto... e neanche perché vi
fosse costretto, ma solo perché gli andava di farlo. O più precisamente perché
ne aveva bisogno. I giochi di potere erano ossigeno per il suo lato malvagio,
irresistibili e insieme nutrienti. Le motivazioni dietro la sua scelta erano
tipiche dei symphath: facevano comodo a lui e a nessun altro, nemmeno al re,
che per certi versi era un amico.
Ecco perché, se un qualunque, normalissimo vampiro scopriva che c'era in
circolazione un divoratore di peccati, per legge era tenuto a denunciarlo in
vista della deportazione o di un'azione penale: regolamentare gli spostamenti
dei sociopatici e tenerli alla larga dai soggetti morali e rispettosi della legge
era un istinto di sopravvivenza salutare per qualunque società.
Venti minuti dopo, Rehv si fermò davanti a un cancello di ferro che, nella
sua funzionalità priva di qualunque dote estetica, poteva essere quello di una
fabbrica: solo robuste barre imbullonate, sovrastate da una parrucca riccioluta
di filo spinato. Sulla sinistra c'era un citofono; Rehv abbassò il finestrino per
premere il pulsante di chiamata sotto l'occhio attento delle telecamere di
sicurezza puntate sulla mascherina della sua auto, sul parabrezza e sulla
portiera del lato guidatore.
Dunque non fu sorpreso nel sentire il tono teso della voce femminile che
rispose. «Padrone... non sapevo che avesse un appuntamento.»
«Non ce l'ho, infatti.»
Pausa. «I tempi di attesa potrebbero essere piuttosto lunghi, visto che non si
tratta di un'emergenza. Forse preferisce prenotare una vis...»
Rehv guardò truce la telecamera più vicina. «Mi faccia entrare. Subito. Devo
vedere Havers. E questa è un'emergenza.»
Doveva tornare al club a controllare la situazione. Le quattro ore che aveva
già saltato quella sera erano un'eternità per locali come lo ZeroSum e la
Maschera di Ferro. In posti come quelli i casini erano all'ordine del giorno, e il
suo pugno era quello con tatuato sulle nocche Sono Io Che Decido.
Un attimo dopo, quell'orrendo cancello solido come una quercia si aprì e,
senza perdere altro tempo, Rehv imboccò il lungo viale d'accesso.
Dietro l'ultima curva la casa in stile coloniale che gli si parò davanti non
dava l'impressione di essere sicura come in effetti era, almeno non a prima
vista. L'edificio a due piani rivestito di legno era sobrio e ridotto
all'essenziale. Niente verande. Niente tapparelle. Niente comignoli. Niente
piante... La parente povera di un capanno da giardinaggio, se paragonata alla
vecchia clinica con annessa abitazione di Havers.
Rehv parcheggiò di fronte alla fila di garage che ospitavano le ambulanze.
Il fatto che la gelida notte dicembrina lo facesse rabbrividire era un altro buon
segno; allungò la mano verso il sedile posteriore della Bentley per prendere il
bastone e una delle sue tante pellicce di zibellino. Oltre all'intorpidimento,
l'altro inconveniente della sua maschera chimica era un calo nella
temperatura corporea che gli trasformava le vene in condotti per l'aria
condizionata. Vivere notte e giorno in un corpo che non riusciva a sentire né a
scaldare non era uno spasso, ma non aveva altra scelta.
Forse, se sua madre e sua sorella non fossero state normali, avrebbe potuto
"Darth Vaderizzarsi" e abbracciare il suo lato oscuro, passando le giornate a
giocare con le menti dei suoi compagni di sventura. Ma lui aveva scelto il
ruolo di capofamiglia, il che lo costringeva in quella specie di limbo, né di là
né di qua.
Rehv girò dietro alla clinica, stringendosi lo zibellino intorno al collo.
Giunto davanti a una porta del tutto anonima, suonò il campanello incassato
nel rivestimento esterno di alluminio e guardò dentro un occhio elettronico.
Un attimo dopo una porta a tenuta stagna si aprì con un sibilo e Rehv entrò
in una stanza bianca grande come una cabina armadio. Dopo aver guardato
dritto dentro un'altra telecamera, si udì un altro scatto, un pannello nascosto
scivolò all'indietro e lui scese una rampa di scale. Un altro controllo. Un'altra
porta. E poi fu dentro.
L'area accettazione era simile al parcheggio per pazienti e familiari di una
qualunque clinica, con file di sedie e riviste su tavolini, un apparecchio
televisivo e qualche pianta. Più piccola di quella della vecchia clinica, era
pulita e molto ordinata. Le due infermiere sedute al bancone si irrigidirono
nel vederlo.
«Da questa parte, padrone.»
Rehv sorrise a quella che gli andò incontro. Le sue "lunghe attese"
trascorrevano sempre in qualche sala visita. Le infermiere temevano che
spaventasse le persone che aspettavano il loro turno su quelle file di sedie, e
non amavano averlo vicino.
A lui andava bene così. Non era il tipo che ama socializzare.
La sala visita verso cui fu dirottato si trovava nell'ala della clinica riservata
ai casi non urgenti, e lui c'era già stato. Era già stato in tutte quante le sale
visita.
«Il dottore è in chirurgia e il resto del personale è occupato con altri
pazienti, ma appena possibile manderò una collega a controllarle i parametri
vitali.» Ciò detto l'infermiera schizzò via, neanche avessero appena chiamato
un codice rosso e lei fosse l'unica ad avere il defibrillatore.
Rehv si issò sul lettino senza togliersi la pelliccia e col bastone in mano. Per
ammazzare il tempo chiuse gli occhi e si lasciò permeare dalle emozioni del
luogo come una veduta panoramica: le pareti del seminterrato si dissolsero e
le griglie emotive di ciascun individuo emersero dall'oscurità, una miriade di
diverse vulnerabilità, ansietà e debolezze esposte al suo lato symphath.
Puntò il telecomando su tutte quante, sapendo istintivamente quali pulsanti
premere sull'infermiera nella sala accanto, preoccupata che il suo hellren non
fosse più attratto da lei... ma che aveva comunque mangiato troppo al Primo
Pasto. E sul vampiro che stava visitando, che era caduto dalle scale e si era
tagliato il braccio... perché era ubriaco. E sul farmacista in fondo al corridoio,
che fino a poco tempo prima aveva sgraffignato lo Xanax per uso personale...
finché non aveva scoperto le telecamere nascoste installate appositamente per
coglierlo sul fatto.
L'altrui tendenza all'autodistruzione era uno dei reality show preferito dai
symphath, specie quando loro stessi ne erano i produttori. E anche se la sua
vista adesso era tornata "normale" e il suo corpo era intorpidito e freddo,
quello che lui era nel profondo era soltanto accantonato, come in un conto
bancario non speso.
Per il genere di spettacoli che poteva allestire lui, la fonte d'ispirazione e
finanziamento era infinita.
«Merda.»
Mentre Butch parcheggiava la Escalade davanti ai garage della clinica, la
bocca di Wrath fece un altro po' di allenamento con le bestemmie più pesanti.
Illuminato dai fari del SUV, Vishous sembrava una ragazza-calendario,
stravaccato com'era sul cofano di una Bentley quanto mai familiare.
Wrath slacciò la cintura di sicurezza e aprì la portiera.
«Sorpresa, mio signore», esclamò V raddrizzandosi e bussando sul cofano
della berlina. «Dev'essere stato breve l'incontro in centro col nostro amico
Rehvenge. A meno che l'amico non abbia il dono dell'ubiquità. Nel qual caso
devo scoprire il suo segreto, ti pare?»
Figlio. Di puttana.
Wrath scese dal SUV e decise che la cosa migliore era ignorare il fratello.
Un'altra possibilità era tentare di convincerlo che non aveva mentito; impresa
vana, visto che V aveva parecchi punti deboli, ma nessuno sul piano
intellettuale. In alternativa poteva dare inizio a una scazzottata, diversivo
solo momentaneo, oltre che una perdita di tempo, visto che poi entrambi
avrebbero dovuto chiedere a qualcuno della clinica di rimettere insieme i loro
pezzi.
Wrath girò dietro all'Escalade e aprì il portellone. «Tu pensa a guarire il tuo
amico che io penso al cadavere.»
Quando sollevò il corpo senza vita del civile e si voltò, V fissò quel volto
reso irriconoscibile dalle percosse.
«Maledizione», mormorò.
In quel mentre, Butch scese incespicando dal posto di guida, conciato da far
spavento. Col profumo di borotalco che si diffondeva nell'aria, gli cedettero le
ginocchia e fece appena in tempo ad aggrapparsi alla portiera.
Vishous si fiondò verso lo sbirro e lo prese tra le braccia, sorreggendolo.
«Cazzo, bello, come stai?»
«Pronto... a tutto», scherzò Butch, avvinghiato al suo migliore amico. «Devo
solo farmi una lampada.»
«Guariscilo», ordinò Wrath avviandosi verso la clinica. «Io entro.»
Mentre si allontanava, le portiere della Escalade si chiusero una dopo
l'altra, poi ci fu un chiarore, come se le nuvole davanti alla luna si fossero
aperte all'improvviso. Wrath sapeva cosa stavano facendo quei due dentro al
SUV perché l'aveva visto, una o due volte: abbracciati stretti, avvolti dalla
luce bianca della mano di Vishous, lasciavano che il male inalato da Butch
passasse dentro V.
Grazie a Dio c'era un modo per purificare lo sbirro da quella porcheria. E
fungere da guaritore faceva bene anche a V.
Wrath si fermò davanti alla prima porta della clinica e alzò il viso verso la
telecamera di sicurezza. Gli aprirono immediatamente e, non appena la
serratura si sbloccò, il pannello nascosto che dava sulle scale si aprì con uno
scatto. Scendere nella clinica fu questione di un attimo.
Il re della razza col vampiro morto tra le braccia non venne fermato
neanche per un nanosecondo.
In una pausa sul pianerottolo, mentre l'ultima porta si apriva, guardò
dentro la telecamera e disse, «Portate subito una lettiga e un lenzuolo.»
«Arriviamo subito, mio signore», disse una voce metallica.
Meno di un secondo dopo due infermiere aprirono la porta, una usò un
lenzuolo a mo' di tenda per nascondere il morto mentre l'altra spingeva la
lettiga fino in fondo alle scale. Wrath stese il civile sul lettino con estrema
delicatezza, come se fosse stato vivo e con tutte le ossa rotte; poi l'infermiera
che aveva spinto la lettiga aprì un altro lenzuolo. Wrath la fermò prima che lo
stendesse sul corpo inanimato.
«Faccio io», disse, levandoglielo dalle mani.
Lei glielo lasciò con un inchino.
Pronunciando parole sacre nell'Antico Idioma, Wrath trasformò l'umile
lenzuolo di cotone in un autentico sudario. Terminato di pregare per l'anima
del vampiro, augurandole buon viaggio verso il Fado, rimase un attimo in
silenzio insieme alle due infermiere prima di coprire il cadavere.
«Addosso non aveva documenti», disse piano Wrath lisciando il lenzuolo.
«Riconoscete i suoi vestiti? L'orologio? Qualunque cosa?»
Entrambe le infermiere scossero la testa e una mormorò, «Lo metteremo
nella sala mortuaria e aspetteremo. Non possiamo fare altro. I suoi familiari
verranno a cercarlo.»
Wrath si tenne in disparte mentre il cadavere veniva spinto via sulla lettiga.
Senza una ragione notò che la ruota a destra, sul davanti, ballava un po',
come se fosse nuova del mestiere e preoccupata per la propria prestazione...
non che la vedesse con chiarezza, piuttosto lo intuiva dal lieve fischio che
emetteva.
Fuori fase. Incapace di dare il massimo.
Wrath non poteva che immedesimarsi.
Quella guerra della malora contro la Lessening Society andava avanti da
troppo tempo, e malgrado tutto il potere di cui lui disponeva e tutta la sua
ferma determinazione, la sua razza non stava vincendo: tenere duro contro il
nemico significava comunque perdere, alla lunga, perché degli innocenti
continuavano a morire.
Si voltò verso le scale e fiutò l'odore di paura e soggezione delle due
femmine sedute sulle sedie di plastica, in sala d'attesa. Di colpo entrambe si
alzarono e si inchinarono al suo cospetto; tanta deferenza si riverberò nelle
sue viscere come un calcio nelle palle. Aveva appena consegnato la più
recente, ma non certo l'ultima, vittima del conflitto e quelle due gli
mostravano ancora rispetto.
Ricambiò l'inchino, ma non riuscì a proferire parola. Al momento l'unico
vocabolario che gli veniva in mente assomigliava al repertorio dei comici più
sboccati: pieno di parolacce, e tutte rivolte contro se stesso.
L'infermiera che aveva fatto da scudo al cadavere terminò di piegare il
lenzuolo. «Mio signore, forse dovreste trovare un attimodi tempo per farvi
vedere da Havers. Dovrebbe uscire dalla sala operatoria tra una quindicina di
minuti. Sembrate ferito.»
«Devo tornare sul...» Wrath s'interruppe appena in tempo prima di lasciarsi
sfuggire la parola campo, «Devo andare. Per favore, fatemi sapere dei parenti
del morto, okay? Voglio incontrarli.»
L'infermiera si piegò in un profondo inchino e attese, perché voleva baciare
il grosso diamante nero che il re portava al dito medio della mano destra.
Wrath strinse gli occhi semiciechi, allungando la pietra a cui lei voleva
rendere omaggio.
Sentì sulla pelle il tocco leggero delle sue dita fresche; il respiro e le labbra
lo sfiorarono appena, eppure si sentì come scorticato.
«Viauguro la buonanotte, mio signore», disse la femmina in tono reverente,
raddrizzandosi.
«E io laauguro a te, suddita leale.»
Wrath si voltò e corse su per le scale; aveva bisogno di ossigeno, quello
della clinica non gli bastava. Giunto davanti all'ultima porta, andò a sbattere
contro un'infermiera che stava entrando con la stessa premura con cui lui
stava uscendo. Nell'impatto, la borsa a tracolla nera le scivolò giù dalla spalla
cadendo, e Wrath afferrò la femmina appena in tempo, prima che facesse la
stessa fine.
«Oh, cazzo», esclamò, inginocchiandosi per raccogliere la sua roba. «Scusi.»
«Mio signore!» La giovane si piegò in un profondo inchino, poi,
accorgendosi che lui stava raccogliendo le sue cose, si affrettò a dire, «Non
dovete. Vi prego, lasciate sta...»
«No, è colpa mia.»
Wrath ficcò nella borsetta quelli che avevano tutta l'aria di essere una
gonna e un maglione, poi, raddrizzandosi di scatto, quasi la mise ko con una
testata.
Ancora un volta l'afferrò per il braccio. «Merda, scusi. Di nuovo...»
«Sto bene... davvero.»
La borsa cambiò di mano tra gesti goffi, passando da chi aveva una fretta
indiavolata a chi era in grande agitazione.
«A posto?» fece Wrath, sul punto di invocare la Vergine Scriba per
implorarla di farlo uscire.
«Ehm, sì, ma...» Il tono di lei passò dal reverente al professionale. «Voi
sanguinate, mio signore.»
Lui ignorò il commento e si azzardò a staccare la mano dal suo braccio.
Sollevato nel vedere che si reggeva in piedi, le diede la buonanotte e la salutò
nell'Antico Idioma.
«Mio signore, non dovreste farvi visitare...?»
«Scusi se le sono venuto addosso», gridò lui da sopra la spalla.
Spalancata l'ultima porta con uno spintone, venne investito dall'aria fresche
si rilassò leggermente.
Pochi respiri profondi gli snebbiarono lai mente, e si concesse di
appoggiarsi contro il rivestimento di' alluminio della clinica.
Quando il mal di testa ricominciò a martellare dietro le orbite, sollevò gli
occhiali avvolgenti massaggiandosi la radice del naso.
Bene.
Prossima tappa... l'indirizzo indicato sul falso documento d'identità del
lesser.
Aveva un vaso da recuperare.Lasciando ricadere gli occhiali sul naso, si
raddrizzò e...«Rallenta, mio signore», disse V, materializzandosi proprio di
fronte a lui. «Dobbiamo parlare, noi due.»
Wrath scoprì le zanne. «Non sono in vena di chiacchiere, V.»
«Cazzi tuoi.»
Capitolo 5
Ehlena guardò il re della specie voltarsi e quasi spaccare la porta in due
mentre usciva.
Dio quant'era grosso e terrificante. Farsi quasi falciare da lui era la ciliegina
sulla torta delle sue disavventure.
Lisciandosi i capelli e sistemando la borsa a tracolla, scese le scale dopo
aver superato il posto di blocco interno. Aveva solo un'ora di ritardo perché miracolo dei miracoli - l'infermiera di suo padre era libera e aveva potuto
anticipare il suo arrivo. Ringraziò la Vergine Scriba per Lusie.
In base alla sua esperienza, l'attacco non era stato orribile come avrebbe
potuto, e aveva la sensazione che fosse perché suo padre aveva preso le
medicine appena prima che scoppiasse. Prima delle pillole, le sue crisi
peggiori duravano tutta la notte, perciò in un certo senso quella sera era stata
un progresso.
Ma le aveva comunque spezzato il cuore.
Giunta di fronte all'ultima telecamera, le parve come se la borsetta fosse più
pesante. Era pronta ad annullare l'appuntamento e a lasciare il cambio di
vestiti a casa, ma Lusie le aveva fatto cambiare idea. La domanda che le
aveva rivolto aveva colpito nel segno: Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita
da questa casa per qualcosa che non fosse il lavoro?
Ehlena non aveva risposto perché era riservata di natura e perché... non
sapevacosarispondere.
Che poi era proprio ciò che voleva mettere in risalto Lusie, no? Chi si
prendeva cura degli altri doveva anzitutto prendersi cura di se stesso, e
questo significava, tra l'altro, avere una vita propria al di là della malattia che
li aveva posti in quel ruolo. Dio solo sapeva quante volte Ehlena l'aveva
ripetuto ai familiari dei suoi pazienti cronici, ed era un consiglio saggio e
pratico a un tempo.
Almeno quando lo dava agli altri. Applicato a se stessa appariva egoistico.
Così... tentennava ancora sull'appuntamento. Col turno di lavoro che
terminava appena prima dell'alba non aveva il tempo di tornare a casa a
controllare come stava suo padre. Per come stavano le cose, lei e il vampiro
che l'aveva invitata fuori erano fortunati se potevano chiacchierare un'oretta
alla tavola calda aperta tutta la notte prima che l'invadente luce del sole
ponesse fine a tutto quanto.
Eppure lei aveva coltivato la speranza di uscire con una disperazione che la
faceva sentire terribilmente in colpa.
Dio... era proprio tipico. La coscienza la tirava da una parte, la solitudine
dall'altra.
Nell'area accettazione andò dritta verso la caposala, seduta davanti al
computer. «Mi spiace, sono in...»
Catya interruppe quello che stava facendo e allungò una mano. «Come sta,
lui?»
Per una frazione di secondo Ehlena riuscì solo a battere le palpebre.
Detestava che tutti, al lavoro, sapessero dei problemi di suo padre e che
alcuni lo avessero visto addirittura nelle condizioni peggiori.
La malattia lo aveva privato dell'amor proprio, ma lei ne aveva abbastanza
per tutti e due.
Con un buffetto alla mano della sua capa si spostò fuori dalla sua portata.
«Grazie dell'interessamento. Si è calmato e adesso è con la sua infermiera. Per
fortuna gli avevo appena dato le medicine.»
«Ti serve un minuto?»
«No. Cosa abbiamo?»
Il sorriso di Catya era più una smorfia, come se si stesse mordendo la
lingua. Di nuovo. «Non devi per forza essere così forte.»
«Sì, invece.» Ehlena si guardò intorno, soffocando un moto di disappunto.
Dal fondo del corridoio ecco sopraggiungere altri membri dello staff, una
banda agguerrita di una decina di persone cariche di sollecitudine. «Dove
devo andare?»
Doveva assolutamente liberarsi di... Troppo tardi.
Ben presto tutte le infermiere, tranne quelle impegnate con Havers in sala
operatoria, si raccolsero in circolo intorno a lei; Ehlena si sentì soffocare
mentre le colleghe si lanciavano in un coro di "come stai". Dio, era
claustrofobica come una femmina incinta bloccata in un ascensore
surriscaldato.
«Sto bene, grazie...»
Arrivò anche l'ultima delle infermiere che, dopo averle espresso la sua
solidarietà, scosse la testa dicendo, «Mi spiace parlare di lavoro, ma...»
«Fallo, per favore», si affrettò a dire Ehlena.
L'infermiera sorrise con rispetto, impressionata dalla sua forza d'animo. «
Be'... lui è tornato. Aspetta in tona delle sale visita. Tiro fuori la monetina?»
Si levò un gemito collettivo. C'era un unico lui nella moltitudine di pazienti
in cura presso la clinica, e tirare a sorte cercando di indovinare la data su una
moneta era il modo in cui di solito il personale decideva chi doveva avere a
che fare con lui. Chi si allontanava di più dalla data incisa sulla moneta
perdeva.
In genere tutte le infermiere mantenevano un distacco professionale dai
pazienti, perché era così che dovevi fare se non volevi rovinarti la salute. Con
lui, tuttavia, restavano alla larga per motivi diversi da quelli legati al lavoro.
Quasi tutte le femmine si innervosivano in sua presenza... anche le più toste.
Ehlena no, non particolarmente. Sì, il tipo aveva un che da Padrino; quei
completi gessati neri, la corta cresta da moicano e gli occhi color ametista
lanciavano un chiaro messaggio della serie "non rompetemi le scatole se ci
tenete alla pelle". E quando eri chiusa in sala visita con lui, veniva spontaneo
tenere d'occhio l'uscita, in caso di necessità, questo sì. E poi quei tatuaggi che
aveva sul petto... e il fatto che non si separava mai dal bastone da passeggio,
come se non fosse solo un aiuto per camminare, ma un'arma. E...
Okay, quel tizio rendeva nervosa anche lei.
E tuttavia, interrompendo una discussione su chi dovesse beccarsi il 1977,
Ehlena disse, «Vado io. Così mi farò perdonare per il ritardo.»
«Sei sicura?» chiese qualcuno. «Mi pare che per stasera tu abbia già dato.»
«Fatemi solo bere un caffè. In che sala è?»
«L'ho parcheggiato nella tre», rispose l'infermiera.
Tra un coro di "brava, dai!", Ehlena andò nella sala infermiere, mise le sue
cose nell'armadietto e si versò una tazza di caffè bollente per la serie "forza e
coraggio". Il caffè, abbastanza forte da essere considerato un accelerante, servì
ottimamente allo scopo, facendo tabula rasa di ogni altro pensiero e
preoccupazione.
Be', quasi.
Sorseggiandolo, Ehlena fece scorrere lo sguardo sulle file di armadietti
marroncini, sulle paia di scarpe infilate qui e là e sui cappotti invernali appesi
all'attaccapanni. Nell'angolo cucina i colleghi tenevano sul bancone le loro
tazze preferite e sulle mensole gli snack più amati, sul tavolo rotondo c'era
una ciotola piena di... cos'era stasera? Pacchettini di caramelline alla frutta.
Sopra il tavolo c'era una bacheca tappezzata di volantini che reclamizzavano
eventi, buoni acquisto, stupide battute ritagliate dai fumetti dei giornali e foto
di fustacci sexy. Accanto alla bacheca c'era il tabellone con i turni, una
lavagna bianca con la griglia delle due settimane successive, piena di nomi in
colori diversi.
Erano i detriti della vita normale, del tutto insignificanti finché non pensavi
a tutte le persone del pianeta che erano rimaste senza lavoro o non potevano
godersi una vita indipendente o ricaricarsi mentalmente grazie a piccole
distrazioni - tipo, per dire, il fatto che la carta igienica Cottonelle costava
cinquanta centesimi di meno se compravi la confezione da dodici rotoli
grandi.
Di fronte a tutto ciò le tornò in mente ancora una volta che uscire nel
mondo reale era solo questione di fortuna, un privilegio del tutto casuale,
non un diritto; non era tranquilla al pensiero di suo padre rintanato in quella
casetta orrenda, a combattere contro demoni che esistevano solo nella sua
testa.
Un tempo Alyne aveva avuto una vita, una vita importante. In quanto
membro dell'aristocrazia aveva preso parte al consiglio ed era stato uno
studioso di valore. Aveva avuto una shellan che adorava, una figlia di cui
andava orgoglioso e una sontuosa dimora famosa per i suoi ricevimenti. Ora
aveva solo delle allucinazioni che lo torturavano e, anche se erano solo
fantasie prive di un fondamento reale, quelle voci erano una prigione non
meno impenetrabile per il fatto che nessun altro vedeva le sbarre o sentiva il
secondino.
Risciacquando la tazza, Ehlena non potè fare a meno di pensare
all'ingiustizia di tutto ciò. Il che era un bene, o almeno così supponeva.
Malgrado tutto quello che vedeva al lavoro, non si era ancora abituata alla
sofferenza, e sperava che non succedesse mai.
Prima di uscire dallo spogliatoio si diede una rapida controllata nello
specchio vicino alla porta. L'uniforme bianca era stirata alla perfezione e
immacolata come una garza sterile. Le calze non avevano smagliature. Le
scarpe con la suola di gomma erano linde, senza macchie né graffi.
I capelli erano sfibrati come il suo umore.
Cercò di sistemarli alla bell'e meglio, rifacendo in fretta lo chignon, poi uscì,
diretta alla sala visita tre.
La cartella del paziente era nel contenitore di plastica trasparente appeso al
muro accanto alla porta. Con un profondo sospiro, Ehlena la tirò fuori e la
aprì. Era un fascicolo sottile, considerata la quantità di volte che lo avevano
visitato, e la prima pagina conteneva pochissime informazioni, solo il nome,
un numero di cellulare e il nome di un parente prossimo, una femmina.
Dopo aver bussato, entrò nella stanza con una sicurezza che non provava:
testa alta e schiena diritta, il disagio camuffato da un sapiente mix di postura
e concentrazione professionale.
«Comestaquestasera?»chiese,guardandolo.
Appena incrociò quegli occhi di ametista, Ehlena non avrebbe saputo dire
cosa le era appena uscito di bocca o se lui avesse risposto o meno. Rehvenge,
figlio di Rempoon, risucchiò il pensiero direttamente dalla sua testa, neanche
avesse prosciugato il serbatoio del suo generatore cerebrale lasciandola senza
più niente con cui cogliere una scintilla mentale.
Poi sorrise.
Era un cobra, quel vampiro; era proprio dotato di un...fascino magnetico,
perché era letale e perché era bello. Con quella cresta da moicano, il volto
duro e intelligente e il fisico robusto, era una miscela di sesso, potere e
imprevedibilità, il tutto confezionato in... be', in un completo nero gessato
chiaramente tagliato su misura.
«Sto bene, grazie», rispose lui, risolvendo il mistero circa quello che gli
aveva chiesto. «E lei?»
Ehlena rimase un istante in silenzio e lui sorrise, senza dubbio perché era
pienamente consapevole che a nessuna delle infermiere piaceva condividere
con lui lo stesso spazio ristretto, ed evidentemente ci godeva. O almeno fu
così che lei interpretò la sua espressione controllata, imperscrutabile.
«Le ho chiesto come sta», ripetè sornione lui.
Ehlena posò la cartella sulla scrivania e tirò fuori dalla tasca lo stetoscopio.
«Sto molto bene.»
«Ne è sicura?»
«Assolutamente. Sicurissima.» Poi, voltandosi verso di lui, disse, «Adesso le
controllo pressione e frequenza cardiaca.»
«Anche la temperatura.» «Sì.»
«Vuole che apra la bocca?»
Ehlena avvampò, ma si disse che non era perché quella voce profonda
faceva apparire la domanda sensuale come una lenta carezza su un seno
nudo. «Ehm... no.»
«Peccato.»
«Si tolga la giacca, per favore.»
«Idea grandiosa. Ritiro subito il "peccato".»
Meglio per te, pensò lei, altrimenti rischiava di ricacciarglielo in gola col
termometro.
Rehvenge ruotò le spalle, facendo ciò che lei gli aveva chiesto, e con un
gesto noncurante della mano gettò quello che chiaramente era un'opera d'arte
nel campo dell'abbigliamento maschile sopra la pelliccia di zibellino
appoggiata con cura sullo schienale di una sedia. Che strano: in qualunque
stagione portava sempre una di quelle pellicce.
Roba che valeva più della casa in affitto di Ehlena.
Quando le lunghe dita di lui fecero per sbottonare il gemello di diamanti al
polsino destro, lei lo fermò.
«Le spiace arrotolare quella dall'altra parte?» disse annuendo in direzione
del muro accanto a lui. «Ho più spazio alla sua sinistra.»
Lui esitò, poi cominciò a slacciare l'altra manica. Arrotolò la seta nera sopra
al gomito, fino al grosso bicipite, tenendo il braccio piegato contro il busto.
Ehlena tirò fuori da un cassetto l'occorrente per misurare la pressione
sanguigna e si avvicinò al paziente. Toccarlo era sempre un'esperienza; sfregò
la mano sul fianco per prepararsi. Non servì a nulla. Appena entrò in contatto
col suo polso, come sempre la scossa che le risalì lungo il braccio la colpì al
cuore mandandolo in fibrillazione, neanche fosse James Brown che si
dimenava scatenato; turbata, trattenne un ansito.
Pregando di cavarsela alla svelta, spostò il braccio del paziente in modo da
posizionarlo nel modo giusto per lo sfigmomanometro e... «Oh.... Signore.»
Le vene che correvano lungo l'incavo del gomito erano collassate a causa
dell'uso eccessivo, gonfie, livide e lacere, neanche vi avesse conficcato dentro
le unghie, invece dell'ago di una siringa.
Ehlena lo guardò dritto negli occhi. «Deve farle un male terribile.»
Lui ruotò il polso liberandosi dalla sua stretta. «No. Non mi dà nessun
fastidio.»
Tipo tosto. Ma come esserne sorpresa? «Be', posso capire perché vuole farsi
vedere da Havers.»
Volutamente gli girò di nuovo il braccio, tastando con delicatezza una linea
rossa che correva su per il bicipite in direzione del cuore.
«Ci sono segni d'infezione.»
«Non è niente.»
Ehlena si limitò a inarcare un sopracciglio. «Ha mai sentito parlare di
sepsi?»
«Quel gruppo di rock indipendente? Certo, ma non credevo che lo
conoscesse »
Lei gli scoccò un'occhiata. «Sepsi nel senso di infezione del sangue.»
«Hmm, le spiace chinarsi sulla scrivania e farmi un disegno?» disse lui,
facendo scorrere lo sguardo sulle sue gambe. «Credo che lo troverei... molto
educativo.»
Se un qualunque altro paziente avesse imboccato quella strada gli avrebbe
mollato tanti di quei ceffoni da fargli vedere le stelle. Purtroppo però, quando
a parlare era quella celestiale voce da basso e quando a guardarla erano
quegli occhi color ametista, non si sentiva concupita da uno sporcaccione.
Si sentiva accarezzata da un amante.
Ehlena represse l'impulso di battersi una manata sulla fronte. Ma cosa
diavolo stava facendo? Aveva un appuntamento, quellasera. Con un bravo
ragazzo serio e simpatico che era sempre stato serio, simpatico e molto
gentile.
«Non c'è bisogno che le faccia un disegno.» Annuì in direzione del braccio
del paziente. «Può vederlo da sé proprio qui. Se non si cura, l'infezione si
estenderà a tutto l'organismo.»
E anche se vestiva magnificamente, come il modello sognato da ogni sarto,
il manto grigio e gelido della morte non gli avrebbe donato.
Lui teneva il braccio contro gli addominali scolpiti. «Terrò presente.»
Ehlena scosse la testa, ricordando a se stessa che non poteva salvare la
gente dalla sua stessa stupidità solo perché aveva un bel camice bianco e la
qualifica di infermiera professionale accanto al nome. Senza contare che
Havers avrebbe visto l'infezione in tutto il suo raccapricciante splendore,
quando lo avrebbe visitato.
«E va bene, ma allora dovremo usare l'altro braccio. E devo anche chiederle
di togliersi la camicia. Il dottore vorrà vedere fin dove si è estesa l'infezione.»
Rehvenge inarcò le labbra in un sorriso, slacciando il primo bottone della
camicia. «Se continua così mi ritroverò nudo.»
Ehlena si affrettò a distogliere lo sguardo, rimpiangendo di non trovarlo
squallido. Una bella iniezione di legittima indignazione l'avrebbe aiutata a
tenerlo a bada.
«Sa, non sono timido», disse lui con quella sua voce profonda. «Può
guardare, se vuole.»
«No, grazie.»
«Peccato.» Poi, in tono più sensuale, aggiunse, «Non mi dispiacerebbe se mi
guardasse.»
Mentre dal lettino si levava il fruscio della seta sulla pelle, Ehlena si finse
indaffaratissima a leggere la cartella clinica, ricontrollando di nuovo cose
assolutamente esatte.
Era molto strano. Da quello che avevano detto le altre infermiere, con loro
non faceva il dongiovanni. Anzi, con le sue colleghe parlava a stento, era uno
dei motivi per cui in sua presenza si sentivano in ansia. Con quel pezzo di
marcantonio il silenzio aveva un che di minaccioso, c'era poco da fare. E
questo senza contare i tatuaggi e la cresta da moicano.
«Sono pronto», disse lui.
Ehlena si voltò e tenne gli occhi fissi sul muro vicino alla sua testa. La sua
visione periferica, tuttavia, funzionava benissimo, ed era difficile non esserle
grata. Il petto di Rehvenge era magnifico, la pelle di un caldo marrone dorato,
coi muscoli scolpiti anche se era rilassato. Sulla parte superiore di ciascuno
dei pettorali aveva il tatuaggio di una stella rossa a cinque punte, e lei sapeva
che non erano gli unici. Ne aveva degli altri.
Sulla pancia.
Non che li avesse sbirciati.
Già, più che sbirciati li aveva proprio guardati incantata.
«Poi mi esaminerà il braccio?» chiese piano lui.
«No, quello lo farà il dottore.» Ehlena attese che dicesse per l'ennesima
volta "peccato".
«Credo di avere già abusato di quella parola, con lei.»
A quel punto Ehlena spostò gli occhi su di lui. Era uno dei rari vampiri in
grado di leggere nel pensiero dei suoi simili, e per certi versi non la sorprese
che appartenesse a quella cerchia ristrettissima.
«Non sia maleducato», disse. «E non si azzardi a farlo di nuovo.»
«Mi scusi.»
Ehlena posizionò il manicotto dello sfigmomanometro intorno al bicipite, si
infilò lo stetoscopio nelle orecchie e gli misurò la pressione. Con il flebile piffpiff-piff del palloncino che gonfiava il manicotto fino a tenderlo
completamente, Ehlena avvertì il suo nervosismo, la sua tensione, ed ebbe un
tuffo al cuore. Quella sera era particolarmente mordace, chissà perché.
Ma non erano affari suoi, giusto?
Quando aprì la valvola e il manicotto emise un lungo, lento sibilo di
sollievo, lei indietreggiò di un passo. Quel paziente era davvero... troppo, in
tutti i sensi. Specie in quel momento.
«Non deve avere paura di me», mormorò lui.
«Ma io non ho paura.»
«Ne è sicura?»
«Assolutamente. Sicurissima», mentì lei.
Capitolo 6
Stava mentendo, pensò Rehv. Era decisamente spaventata da lui. E, tanto
per restare in tema, era proprio un peccato. Quella era l'infermiera che lui
sperava di trovare ogni volta che andava alla clinica, quella che rendeva le
visite anche solo parzialmente sopportabili. Era la sua Ehlena.
Okay, non era neanche lontanamente "sua". Conosceva il suo nome solo
perché era sul cartellino blu e bianco appuntato sul camice. La vedeva solo
quando andava lì per farsi curare e non le stava per niente simpatico.
Ma lui la vedeva comunque come "sua", c'era poco da fare. Avevano
qualcosa in comune, ecco, qualcosa che andava al di là del confine tra le
specie, che eclissava le stratificazioni sociali e che li univa, anche se lei lo
avrebbe negato.
Anche lei era sola, esattamente come lui.
La griglia emotiva di quella ragazza era identica alla sua, a quella di Xhex,
di Trez e di iAm: i suoi sentimenti erano circondati dal vuoto assoluto di chi è
separato dalla sua tribù, di chi vive in mezzo agli altri, ma è sostanzialmente
separato da tutti, di chi è stato tagliato fuori, espulso dal resto della comunità,
un reietto.
Rehv non ne conosceva le ragioni, ma di certo sapeva com'era la vita per lei,
ed era stata questa la prima cosa che aveva attratto la sua attenzione, quando
l'aveva conosciuta. I suoi occhi, la sua voce e il suo odore erano stati la
seconda. La sua intelligenza e prontezza di spirito avevano fatto il resto.
«Centosessantotto su novantacinque. È alta.» Ehlena strappò il velcro del
manicotto con gesto deciso, forse desiderando che fosse una striscia della sua
pelle. «Credo che il suo corpo stia cercando di combattere l'infezione al
braccio.»
Oh, il suo corpo stava combattendo qualcosa, questo sì, ma non c'entrava
niente con quello che stava marcendo nei buchi degli aghi. Col suo lato
symphath in lotta contro la dopamina, l'impotenza che solitamente lo
caratterizzava quando era sotto l'effetto del farmaco non si era ancora
manifestata.
Risultato?
Dentro i calzoni, il suo uccello era duro come una mazza da baseball. Il che,
contrariamente all'opinione popolare, non era un buon segno... specie quella
sera. Uscendo dall'incontro con Montrag si sentiva affamato, "carico",
motivato... un tantino folle per il fuoco che gli ardeva dentro.
Ed Ehlena era così... bella.
Anche se non nel modo in cui lo erano le sue ragazze al club, non in quel
modo ovvio, esagerato, scolpito dagli interventi di chirurgia plastica,
rimodellato da protesi e iniezioni. Ehlena era incantevole in modo naturale,
con quei lineamenti delicati, i capelli di un biondo ramato e le gambe lunghe
e snelle. Le labbra erano rosa perché erano rosa... non per via di qualche
rossetto o lucidalabbra resistente diciotto ore, gli occhi nocciola erano
luminosi perché erano un miscuglio di giallo, rosso e oro... non perché
truccati pedissequamente con una generosa dose di ombretto e mascara, e le
guance erano rosse perché lui cominciava a darle sui nervi.
Il che, malgrado avvertisse che la poveretta aveva avuto una nottataccia,
non lo disturbava minimamente.
Be', che dire? I symphath sono fatti così, non c'è scampo, pensò beffardo.
Buffo, per la maggior parte del tempo non gli importava di essere ciò che
era. La sua vita era da sempre un miraggio di menzogne e inganni in costante
mutamento. Ma quando era con Ehlena avrebbe tanto voluto essere normale.
«Vediamo com'è la temperatura», disse lei, andando a prendere un
termometro elettronico dalla scrivania.
«E più alta del solito.»
Lei puntò gli occhi ambrati nei suoi. «Il suo braccio.»
«No, i suoi occhi.»
Lei batté le palpebre, poi parve riscuotersi. «Dubito seriamente.»
«Allora sottovaluta il suo fascino.»
Lei scosse la testa, facendo scattare uno dei cappucci protettivi di plastica
sulla bacchetta argentata e lui colse un effluvio del suo profumo.
Le zanne gli si allungarono.
«Apra bene.» Ehlena alzò il termometro e attese. «Allora?»
Con lo sguardo fisso in quei suoi straordinari occhi tricolori,Rehv spalancò
la bocca. Lei si piegò in avanti, serissima come al solito, solo per fermarsi
raggelata. Alla vista dei canini di Rehv, il suo odore divenne più intenso,
arricchendosi di una sfumatura sensuale ed erotica.
Con un esaltante senso di trionfo, Rehv ringhiò, «Prendimi.»
Seguì un lungo istante durante il quale furono legati da fili invisibili di
passione e desiderio. Poi lei serrò le labbra. «Mai, ma le prenderò la
temperatura perché devo farlo.»
Così dicendo, gli ficcò il termometro tra le labbra e lui dovette stringere i
denti per evitare che quel coso gli sgonfiasse una delle tonsille.
Tutto bene, comunque. Anche se non poteva averla, l'aveva mandata su di
giri. Ed era più di quanto meritasse.
Ci fu un bip, un intervallo, e poi un altro bip.
«Quarantadue e otto», disse lei facendo un passo indietro e buttando il
cappuccio di plastica nel contenitore per i rifiuti biologici. «Havers la visiterà
appena possibile.»
La porta si chiuse, sbattendo alle sue spalle con la secca durezza di un
vaffanculo.
Dio, se era focosa.
Rehv si accigliò, tutta quell'attrazione sessuale gli rammentò qualcosa a cui
non gli piaceva pensare.
O meglio qualcuno.
L'erezione si ammosciò all'istante quando si rese conto che era lunedì sera.
Il che significava che il giorno dopo era martedì. Il primo martedì dell'ultimo
mese dell'anno.
Il symphath in lui entrò in fibrillazione e ogni centimetro di pelle si tese
come se avesse le tasche piene di ragni.
L'indomani sera avrebbe avuto un altro dei suoi appuntamenti con la sua
ricattatrice. Cristo, possibile che fosse già passato un altro mese? Non faceva
in tempo a voltarsi che era di nuovo il primo martedì del mese e doveva
rimettersi in viaggio verso nord, fino a quel maledetto capanno, per un'altra
prestazione a comando.
E il pappone diventava la puttana.
Prove di forza, brutalità e volgari scopate erano la moneta corrente degli
incontri con la sua ricattatrice, il fondamento della sua vita "amorosa" negli
ultimi venticinque anni. Erano un concentrato di tutto ciò che è sporco,
sbagliato, malvagio e degradante, e lui lo faceva e lo rifaceva in
continuazione per salvaguardare il suo segreto.
E anche perché il suo lato oscuro ci andava a nozze. Era L'Amore alla
maniera dei Symphath, l'unico momento in cui lui poteva essere quello che era
senza remore, la sua unica fetta di orribile libertà. Alla fin fine, per quanto si
imbottisse di dopamina e cercasse di integrarsi, era prigioniero del retaggio
del suo defunto padre, dal sangue cattivo che gli scorreva nelle vene. Non si
può scendere a patti con il proprio DNA e, sebbene fosse un mezzosangue, il
divoratore di peccati in lui era dominante.
Così, quando c'era di mezzo una femmina in gamba come Eh- lena, si
trovava sempre dall'altra parte della barricata, col naso premuto contro il
vetro e le mani disperatamente spalancate, senza mai potersi avvicinare
abbastanza da poterla toccare. Contrariamente alla sua ricattatrice, Ehlena
non meritava ciò che lui aveva da offrire.
Così almeno gli suggeriva la morale che aveva appreso da autodidatta.
Urrà! Evviva! Vai così!
La prossima volta si sarebbe fatto tatuare la fottuta aureola che aveva in
testa.
Abbassò lo sguardo sul suo braccio sinistro, conciato da sbatter via, e vide
con chiarezza ciò che stava suppurando, lì dentro. Non era solo un'infezione
batterica dovuta al fatto che usava deliberatamente aghi non sterili sulla pelle
non disinfettata. Era un lento suicidio, ecco perché per nulla al mondo lo
avrebbe mostrato al dottore. Sapeva benissimo cosa sarebbe accaduto se quel
veleno fosse penetrato nel flusso sanguigno, e sperava che si sbrigasse a
sopraffarlo.
La porta si aprì e Rehv alzò gli occhi, pronto ad affrontare Ha- vers... ma
non era il dottore. La sua infermiera era tornata, ed era tutt'altro che felice.
In realtà sembrava esausta, come se lui fosse l'ennesima scocciatura nella
sua vita e lei non avesse più la forza di sopportare le stronzate che faceva
quando era in sua presenza.
«Ho parlato col dottore», disse Ehlena. «Al momento è impegnato in sala
operatoria, quindi ci vorrà un po'. Mi ha chiesto di farle un prelievo...»
«Scusi», disse d'impulso Rhev.
Ehlena si portò la mano al colletto dell'uniforme, avvicinando le due metà.
«Come ha detto?»
«Scusi se prima ho fatto lo scemo. Non era il caso. Specialmente in una
serata come questa.»
Lei si accigliò. «Io sto bene.»
«No, invece. E no, non le sto leggendo nel pensiero. E che ha l'aria stanca.»
D'un tratto capì come si sentiva. «Mi piacerebbe farmi perdonare.»
«Non ce n'è bisogno...»
«Invitandola a cena.»
Okay, non era partito con l'idea di dire una cosa del genere. E dopo tutto
quell'autocompiacimento per la sua capacità di mantenere le distanze, stava
facendo anche la figura dell'ipocrita.
Il suo prossimo tatuaggio doveva essere più sulla falsariga di un asino,
chiaramente.
Perché si stava comportando da somaro.
Dopo quell'invito non c'era da sorprendersi che Ehlena lo guardasse come
se fosse ammattito. Generalmente, quando uno si comportava come lui,
l'ultima cosa che una femmina voleva fare era passare ancorapiù tempo in
sua compagnia.
«No, mi dispiace», fece lei, senza neanche aggiungere la solita scusa di
prammatica Non esco mai con i pazienti.
«Okay. Capisco.»
Mentre Ehlena preparava l'occorrente per il prelievo e si infilava un paio di
guanti di gomma Rehv allungò la mano verso la giacca e tirò fuori il suo
biglietto da visita, nascondendolo nel grosso palmo.
Lei fece alla svelta, lavorando sul braccio sano e riempiendo in fretta le
fialette di alluminio. Per fortuna non erano di vetro, e poi Havers avrebbe
fatto tutte le analisi da solo. Il sangue dei vampiri era rosso. Quello dei
symphath era blu. Il suo era di un colore a metà tra i due, ma lui e Havers
avevano un accordo. Il dottore non era consapevole di come funzionavano le
cose tra loro, garantito, ma era l'unico modo per farsi curare senza
compromettere il medico della razza.
Una volta terminato, Ehlena chiuse le fialette con dei tappini di plastica
bianchi, si tolse i guanti e corse alla porta come se Rehv avesse un cattivo
odore.
«Aspetti», disse lui.
«Vuole degli antidolorifici per il braccio?»
«No, voglio che lei prenda questo.» Così dicendo, tese il biglietto da visita.
«Mi chiami, se mai fosse in vena di farmi un favore.»
«A rischio di apparire poco professionale, non sarò mai in vena con lei. In
nessun caso.»
Ahia. Non che la biasimasse. «Il favore sarebbe perdonarmi. Non ha niente
a che fare con un appuntamento.»
Lei lanciò un'occhiata al biglietto, poi scosse la testa. «Meglio che lo tenga
lei. Per qualcuno disposto a usarlo, prima o poi.»
Quando la porta si chiuse, Rehv accartocciò il biglietto.
Merda. Cosa cavolo si era messo in testa? Probabilmente lei aveva una vita
tranquilla in una casetta linda e ordinata con due genitori che stravedevano
per la loro figliola. Magari aveva anche un fidanzato, che un giorno sarebbe
diventato il suo hellren.
Già, essere il simpatico trafficante di droga del quartiere, nonché un
magnaccia pronto a difendere il suo territorio con la violenza, si adattava
perfettamente a quel quadretto idilliaco. Ma chi voleva prendere in giro.
Buttò il biglietto da visita nel cestino della carta straccia vicino alla
scrivania, seguendolo con lo sguardo mentre picchiava contro il bordoprima
di cadere, dopo un mezzo giro, fra Kleenex, fogli appallottolati e una lattina
vuota di Coca Cola.
Aspettando il dottore, rimase a guardare quei rifiuti, pensando che per lui
la maggior parte della popolazione del pianeta era proprio così: cose da usare
e buttare via, senza il minimo rimorso. Grazie al suo lato malvagio e al suo
giro d'affari aveva spezzato parecchie ossa, spaccato parecchie teste e
provocato parecchie overdose.
Ehlena, invece, passava le sue nottate salvando la gente.
Già, avevano proprio parecchio in comune.
Le losche attività di lui le davano un gran da fare.
Perfetto. Assolutamente.
Fuori dalla clinica, nell'aria gelida, Wrath era faccia a faccia con Vishous.
«Levati dai piedi, V.»
Vishous, naturalmente, non voleva saperne di farsi da parte. Nessuna
sorpresa. Anche prima di scoprire che era stata la Vergine Scriba a metterlo al
mondo, quel figlio di puttana era un cane sciolto.
Sarebbe stato più facile dare ordini a un sasso.
«Wrath...»
«No, V. Non qui. Non adesso...»
«Ti ho visto. Nei miei sogni, oggi pomeriggio.» Il dolore che si avvertiva in
quella voce cupa era del tipo generalmente associato ai funerali. «Ho avuto
una visione.»
Wrath parlò senza volerlo. «Che cosa hai visto?»
«Te. Fermo in un campo buio, da solo. Noi eravamo tutt'in- torno, ma
nessuno riusciva a entrare in contatto con te. Eri come isolato da noi e noi da
te.» Il fratello lo strinse con forza per il braccio. «Per via di Butch so che esci a
combattere da solo e ho tenuto la bocca chiusa. Ma non posso più lasciartelo
fare. Se muori la razza è spacciata, per non parlare di quello che succederebbe
alla confraternita.»
Wrath si sforzò di mettere a fuoco la faccia di V, ma la luce fluorescente
della lampada sopra la porta gli dava un gran fastidio. «Non sai cosa significa
il sogno che hai fatto.»
«Neanche tu.»
Wrath ripensò al peso di quel civile tra le sue braccia. «Potrebbe non essere
nient'...»
«Chiedimi quand'è stata la prima volta che ho avuto la visione.»
«... altro che un tuo timore.»
«Chiedimelo. Quando ho avuto la visione per la prima volta.»
«Quando.»
«Nel millenovecentonove. È passato un secolo da quando l'ho avuta per la
prima volta. Adesso chiedimi quante volte l'ho avuta quest'ultimo mese.»
«No.»
«Sette volte, Wrath. Quella di oggi pomeriggio è stata la goccia che ha fatto
traboccare il vaso.»
Wrath si liberò dalla stretta del fratello. «Adesso io vado. Se mi segui ti
toccherà fare a botte.»
«Non puoi uscire da solo. Non è sicuro.»
«Vorrai scherzare. » Wrath lo guardò truce da dietro gli occhiali avvolgenti.
«La nostra razza si sta estinguendo e tu vuoi rompermi le palle perché vado a
caccia dei nostri nemici? Non farmi ridere. Non ho nessuna intenzione di
starmene seduto dietro a una cazzo di scrivania a fare il passacarte mentre i
miei fratelli sono qua fuori a fare qualcosa...»
«Ma tu sei il re. Tu sei più importante di noi...»
«Col cavolo! Io sono uno di voi! Sono un membro della confraternita, ho
bevuto il sangue dei fratelli e loro hanno bevuto il mio, io voglio combattere!»
«Senti, Wrath...» V assunse un tono talmente ragionevole da far venire
voglia di spaccargli tutti i denti. Con un'ascia. «So benissimo cosa significa
non voler essere quello che si è. Credi che mi diverta a fare questi sogni della
malora? Credi che questa mia sciabola incandescente sia uno spasso?» Così
dicendo alzò la mano guantata come se quel supporto visivo aggiungesse
qualcosa alla loro "discussione". «Non puoi cambiare quello che sei. Non puoi
cancellare il fatto che i tuoi genitori ti hanno messo al mondo e che erano la
famiglia reale. Tu sei il re, e a te le regole si applicano in modo diverso, è così
e basta.»
Wrath fece del suo meglio per essere all'altezza di V, tutto calma e sangue
freddo. «E io ti dico che combatto da più di trecento anni, per cui non sono
esattamente un novellino, sul campo. Tengo anche a sottolineare che essere re
non significa perdere il diritto di scegliere...»
«Ma non hai eredi. E da quanto ho sentito dalla mia sheilan, hai messo a
tacere Beth quando ti ha detto che voleva provare ad averne uno la prossima
volta che va in calore. Le hai tappato la bocca senza tanti complimenti. Com'è
che ti sei espresso? Ah... sì, ecco: "Nell'immediato futuro non voglio figli... se
mai ne vorrò".»
Wrath espirò con forza. «Non posso credere che tu abbia toccato questo
tasto.»
«Il succo sai qual è? Se tu muori, il tessuto sociale della razza si disgregherà,
e se credi che questo possa servire alla guerra sei proprio fuori di testa.
Guarda in faccia la realtà, Wrath. Tu sei il cuore pulsante di tutti noi... per cui,
no, non puoi prendere e uscire a combattere da solo perché ti gira. Le cose
non funzionano così, per te...»
Wrath lo afferrò per il bavero e lo sbatté contro il muro della clinica. «Stai
attento, V. Sei a un pelo dal mancarmi di rispetto.»
«Se pensi che malmenarmi possa cambiare le cose, picchiami pure. Ma ti
garantisco che, quando avremo finito di menarci e ci ritroveremo tutti e due a
terra sanguinanti, la situazione sarà esattamente la stessa. Non puoi cambiare
quello che sei per nascita.»
Sullo sfondo, Butch scese dalla Escalade e si tirò su i calzoni come se si
stesse preparando a interrompere una scazzottata.
«La razza ha bisogno di te vivo, non sottoterra, scemo», disse V. «Non
costringermi a premere il grilletto, perché lo farò.»
Wrath riportò gli occhi semiciechi su V. «Credevo che mi volessi vivo e
vegeto. Senza contare che spararmi sarebbe un atto di alto tradimento
punibile con la morte. Anche se sei figlio di chi sappiamo.»
«Senti, non sto dicendo che non dovresti...»
«Chiudi la bocca, V. Per una volta, chiusi quella maledetta boccaccia.»
Wrath lasciò andare il giubbotto di pelle del fratello e arretrò di qualche
passo. Gesù Cristo, doveva andare via o quel confronto sarebbe degenerato
esattamente in quello che Butch si stava preparando a fermare.
«Non seguirmi», disse puntando il dito in faccia a V. «Chiaro? Non
azzardarti a seguirmi.»
«Stupido pazzo», disse V, in preda a un senso di sfinimento. «Tu sei il re.
Tutti noi dobbiamo seguirti.»
Wrath si smaterializzò con un'imprecazione, le sue molecole attraversarono
la città. Non riusciva a credere che V avesse tirato in ballo Beth e la storia del
piccolo. O che Beth avesse confidato una cosa tanto intima alla dottoressa
Jane.
A proposito di essere completamente fuori di testa, V era matto se credeva
che lui avrebbe messo a rischio la vita della sua amata mettendola incinta
quando, tra un anno o giù di lì, sarebbe entrata nel periodo del bisogno.
Troppo spesso le femmine della razza morivano di parto.
Era pronto a dare la vita per la razza, all'occorrenza, ma per nulla al mondo
avrebbe messo in pericolo in quel modo la vita della sua shellan.
E quand'anche Beth avesse avuto la garanzia di sopravvivere al parto, non
voleva che suo figlio facesse la sua stessa fine... in trappola e senza la
possibilità di scegliere, costretto a servire la sua gente col cuore gonfio di
dolore mentre, uno dopo l'altro, i suoi sudditi morivano in una guerra che lui
poteva fare poco o nulla per fermare.
Capitolo 7
Il complesso del St. Francis Hospital era una città a sé, un vasto
conglomerato di blocchi architettonici risalenti a epoche diverse, in cui ogni
componente costituiva una sorta di quartiere in miniatura e le singole parti
si connettevano al tutto tramite una serie di tortuosi vialetti e marciapiedi.
C'era l'imponente sezione amministrativa dallo stile rigorosamente
anonimo, la semplicità suburbana delle unità a un piano riservate ai
pazienti esterni e le torri simili a grattacieli per i pazienti interni, con le loro
file infinite di finestre. L'unico elemento unificatore, una vera manna dal
cielo, erano i segnali direzionali rossi e bianchi con le frecce puntate a
destra, a sinistra o diritto, a seconda di dove si voleva andare.
La destinazione di Xhex, tuttavia, era ovvia.
Il pronto soccorso era l'aggiunta più recente, una struttura all'avanguardia
in vetro e acciaio che assomigliava a un night club illuminatissimo e in
costante fermento.
Difficile mancarlo. Difficile perderlo di vista.
Xhex prese forma all'ombra di alcuni alberi piantati in cerchio intorno a un
gruppo di panchine e si avviò verso la fila di porte girevoli del pronto
soccorso. Era presente e insieme lontanissima. Scansava gli altri pedoni,
sentiva l'odore di tabacco proveniente dall'apposita area fumatori, sentiva sul
viso l'aria gelida, ma contemporaneamente era troppo distratta dalla battaglia
in corso dentro di sé per far caso a ciò che la circondava.
Appena entrata nella struttura, sentì le mani diventare appiccicose e la
fronte imperlarsi di sudore freddo: le luci a neon, il linoleum bianco e il
personale che gironzolava nella classica tenuta da sala operatoria la
paralizzavano.
«Serve aiuto?»
Xhex si voltò di scatto alzando le mani davanti a sé, in posizione di
combattimento. Il medico che le aveva rivolto la parola non arretrò diun
millimetro, ma parve sorpreso.
«Ehilà, calma.»
«Scusi», fece lei abbassando le braccia e leggendo il cartellino sul bavero del
camice bianco: DOTT. MANUEL MANELLO, PRIMARIO DI CHIRURGIA.
Xhex si accigliò.
«Tutto bene?»
Xhex decise di lasciar perdere la strana sensazione che l'aveva assalita nel
vederlo, non erano affari suoi. «Devo andare all'obitorio.»
H medico non parve per nulla scioccato, come se per una che faceva mosse
da arti marziali fosse normale conoscere un paio di salme col cartellino
attaccato all'alluce. «Sì, okay, vede quel corridoio là? Lo prenda e vada fino in
fondo. Sulla porta troverà un cartello con l'indicazione dell'obitorio. Da lì in
poi segua le frecce. E nel seminterrato.»
«Grazie.»
«S'immagini.»
Il dottore uscì dalla porta girevole che aveva appena varcato lei, e Xhex
passò attraverso il metal detector che lui aveva appena superato. Neanche un
bip. Rivolse un sorriso stentato alla guardia giurata che la ricambiò con
un'occhiata veloce.
Il coltello che teneva infilato nella cintola dei calzoni, contro le reni, era di
ceramica, e al posto dei cilici di metallo se ne era messi altri fatti di cuoio e
pietra. Nessun problema.
«'Sera, agente», disse.
Il tizio annuì, facendole segno di passare, ma tenne la mano sul calcio della
pistola.
In fondo al corridoio trovò la porta che stava cercando, la spalancò con una
spinta e salì le scale, seguendo le frecce rosse come aveva detto il dottore.
Giunta di fronte a una grande parete bianca di calcestruzzo, immaginò di
essere vicina alla meta, e aveva ragione. Poco più in là, lungo il corridoio,
c'era il detective de la Cruz, fermo accanto a una porta a due battenti in
acciaio inossidabile contrassegnata dalle scritte OBITORIO e VIETATO
L'ACCESSO AI NON ADDETTI AI LAVORI.
«Grazie di essere venuta», la apostrofò lui. «Dobbiamo entrare nella saletta
qui avanti. Li avverto che è arrivata.»
H detective aprì uno dei battenti e, attraverso lo spiraglio, Xhex vide una
fila di tavoli di metallo muniti di fermi per le teste dei cadaveri.
Il cuore le si fermò, poi prese a battere all'impazzata, anche se lei
continuava a ripetersi che era al sicuro. Lei non era stesa lì dentro. Quello non
era il passato. Non c'era nessuno in camice bianco che torreggiava sopra di lei
facendo cose "in nome della scienza".
E poi ormai l'aveva superata, quella storia, se l'era lasciata alle spalle, tipo,
dieci anni prima...
Alle sue spalle si levò un rumore, prima debole, poi sempre più forte. Xhex
si voltò di scatto e rimase impietrita, inchiodata sul posto dalla paura...
Ma era solo un inserviente che svoltava l'angolo spingendo un contenitore
per la biancheria sporca grosso come un'automobile. L'uomo, piegato in
avanti contro il bordo, spingeva con tutte le forze, e le passò davanti senza
neanche alzare gli occhi.
Per un attimo Xhex batté le palpebre e rivide un altro carrello, pieno di arti
aggrovigliati e inerti, le braccia e le gambe dei cadaveri si sovrapponevano
come legna da ardere.
Si stropicciò gli occhi. Okay, aveva superato quello che era successo. .. ma
solo finché non entrava in una clinica o in un ospedale.
Cristo santo... doveva uscire subito di lì.
«Se la sente di fare questa cosa?» chiese de la Cruz, vicinissimo.
Xhex deglutì a fatica e si fece forza; dubitava che lo sbirro potesse capire
che il motivo del suo spavento era una pila di lenzuola sopra un carrello, e
non il cadavere che stava per vedere. «Sì. Possiamo entrare subito?»
Lui la fissò per un attimo. «Senta, vuole aspettare ancora un minuto?
Prendere un caffè?»
«No.» Vedendo che il detective non si muoveva, Xhex si diresse da sola
verso la porta con la scritta PRIVATO.
De la Cruz si affrettò a superarla e a fare strada. Nell'anticamera c'erano tre
sedie di plastica nere, due porte e un, odore chimico di fragola, effetto della
formaldeide mista a un deodorante per ambienti. Nell'angolo, lontano dalle
sedie, c'era un tavolino con un paio di bicchieri di carta pieni per metà di una
brodaglia marrone che doveva essere caffè.
A quanto pareva c'erano i camminatori e i sedentari, quelli che
camminavano su e giù e quelli che si mettevano seduti ad aspettare, e se
appartenevi a questa seconda categoria dovevi tenere in equilibrio sulle
ginocchia la tua dose di caffeina da distributore automatico.
Xhex si guardò intorno; le emozioni che la gente aveva provato in quel
luogo indugiavano ancora nell'aria, come muffa lasciata dall'acqua fetida. La
gente che varcava quella soglia viveva brutte esperienze. Cuori spezzati. Vite
distrutte. Mondi che non sarebbero mai più stati come prima.
Il caffè non era certo la bevanda ideale da offrire a persone che si
accingevano a fare quello che erano andate a fare lì, pensò Xhex. Erano già
abbastanza nervose.
«Da questa parte.»
De laCruz la accompagnò in una stanzetta tappezzata di claustrofobia,
almeno quella fu la sua sensazione: minuscola e soffocante, epa illuminata da
tubi al neon che sfarfallavano a singhiozzo e l'unica finestra non affacciava
certo su un campo di fiori.
La tenda dall'altra parte del vetro era tirata, in modo da impedire la vista.
«Si sente bene?» chiese di nuovo il detective.
«Facciamolo e basta, per piacere.»
De la Cruz si piegò verso sinistra e suonò un campanello. A quel suono le
tende si aprirono al centro con un lento fruscio, rivelando un corpo coperto
da un lenzuolo bianco identico a quelli dentro il bidone per la lavanderia. Un
umano in camice verdino pallido era ritto accanto alla testa e, quando il
detective annuì, piegò all'indietro il sudario.
Chrissy Andrews aveva gli occhi chiusi, le ciglia abbassate sulle guance
dello stesso grigio pallido delle nuvole, a dicembre. Non sembrava in pace
nel suo riposo eterno. La bocca era un taglio violaceo, le labbra spaccate da
quello che poteva essere stato un pugno, una padella o lo stipite di una porta.
Le pieghe del lenzuolo intorno al collo nascondevano quasi del tutto i segni
di strangolamento.
«So chi è stato a conciarla così», disse Xhex.
«Tanto per essere chiari, la sta identificando come Chrissy Andrews?»
«Sì. E so chi è stato a conciarla così.»
Il detective rivolse un cenno del capo al clinico, che coprì il volto di Chrissy
e chiuse le tende. «Il suo ragazzo?» «Sì.»
«Lunga storia di chiamate per maltrattamenti.»
«Troppo lunga. Naturalmente adesso è finita. Quel figlio di puttana ha
finalmente finito il lavoro, giusto?»
Xhex uscì dalla porta che dava sull'anticamera, e il detective dovette
affrettarsi per starle dietro.
«Si fermi...»
«Devo tornare al lavoro.»
Usciti di corsa nel corridoio del seminterrato, il detective la costrinse a
fermarsi. «Voglio che lei sappia che il dipartimento di polizia di Caldwell sta
conducendo un'indagine per omicidio, e che tratteremo tutti i sospetti in
maniera adeguata e nel rispetto della legge.»
«Ne sono certa.»
«Lei ha fatto la sua parte. Adesso deve lasciare a noi il compito di occuparci
della signorina Andrews e di risolvere il caso. Lasci che lo troviamo noi il
colpevole, okay? Non voglio che si metta a fare la vigilante.»
A Xhex tornarono in mente i capelli di Chrissy. La donna era fissata con
quei capelli, li spazzolava in continuazione all'indietro, poi li lisciava in cima
e li spruzzava di lacca finché non assomigliavano alla testa di un pedone
degli scacchi.
Come in una replica di Melrose Place, all'epoca in cui Heather Locklear aveva
il caschetto biondo.
I capelli sotto quel sudario erano piatti come un tagliere, schiacciati su
entrambi i lati, sicuramente dalla sacca per cadaveri in cui l'avevano
trasportata lì all'obitorio.
«Lei ha già fatto la sua parte», ripetè de la Cruz.
No, invece. Non ancora.
«Buona serata, agente. E buona fortuna nella sua caccia a Grady.»
Lui si accigliò, poi finse di bersi la scena della serie "okay farò la brava
ragazza". «Le serve un passaggio?»
«No, grazie. E non si preoccupi per me, sul serio.» Xhex abbozzò un sorriso.
«Non farò stupidaggini.»
Al contrario, era un'assassina molto scaltra. Addestrata dai migliori maestri.
E occhio per occhio era più che una semplice frase a effetto.
José de la Cruz non era propriamente un genio, un membro del Mensa o un
genetista molecolare. Non era neanche un appassionato scommettitore, e non
solo per via della sua fede cattolica.
Non aveva nessun bisogno di scommettere, gli bastava il suo istinto: un
istinto degno della sfera di cristallo di un indovino.
Dunque sapeva esattamente quello che faceva quando, da una discreta
distanza, seguì la signorina Alex Hess fuori dall'ospedale. Una volta superata
la porta girevole, lei non svoltò a sinistra, in direzione del parcheggio, o a
destra, verso i tre taxi parcheggiati accanto all'ingresso. Andò diritta,
infilandosi tra le auto che caricavano e scaricavano i pazienti e girando
intorno ai taxi liberi. Dopo essere salita sul marciapiede, si avviò lungo il
prato ghiacciato e proseguì diritto, attraversando la strada e inoltrandosi tra
gli alberi che la municipalità aveva piantato un paio d'anni prima per rendere
più verde il centro cittadino.
Poi, in un batter d'occhio, sparì, come se non fosse mai esistita.
Il che, naturalmente, era impossibile. Era buio e lui era in piedi dalle
quattro di mattina di due giorni prima, quindi la sua vista era acuta come
quand'era sott’ acqua.
Doveva tenere d'occhio quella donna. Sapeva per esperienza quant'era dura
perdere un collega, ed era chiaro che lei ci teneva alla ragazza morta.
Ciononostante quel caso non aveva bisogno di una mina vagante pronta a
infrangere la legge e forse persino ad assassinare il principale sospettato della
polizia.
José tornò alla macchina che aveva lasciato sul retro, dove venivano pulite
le ambulanze e i paramedici aspettavano durante le pause.
Il ragazzo di Chrissy Andrews, Robert Grady, alias Bobby G, affittava un
appartamento di mese in mese, da quando lei lo aveva buttato fuori di casa,
durante l'estate. Il posto era deserto quando de la Cruz aveva bussato alla
porta, all'incirca all'una del pomeriggio, e il mandato di cattura ottenuto sulla
base delle chiamate al 911 fatte da Chrissy negli ultimi sei mesi per
denunciare il suo ragazzo gli aveva permesso di ordinare al padrone di casa
di aprirgli l'appartamento.
Un mucchio di roba da mangiare che marciva in cucina, di piatti sporchi in
soggiorno e di biancheria sporca sparsa per tutta la camera da letto.
E anche una quantità di bustine di cellofan piene di polvere bianca che - Oh
Mio Dio! - era eroina. Pensa un po'!
Del fidanzato di Chrissy nessuna traccia. L'ultima volta che era stato visto
nell'appartamento era la sera prima, intorno alle dieci. Il vicino della porta
accanto aveva sentito Bobby G che gridava. Poi una porta che sbatteva.
E dai tabulati telefonici forniti dal gestore di Bobby G, risultava una
chiamata al telefono di Chrissy, alle nove e trentasei.
Un servizio di sorveglianza con agenti in borghese era stato predisposto
immediatamente e i detective passavano a controllare a intervalli regolari, ma
finora nessuna novità. De la Cruz, però, era convinto che su quel fronte non
sarebbe saltato fuori niente. Molto probabile che il posto sarebbe rimasto una
città fantasma.
Così adesso sul suo radar c'erano due cose: trovare il ragazzo di Chrissy e
stare alle calcagna dell'addetta alla sicurezza dello ZeroSum.
E il suo istinto gli diceva che sarebbe stato meglio per tutti se avesse trovato
Bobby G prima di Alex Hess.
Capitolo 8
Mentre Havers visitava Rehvenge, Ehlena riordinò uno degli stanzini con le
scorte di medicinali. Che, guarda caso,era proprio di fronte alla sala visita tre.
Ammonticchiò le bende elastiche, fece una torre di rotoli di garza avvolti
nella plastica, creò una composizione "modiglianesca" di scatole di Kleenex,
Band-Aid e cappucci per termometri.
Stava esaurendo le cose da sistemare, quando la porta della sala visita si
aprì con un clic. Ehlena fece capolino in corridoio.
Havers aveva proprio l'aria del medico, con quegli occhiali di tartaruga, i
capelli castani pettinati con la riga, il farfallino e il camice bianco. Si
comportava anche come tale, facendosi carico con incrollabile calma e
sollecitudine del suo staff, delle sue strutture e, soprattutto, dei suoi pazienti.
Ma lì, in corridoio, non sembrava neanche lui: accigliato come in preda alla
confusione, si massaggiava le tempie quasi avesse mal di testa.
«Si sente bene, dottore?» chiese Ehlena.
Lui si voltò a guardarla, gli occhi insolitamente vacui dietro le lenti. «Ehm...
sì, grazie.» Riscuotendosi, le porse una ricetta facendola scivolare sopra la
cartella clinica di Rehvenge. «Io... ehm... Sarebbe così cortese da portare la
dopamina a questo paziente, oltre a due dosi di antidoto contro il veleno di
scorpione? Lo farei io stesso, ma credo sia meglio che mangi un boccone.
Temo di avere un calo di zuccheri.»
«Sì, dottore. Subito.»
Havers annuì, rimettendo la cartella nel contenitore accanto alla porta.
«Grazie infinite.»
Poi si allontanò come in trance.
Quel poveretto doveva essere esausto. Era stato in sala operatoria per quasi
due giorni e due notti ininterrottamente, impegnato con un parto, con la
vittima di un incidente stradale e con un piccolo rimasto gravemente
ustionato per aver toccato una pentola di acqua bollente sui fornelli di casa.
Senza contare che, nei due anni in cui Ehlena lavorava alla clinica, non si era
mai preso un solo giorno di riposo. Era sempre reperibile, sempre presente.
Un po' come lei con suo padre.
Per cui, sì, sapeva esattamente quanto doveva essere stanco.
Porse la ricetta al farmacista, che non scambiava mai due chiacchiere, e che
anche quel giorno non si smentì. Sparì nel retro della farmacia e tornò con sei
scatole di flaconi di dopamina e con l'antidoto.
Mentre le porgeva i farmaci, voltò un cartello con scritto TORNO TRA 15
MINUTI e uscì, alzando il piano ribaltabile nel bancone.
«Aspetta», lo fermò lei, faticando a reggere tutto quel peso. «Devi esserti
sbagliato.»
Il farmacista aveva già sigaretta e accendino in mano. «No.»
«Sì, invece... Dov'è la ricetta?»
Non c'era ira più funesta di quella che l'avrebbe colpita bloccando il passo
di un fumatore che finalmente si concedeva una pausa. Ma non gliene
fregava un accidente.
«Dammi la ricetta.»
Il farmacista tornò borbottando dietro il banco, poi si sentì un gran frusciare
di fogli, come se sperasse, chissà come, di accendere il fuoco strofinando
insieme le prescrizioni mediche.
«Sei scatole di dopamina», disse voltando il foglietto verso di lei. «Vedi?»
Ehlena si piegò in avanti. Eh già, proprio vero. Sei scatole. Non sei fiale.
«È quello che il dottore prescrive sempre a questo tizio. Questo e
l'antidoto.»
«Sempre?»
Il farmacista la guardò con una faccia della serie "e dai bella piantala di
darmi il tormento" e, parlando lentamente, come se lei non conoscesse bene la
lingua, disse, «Sì. Di solito il dottore viene di persona a ritirare le medicine.
Sei soddisfatta o vuoi parlarne con Havers?»
«No... e, grazie.»
«Figurati, non c'è di che», fece lui sarcastico, ributtando la ricetta nel
mucchio e affrettandosi ad alzare i tacchi, quasi temendo che Ehlena se ne
venisse fuori con qualche altro brillante progetto di ricerca.
Che razza di condizione fisica richiedeva 144 dosi di dopamina? E
l'antidoto?
A meno che Rehvenge non stesse per intraprendere un luuuuuuuungo
viaggio fuori città. Verso un luogo ostile infestato dagli scorpioni, tipo quelli
di film come La Mummia.
Ehlena ripercorse il corridoio fino alla sala visita, destreggiandosi con le
scatole di medicinali come quei giocolieri che fanno ruotare i piatti in cima a
sottili asticelle: appena ne acchiappava una che rischiava di scivolare doveva
stare attenta a non farne cadere un'altra. Bussò alla porta col piede e poi quasi
rovesciò tutto il carico, in un rovinoso effetto domino, quando girò la
maniglia.
«C'è tutto quanto?» chiese Rhev in tono duro.
Neanche ne volesse un intero pallet. «Sì.»
Ehlena lasciò andare le scatole sulla scrivania, poi in fretta le rimise in
ordine. «Vado a prenderle un sacchetto.»
«Non importa. Va bene così.»
«Le servono delle siringhe?»
«Ne ho in abbondanza», rispose asciutto lui.
Con grande cautela scese dal lettino e si infilò la pelliccia; lo zibellino gli
allargava ulteriormente le spalle tanto che, anche da lontano, sembrava
torreggiare minaccioso. Con gli occhi fissi su Ehlena prese il bastone e avanzò
lentamente, quasi dubitasse del proprio senso dell'equilibrio... e
dell'accoglienza che lei gli avrebbe riservato.
«Grazie», disse.
Non c'era parola più semplice e più comune eppure, Dio, detta da lui
assumeva un significato talmente profondo da metterla a disagio.
In realtà, non era tanto quello che aveva detto quanto la sua espressione:
c'era un che di vulnerabile in fondo a quegli occhi color ametista.
O forse no.
Forse era lei a sentirsi vulnerabile e a cercare la commiserazione di chi
l'aveva ridotta in quello stato. In quel momento era debolissima. Mentre
Rehvenge, lì accanto, prendeva le scatole a una a una dal tavolo e le infilava
dentro le tasche nascoste tra le pieghe della pelliccia, si sentiva nuda,
malgrado l'uniforme da infermiera, smascherata, pur non avendo mai usato
niente per nascondersi il viso.
Distolse lo sguardo e vide solo quegli occhi.
«Mi stia bene...» Com'era profonda quella voce. «E, come ho già detto,
grazie. Sa, per essersi presa cura di me.»
«Prego», disse lei rivolta al lettino. «Spero che abbia avuto ciò di cui aveva
bisogno.»
«Sì... almeno in parte.»
Ehlena non si voltò finché non sentì la porta che si chiudeva con uno scatto.
Poi, con un'imprecazione, si sedette dietro la scrivania, chiedendosi di nuovo
se era il caso di andare a quell'appuntamento. Non solo per via di suo padre,
ma perché...
Ah, complimenti, proprio una bella pensata. Perché non accantonare un
ragazzo dolce e normale solo perché si sentiva attratta da un tipo
inaccessibile, piombato giù da un altro pianeta dove la gente portava vestiti
più cari di un'automobile? Perfetto.
Se andava avanti così rischiava di vincere il Nobel per la stupidità, un
obiettivo che moriva dalla voglia di conseguire.
Lasciò vagare gli occhi per la stanza mentre cercava di tornare coi piedi per
terra... finché le caddero sul cestino della carta straccia. Sopra una lattina di
Coca Cola, mezzo appallottolato, c'era un biglietto da visita color panna.
REHVENGE, FIGLIO DI REMPOON.
Sotto c'era solo un numero di telefono, niente indirizzo.
Ehlena si chinò a raccoglierlo, lisciandolo sulla scrivania. Vi fece scorrere
sopra il palmo un paio di volte; la superficie presentava solo un lieve solco.
Stampato in rilievo. Naturalmente.
Ah, Rempoon. Conosceva quel nome, e adesso anche il parente più
prossimo indicato sulla cartella di Rehvenge acquistava un senso. Madalina
era una Eletta decaduta che si era dedicata a fornire consigli spirituali al
prossimo, una femmina di valore, amata da tutti, di cui Ehlena aveva sentito
parlare, pur non conoscendola di persona. Era stata sposata con Rempoon, il
rampollo di una delle famiglie più antiche e in vista. Madre. Padre.
E così quelle pellicce di zibellino non erano solo il volgare sfoggio di denaro
da parte di un nouveau riche arrampicatore sociale. Rehvenge veniva dallo
stesso ambiente cui un tempo appartenevano anche Ehlena e la sua famiglia,
la glymera... il rango più elevato della società civile dei vampiri, gli arbitri del
gusto, il baluardo della civiltà... e l'enclave più crudele di saccenti del pianeta,
capaci di farti preferire la feccia di Manhattan per un invito a cena.
Gli faceva tutti i suoi migliori auguri, in mezzo a quel branco di mascalzoni.
Lei e la sua famiglia se l'erano tutt'altro che spassata con loro: suo padre era
stato tradito e sfruttato, sacrificato senza pietà per permettere a un ramo più
potente della stirpe di sopravvivere, finanziariamente e socialmente. E quello
era stato solo l'inizio della rovina.
Uscendo dalla sala visita, buttò di nuovo il biglietto tra i rifiuti e prese la
cartella clinica. Dopo essersi consultata con Catya, andò al banco accettazione
a sostituire l'infermiera in pausa e a inserire nel database le brevi annotazioni
di Havers su Rehvenge e i farmaci che gli aveva prescritto.
Nessun cenno alla patologia di cui soffriva. Ma forse veniva curata da tanto
di quel tempo che figurava solo nei vecchi archivi.
Havers non si fidava dei computer e annotava tutto su carta, ma per
fortuna tre anni prima Catya aveva insistito per tenere una copia elettronica
di tutto... e aveva incaricato una squadra di doggen di trascrivere per intero
nel server le cartelle cliniche di ogni paziente in cura al momento. E meno
male. Quando si erano trasferiti in quella nuova struttura, dopo gli attacchi
dei lesser, le uniche informazioni rimaste erano quelle archiviate a computer,
ringraziando la Vergine Scriba.
D'impulso Ehlena fece scorrere all'indietro la cartella di Rehvenge. Il
dosaggio della dopamina era aumentato, negli ultimi due anni. E anche
l'antidoto.
Uscì dal file e si appoggiò all'indietro sulla sedia, incrociando le braccia sul
petto e fissando intensamente lo schermo. A un certo punto il salvaschermo
partì alla velocità della luce, in stile Millennium Falcon, l'astronave di Guerre
Stellari, e dal fondo del monitor una miriade di stelle venne sparata verso di
lei.
Ehlena decise che sarebbe andata a quel maledetto appuntamento.
«Ehlena?»
«Sì?» fece lei alzando gli occhi su Catya.
«L'ambulanza ci sta portando un paziente. Tempo di arrivo stimato, due
minuti. Overdose da sostanza ignota. D paziente è intubato e lo stanno
rianimando con assistenza respiratoria. Dobbiamo assisterlo noi due.»
Quando un'altra infermiera comparve per occuparsi dell'accettazione,
Ehlena saltò giù dalla sedia e seguì di corsa Catya fino in fondo al corridoio,
dove c'erano i box per le emergenze. Havers era già lì e stava finendo in gran
fretta quello che aveva tutta l'aria di essere un panino di segale al prosciutto.
Proprio mentre allungava il piatto vuoto a un doggen, il paziente arrivò
attraverso il tunnel sotterraneo che collegava la clinica ai garage delle
ambulanze. I paramedici erano due vampiri vestiti come i loro omologhi
umani, perché mimetizzarsi era assolutamente fondamentale.
Il paziente, privo di conoscenza, era tenuto in vita solo dal paramedico
vicino alla sua testa che comprimeva un pallone ambulatorio a un ritmo lento
e regolare.
«Ci ha chiamato un suo amico», spiegò il vampiro, «che poi prontamente
l'ha mollato svenuto al freddo nel vicolo accanto allo ZeroSum. Pupille non
reattive. Pressione sessantadue su trentotto. Frequenza cardiaca trentadue.»
Che spreco, pensò Ehlena mettendosi al lavoro.
La droga era un male così assurdo.
All'altro capo della città, nella parte di Caldwell nota come Minimali
Sprawlopolis, Wrath trovò senza problemi l'appartamento del lesser morto. Si
trovava in un complesso residenziale chiamato Hunterbred Farms, e il
gruppo di edifici a due piani era caratterizzato da un tema equino fasullo
come le tovaglie di plastica in una trattoria italiana di quart'ordine.
Neanche l'ombra di un cavallo, tanto meno quelli usati nella caccia alla
volpe, come gli hunterbred. E la parola farm, fattoria, di solito non viene
associata a un centinaio di unità abitative con una sola camera da letto
schiacciate tra un concessionario Ford Mercury e un centro commerciale con
tanto di supermercato. Agreste? Sì, come no. I pochi praticelli stavano
perdendo per quattro a uno la battaglia contro l'asfalto e l'unico stagno,
chiaramente opera dell'uomo, aveva un bordo di cemento simile a quelli delle
piscine e il sottile strato di ghiaccio che lo copriva era color piscio, come se
fosse in corso un qualche trattamento chimico.
Consideratoli- numero di umani che abitavano lì, era sorprendente che la
Lessening Society avesse piazzato parte delle sue truppe in un luogo tanto
esposto, ma forse era solo una soluzione temporanea. O forse tutto il
complesso era pieno di lesser.
Ogni edificio constava di quattro appartamenti intorno a una scala comune
e i numeri civici sul muro esterno erano illuminati a giorno da terra. Wrath
risolse la sfida visiva usando il metodo sperimentato del tocca-e-decifra.
Quando trovò una fila di cifre in rilievo che al tatto sembravano Otto Dodici
in corsivo, spense le luci di sicurezza con la forza del pensiero e si
smaterializzò fino all'ultimo piano.
La serratura dell'appartamento ottocentododici era inconsistente e
facilmente manipolabile dalla sua mente, ma lui non voleva dare niente per
scontato. Appiattendosi contro il muro, girò la maniglia a forma di ferro di
cavallo e aprì la porta di uno spiraglio.
Chiuse i suoi inutili occhi e si mise in ascolto. Niente, nessun movimento,
solo il ronzio di un frigorifero. Avendo un udito finissimo, in grado di
individuare un topo che respirava dal naso, ne dedusse che aveva via libera
e, prima di sgattaiolare all'interno, impugnò una stella ninja.
Molto probabile ci fosse un sistema di sicurezza che occhieggiava da
qualche parte, ma lui non aveva in mente di trattenersi abbastanza a lungo da
affrontare il nemico. E poi, se anche fosse comparso un lesser, non potevano
mettersi a lottare perché il posto brulicava di umani.
In sostanza lui cercava dei vasi, punto e basta. In fin dei conti la sensazione
di bagnato lungo la gamba non era dovuta alla pozzanghera di fanghiglia che
aveva calpestato entrando: sanguinava per le ferite riportate nel corpo a
corpo in quel vicolo, per cui, sì,se compariva qualcuno che puzzava di torta al
cocco corretta con uno shampoo scadente, lui avrebbe levato le tende.
O almeno... questo fu ciò che si disse.
Chiuse la porta e inspirò, a lungo e lentamente... e rimpianse di non poter
lavare a fondo naso e gola. Anche se gli veniva da vomitare, tuttavia, c'erano
buone notizie: nell'aria stantia si mescolavano tre distinti odori dolciastri, il
che significava che quello era il covo di tre lesser.
Wrath si addentrò nell'appartamento dove si concentrava quel tanfo
nauseabondo. Cosa diavolo stava succedendo? Di rado i lesser vivevano in
gruppo perché non facevano che litigare - che poi è quello che capita quando
si reclutano solo maniaci omicidi. Gli uomini selezionati dall'Omega non
potevano mica mettere a tacere il Michael Myers che avevano dentro solo
perché la Società voleva risparmiare un po' sull'affitto, che diamine.
Ma forse il Fore-lesser in carica era particolarmente forte e temibile.
Dopo i raid dell'estate era difficile credere che i lesser avessero problemi di
liquidi, ma allora perché raggruppare le truppe? D'altra parte i fratelli, e di
nascosto anche Wrath, ultimamente vedevano armi meno sofisticate. Un
tempo, quando affrontavi i non morti, per ogni tipo di arma ti dovevi
aspettare ogni sorta di versione modificata disponibile sul mercato. Di
recente, invece, si erano trovati di fronte a vecchi coltelli a serramanico,
tirapugni di ottone e la settimana prima addirittura - incredibile ma vero uno sfollagente, tutte armi a buon mercato che non richiedevano pallottole o
manutenzione. E adesso giocavano a fare i Walton della serie TV Una famiglia
americana, lì, alle Hunter-snob Farms? Ma che cavolo?
La prima camera da letto che si trovò davanti era impregnata di un paio di
profumi, e vicino ai letti gemelli senza lenzuola né coperte trovò due vasi.
Anche in quella dopo c'era un olezzo da vecchia signora... quello, e anche
qualcos'altro. Un'annusatina veloce e capì che era... Cristo, Old Spice.
Pensa un po'. Come se quelle carogne non puzzassero già abbastanza...
Porca puttana.
Wrath inspirò a fondo, il cervello che filtrava qualunque effluvio anche solo
lontanamente dolciastro.
Polvere da sparo.
Seguendo il pungente odore metallico nell'aria, si avvicinò a un armadio
con due sportelli sottili come quelli di una casa di bambola. Appena li aprì
venne investito da una zaffata tutta particolare: munizioni; si chinò tastando
tutt'intorno con le mani.
Casse di legno. Quattro. Tutte quante col coperchio inchiodato.
I fucili all'interno avevano sparato, decisamente. Ma non di recente. Il che
lasciava supporre che potessero essere armi di seconda mano, tipo usato
sicuro.
Sì, ma usato da chi?
Poco importava, non aveva comunque intenzione di lasciarle lì. I nemici le
avrebbero usate contro i suoi civili e suoi fratelli, per cui preferiva far saltare
per aria l'intero appartamento piuttosto che lasciargliele imbracciare.
Ma se avesse informato la confraternita il suo segreto sarebbe venuto allo
scoperto. Portare via le casse da solo era impensabile, però: non aveva la
macchina ed era impossibile smaterializzarsi con quel peso sulla schiena,
anche suddividendolo in più parti.
Wrath esaminò con cura la stanza, usando il tatto al pari della vista. Oh,
bene. Sulla sinistra c'era una finestra.
Tirò fuori il telefonino con un'imprecazione e lo aprì... lalcuno stava
salendo le scale.
S'immobilizzò all'istante, chiudendo gli occhi per concentrarsi ancora di
più. Umano o lesser?
Soltanto uno contava.
Wrath si piegò di lato e posò su un cassettone i due vasi che aveva fregato
trovando, ovviamente, sia il terzo vaso che il flacone di Old Spice. Impugnò
la calibro quaranta e, coi piedi ben piantati per terra, la puntò sul corto
corridoio, dritta contro la porta d'ingresso.
Ci fu un tintinnio di chiavi, poi un clangore, come se le chiavi fossero
sfuggite di mano cadendo per terra.
L'imprecazione che seguì era di una donna.
Rilassandosi, Wrath abbassò la pistola lungo la coscia. Al pari della
confraternita, la Società ammetteva solo maschi tra le sue file, quindi
chiunque stava giocando a shangai con quelle chiavi non era un ¿esser.
Udì chiudersi la porta dell'appartamento di fronte e all'improvviso una TV
accesa a tutto volume, talmente alta che riconobbe la replica di The Office.
Gli piaceva quell'episodio. Era quello in cui il pipistrello riesce a liberarsi...
Un coro di strilli si levò dalla sitcom.
Eh sì. Adesso il pipistrello stava volando dappertutto.
Ora che la donna era opportunamente impegnata a guardare la tele, Wrath
tornò a concentrarsi, ma rimase fermo dov'era, sperando che anche i nemici si
decidessero a rincasare. Stare immobile come una statua respirando appena
non servì ad aumentare la percentuale di lesser sul posto, però: un quarto
d'ora-venti minuti più tardi era ancora solo soletto e dei non morti non si
vedeva neanche l'ombra.
Non che fosse una totale perdita di tempo: si stava facendo quattro risate
con la scena in cui Dwight tenta di catturare con un sacchetto delle
immondizie il pipistrello intrufolatosi nella cucina dell'ufficio e ci riesce solo
quando quello si ferma sulla zucca di una collega, impacchettando così
pipistrello e testa.
Era ora di darsi una mossa.
Chiamò Butch, gli diede l'indirizzo e gli disse di pigiare il piede
sull'acceleratore. Voleva portare via le armi prima che arrivasse qualcuno, sì,
ma se lui e lo sbirro si sbrigavano a portare fuori le casse, e Butch riusciva a
farle sparire, Wrath forse poteva ancora fermarsi lì per un'altra oretta.
Per ammazzare il tempo passò al setaccio l'appartamento, battendo i palmi
sulle superfici nel tentativo di trovare computer, altri telefoni e altre armi. Era
appena tornato nella seconda camera da letto quando qualcosa rimbalzò
contro la finestra.
Wrath estrasse di nuovo la calibro quaranta e si appiattì contro il muro
accanto alla finestra. Con la mano sbloccò la serratura e aprì il vetro di uno
spiraglio.
L'accento bostoniano dello sbirro risuonò flebile come un altoparlante.
«Ehilà, Raperonzolo, ti decidi a buttare giù quella maledetta treccia?»
«Sst, vuoi svegliare i vicini?»
«Come se potessero sentire qualcosa col baccano che fa quella tele. Ehi, ma
è la puntata del pipistre...»
Wrath lasciò Butch a parlare da solo, infilò la pistola nella fondina
agganciata al fianco, spalancò la finestra e poi andò all'armadio. L'unico
avvertimento con cui mise in guardia lo sbirro facendo volare giù la prima
cassa da cento chili fu, «Preparati, Effie.»
«Gesù Cr...» un grugnito interruppe l'imprecazione.
Wrath mise la testa fuori dalla finestra e bisbigliò, «Credevo fossi un
cattolico timorato di Dio. Non era una bestemmia, quella?»
Butch aveva il tono di chi ha il letto che sta andando a fuoco e vede uno che
lo spegne pisciandoci sopra. «Mi tiri addosso un quintale di roba senza
neanche avvertirmi, a parte una cazzo di citazione da Mrs. Doubtfire?»
«Piantala di lamentarti e comincia a muovere le tue belle manine.»
Mentre lo sbirro si avviava smadonnando verso la Escalade, che era riuscito
a parcheggiare sotto a un gruppetto di pini, Wrath tornò verso l'armadio.
Quando Butch tornò, Wrath rifece la scena di prima. «Altre due in arrivo.»
Ci fu un altro grugnito e un rumore di ferraglia. «Ma vaffanculo.»
«Neanche morto.»
«Okay. Allora vai a quel paese.»
Quando anche l'ultima cassa finì tra le braccia di Butch, cullata come un
neonato addormentato, Wrath si sporse in fuori. «Ti saluto.»
«Non vuoi un passaggio fino a casa?»
«No.»
Ci fu una pausa, come se Butch stesse aspettando una soffiata su come
Wrath intendeva trascorrere quel poco che restava della notte.
«Vai a casa», disse il re.
«Cosa dico agli altri?»
«Che sei un fottutissimo genio e hai trovato le casse piene di armi quando
eri fuori a caccia.»
«Stai sanguinando.»
«Sono stufo marcio di sentirmelo dire.»
«Allora..dammi retta, piantala di fare lo scemo e fatti vedere dalla
dottoressa Jane.»
«Non ti avevo già salutato?»
«Wrath...»
Wrath chiuse la finestra, andò al cassettone e si infilò i tre vasi dentro il
giubbotto.
I membri della Lessening Society ci tenevano quanto i fratelli a recuperare !
cuori dei compagni caduti, così, appena venivano a sapere che uno dei loro
era morto, andavano in ricognizione e poi puntavano verso il suo indirizzo.
Di sicuro uno dei bastardi che Wrath aveva liquidato quella sera aveva
chiamato i rinforzi, prima di tirare le cuoia. I suoi amichetti dovevano sapere
cos'era successo.
E dovevano tornare lì.
Wrath scelse la posizione difensiva migliore, nella camera da letto sul retro,
e puntò la sua clic-clic-bang-bang sulla porta d'ingresso.
Non se ne sarebbe andato finché non avrebbe potuto farne a meno.
Capitolo 9
I sobborghi di Caldwell erano o fattorie o boschi e, analogamente, le fattorie
erano di due tipi, per la produzione lattiero- casearia o per quella di grano...
con una predominanza della prima, data la brevità della stagione agricola.
Anche i boschi erano di due tipi: le pinete, che si inerpicavano lungo i fianchi
delle montagne, e i querceti, che si estendevano fino ai vasti acquitrini
generati dal fiume Hudson.
Ma che il paesaggio fosse naturalis o industrialis, le strade erano comunque
meno trafficate, le case distavano chilometri l'una dall'altra e i vicini erano
amanti della solitudine e avevano il grilletto facile come pochi altri al mondo.
Lash, figlio dell'Omega, era seduto al malandato tavolo da cucina di un
angusto capanno da caccia in uno di quei tratti di bosco. Sopra il logoro piano
di legno di pino che aveva davanti aveva steso tutti i resoconti finanziari
relativi alla Lessening Society che era riuscito a scovare, stampare o
richiamare sul suo portatile.
Quante stronzate.
Allungò la mano verso un estratto conto della Evergreen Bank che aveva
letto almeno una dozzina di volte. Sul conto più corposo della Società c'erano
centoventisettemilacinquecentoquarantadue dollari e quindici centesimi. Gli
altri conti, domiciliati in altre sei banche, Glens Falls National e Farrell Bank
& Trust comprese, avevano saldi tra i venti e i ventimila dollari.
Se quello era tutto il patrimonio di cui disponeva la Società, erano sull'orlo
della bancarotta.
I saccheggi portati a termine durante i raid estivi avevano fruttato alcuni
ottimi beni rivendibili, sotto forma di argenteria e oggetti d'antiquariato, ma
monetizzare quei fondi si stava rivelando complicato perché implicava una
quantità notevole di contatti con gli umani. Si erano impossessati anche di
alcuni conti correnti e depositi titoli ma, di nuovo, distrarre fondi dalle
banche umane era un gran bel casino. Come aveva avuto modo di imparare a
proprie spese.
«Ancora un po' di caffè?»
Lash alzò gli occhi sul suo numero due. Era un miracolo che Mr D fosse
ancora in circolazione. Quando Lash aveva fatto il suo primo ingresso in quel
mondo, rinato grazie al suo vero padre, l'Omega, si era sentito sperduto:
adesso il nemico era diventato la sua famiglia. Mr D era stato la sua guida,
anche se, come nel caso delle carte stradali usate dai turisti, Lash aveva dato
per scontato che quel bastardo avrebbe esaurito la sua utilità via via che il
guidatore avesse interiorizzato le nuove coordinate spaziali.
Invece non era andata così. Il piccolo texano, che all'inizio era stato
l'antipasto di Lash, adesso era il suo discepolo.
«Sì», rispose Lash, «e che ne dici di portarmi anche qualcosa da mangiare?»
«Signorsì. Le ho preso dell'ottima pancetta affumicata e quel formaggio che
le piace tanto.»
Il caffè venne versato lentamente e con cura nella tazza di Lash. Poi fu la
volta dello zucchero e il cucchiaino usato per mescolarlo produsse un lieve
tintinnio. Mr D gli avrebbe allegramente pulito il sedere, se Lash glielo avesse
chiesto, ma non era una checca. Quel nanerottolo sapeva uccidere come
nessun altro, era un killer degno di un film horror. Gran cuoco, anche, ottimo
nei piatti veloci. Faceva delle frittelle alte mezzo metro e soffici come un
cuscino.
Lash controllò l'orologio. Il Jacob & Co. era tutto tempestato di diamanti
che, alla fioca luce dello schermo del computer, brillavano come mille puntini
luminosi. Ma era un falso trovato su eBay. Lui ne voleva un altro vero, solo
che... Cristo santo... non poteva permetterselo. Certo, si era incamerato tutti i
conti dei suoi "genitori", dopo avere ucciso i due vampiri che lo avevano
cresciuto come un figlio, ma per quanto fossero pieni di grana, non gli
andava di spenderla per cose frivole.
Aveva dei conti da pagare. Oltre a ipoteche, armi, munizioni, vestiti, affitti e
noleggio auto. I lesser non mangiavano, ma consumavano molte risorse, e
l'Omega non si preoccupava del denaro. D'altronde, lui viveva all'inferno e
aveva la capacità di far apparire dal nulla qualunque cosa, da un pasto caldo
ai mantelli alla Liberace in cui amava avvolgere la sua tenebrosa ombra
corporea.
Gli spiaceva ammetterlo, ma aveva la sensazione che il suo vero padre fosse
un po' effeminato. Nessun vero uomo si sarebbe mai fatto vedere con
addosso quella roba tutta scintillante.
Quando alzò la tazza del caffè, l'orologio brillò. Che cavolo, era comunque
uno status symbol.
«I tuoi ragazzi sono in ritardo», si lamentò, stizzito.
«Sono in arrivo.» Mr D andò ad aprire il frigorifero anni Settanta, che non
solo aveva lo sportello che cigolava e il colore di un'oliva marcia, ma sbavava
come un cane.
Era ridicolo, cazzo. Dovevano assolutamente migliorare le loro abitazioni.
Se non proprio tutte, almeno il suo quartier generale.
In compenso il caffè era perfetto, anche se si guardò bene dal dirlo. «Non
mi piace aspettare.»
«Stanno arrivando, non si preoccupi. Quante uova, nella sua frittata? Tre?»
«Quattro.»
Mentre il capanno si riempiva del rumore di gusci rotti, Lash batté la punta
della sua Waterman sull'estratto conto della Evergreen. Le spese della
Società, comprese bollette dei cellulari, connessioni Internet, affitti, ipoteche,
armi, vestiario e autoveicoli ammontavano ad almeno cinquanta bigliettoni al
mese.
Appena aveva cominciato a prendere confidenza con il suo nuovo ruolo si
era fatto l'idea che qualcuno, tra le file della Società, facesse la cresta stalle
spese. Ma per mesi aveva tenuto d'occhio le cose e non aveva scovato nessun
truffatore da manuale. Era una semplice questione di contabilità, la
falsificazione dei registri o l'appropriazione indebita non c'entravano niente:
le uscite erano superiori alle entrate. Punto.
Stava facendo del suo meglio per armare le sue truppe, abbassandosi
addirittura a comprare quattro casse di fucili da alcuni biker conosciuti in
galera, l'estate prima. Ma non bastava. Ai suoi uomini serviva qualcosa di
meglio dei Red Ryders di seconda mano per annientare la confraternita.
E, già che si parlava della lista dei desideri: gli servivano più uomini. Aveva
pensato che i biker potessero essere un buon vivaio cui attingere, ma si
stavano rivelando troppo coesi. Conoscendoli, l'istinto gli diceva che o li
prendeva tutti in blocco oppure non ne prendeva nessuno perché, sicuro
come l'oro, se ne sceglieva alcuni sì e altri no, quelli selezionati sarebbero
tornati alla base a raccontare ai loro amichetti quant'era divertente il loro
nuovo lavoro: uccidere vampiri. Se invece li prendeva tutti quanti, correva il
rischio che non rispettassero la sua autorità.
Il reclutamento uno-a-uno sarebbe stato la strategia migliore, ma lui non
aveva tempo di farlo. Tra le sedute di addestramento con suo padre - che, a
dispetto delle sue perplessità sul guardaroba del caro paparino, si stavano
rivelando mostruosamente utili - il monitoraggio dei campi di persuasione e
dei depositi che custodivano il bottino dei saccheggi, e gli sforzi per far
concentrare i suoi uomini sul lavoro quotidiano, non gli avanzava neanche
un'ora al giorno.
Per cui la situazione si stava facendo critica: essere un capo militare di
successo richiede tre cose, due delle quali sono le risorse e le reclute. Essere il
figlio dell'Omega gli offriva una quantità di vantaggi, certo, ma il tempo non
si fermava per nessuno, uomo, vampiro o rampollo del Male che fosse.
Considerato lo stato dei conti, Lash sapeva di dover partire anzitutto dalle
risorse. Soltanto in seguito avrebbe potuto procurarsi le altre due cose.
Il rumore di un'auto che si fermava davanti al capanno lo spinse a
impugnare una calibro quaranta, mentre Mr D prendeva la sua 357 Magnum.
Lash tenne la pistola sotto il tavolo; Mr D, al contrario, la tenne in bella vista,
puntandola dritto davanti a sé, il braccio teso in linea orizzontale.
Quando bussarono alla porta, Lash disse brusco: «Farete meglio a essere chi
penso che siate.»
La risposta del lesser fu quella giusta. «Siamo noi. Io, Mr A e il tizio che
dovevamo prelevare.»
«Entrate», disse Mr D, sempre eccellente come padrone di casa, anche se la
calibro 357 era sempre puntata e pronta a fare fuoco.
I due non morti che varcarono la soglia erano gli ultimi dei "visi pallidi",
l'ultima coppia di veterani che operavano nella Società da abbastanza tempo
da aver perso la pigmentazione naturale di capelli e occhi.
L'umano che trascinarono dentro insieme a loro era un metro e ottantadue
di niente di particolarmente interessante, un bianco sui vent'anni con una
faccia qualunque e un taglio di capelli che nel giro di un paio d'anni sarebbe
passato di moda. L'aspetto da bamboccio strafottente spiegava senza dubbio
perché si vestiva come si vestiva: giubbotto di cuoio con un'aquila sulla
schiena, camicia Fender Rock & Roll Religion, catene che pendevano dai jeans
e scarpe Ed Hardy.
Triste. Molto triste. Come montare dei cerchioni tutta scena sopra una
macchinetta da niente, tipo Toyota Camry. Se era armato, di sicuro aveva uno
di quei coltellini svizzeri usati per lo più come stuzzicadenti.
Ma non c'era bisogno che fosse un guerriero per tornargli utile. Lash i suoi
soldati li aveva già. Da quel pezzo di merda voleva qualcos'altro.
Appena vide la Magnum di benvenuto di Mr D, il tizio si voltò verso la
porta, quasi valutando se ce l'avrebbe fatta a correre più veloce di un
proiettile. Mr A chiuse la questione chiudendo l'uscio e piazzandocisi
davanti.
L'umano guardò Lash e si accigliò. «Ehi... ma io ti conosco. Ti ho visto in
prigione.»
«Già.» Lash rimase seduto e abbozzò un sorriso. «Allora, ti va di conoscere i
dettagli di questa riunione?»
L'umano deglutì e tornò a concentrarsi sulla pistola di Mr D. «Sì. Certo.»
«E stato facile trovarti. Ai miei uomini è bastato andare da Screamer's,
fermarsi lì un po' e... sei arrivato.» Lash si appoggiò all'indietro, facendo
scricchiolare la sedia di vimini. L'umano si voltò verso di lui e Lash ebbe la
tentazione di dirgli di lasciar perdere il rumore e preoccuparsi piuttosto della
calibro quaranta sotto il tavolo, puntata sui gioielli di famiglia. «Ti sei tenuto
fuori dai guai da quando ci siamo visti in prigione?»
L'umano scosse la testa e disse. «Sì.»
Lash rise. «Vuoi ritentare? Sei fuori sincrono.»
«Cioè, insomma, sono ancora in affari, ma non mi hanno beccato.»
«Be', bene.» Quando il tizio riportò lo sguardo su Mr D, Lash rise. «Se fossi
in te, vorrei sapere perché sono stato portato qui.»
«Ah... sì. Sarebbe carino.»
«Le mie truppe ti hanno tenuto d'occhio.»
«Le tue truppe?»
«Fai affari d'oro, giù in centro.»
«Non mi lamento, la grana non mi manca.»
«Ti andrebbe di farne ancora di più?»
A quel punto l'umano fissò Lash, gli occhi socchiusi in uno sguardo viscido
e ingordo. «Quanta di più?»
I soldi sono proprio il motore che fa girare il mondo, eh?
«Te la cavi bene per essere un piccolo spacciatore, ma per ora sei una
pedina insignificante. Per tua fortuna sono in vena di investire in uno come
te, uno che ha bisogno di aiuto per fare un salto di qualità. Voglio fare di te
non solo un piccolo spacciatore, ma un intermediario con i pezzi grossi.»
L'umano si portò una mano al mento e la fece scorrere lungo il collo come
se per mettere in moto il cervello dovesse massaggiarsi la gola. In quel
silenzio, Lash si accigliò. Le nocche del tizio erano scorticate e al suo anello
da quattro soldi della Caldwell High School mancava una pietra,
«Sembra interessante», mormorò l'umano. «Ma.., devo stare un po'
tranquillo.»
«Come sarebbe?» Dannazione, se era una tattica per alzare la posta, Lash
era prontissimo a fargli notare che c'erano altri cento piccoli spacciatori pronti
a buttarsi a pesce su un accordo del genere.
Poi avrebbe rivolto un cenno del capo a Mr D, e il lesser avrebbe sparato a
bruciapelo a Mister Aquila sul Giubbotto facendo un bel buco in mezzo a
quella sua fronte stempiata.
«Io, ehm, non devo farmi vedere a Caldwell. Per un po'.»
«Perché?»
«Lo spaccio di droga non c'entra.»
«C'entrano per caso le tue nocche sbucciate?» L'umano si affrettò a
nascondere il braccio dietro la schiena. «Me l'immaginavo. Domanda: se devi
stare nascosto cosa cavolo ci facevi da Screamer's, stasera?»
«Diciamo solo che volevo fare un acquisto a titolo personale.»
«Sei un idiota se ti fai con quello che vendi.» E un pessimo candidato per
quello che Lash aveva in mente. Non voleva entrare in affari con un tossico,
«Non era droga.»
«Erano dei documenti falsi?»
«Forse.»
«Hai trovato quello che cercavi? Al club?» «No.»
«Per quello posso aiutarti io.» La Società aveva la sua bella plastificatrice,
per l'amor del cielo. «Ecco la mia proposta. I miei uomini, quelli alla tua
sinistra e alle tue spalle, lavoreranno con te. Anche se non puoi farti vedere
per strada puoi procurarti la merce e loro possono movimentarla dopo che gli
avrai insegnato i trucchi del mestiere.» Lash lanciò un'occhiata a Mr D. «La
mia colazione?»
Mr D posò la pistola accanto al cappello da cowboy, che si toglieva solo
quand'era in casa, e poi accese il gas sotto una padella sul fornelletto.
«Di quanti soldi stiamo parlando?» s'informò l'umano.
«Cento bigliettoni, come primo investimento.»
Gli occhi del tipo, come due slot machine, fecero ding-ding- ding tutti
eccitati. «Be'... che cavolo, per aprire le danze basta e avanza. Ma io cosa ci
guadagno?»
«Compartecipazione agli utili. Settanta per me e trenta per te. Su tutte le
vendite.»
«Come faccio a sapere che posso fidarmi di te?»
«Non puoi.»
Quando Mr D mise sul fuoco una fetta di bacon, la stanza si riempì del
sibilo e dello sfrigolio del grasso; Lash sorrise a quel concerto.
L'umano si guardò intorno, e praticamente gli si poteva leggere nel
pensiero: un capanno sperduto a casa del diavolo e quattro tizi pronti a
neutralizzarlo, almeno uno dei quali aveva una pistola capace di trasformare
una mucca in tanti medaglioni di carne trita.
«Okay. Sì. Ci sto.»
Che poi era l'unica risposta possibile, naturalmente.
Lash rimise la sicura ¿la pistola e, quando la posò sul tavolo, l'umano
strabuzzò gli occhi. «E dai, non dirmi che non sapevi che ti tenevo sotto tiro.
Ma per favore.»
«Sì. Okay. Giusto.»
Lash si alzò e girò intorno al tavolo. Avvicinatosi al tizio, tese la mano
dicendo, «Come ti chiami, signor Aquila sul Giubbotto?»
«Nick Carter.»
Lash scoppiò a ridere. «Riprova, testa di cazzo. Voglio il tuo vero nome.»
«Bob Grady. Tutti mi chiamano Bobby G.»
Si strinsero la mano e Lash ci diede dentro di brutto, stritolando senza pietà
quelle nocche malconce. «Lieto di fare affari con te, Bobby. Io sono Lash. Ma
puoi chiamarmi Dio.»
John Matthew scrutava la clientela nel settore VIP dello ZeroSum, non
perché fosse a caccia di gnocca, come Qhuinn, e neanche per cercare di
indovinare chi stava puntando Qhuinn, come Blay.
No, John aveva le sue fisse.
Xhex di solito passava ogni mezz'ora, ma dopo essere stata avvicinata dal
suo buttafuori ed essere uscita in tutta fretta, qualche ora prima, non si era
più vista.
Quando una rossa si avvicinò con passo felpato, Qhuinn si agitò sul
divanetto, battendo nervosamente il piede sotto il tavolo. L'umana era alta
quasi un metro e ottanta e aveva due gambe da gazzella, lunghe, sottili e
bellissime. E non era una professionista... era al braccio di uno con l'aria da
uomo d'affari.
Il che non significava che non la desse via per soldi, ma che lo faceva in un
modo più legale chiamato "relazione".
«Merda», bofonchiò Qhuinn, con uno sguardo predatore negli occhi di due
colori diversi.
John gli diede un colpetto alla gamba e nella lingua dei segni disse, Senti,
perché non te ne vai sul retro con qualcuno. Mi stai facendo impazzire tanto sei
nervoso.
Qhuinn indicò la lacrima tatuata sotto l'occhio. «Non posso lasciarti da solo.
Mai. Funziona così quando hai un ahstrux nohstrum.»
Sì, ma se non ti sbrighi a fare sesso non mi sarai di nessuna utilità.
Qhuinn seguì con gli occhi la rossa che si sistemava la minigonna per
potersi sedere senza mostrare quella che di sicuro era solo una ceretta
brasiliana.
La donna si guardò intorno senza interesse... finché arrivò a Qhuinn.
Appena lo vide, i suoi occhi si illuminarono neanche avesse trovato un
affarone da Neiman Marcus. Nessuna sorpresa. Capitava lo stesso alla
maggioranza delle donne e delle vampire,ed era comprensibile. Qhuinn
vestiva in modo semplice, ma parecchio tosto: camicia button-down nera
infilata dentro i calzoni Zbrand blu scuro, anfibi neri, grossi piercing a
borchia di metallo nero su tutto il lobo dell'orecchio, capelli neri stile punk,
con gli spike dritti in testa, e di recente si era fatto anche un piercing in mezzo
al labbro inferiore, un anellino nero.
Dava l'idea di uno che tiene sulle ginocchia il giubbotto di pelle perché
dentro ci tiene le pistole.
Cosa che in effetti era.
«Naa, sto a posto così», borbottò Qhuinn prima di scolarsi la sua Corona.
«Le rosse non mi piacciono.»
Blay distolse brusco lo sguardo, fingendo un improvviso interesse per una
brunetta. La verità era che a lui piaceva una sola persona, e quella persona - il
suo migliore amico - lo aveva respinto con tutta la gentilezza e la fermezza
possibili.
Evidentemente Qhuinn era sincero quando diceva che i capelli gli
piacevano.
Quand'è l'ultima volta che sei stato con qualcuno? chiese a gesti John.
«Non so.» Qhuinn fece segno alla cameriera di portare un altro giro di birre.
«E passato un po' di tempo.»
John cercò di fare mente locale e si rese conto che non succedeva da...
Cristo, dall'estate precedente, con quella tipa da Abercrombie & Fitch.
Considerato che Qhuinn di solito era capace di farsi almeno tre persone per
sera, era un'astinenza parecchio lunga, ed era dura immaginare che una dieta
regolare a base di seghe riuscisse a tenerlo tranquillo. Merda, non allungava
le mani neanche quando si nutriva dalle Elette, anche se gli tirava fino a fargli
venire i sudori freddi. D'altra parte, tutti e tre si nutrivano dalla stessa
femmina contemporaneamente e, per quanto non avesse nessun problema a
esibirsi in pubblico, Qhuinn non si calava i calzoni per rispetto nei confronti
di Blay e di John.
Sul serio, Qhuinn, cosa cavolo pensi che possa succedermi? C'è qui Blay.
«Wrath ha detto che devo stare sempre con te. Quindi devo stare. Sempre.
Con. Te.»
Credo che tu la stia prendendo troppo sul serio. Decisamente troppo sul serio.
All'altra estremità della zona VIP la gazzella dalla chioma fiammeggiante
cambiò posizione sul divanetto in modo da mettere in mostra tutto il ben di
dio che aveva sotto la cintola; adesso le belle gambe vellutate, uscite da sotto
il tavolo, erano in bella vista.
Questa volta, quando Qhuinn cambiò posizione, era chiaro che stava
risistemando qualcosa di duro all'altezza dell'inguine. E non era una delle sue
armi.
Per l'amor del cielo, Qhuinn. Non sto dicendo che dev'essere per forza quella là, ma
trovatene una con cui sfogarti...
«Ha detto che sta bene così», intervenne Blay. «Lascialo in pace.»
«Un modo ci sarebbe», disse Qhuinn spostando su John gli occhi spaiati.
«Potresti venire con me. Mica per fare qualcosa tra noi due, lo so che certe
cose non ti interessano, ma potresti portarti qualcuno anche tu, se volessi.
Potremmo farlo in uno dei bagni privati, e tu potresti chiuderti dentro il
gabinetto, così non potrei vederti. Basta che lo dici, okay? Io non tornerò più
sull'argomento.»
Qhuinn distolse lo sguardo come se niente fosse. Era difficile non volergli
bene. La sollecitudine, come la maleducazione, possono assumere molte
forme diverse, e la cortese offerta di una bella scopatina in coppia era una
specie di gentilezza: sia Qhuinn che Blay sapevano perché, a distanza di otto
mesi dalla sua transizione, John non era mai stato con una femmina. Lo
sapevano, eppure continuavano a frequentarlo.
Sganciare la bomba che John aveva tenuto segreta per tanto tempo era stata
l'ultima cattiveria di Lash prima di morire.
E il motivo per cui Qhuinn l'aveva ammazzato.
Quando la cameriera portò le birre, John guardò la rossa e, con sua
sorpresa, lei gli sorrise incrociando il suo sguardo.
Qhuinn ridacchiò sommessamente. «Forse non sono l'unico a piacerle.»
John si portò la Corona alle labbra e bevve una sorsata per nascondere
l'imbarazzo. Aveva voglia di fare sesso e, come Blay, voleva farlo con
qualcuno in particolare. Ma essendosi già ammosciato una volta davanti a
una femmina nuda e consenziente, non aveva nessuna fretta di ritrovarsi
nella stessa situazione, specie con la persona che gli interessava.
Che cavolo. No. Con Xhex mica potevi rischiare di bloccarti mentre le
leccavi la patata. Fare cilecca per paura di andare fino in fondo? Il suo ego
non si sarebbe mai ripreso...
Un fremito di agitazione tra la folla lo spinse a lasciar perdere i povero-me e
a raddrizzarsi sul divanetto. Due Mori giganteschi stavano scortando
attraverso il settore VIP un tipo dagli occhi spiritati. Lo tenevano per le
braccia e quello ballava il tip tap con le sue scarpe costose, i piedi che quasi
non toccavano terra, e la bocca che, a sua volta, in qualche modo imitava un
numero alla Fred Astaire, anche se per via della musica John non riusciva a
sentire cosa stesse dicendo.
Il terzetto si infilò dentro l'ufficio privato in fondò al locale.
John bevve un altro sorso di Corona con gli occhi fissi sulla porta che si
chiudeva. Ai tizi che venivano portati lì dentro capitavano brutte cose. Specie
se ci venivano trascinati di peso da quella coppia di guardie del corpo.
All'improvviso tutte le voci si abbassarono nella zona VIP, tanto che la
musica parve subito molto alta.
John capì chi era arrivato, prima ancora di voltare la testa.
Rehvenge entrò da una porta laterale, con un ingresso silenzioso ma
plateale quanto una granata che esplode: in mezzo agli habitué tutti in tiro,
con la bella appesa al braccio, le prostitute col loro ben di dio in mostra, in
vendita al miglior offerente, e le cameriere trafelate che andavano avanti e
indietro coi vassoi, Rehv faceva apparire minuscolo lo spazio circostante, non
solo perché era un colosso in pelliccia di ermellino, ma anche per come si
guardava intorno coi suoi scintillanti occhi color ametista. Vedeva tutti, ma
non gliene fregava niente di nessuno. Rehv - o il Reverendo, come lo
chiamava la clientela umana –era il signore della droga e un pappone che se
ne infischiava altamente della stragrande maggioranza della gente. Il che
significava che era capace di fare - e spesso faceva - quel cazzo che gli pareva.
Specialmente ai tipi come quel ballerino di tip tap.
Cazzo, la serata sarebbe finita male per quel poveretto.
Passando di fianco al loro tavolo, Rehv salutò con un cenno del capo John e
i suoi due amici, e loro ricambiarono il saluto alzando le Corona in segno di
rispetto. Rehv era una specie di alleato per la confraternita, essendo stato
nominato leahdyre del consiglio della glymera dopo le incursioni dei lesser...
perché era l'unico, tra quegli aristocratici, ad avere le palle di restare lì a
Caldwell.
Così il tipo che se ne fregava di tutto e di tutti era responsabile di un sacco
di cose.
John si voltò verso il cordone di velluto che delimitava l'area VIP, senza
neanche curarsi di passare inosservato. La presenza di Rehv significava che
Xhex doveva essere...
E infatti eccola, all'ingresso del settore VIP, uno schianto, almeno ai suoi
occhi: quando si chinò per permettere a uno dei buttafuori di bisbigliarle
qualcosa all'orecchio, il suo fisico era così tonico che i muscoli dell'addome
trasparivano distintamente sotto la seconda pelle della maglietta attillata.
A proposito di agitarsi sulla sedia. Adesso era lui a dover risistemare
qualcosa dentro i calzoni.
Guardandola procedere a passo di carica verso l'ufficio di Rehv, tuttavia, la
libidine di John si raggelò. Xhex non sorrideva mai molto, ma adesso era
torva. Proprio come Rehv.
Chiaramente qualcosa bolliva in pentola e John non riuscì a soffocare
l'impulso da "cavaliere con la scintillante armatura" che gli si accese nel petto.
Ma su, andiamo, Xhex non aveva bisogno di un salvatore. Semmai sarebbe
stata lei in sella al cavallo, a combattere contro il drago.
«Sei un filo nervosetto, mi pare», disse sottovoce Qhuinn mentre Xhex
entrava nell'ufficio. «Tieni a mente la mia offerta, John. Non sono il solo a
soffrire, o sbaglio?»
«Scusate un attimo», disse Blay, alzandosi e tirando fuori le sue Dunhill
rosse e l'accendino d'oro. «Ho bisogno di una boccata d'aria fresca.»
Di recente aveva cominciato a fumare, un'abitudine che Qhuinn
disapprovava malgrado il fatto che i vampiri non si ammalavano di cancro.
John però lo capiva. La frustrazione doveva trovare un qualche sfogo, e
quello che potevi fare da solo nella tua cameretta o insieme agli amici in sala
pesi non bastava.
Che cavolo, negli ultimi tre mesi tutti e tre avevano messo su una montagna
di muscoli; spalle, braccia e cosce non stavano più nei vestiti. Veniva da
pensare che i pugili non avevano tutti i torti a evitare il sesso prima degli
incontri. Se continuavano così, tra non molto li avrebbero presi per dei
professionisti del wrestling.
Con gli occhi fissi sulla sua Corona, Qhuinn disse, «Vuoi uscire di qui? Per
favore dimmi che vuoi uscire di qui.»
John lanciò un'occhiata alla porta dell'ufficio di Rehv.
«Allora hai deciso di restare», bofonchiò Qhuinn facendo segno a una delle
cameriere, che si avvicinò di volata. «Mi servirà un'altra di queste. O magari
una cassa intera.»
Capitolo 10
Rehv chiuse la porta del suo ufficio e fece un sorriso tirato, attento a non
mostrare le zanne. Anche senza l'esibizione dei canini, tuttavia, l'allibratore
appeso tra Trez e iAm era abbastanza sveglio da sapere che era nella merda
fino al collo.
«Reverendo, che cos'ho fatto? Perché mi ha fatto portare qui così?» disse
convulsamente. «Ero lì a mandare avanti la mia attività per lei e
all'improvviso questi due...»
«Ho sentito una cosa interessante su di te», lo interruppe Rehv, facendo il
giro della scrivania.
Quando si sedette, Xhex entrò nell'ufficio, gli occhi grigi penetranti. Dopo
aver chiuso la porta ci si appoggiò contro, era meglio di qualsiasi serratura
quando si trattava di tenere dentro gli allibratori disonesti e fuori gli occhi
indiscreti.
«È una bugia, una bugia bella e buona...»
«Non ti piace cantare?» Rehv si appoggiò all'indietro sulla poltroncina, il
suo corpo intorpidito trovò una posizione familiare dietro la scrivania nera.
«Non sei stato tu a fare un numero alla Tony Bennett per la clientela di Sal's,
l'altra sera?»
L'allibratore si accigliò. «Be', sì... ho scaldato un po' le corde vocali.»
Rehv annuì in direzione di iAm, che, come al solito, era impassibile. Non
lasciava mai trapelare la minima emozione, salvo quando si trattava di un
cappuccino a regola d'arte, allora manifestava un barlume di gioia. «Il mio
socio, qui... ha detto che hai cantato proprio bene. Da vero animale da
palcoscenico. Cos'è che ha cantato, iAm?»
La voce di iAm era tutta James Earl Jones, bassa e bella da impazzire.
«Three Coins in the Mountain.»
L'allibratore si tirò su i calzoni con un'aria della serie "be' sa com'è". «Ho un
bella estensione. Ho ritmo.»
«E così sei un tenore come il buon vecchio Mister Bennett, eh?» Rehv si
tolse l'ermellino. «I tenori sono i miei preferiti.»
«Già.» L'allibratore lanciò un'occhiata ai Mori. «Senti, ti spiace dirmi di cosa
si tratta?»
«Voglio che canti per me.»
«Vuol dire, tipo, come per una festa? Perché farei qualsiasi cosa per lei, lo
sa, capo. Bastava chiedere... sì, insomma, non era necessario tutto questo.»
«No, non per una festa, anche se tutti e quattro ci godrono lo spettacolo. È
per ripagarmi di quello che hai sgraffignato il mese scorso.»
L'allibratore assunse un'aria afflitta. «Io non ho sgraffig...»
«Sì, invece. Vedi, iAm è un contabile fantastico. Tutte le settimane gli
consegni i tuoi resoconti. Quanto hai puntato, su quali squadre e con quali
guadagni. Credi che nessuno faccia i conti? Sulla base delle partite del mese
scorso avresti dovuto versare... qual era la cifra, iAm?»
«Centosettantottomilaquattrocentoottantadue.»
«Quello che ha detto lui.» Rehv ringraziò brevemente iAm con un cenno del
capo. «E invece hai versato... quant'era?»
«Centotrentamilanovecentoottantadue», rispose prontamente iAm.
L'allibratore fece subito per difendersi. «Si sbaglia. Ha aggiunto...»
Rehv scosse la testa. «Indovina che differenza fa... non che tu non lo sappia
già. iAm?»
«Quarantasettemilacinquecento.»
«Il che, guarda caso, è venticinque verdoni su una quota percentuale del
novanta per cento. Giusto, iAm?» Il Moro annuì reciso e Rehv, facendo forza
sul bastone, si alzò in piedi. «Che poi, a sua volta, è il tasso di favore
applicato dalla mala di Caldie. Trez allora è andato a scavare un po' e che
cosa ha scoperto?»
«Il mio amico Mike dice di aver prestato venticinque bigliettoni a questo
tizio, appena prima del Rose Bowl.»
Rehv lasciò il bastone sulla poltroncina e fece il giro della scrivania, tenendo
una mano sulla superficie per non perdere l'equilibrio. I Mori si misero in
posizione ai due lati dell'allibratore, afferrandolo di nuovo per le braccia.
Rehv si fermò proprio di fronte a lui. «E allora te lo chiedo un'altra volta.
Credevi che nessuno verificasse i conti?»
«Reverendo, capo... la prego, avevo intenzione di restituir...»
«Oh, sì che lo farai, e con gli interessi che chiedo agli stronzi di merda che
cercano di fregarmi. Il centocinquanta per cento da
versare alla fine di questo mese, o tua moglie si vedrà recapitare a pezzetti
il suo bel maritino. Ah, sei licenziato.»
L'allibratore scoppiò in lacrime, e non erano lacrime di coccodrillo. Erano
lacrime vere, del tipo che ti fa gocciolare il naso e gonfiare gli occhi. «La
prego... volevano farmi del male...»
Rehv fece scattare in avanti una mano e lo agguantò in mezzo alle gambe. Il
guaito da barboncino gli confermò che, anche se lui non sentiva niente,
l'allibratore invece sentiva eccome, e la pressione era nel punto giusto.
«Non mi piace essere derubato», gli bisbigliò all'orecchio. «Mi manda in
bestia. E se credi che quello che la mafia voleva farti era brutto, ti garantisco
che io sono capace di peggio. E adesso... voglio che canti per me, figlio di
puttana.»
Rehv gli torse il pacco con forza e l'allibratore gridò a squarciagola, un urlo
alto e stridulo che riecheggiò contro il basso soffitto della stanza. Quando lo
strillo cominciò ad affievolirsi perché aveva esaurito la sua riserva d'aria,
Rehv allentò la presa dandogli l'opportunità di rinfrescare le sue famose
corde vocali ansimando un po'. E poi...
Il secondo grido fu più forte e stridulo del primo, a dimostrazione del fatto
che i cantanti effettivamente migliorano, dopo un po' di riscaldamento.
L'allibratore si contorceva e gemeva nella stretta dei Mori e Rehv non
mollò,il suo lato symphath osservava rapito come davanti al più bello degli
spettacoli televisivi.
Ci vollero circa nove minuti prima che l'allibratore perdesse conoscenza.
Quando svenne, Rehv lasciò andare la presa e tornò alla sua sedia. A un
suo cenno del capo, Trez e iAm portarono l'umano fuori nel vicolo attraverso
l'uscita posteriore, dove il freddo prima o poi lo avrebbe fatto rinvenire.
Nel vederli uscire, Rehv fu assalito all'improvviso dall'immagine di Ehlena
che teneva in equilibrio tra le braccia tutte quelle scatole di dopamina, mentre
entrava in sala visita. Cosa avrebbe pensato di lui se avesse saputo cosa
faceva per mandare avanti i suoi affari? Cosa avrebbe detto se avesse saputo
che, quando diceva a un allibratore che o pagava o sua moglie avrebbe
ricevuto per posta celere dei pacchi grondanti sangue sui gradini di casa, non
era solo una vuota minaccia? Cosa avrebbe fatto se avesse saputo che era
prontissimo ad affettare di persona il suddetto allibratore, o a ordinare a
Xhex, Trez o iAm di farlo a fettine al posto suo?
Be', conosceva già la risposta, no?
Risentì nella sua mente la voce di lei, quella voce chiara e incantevole che
diceva: Meglio che lo tenga lei. Per qualcuno disposto a usarlo, prima o poi.
Ehlena non conosceva i particolari, certo, ma era stata abbastanza
intelligente da rifiutare il suo biglietto da visita.
Rehv si concentrò su Xhex, che non si era mossa dalla sua postazione contro
la porta. Nel silenzio che si protraeva, continuava a fissare la moquette nera a
pelo raso, tracciando un cerchio col tallone dell'anfibio.
«Cosa c'è?» fece Rehv. Quando Xhex non lo guardò, intuì che si stava
sforzando di riprendersi. «Cosa cazzo è successo?»
Trez e iAm rientrarono nell'ufficio e andarono a piazzarsi contro il muro
nero di fronte alla scrivania di Rehv. Senza dire una parola, incrociarono le
braccia sul petto enorme.
Il silenzio era tipico delle Ombre... ma se a quello si aggiungeva
l'espressione tesa di Xhex e l'esercizio ginnico che faceva con quell'anfibio,
doveva essere successo qualcosa di brutto.
«Parla. Subito.»
Xhex lo guardò negli occhi. «Chrissy Andrews è morta.»
«Come.» Ma già lo sapeva.
«Picchiata e strangolata a morte nel suo appartamento. Ho dovuto andare
all'obitorio a identificare il cadavere.»
«Figlio di puttana.»
«Me ne occupo1 io.» Xhex non gli stava chiedendo il permesso; qualunque
cosa dicesse Rehv, avrebbe braccato quel pezzo di merda del fidanzato di
Chrissy. «E voglio farlo alla svelta.»
Generalmente era Rehv a comandare, ma in quel caso non aveva intenzione
di metterle i bastoni tra le ruote. Per lui le ragazze che lavoravano al club non
erano solo una fonte di reddito... Erano dipendenti che gli stavano a cuore e
in cui si immedesimava profondamente. Così, se una si faceva male, fosse per
colpa di un cliente, un fidanzato o un marito, lui ci teneva a vendicarla.
Le puttane meritano rispetto, e quelle che lavoravano per lui l'avrebbero
ottenuto.
«Prima dagli una lezione», ringhiò Rehv.
«Non preoccuparti.»
«Merda... è colpa mia», mormorò Rehv prendendo il tagliacarte dalla
scrivania. Era a forma di pugnale ed era anche tagliente come un'arma.
«Avremmo dovuto ucciderlo tempo fa.»
«Lei sembrava stare meglio.»
«Forse lo stava solo nascondendo meglio.»
Tutti e quattro rimasero in silenzio per un po'. C'erano molte perdite nella
loro professione - la gente morta ammazzata non era certo una novità - ma,
per la maggior parte, lui e la sua squadra erano il segno meno dell'equazione:
erano loro a far fuori gli altri. La perdita di uno dei loro per mano di qualcun
altro era dura da digerire.
«Vuoi gli aggiornamenti di stasera?» chiese Xhex.
«Per ora no. Anch'io ho una notiziola per voi.» Sforzandosi di mettere in
moto il cervello, guardò Trez e iAm. «Quello che sto per dire scatenerà un
gran casino e voglio dare a tutti e due la possibilità di tirarsene fuori. Xhex, tu
non hai questa possibilità, spiacente.»
Trez e iAm non si mossero, cosa che non lo sorprese affatto. Trez gli mostrò
anche il dito medio. Neanche questo fu una sorpresa.
«Sono andato nel Connecticut», disse Rehv.
«Sei andato anche in clinica», aggiunse Xhex. «Perché?»
Il GPS a volte era una fregatura. Difficile avere un minimo di privacy.
«Lascia perdere quella cazzo di clinica. Ascolta, devi fare un lavoretto per
me.» «Lavoretto in che senso?»
«Pensa al ragazzo di Chrissy come a un cocktail prima di cena.» Xhex
accolse la battuta con un sorriso gelido. «Spara.» Rehv fissò la punta del
tagliacarte; lui e Wrath avevano riso perché tutti e due ne avevano uno
uguale: il re era passato a trovarlo dopo i raid dell'estate, per discutere di
affari del consiglio, e aveva visto il tagliacarte sulla scrivania. Scherzando,
Wrath aveva detto che di giorno tutti e due comandavano col pugnale in
mano, anche se in realtà tra le dita tenevano una penna.
Era la sacrosanta verità. Anche se Wrath dalla sua aveva la moralità, mentre
Rehv aveva solo l'interesse personale.
Così, non era stata la virtù a ispirargli la decisione che aveva preso e la via
da percorrere. Era, come al solito, ciò che gli tornava più comodo.
«Non sarà facile», mormorò.
«I lavori divertenti non lo sono mai.»
Rehv si concentrò sulla punta affilata del tagliacarte. «Questo... non è per
divertimento.»
Con la nottata che volgeva al termine e il suo turno che stava per finire,
Ehlena si fece prendere dall'agitazione. L'ora dell'appuntamento era vicina.
Doveva decidersi. Il suo cavaliere sarebbe passato a prenderla alla clinica nel
giro di venti minuti.
Dio, aveva ricominciato a tentennare.
Lui si chiamava Stephan. Stephan, figlio di Tehm, anche se lei non
conosceva né lui né la sua famiglia. Era un civile, non un aristocratico, ed era
capitato alla clinica con suo cugino, che si era tagliato la mano spaccando la
legna per il camino. Mentre preparava i documenti per la dimissione, Ehlena
aveva chiacchierato con Stephan delle solite cose di cui parlano i single: a lui
piacevano i Radiohead, e anche a lei. A lei piaceva la cucina indonesiana,
eanche a lui. Lui lavorava nel mondo umano, si occupava di
programmazione di computer, grazie al telelavoro e al pendolarismo virtuale.
Lei era un'infermiera, ma va? Lui viveva a casa dei suoi genitori, figlio unico
in una famiglia solidamente civile - o quanto meno le erano parsi solidamente
civili, suo padre si occupava di costruzioni per alcune imprese edili di
proprietà di vampiri, sua madre insegnava l'Antico Idioma da libera
professionista.
Bello. Normale. Affidabile.
Considerato quello che gli aristocratici avevano fatto alla salute mentale di
suo padre, Ehlena pensava che con loro andava sul sicuro e, quando Stephan
l'aveva invitata a prendere un caffè, lei aveva detto di sì, avevano deciso per
quella sera e si erano scambiati i numeri di cellulare.
Ma adesso cosa doveva fare? Chiamarlo e dirgli che non poteva per motivi
familiari? Andare comunque e stare in pensiero per suo padre?
Una telefonata veloce a Lusie dallo spogliatoio, tuttavia, la rassicurò: le
notizie da casa erano buone, suo padre aveva fatto una bella dormita e adesso
lavorava tranquillo alle sue carte, alla scrivania.
Mezz'ora in una tavola calda aperta tutta notte. Magari un dolcetto in due.
Che male c'era?
Quando si decise una volta per tutte, non le piacque l'immagine che le
attraversò la mente in un lampo. Il petto nudo di Rhev con quelle stelle rosse
tatuate sopra non era proprio il massimo a cui pensare mentre si apprestava a
uscire con un altro.
Adesso doveva concentrarsi su una cosa sola: levarsi l'uniforme da
infermiera e fare almeno finta di migliorare il suo aspetto.
Con i colleghi del turno di giorno in arrivo e quelli del turno di notte in
partenza, si cambiò infilandosi la gonna e il maglioncino che si era portata da
casa...
Aveva dimenticato le scarpe.
Grandioso. Le suole bianche di gomma sono così sexy.
«Qualcosa non va?» chiese Catya.
Ehlena si voltò. «C'è qualche speranza che queste due barche bianche che
ho ai piedi non rovinino completamente la mia mise?»
«Ehm... onestamente? Non sono poi così male.»
«Non sei per niente brava a dire bugie.»
«Ci ho provato.»
Ehlena infilò l'uniforme nella borsa, si diede una sistemata ai capelli e
controllò il trucco. Naturalmente si era dimenticata anche eyeliner e mascara,
così su quel fronte la cavalleria era rimasta senza cavalli, per così dire.
«Sono contenta di vedere che vai», disse Catya cancellando la lavagna coi
turni di notte.
«Considerato che sei la mia capa, la cosa mi preoccupa. Preferirei che fossi
felice quando mi vedi arrivare in clinica.»
«No, il lavoro non c'entra. Sono contenta che stasera esci.»
Ehlena si accigliò e si guardò intorno. Per qualche miracolo erano da sole.
«Chi ti dice che non sto andando a casa?»
«Una che sta andando a casa non si cambia l'uniforme qui. E non si
preoccupa se le scarpe s'intonano con la gonna. Ti risparmio la domanda
fatidica su chi è lui.»
«Meno male.»
«A meno che non ti vada di dirmelo.»
Ehlena scoppiò a ridere. «No, preferisco tenerlo per me. Ma se ci fossero
degli sviluppi... vuoterò il sacco.»
«Ti prendo in parola.» Catya andò al suo armadietto e rimase ferma a
fissarlo.
«Tutto okay?» chiese Ehlena.
«Odio questa maledetta guerra. Odio vedere arrivare i morti e vedere sulle
loro facce il dolore che hanno dovuto patire.» Catya aprì l'armadietto e tirò
fuori il parka. «Scusa, non volevo fare la lagna.»
Ehlena si avvicinò e le mise una mano sulla spalla. «So perfettamente come
ti senti.»
Si guardarono negli occhi per un attimo. Poi Catya si schiarì la gola.
«Dai, vai. Il tuo ragazzo ti aspetta.»
«Passa a prendermi qui.»
«Ohhh, allora forse resterò nei paraggi e mi fumerò una sigaretta qua
fuori.»
«Tu non fumi.»
«Accidenti, m'è andata di nuovo male.»
Uscendo, Ehlena passò dal banco accettazione per accertarsi di non dovere
fare altro prima del cambio di turno. Era tutto a posto; soddisfatta, varcò le
porte e salì le scale finché finalmente fu libera, fuori dalla clinica.
La notte era passata dal freddo al gelo e l'aria profumava di azzurro,
sempre che un colore possa avere un profumo: in ogni caso sentiva qualcosa
di molto fresco, ghiacciato e trasparente mentre inspirava a fondo e soffiava
fuori nuvolette di vapore. A ogni respiro le sembrava di far entrare nei
polmoni la distesa color zaffiro del cielo sopra la sua testa e che le stelle
saltellassero dentro al suo corpo come tante scintille.
Anche le ultime infermiere se ne andarono, smaterializzandosi o
allontanandosi in macchina a seconda di quello che avevano in programma.
Ehlena salutò le ritardatane; poi anche Catya uscì e se ne andò.
Ehlena batté i piedi per terra e controllò l'orologio. Stephan era in ritardo di
dieci minuti. Niente di grave.
Appoggiandosi contro il rivestimento esterno di alluminio, sentì il sangue
cantare nelle vene, una strana sensazione di libertà le gonfiava il petto al
pensiero di andare da qualche parte con un maschio tutto suo...
Sangue. Vene.
Rehvenge non si era fatto medicare il braccio.
Quel pensiero fece irruzione nella sua mente, indugiandovi come l'eco di
un rumore assordante. Non si era fatto vedere il braccio. Nella cartella non
c'era nessun accenno all'infezione e Havers era scrupoloso nelle sue
annotazioni come lo era con le uniformi del personale, la pulizia delle stanze
e la gestione delle scorte.
Quando era tornata dalla farmacia con le medicine, Rehvenge aveva
addosso la camicia coi polsini abbottonati e lei aveva dato per scontato che se
l'era messa perché la visita era finita. Adesso era pronta a scommettere che si
era rivestito subito dopo il prelievo che gli aveva fatto.
Salvo che... non erano affari suoi, giusto? Rehvenge era maggiorenne e
vaccinato e aveva tutto il diritto di prendere decisioni sbagliate sulla propria
salute. Proprio come quel tossico in overdose che per un pelo ce l'aveva fatta
a superare la notte, e come tutti quei pazienti che facevano di sì con la testa
quando avevano davanti il dottore ma che poi, una volta tornati a casa, non
seguivano le prescrizioni o le cure postoperatorie.
Se qualcuno non voleva essere salvato, lei non poteva farci niente. Niente.
Era una delle tragedie più grandi del suo lavoro. L'unica cosa che poteva fare
era presentare conseguenze e alternative e sperare che il paziente scegliesse
in modo saggio.
Un venticello gelido le s'insinuò sotto la gonna facendole invidiare la
pelliccia di Rehvenge. Si sporse oltre l'angolo della clinica cercando di vedere
in fondo al viale d'accesso, in cerca di fari di automobile.
Dieci minuti dopo ricontrollò l'ora.
E dopo altri dieci minuti alzò di nuovo il polso.
Le aveva dato buca.
Non era una sorpresa. L'appuntamento era stato deciso così, sui due piedi,
e poi non si conoscevano nemmeno, no?
Investita da un'altra folata gelida, Ehlena tirò fuori il cellulare e digitò: Ciao,
Stephan... mi spiace di non averti visto, stasera. Magari sarà per un'altra volta. E.
Rimise in tasca il telefonino e si smaterializzò verso casa. Invece di entrare
subito si strinse nel cappotto, camminando avanti e indietro lungo il
marciapiede dissestato che correva lungo il fianco della casa, fino alla porta
sul retro. Un'altra raffica ghiacciata la colpì in faccia.
Le bruciavano gli occhi.
Diede le spalle al vento e i capelli svolazzarono in avanti, quasi cercassero
di sfuggire al freddo. Ehlena rabbrividì.
Fantastico. Quando le si appannò la vista, non ebbe più la scusa del vento
forte.
Dio, ma piangeva? Per quello che forse era solo un malinteso? Con un tizio
che conosceva appena? Perché le importava tanto?
Ah, ma lui non c'entrava affatto. Il problema era lei. Non sopportava di
ritrovarsi allo stesso punto di partenza di quando era uscita di casa: da sola.
In cerca di un appiglio, nel vero senso della parola, allungò la mano verso
la maniglia della porta di servizio, ma non riusciva a decidersi a entrare.
L'immagine di quella squallida cucina troppo in ordine, il ricordo degli
scalini scricchiolanti che scendevano in cantina e l'odore polveroso di
scartoffie nella stanza di suo padre erano familiari come il suo riflesso allo
specchio. Quella notte era tutto fin troppo chiaro, un lampo accecante negli
occhi, un rombo assordante nelle orecchie, un tanfo irrespirabile nelle narici.
Lasciò ricadere il braccio. Quell'appuntamento era come la carta del
Monopoli con scritto "uscite gratis di prigione", la zattera che ti permette di
lasciare l'isola, la mano che si sporge oltre l'orlo della scogliera a cui sei
aggrappato e da cui rischi di precipitare.
Meglio di qualunque altra cosa, la disperazione l'aiutò a mettere a fuoco il
quadro generale. Non aveva senso uscire con qualcuno, se quello era il suo
stato d'animo. Non era giusto per il suo accompagnatore né salutare per lei.
Se mai Stephan l'avesse cercata di nuovo, gli avrebbe detto semplicemente
che aveva troppo da fare...
«Ehlena? Stai bene?»
Ehlena arretrò con un balzo dalla porta che evidentemente era appena stata
spalancata. «Lusie! Scusa. No, niente, solo... solo troppi pensieri. Come sta
papà?»
«Bene, proprio bene. Adesso si è riaddormentato.»
Lusie uscì di casa e chiuse la porta per non far uscire il caldo dalla cucina.
Dopo due anni era una figura familiare in modo addirittura struggente,
l'abbigliamento bohémien e i lunghi capelli sale e pepe erano un conforto.
Come al solito aveva la borsa con le medicine in una mano e la grossa
borsetta a tracolla sull'altra spalla. Dentro la borsa con le medicine c'era uno
sfigmomanometro per misurare la pressione, uno stetoscopio e alcuni farmaci
piuttosto blandi - tutte cose che Ehlena le aveva visto usare. Dentro la
borsetta c'era il cruciverba del New York Times, delle gomme da masticare
alla menta Wrigley, un portafogli e il rossetto color : pesca che Lusie si
passava regolarmente sulle labbra. Ehlena sapeva del cruciverba perché Lusie
e suo padre lo facevano insieme, del chewing-gum per via degli incarti che
trovava nella pattumiera, e del rossetto per ovvi motivi. Sul portafogli aveva
tirato a indovinare.
«Come stai?» Lusie restò in attesa, gli occhi grigi acuti e penetranti. «Sei
tornata un po' presto.»
«Mi ha dato buca.»
Il modo in cui la mano di Lusie atterrò sulla spalla di Ehlena era ciò che la
rendeva una infermiera di prim'ordine: con un semplice tocco riusciva a
trasmettere conforto, calore ed empatia, tutte cose che contribuivano ad
abbassare la pressione, la frequenza cardiaca e l'agitazione.
Tutte cose che aiutavano a snebbiare la mente.
«Mi dispiace», disse Lusie.
«Oh, no, è meglio così. Sì, insomma, chiedo troppo.»
«Davvero? Mi sei sembrata molto equilibrata quando me ne hai parlato.
Dovevate solo andare a prendere un caffè..!»
Per qualche motivo Ehlena disse la verità: «No. Cercavo una scappatoia.
Cosa che non accadrà mai perché io non lascerò mai mio padre.» Ehlena
scosse la testa. «Ad ogni modo, grazie infinite di essere venuta...»
«Una cosa non esclude per forza l'altra. Tu e tuo padre...»
«Apprezzo veramente che stasera tu sia venuta in anticipo. È stato gentile
da parte tua.»
Il sorriso di Lusie, mesto e tirato, era identici a quello che le aveva rivolto
Catya qualche ora prima. «Okay, non insisto, però ho ragione io. Puoi
benissimo avere una relazione e continuare a essere una brava figlia per tuo
padre.» Lusie guardò la porta. «Senti, devi tenere d'occhio la ferita che ha alla
gamba, quella che si è fatto con quel chiodo. Ho cambiato la fasciatura, ma mi
preoccupa. Temo che si stia infettando.»
«Lo farò, e grazie.»
Dopo che Lusie si fu smaterializzata, Ehlena entrò in cucina, chiuse la porta
a chiave e tirò il chiavistello, poi scese nel seminterrato.
Nella sua stanza suo padre dormiva nell'enorme letto vittoriano, la
massiccia testata intagliata assomigliava a quegli archi che incorniciano certe
tombe. Aveva la testa appoggiata su una pila di cuscini di seta bianca, e il
piumino di velluto rosso sangue era ripiegato esattamente a metà del petto.
Sembrava un re a riposo.
Quando la malattia mentale lo aveva stretto tra le sue grinfie, capelli e
barba erano diventati bianchi ed Ehlena si era preoccupata che insorgessero i
cambiamenti tipici del fine-vita. Invece, a distanza di cinquant'anni, il suo
aspetto non era cambiato, il viso era ancora privo di rughe, le mani forti e
salde.
Era così difficile. Non riusciva a immaginare la vita senza di lui. E non
riusciva a immaginare di avere una vita con lui.
Ehlena socchiuse la porta e andò in camera sua, dove si fece la doccia, si
cambiò e si stese sul letto. Tutto ciò che aveva era un letto singolo senza
testiera, un cuscino e lenzuola di cotone, ma il lusso non le importava. Le
serviva un posto dove riposare ogni giorno le sue ossa stanche e basta.
Di solito leggeva uh pochino prima di addormentarsi, ma non oggi. Non ne
aveva proprio la forza. Allungò la mano di lato e spense la lampada,
accavallò le caviglie e allargò le braccia.
Con un sorriso, si rese conto che lei e suo padre dormivano esattamente
nella stessa posizione.
Al buio pensò a Lusie e al modo in cui si preoccupava del taglio di suo
padre. Essere una brava infermiera significava avere a cuore il benessere dei
pazienti, anche dopo che se n'erano andati. Significava spiegare ai familiari
quali cure prestare durante la convalescenza, ed essere sempre disponibili.
Non era il tipo di lavoro che ti lasci alle spalle solo perché hai finito il turno.
Ehlena riaccese la lampada con un clic.
Si alzò e andò al computer da tavolo che aveva ottenuto gratis dalla clinica
quando avevano aggiornato i sistemi informatici. La connessione Internet era
lenta, come sempre, ma alla fine riuscì a entrare nel database della clinica.
Digitò la sua password e avviò una ricerca... poi un'altra. La prima per un
impulso irrefrenabile, la seconda per curiosità.
Dopo averle salvate entrambe, spense il computer e prese il telefono.
Capitolo 11
Alle soglie dell'alba, appena prima che la luce cominciasse a rischiarare il
cielo, a est, Wrath prese forma nei fitti boschi sul versante settentrionale della
montagna della confraternita. A Hunterbred non si era fatto vivo nessuno e
gli imminenti raggi del giorno lo avevano costretto ad andarsene.
I ramoscelli di pino, resi friabili dal freddo, si spezzavano sotto gli stivali,
producendo forti schiocchi. Non c'era ancora la neve a smorzare i rumori, ma
lui la fiutava già nell'aria, sentiva in fondo alle narici il morso del gelo.
L'ingresso nascosto del sancta sanctorum della Confraternita del Pugnale
Nero era in fondo a una grotta. Tastando con le mani, Wrath localizzò il
meccanismo sulla porta di pietra e il pesante portale scivolò dietro la parete
rocciosa. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, Wrath avanzò sulle lisce
lastre di marmo nero.
Obbedienti alla sua volontà, due file di torce si accesero a perdita d'occhio
ai lati del passaggio segreto, illuminando l'imponente cancellata di ferro
montata nel tardo Settecento, quando la confraternita aveva trasformato
quella caverna nella Tomba.
Alla sua vista annebbiata le robuste sbarre del cancello apparivano come
una schiera di sentinelle armate; via via che si avvicinava, le fiamme
guizzanti animavano ciò che in realtà non si muoveva. Con la forza della
mente Wrath spalancò i due battenti e proseguì lungo un corridoio
tappezzato di scaffalature dal pavimento al soffitto, alto una dozzina di metri.
I vasi dei lesser di ogni sorta e qualità erano allineati in una esposizione che
testimoniava generazioni di uccisioni per mano della confraternita; quelli più
antichi erano solo rozzi manufatti trasferiti lì dal Vecchio Continente; metro
dopo metro i contenitori diventavano sempre più moderni, fino a che, giunti
alla seconda cancellata, si trovava robaccia prodotta in serie in Cina e
venduta da Target.
Sugli scaffali non restava più molto spazio, e la cosa lo depresse. Aveva
aiutato con le sue mani a edificare quel ricettacolo di nemici morti, insieme a
Darius, Tohrment e Vishous; tutti e quattro avevano faticato per un mese di
fila, lavorando di giorno e dormendo sulle lastre di marmo del pavimento.
Era stato lui a decidere fino a che profondità scavare e nel costruire il
corridoio con le scaffalature si era spinto ben oltre la lunghezza che riteneva
necessaria. Quando lui e i suoi fratelli avevano finito di erigere tutto quanto e
avevano sistemato i vasi più vecchi, Wrath era convinto che non avrebbero
avuto bisogno di tanto spazio. La guerra sarebbe finita ben prima di riempire
i tre quarti di quello disponibile, non aveva dubbi.
E invece eccolo lì, a distanza di secoli, a cercare un po' di spazio.
Con una funesta premonizione, Wrath valutò con gli occhi semiciechi
l'ultimo spazio rimasto sugli scaffali originari. Era difficile non interpretarlo
come la prova evidente che la guerra stava per giungere al termine, che su
quelle grezze pareti di pietra c'era l'equivalente vampiresco del calendario
finito dei Maya.
Senza il minimo senso di trionfo, Wrath immaginò il momento in cui
l'ultimo vaso dei lesser avrebbe trovato posto accanto agli altri.
L'alternativa era la seguente: o prima si estingueva la razza da proteggere o
prima si estinguevano i fratelli incaricati di proteggerla.
Wrath tirò fuori dal giaccone i tre vasi e li mise tutti insieme in un
gruppetto; poi fece un passo indietro.
Era lui la causa di un gran numero di quei vasi. Prima di diventare re.
«Sapevo che da qualche tempo avevi ripreso a combattere.»
Wrath voltò la testa di scatto nel sentire la voce imperiosa della Vergine
Scriba. Sua Santità fluttuava appena al di là dei cancelli di ferro, a una
trentina di centimetri dal pavimento di pietra, da sotto l'orlo della veste nera
si irradiava la sua luce.
Un tempo quella luce aveva un bagliore accecante. Adesso riusciva a
malapena a proiettare delle ombre.
Wrath tornò a voltarsi verso i vasi. «Allora è questo che intendeva V,
quando ha detto che avrebbe premuto il grilletto.»
«Mio figlio è venuto da me, sì.»
«Ma tu lo sapevi già. E non è una domanda, tanto per chiarire.»
«Già, quelle lei le odia.»
Wrath si voltò e vide V varcare il cancello.
« Be', guarda guarda», disse Wrath. «Il ricongiungimento della madre col
figlio... è solo a un passo.» Lasciò in sospeso il verso parafrasato (Iella
canzone di Paul Simon prima di aggiungere, «O forse no.»
La Vergine Scriba avanzò, muovendosi lenta oltre i vasi. Ai vecchi tempi oh, che diamine, anche fino all'anno prima - avrebbe assunto il controllo della
conversazione. Adesso si limitava a fluttuare per la stanza.
V fece un verso disgustato, come se avesse aspettato abbastanza che la sua
cara mammina si decidesse a imporsi, rimettendo in riga il suo re. «Prima
non mi hai lasciato finire, Wrath.»
«E credi che adesso te lo permetterò?» Wrath alzò il braccio, toccando il
bordo di uno dei tre vasi che aveva appena aggiunto alla collezione.
«Lascialo finire», disse la Vergine Scriba in tono distaccato.
Vishous si fece avanti con passo deciso sul pavimento che lui stesso aveva
contribuito a posare. «Quello che volevo dire è: se proprio vuoi combattere,
almeno non farlo da solo. E dillo a Beth. Altrimenti sei un impostore... e avrai
più probabilità di lasciarla vedova. Ignora pure la mia visione, se ti va, che
cavolo, benissimo. Ma almeno cerca di essere pragmatico.»
Wrath si mise a camminare su egiù; lo scenario di quel discorso era proprio
perfetto: era circondato dalle prove della guerra.
Alla fine si fermò davanti ai tre vasi che aveva recuperato quella notte.
«Beth pensa che io vada a nord a trovare Phury, a lavorare con le Elette, sai.
Mentire è tremendo, ma l'idea che abbiamo solo quattro fratelli sul campo è
ancora peggio.»
Ci fu una lunga pausa, riempita solo dal lieve sfrigolare della fiamma delle
torce.
Fu V a rompere il silenzio. «Credo che tu debba indire una riunione della
confraternita e vuotare il sacco con Beth. Come ho già detto, se proprio vuoi
combattere combatti, ma fallo "alla luce del sole", okay? Così non sarai da
solo, e nessuno di noi lo sarà più. Al momento, quando ci alterniamo nei
turni, qualcuno finisce sempre per combattere senza un compagno. La tua
legittima presenza sul campo risolverà questo problema.»
Wrath non potè fare a meno di sorridere. «Cristo, non pensavo che saresti
stato d'accordo con me, se l'avessi immaginato forse avrei parlato prima.»
Guardò la Vergine Scriba. «Ma le leggi? La tradizione?»
La madre della razza si voltò verso di lui e, con voce distante, disse, «Sono
già cambiate tante cose, una in più che differenza fa? Abbi cura di te, Wrath,
figlio di Wrath, e anche tu Vishous, figlio mio.»
Ciò detto, la Vergine Scriba scomparve come un alito di vento nella notte
gelida, dileguandosi nell'etere come se non fosse mai esistita.
Wrath si appoggiò contro gli scaffali e, quando la testa cominciò a
martellare, sollevò gli occhiali da sole stropicciandosi gli occhi inutili.
Quando smise, abbassò le palpebre e rimase immobile come una statua, come
la pietra che lo circondava.
«Hai l'aria distrutta», mormorò V.
Sì, era proprio così. Che tristezza.
Lo spaccio di droga era un'attività molto lucrosa.
Nel suo ufficio allo ZeroSum, Rehvenge, seduto alla scrivania, esaminò gli
incassi della serata, controllando meticolosamente al centesimo tutti i conti.
Lo stesso stava facendo iAm al Sal's Restaurant, e il primo punto all'ordine
del giorno, ogni sera al tramonto, era incontrarsi lì per confrontare i risultati.
Quasi sempre i due totali combaciavano. Quando non succedeva, Rehv si
fidava di iAm.
Tra alcolici, stupefacenti e sesso, le entrate al lordo superavano i
duecentonovantamila dollari per il solo ZeroSum. Al club lavoravano
ventidue persone stipendiate, compresi dieci buttafuori, tre baristi, sei
prostitute, Trez, iAm e Xhex; i costi per tutti loro ammontavano a circa
settantacinque bigliettoni a sera. Gli allibratori e gli spacciatori autorizzati,
ovvero i pusher a cui aveva dato il permesso di vendere nel suo locale,
lavoravano su provvigione, e tutto quello che restava dopo che avevano
intascato la loro quota era suo. In più, ogni settimana o giù di lì, lui oppure
Xhex e i Mori trattavano grosse partite di droga con un selezionato numero di
distributori che avevano le loro reti di spaccio, a Caldwell o a Manhattan.
A conti fatti, e detratte le spese per il personale, aveva grosso modo
duecentomila dollari a sera per acquistare la droga e gli alcolici che poi
rivendeva, per coprire i costi di riscaldamento, luce e migliorie varie e per
pagare i sette dipendenti della ditta di pulizie che arrivavano alle cinque del
pomeriggio.
Ogni anno i suoi affari gli fruttavano un guadagno netto di una cinquantina
di milioni; una cifra oscena, a sentirla così. E in effetti lo era, specie
considerato che Rehvenge pagava le tasse solo su una parte di essa. Droga e
sesso sono attività rischiose, ma il potenziale di profitto è enorme, questa era
la verità. E lui aveva bisogno di soldi. Disperatamente. Garantire a sua madre
il livello di vita a cui era abituata e che ben meritava era una impresa
multimilionaria. Poi lui aveva le sue case e ogni anno, appena uscivano i
nuovi modelli, cambiava Bentley dando in permuta quella vecchia.
Finora, tuttavia, la spesa personale più alta a suo carico era contenuta in
certi sacchettini di velluto neri.
Allungando il braccio sopra i documenti contabili, Rehv prese quello che gli
era stato recapitato tramite corriere dal distretto dei diamanti della Grande
Mela. Le consegne adesso arrivavano il lunedì - prima era l'ultimo venerdì
del mese, ma con l'apertura della Maschera di Ferro il giorno di chiusura
dello ZeroSum era passato alla domenica.
Allentò il cordoncino di raso e aprì il sacchettino, rovesciando sul palmo
una scintillante manciata di rubini. Un quarto di milione di dollari in pietre
rosso sangue. Le versò di nuovo nel sacchetto, annodò stretto il cordoncino e
guardò l'orologio. Ancora sedici ore prima di doversi mettere in viaggio
verso nord.
Il primo martedì del mese era il giorno del riscatto e lui pagava la
principessa in due modi. Uno erano le gemme grezze. L'altro era il suo corpo.
Gliela faceva pagare cara, però.
Al pensiero del luogo in cui stava per andare e di cosa era costretto a fare
sentì un formicolio alla nuca e non si stupì quando la sua vista cominciò a
cambiare: il nero e il bianco del suo ufficio vennero rimpiazzati dal rosa scuro
e dal rosso sangue e il campo visivo si appiattì di colpo, come spianato da un
bulldozer.
Aprì un cassetto, tirò fuori una delle sue belle scatole nuove di dopamina e
prese la siringa che aveva usato le ultime due volte che si era iniettato la dose
in ufficio. Si arrotolò la manica sinistra e strinse il laccio emostatico al centro
del bicipite, per abitudine più che per necessità. Le vene erano così gonfie che
era come se delle talpe si fossero rintanate sottopelle; Rehv provò un moto di
soddisfazione al pensiero dello schifo in cui si trovavano.
Non c'era nessun cappuccio protettivo sulla punta dell'ago; Rehv riempì la
siringa con la sicurezza di un consumatore abituale. Ci mise un po' a trovare
una vena passabile, continuava a pungersi con la minuscola punta d'acciaio
senza sentire nulla. Capì di aver finalmente trovato il punto giusto quando,
tirando lo stantuffo, vide il sangue mescolarsi alla soluzione trasparente del
farmaco.
Slegò il laccio e cominciò a premere lo stantuffo col pollice, fissando
l'infezione al braccio e pensando a Ehlena. Pur non fidandosi di lui, pur
rifiutando di lasciarsi attrarre da lui e chiaramente pronta a muovere cielo e
terra pur di non uscire con lui, voleva comunque essere una salvatrice.
Voleva quello che era meglio per lui e per la sua salute.
Era quella che si chiama una femmina di valore.
A metà iniezione gli suonò il cellulare. Diede un rapido sguardo al display
e non riconobbe il numero, quindi non rispose. Le uniche persone che
avevano il suo numero di cellulare erano quelle con cui voleva parlare, e
l'elenco era cortissimo: sua sorella, sua madre, Xhex, Trez e iAm. E il fratello
Zsadist, l'hellren di sua sorella.
Fine.
Estraendo l'ago dalla sua cloaca vascolare, imprecò nel sentire il bip che
indicava la presenza di un messaggio nella casella vocale. Ogni tanto
capitava, sconosciuti che lasciavano brandelli di vita in quell'angolino di
tecnospazio, convinti che fosse la casella di qualcun altro. Lui non li
richiamava mai, non mandava mai un SMS con scritto Ha sbagliato numero.
Lo avrebbero capito da soli non ottenendo risposta dalla persona che
credevano di aver chiamato.
A occhi chiusi si accomodò meglio sulla poltroncina, gettando la siringa sui
documenti contabili e fregandosene altamente se la dopamina faceva effetto o
meno.
Seduto da solo nel suo covo di iniquità, nell'unico momento tranquillo della
giornata, dopo che tutti se n'erano andati e prima che arrivassero gli addetti
alle pulizie, non gliene fregava niente se la visione piatta tornava
tridimensionale, non gli importava di veder ricomparire lo spettro cromatico
completo, non si chiedeva a ogni secondo che passava se sarebbe tornato
"normale" oppure no.
Era un bel cambiamento, si rese conto all'improvviso. Fino a quel momento
era sempre stato ansioso che la dopamina facesse effetto.
Che cosa aveva segnato quella svolta radicale?
Lasciando in sospeso la domanda, prese cellulare e bastone. Con un gemito
si alzò in piedi, cauto, e si avviò verso la sua camera da letto privata. Il
torpore ai piedi e alle gambe stava tornando in fretta, più in fretta che
durante il viaggio di ritorno dal Connecticut, ma d'altronde era normale.
Meno venivano stimolati i suoi istinti di symphath più la droga faceva effetto.
Buffo, Cristo, essere scelto per far fuori il re lo aveva innervosito.
Mentre starsene seduto da solo in casa - oddio, una specie di casa - no.
In ufficio il sistema di sicurezza era già inserito; Rhev ne attivò un secondo
per i suoi appartamenti privati, poi si chiuse dentro la stanza priva di finestre
in cui si riposava ogni tanto. H bagno era proprio di fronte; Rehv buttò lo
zibellino sul letto prima di entrare e far scendere l'acqua nella doccia.
Girando per la stanza venne assalito da un freddo che gli penetrò fin dentro
le ossa; veniva dall'interno del suo corpo, neanche si fosse iniettato del Freon.
Questa era una sua grande paura. Odiava avere sempre freddo. Merda,
forse avrebbe dovuto semplicemente lasciarsi andare. Tanto, mica doveva
interagire con qualcuno.
Già, ma se restava troppo indietro con le dosi, poi recuperare era un casino.
Nuvole di vapore uscivano da dietro la porta a vetri della doccia; Rehv si
spogliò nudo, lasciando vestito, cravatta e camicia sul piano di marmo tra i
due lavandini. Poi s'infilò sotto il getto, rabbrividendo con violenza e
battendo i denti.
Per un attimo si abbandonò all'indietro contro le lisce pareti di marmo,
tenendosi al centro dei quattro soffioni. Mentre l'acqua bollente che lui non
riusciva a sentire si riversava a cascata sul petto e sugli addominali, cercò di
non pensare alle conseguenze della notte seguente, ma non ci riuscì.
Oh, Dio... ce l'avrebbe fatta a rifarlo un'altra volta? Andare lassù e
prostituirsi con quella troia?
Già, l'alternativa era... che lei lo avrebbe denunciato al consiglio come
symphath facendolo deportare in quella colonia.
La scelta era chiara.
'Fanculo; non c'era proprio nessuna scelta. Bella non sapeva che lui era un
symphath e scoprire quel segreto di famiglia l'avrebbe uccisa. E non sarebbe
stata l'unica vittima: sua madre ne sarebbe rimasta distrutta; Xhex, livida, si
sarebbe fatta ammazzare nel tentativo di salvarlo; Trez e iAm avrebbero fatto
altrettanto.
L'intero castello di carte sarebbe crollato.
Compulsivamente afferrò una saponetta dorata dal portasapone di
ceramica fissato alla parete e la rigiro tra le mani fino a ricavarne una
schiuma densa. Per lavarsi non usava saponi finissimi, ma il Dial, un
disinfettante micidiale che sulla pelle agiva come una di quelle macchine per
livellare l'asfalto.
Anche le sue puttane lo usavano. Rehv gliene faceva sempre trovare una
scorta nella doccia, dietro loro richiesta.
Lui seguiva la regola delle tre volte. Tre volte se lo passava sulle braccia e
sulle gambe, sui pettorali e sugli addominali, sul collo e sulle spalle. Tre volte
si strofinava in mezzo alle cosce, insaponando bene uccello e scroto. Era un
rituale stupido, ma le compulsioni sono così. Avrebbe potuto consumare tre
dozzine di saponette Dial e ancora si sarebbe sentito lercio.
Buffo, le sue puttane si stupivano sempre del modo in cui lui le trattava.
Ogni volta che ne arrivava una nuova, si aspettava di doverlo attizzare come
parte del lavoro, ed era sempre pronta a essere picchiata. Invece tutte
ottenevano il loro spogliatoio privato con tanto di doccia, orari affidabili, la
garanzia di non essere mai e poi mai importunate dagli addetti alla security e
quella cosa chiamata rispetto - il che significava che potevano scegliersi i
clienti, e se gli stronzi che pagavano per il privilegio di stare con loro si
azzardavano a torcergli anche un solo capello, bastava che lo dicessero e il
colpevole veniva sommerso da una montagna di merda.
Più di una volta una delle donne si era presentata nel suo ufficio chiedendo
di parlargli in privato. Di solito succedeva un mesetto dopo l'assunzione, e
quello che dicevano era sempre la stessa cosa e sempre con una sorta di
confusione che, se lui fosse stato normale, gli avrebbe spezzato il cuore.
Grazie.
Gli abbracci non erano il suo forte, ma era risaputo che le prendeva tra le
braccia e, le teneva strette per qualche istante. Nessuna di loro sapeva che
non lo faceva perché era un bravo ragazzo, ma perché era uno di loro. La
dura realtà era che la vita le aveva messe tutte quante - e anche lui- dove non
volevano stare: sdraiate sulla schiena per gente con cui non volevano scopare.
Sì, ce n'erano alcune a cui il mestiere non dispiaceva ma, come tutti, non
sempre avevano voglia di lavorare. E invece i clienti non davano mai tregua.
Proprio come la sua ricattatrice.
Uscire dalla doccia era un inferno, gli sembrava sempre di congelare;
Rhevenge rimandò il più a lungo possibile quel momento traumatico,
trattenendosi sotto il getto bollente mentre, in un estenuante dibattito
interiore, cercava di decidersi. L'acqua batteva contro il marmo e gorgogliava
giù per lo scarico di ottone, ma le sue membra intorpidite non sentivano
nulla, salvo un leggero sollievo alla sua Alaska interna. Quando a un certo
punto l'acqua calda finì, lui lo capì solo dal fatto che i tremiti del suo corpo
peggiorarono e le unghie passarono dal grigio pallido al blu scuro.
Frizionandosi con l'asciugamano, si infilò il più in fretta possibile a letto,
sotto il piumino di visone.
Proprio mentre si stava tirando le coperte fin sotto la gola, il cellulare emise
un bip. Un altro messaggio nella casella vocale.
Quella sera era peggio che essere alla Stazione Centrale, con quel cavolo di
telefonino.
Controllando le chiamate senza risposta, scoprì che l'ultima era di sua
madre e si rizzò a sedere di scatto, anche se così aveva il petto scoperto. Da
quella gran signora che era, sua madre non lo chiamava mai, non volendo
"disturbarlo sul lavoro".
Rehv premette alcuni tasti e digitò la password, apprestandosi a cancellare
il primo messaggio, quello al numero sbagliato.
"Ha ricevuto una chiamata dal 518-bla-bla-bla..." Premette il tasto che
consentiva di saltare quella pappardella, pronto a digitare sette per eliminare
il messaggio.
Aveva già il dito sul tasto quando una voce femminile disse, «Salve, io...»
Quella voce... quella voce era... Ehlena?
«Cazzo!»
La casella vocale fu inesorabile, però, e se ne infischiò che un messaggio di
Ehlena era l'ultima cosa al mondo che avrebbe scelto di cancellare. Mentre
smadonnava, la segreteria passò oltre, finché sentì la flebile voce di sua
madre nell'Antico Idioma.
«Salve, figliolo carissimo. Spero che tu stia bene. Ti prego di scusare
l'intrusione, ma mi chiedevo se per caso potresti passare un momento da
casa, entro i prossimi due giorni. C'è una questione di cui devo parlarti. Ti
voglio bene. Arrivederci, mio adorato primogenito.»
Rehv si accigliò. Quant'era formale, l'equivalente verbale di un biglietto
meditato a lungo e poi scritto nella bella calligrafia di sua madre, ma la
richiesta era insolita, per lei, il che la rendeva urgente. Salvo che lui era
fottuto... ahia, pessima scelta di parole. L'indomani sera era impossibile per
via del suo "appuntamento", quindi doveva rimandare alla sera dopo, sempre
ammesso che fosse nella condizione fisica di farlo.
Chiamò casa e alla doggen che rispose disse che sarebbe passato mercoledì
sera, subito dopo il tramonto.
«Padrone, se posso permettermi», disse la domestica. «In verità, sono lieta
che venga a trovarci.»!
«Cosa succede?» Durante la lunga pausa che seguì, il gelo che lo pervadeva
peggiorò. «Parla.»
«Sua madre è...» La voce all'altro capo del filo divenne aspra. «È sempre
molto gentile, ma siamo tutti lieti che lei venga qui a casa. Se ora vuole
scusarmi, riferirò il suo messaggio.»
La comunicazione venne interrotta. In un angolo della sua mente Rehvenge
intuì di cosa di trattava, ma fece di tutto per ignorarlo. Non se la sentiva di
affrontare l'argomento, assolutamente no.
E poi, forse non era niente. Dopo tutto la paranoia era uno degli effetti
collaterali dell'abuso di dopamina, e lui stava decisamente superando le dosi
consentite. Appena possibile sarebbe andato alla casa sicura e sua madre
sarebbe stata bene... Un momento, il solstizio d'inverno. Ecco cosa doveva
essere. Di sicuro sua madre voleva organizzare dei festeggiamenti che
includessero Bella, Z e la piccola; per Nalla, infatti, sarebbe stato il primo
rituale del solstizio e sua madre prendeva molto seriamente quel genere di
cose. Anche se non viveva più dall'Altra Parte, sentiva ancora molto le
tradizioni delle Elette, tradizioni che lei conosceva sin dalla nascita.
Sì, era sicuramente quello.
Sollevato, inserì il numero di Ehlena nella rubrica e la richiamò.
Mentre il telefono squillava, il suo unico pensiero, a parte rispondi,
rispondi, rispondi, era sperare con tutto il cuore che lei stesse bene. Il che era
pazzesco. Credeva forse che Ehlena lo avrebbe chiamato se fosse stata nei
guai?
Ma allora perché aveva...
«Pronto?»
Il suono della sua voce produsse un effetto che la doccia bollente, il
piumino di visone e la temperatura ambiente di ventisei gradi e rotti erano
incapaci di produrre. Un'ondata di calore si diffuse a partire dal suo petto,
scacciando freddo e torpore e pervadendolo di... vita.
Spense le luci per potersi concentrare completamente su di lei.
«Rehvenge?» disse Ehlena un istante dopo.
Lui si appoggiò di nuovo contro i cuscini e sorrise, al buio.
«Salve.»
Capitolo 12
«Hai del sangue sulla camicia... e... oh, Dio... sulla gamba dei calzoni.
Wrath, che cosa è successo?»
Ritto nello studio della grande casa della confraternita, di fronte all'adorata
shellan, Wrath si strinse sul petto le due metà del giubbotto da motociclista;
meno male che almeno si era lavato via dalle mani il sangue del lesser.
«Quanto del sangue che vedo è tuo?» disse Beth in un soffio.
Era bella come non mai ai suoi occhi, l'unica femmina che desiderava,
l'unica compagna possibile. In jeans e dolcevita nero, con i capelli scuri sciolti
sulle spalle, era la femmina più attraente che avesse mai visto. Tuttora.
«Wrath.»
«Non tutto.» Il taglio alla spalla aveva sicuramente sanguinato sopra la
canottiera, ma quando aveva stretto al petto il civile il suo sangue si era
sicuramente mischiato col suo.
Incapace di stare fermo si mise a camminare per lo studio, andando dalla
scrivania alle finestre e ritorno. Il tappeto su cui camminava era azzurro,
grigio e bianco panna, un Aubusson in tinta con le pareti azzurro pallido e
con dei motivi curvilinei che mettevano in risalto il delicato mobilio Luigi
XIV, le lampade e le volute degli stucchi.
Non aveva mai veramente apprezzato quell'arredamento. E continuava a
non piacergli.
«Wrath... come ci è finito quel sangue lì sopra?» Beth conosceva già la
risposta, lo si intuiva dalla durezza del tono, ma sperava che ci fosse un'altra
spiegazione.
Facendosi forza, Wrath si voltò verso l'amore della sua vita, all'altro capo
della grande stanza tutta fronzoli. «Voglio tornare a combattere.»
«Che cosa?»
«Voglio combattere.»
Beth rimase in silenzio e lui fu lieto che la porta dello studio fosse chiusa.
Intuì i calcoli che stava facendo nella sua testa e capì che la somma di quello
che stava mettendo insieme si riduceva a una sola e unica cosa: Beth stava
pensando a tutte quelle "nottate su al nord" con Phury e le Elette, a tutte le
volte che a letto si era messo delle magliette a maniche lunghe nascondi-lividi
perché aveva "un'infreddatura", a tutte le scuse del tipo "zoppico perché ho
esagerato in palestra".
«Vuoi combattere.» Beth si infilò le mani nelle tasche dei jeans e, malgrado
fosse quasi cieco come una talpa, Wrath sapeva anche troppo bene che quel
dolcevita nero si abbinava perfettamente al suo sguardo. «Tanto per chiarire.
Significa che vuoi ricominciare a combattere o che lo stai già facendo?»
Era una domanda retorica, ma chiaramente Beth voleva metterlo di fronte a
tutta la gravità della sua bugia. «L'ho sto già facendo. Da un paio di mesi.»
La collera e il dolore di Beth lo investirono col tipico odore di legno e
plastica bruciati.
«Senti, Beth, io devo...»
«Devi essere sincero con me», lo interruppe tagliente lei. «Ecco cosa devi
fare.»
«Pensavo di combattere per un mese o due al massimo...»
«Un mese o due! Ma da quanto cavolo...» Beth si schiarì la gola e abbassò la
voce. «Da quanto tempo va avanti questa storia?»
Quando Wrath glielo disse tornò silenziosa. Poi, «Da agosto? Agosto.»
Wrath sperava che sfogasse la sua rabbia. Che si mettesse a urlare contro di
lui. Che lo insultasse dandogli della testa di cazzo. «Mi dispiace. Io... Merda,
mi dispiace tanto.»
Lei non aggiunse altro, e l'odore delle sue emozioni svanì, disperso dall'aria
calda che saliva dai condotti del riscaldamento. Fuori in corridoio un doggen
stava passando l'aspirapolvere sui tappeti, il ronzio andava su e giù, su e giù.
Nel silenzio della stanza, Wrath si aggrappò a quel rumore normale,
quotidiano - il genere di cosa che si sente di continuo, ma si nota di rado
perché si è presi dalle scartoffie o distratti da un certo languorino o si sta
cercando di decidere se rilassarsi guardando la TV o andando in palestra...
Era un rumore familiare, rassicurante.
In quel momento devastante della sua vita di coppia si tenne
disperatamente aggrappato alla ninna nanna dell'aspirapolvere, chiedendosi
se sarebbe mai più stato abbastanza fortunato da ricominciare a ignorarlo.
«Non mi ha mai sfiorato il pensiero...» Beth si schiari la gola un'altra volta.
«Non mi ha mai sfiorato il pensiero che ci fosse qualcosa di cui non potevi
parlarmi. Ho sempre dato per scontato che mi dicevi... tutto quello che
potevi.»
Quando smise di parlare, lui era gelato fino al midollo. La sua voce, adesso,
era quella che Beth usava per dire a qualcuno che aveva sbagliato numero: gli
stava parlando come si parla a un estraneo, senza calore né particolare
interesse.
«Senti, Beth, io devo combattere. Devo...»
Lei scosse la testa e alzò una mano per fermarlo. «Non è perché hai ripreso
a combattere.»
Beth lo guardò per una frazione di secondo. Poi si voltò e andò verso la
porta.
«Beth.» Era suo quel gracchio strozzato?
«No, lasciami stare. Ho bisogno di stare da sola.»
«Beth, ascolta, non abbiamo abbastanza guerrieri sul campo...»
«Il fatto che hai ricominciato a combattere non c'entra!» Beth si voltò di
scatto, affrontandolo. «Tu mi hai mentito. Mentito. E non una volta sola, ma
per quattro mesi di fila.»
Wrath avrebbe voluto ribattere, difendersi, dire che aveva perso la nozione
del tempo, che quelle 120 nottate e giornate erano volate via alla velocità
della luce, che lui aveva solo messo un piede dietro l'altro, un minuto dopo
l'altro, un'ora dopo l'altra, cercando di tenere a galla la razza, cercando di
tenere a bada i lesser. Non era nei suoi piani andare avanti per Così tanto
tempo. Non aveva premeditato di ingannarla per tutto quel tempo.
«Dimmi solo una cosa», disse lei. «Una cosa soltanto. E farai meglio a dire
la verità, altrimenti, che Dio mi aiuti, io...» Si tappò la bocca con la mano,
catturando un singhiozzo nel palmo. «Sinceramente, Wrath... pensavi
sinceramente di smettere? In cuor tuo, pensavi veramente di...»
Lui deglutì a fatica quando le parole le si strozzarono in gola.
Wrath fece un gran sospiro. Nel corso della sua vita era stato ferito molte,
moltissime volte. Ma niente, nessuno dei dolori patiti era anche lontanamente
paragonabile alla sofferenza che provò nel risponderle.
«No.» Inspirò di nuovo. «No, non credo... che avrei smesso.»
«Con chi hai parlato stanotte? Chi è stato a farti decidere di dirmelo.»
«Vishous.»
«Dovevo immaginarlo. Probabilmente è l'unica persona, a parte Tohr, in
grado di farlo...» Beth si strinse le braccia intorno al corpo, e lui avrebbe dato
la mano con cui brandiva il pugnale per poterla abbracciare. «Sapere che hai
ripreso a combattere mi spaventa da morire, ma dimentichi una cosa... ti ho
sposato senza sapere che il re non deve scendere in campo. Ero preparata a
stare al tuo fianco anche se la cosa mi terrorizzava... perché combattere in
questa guerra è nella tua natura e nel tuo sangue. Sciocco che non sei altro...»
la voce le si incrinò. «Sciocco che non sei altro, te l'avrei lasciato fare. Ma
invece...»
«Beth...»
Lei lo interruppe. «Ricordi quella notte che sei uscito, all'inizio dell'estate?
Quando sei intervenuto per salvare Z e poi sei rimasto in città a combattere
insieme agli altri?»
Eccome se lo ricordava. Quando era tornato a casa l'aveva inseguita su per
le scale e avevano fatto sesso sul tappeto del salotto al primo piano. Una
infinità di volte. Aveva conservato come souvenir la stoffa che le aveva
strappato dai fianchi.
Gesù... a pensarci bene... era stata l'ultima volta che avevano fatto l'amore.
«Mi avevi detto "per una notte soltanto"», disse Beth. «Una notte soltanto.
L'hai giurato, e io mi sono fidata.»
«Merda... mi dispiace.»
«Quattro mesi.» Beth scosse la testa, agitando sulle spalle la magnifica
chioma bruna; i capelli catturavano la luce in modo così seducente che
persino i poveri occhi di Wrath ne notarono lo splendore. «Sai cosa mi fa più
male? Che i fratelli lo sapevano e io no. Ho sempre accettato la faccenda della
società segreta, ho sempre capito che ci sono cose che non posso sapere...»
«Neanche loro ne avevano idea.» Okay, Butch lo sapeva, ma non c'era
motivo di sputtanarlo. «V l'ha scoperto solo stanotte.»
Lei barcollò, reggendosi alle pareti azzurro pallido. «Sei uscito da solo?»
«Sì.» Fece per prenderle il braccio, ma lei lo scostò bruscamente. «Beth...»
Lei spalancò la porta di scatto. «Non toccarmi.»
La porta si chiuse sbattendo alle sue spalle.
La rabbia che provava verso se stesso lo spinse a voltarsi di scatto verso la
scrivania e non appena vide tutte le scartoffie, tutte le richieste, tutte le
lamentele, tutti i problemi, fu come se qualcuno gli avesse attaccato alle
scapole i cavi di collegamento tra due batterie, colpendolo con una scarica
elettrica. Balzò in avanti e spazzò la scrivania con le braccia, facendo volare
tutto quanto per aria.
Mentre le carte si posavano dolcemente a terra, come fiocchi di neve, Wrath
si tolse gli occhiali da sole stropicciandosi gli occhi, e nel lobo frontale esplose
il mal di testa. Senza fiato, barcollò per la stanza, trovò la sua sedia a tentoni e
vi crollò sopra. Con un grugnito strozzato abbandonò la testa all'indietro.
Ultimamente quelle emicranie da stress stavano diventando un fastidio
quotidiano che lo metteva KO, e non volevano andarsene, come un'influenza
che non vuole guarire.
Beth. La sua Beth...
Quando sentì bussare cominciò a sacramentare a tutto spiano.
Bussarono di nuovo.
«Cosa c'è», sbraitò.
Rhage infilò dentro la testa, poi si immobilizzò. «Ehm...»
«Cosa c'è?»
«Ecco, be'... Ehm, vista la porta sbattuta... e, oh, accipicchia, la raffica di
vento che chiaramente ha appena spazzato la tua scrivania... vuoi sempre fare
quella riunione con noi?»
Oh, Dio... come faceva a sopravvivere a un'altra di quelle discussioni?
D'altra parte, forse avrebbe dovuto pensarci prima di mentire a chi gli stava
più vicino, ai suoi affetti più cari.
«Mio signore!» la voce di Rhage si addolcì. «Vuoi vedere i fratelli?» No.
«Sì.»
«Vuoi Phury in vivavoce?»
«Sì. Senti, non voglio i radazzi a questa riunione. Blay, John e Qhuinn... non
sono invitati.»
«Me l'immaginavo. Ehi, vuoi una mano a rimettere in ordine?»
Wrath guardò il tappeto di scartoffie. «Ci penso io.»
Hollywood dimostrò di avere un po' di sale in zucca evitando di ripetere
l'offerta e guardandosi bene dal buttare lì un "sei sicuro?" Si limitò a
indietreggiare e chiudere la porta.
All'altro capo della stanza la pendola nell'angolo batté le ore. Un altro
suono familiare che Wrath di solito non sentiva; ma adesso, mentre se ne
stava seduto da solo nello studio, quei rintocchi risuonarono con forza,
neanche uscissero dalle casse acustiche di un concerto.
Wrath lasciò ricadere le mani sui braccioli della fragile poltroncina dalle
gambe sottili, facendoli apparire minuscoli. A vederla, sembrava più il tipo di
sedia su cui una femmina può appollaiarsi a fine serata per sfilarsi i collant.
Non era un trono. Ecco perché l'aveva scelta.
Per molti versi non aveva voluto accettare la corona, essendo stato per
trecento anni re per diritto di nascita, ma non per vocazione o nella realtà dei
fatti. Ma poi era arrivata Beth e le cose erano cambiate, e lui finalmente si era
recato dalla Vergine Scriba.
Questo accadeva due anni prima. Due primavere, due estati, due autunni e
due inverni prima.
Aveva coltivato grandi progetti, all'epoca. Progetti grandiosi ed
entusiasmanti che prevedevano di riunire la confraternita, radunare tutti i
suoi membri sotto lo stesso tetto, consolidare le forze, risollevarsi contro la
Lesseinng Society. Vincere.
Salvare.
Recuperare terreno.
Invece la glymera era stata massacrata, altri civili erano morti e c'erano
sempre meno fratelli.
Non avevano fatto progressi. Avevano perso terreno.
Rhage infilò di nuovo dentro la testa.
«Siamo ancora tutti qua fuori.»
«Maledizione, ti ho detto che ho bisogno di un po'...»
La pendola batté di nuovo le ore; ascoltando i rintocchi, Wrath si rese conto
che era seduto lì da solo da un'ora.
Si stropicciò gli occhi doloranti.
«Datemi un altro minuto.»
«Tutto quello che vuoi, mio signore. Prenditi tutto il tempo che ti serve.»
Capitolo 13
Quando sentì il salve di Rehvenge, Ehlena si rizzò di scatto! dai cuscini
contro cui si era sdraiata trattenendo un porca miseria... poi però si chiese
perché era così sorpresa. Lo aveva chiamato lei e di norma la gente in quei
casi... be', ti ritelefonava.
Accipicchia.
«Salve», disse.
«Non ho risposto alla sua chiamata solo perché non ho riconosciuto il
numero.»
Cavolo, che voce sexy. Profonda. Bassa. Proprio come dev'essere la voce di
un vero maschio.
Nel silenzio che seguì, Ehlena si chiese: e io perché l'ho chiamato? Ah, già.
«Volevo verificare una cosa. Quando ho preparato i documenti per la sua
dimissione ho notato che non le abbiamo dato niente per il braccio.» «Ah.»
Ehlena non riuscì a interpretare la pausa che seguì. Forse gli scocciava che
lei s'impicciasse? «Voglio solo assicurarmi che stia bene.»
«Lo fa spesso con i pazienti?»
«Sì», mentì lei.
«Havers sa che lei controlla il suo lavoro?»
«Le ha dato un'occhiata alle vene?»
Rehvenge rise piano. «Speravo che avesse chiamato per un altro motivo.»
«Non capisco», disse rigida lei.
«Cosa? Che qualcuno possa voler avere qualcosa a che fare con lei fuori dal
lavoro? Non è mica cieca. Si sarà vista allo specchio.
E di certo saprà di essere intelligente, quindi non è tutta apparenza.»
Per quanto la riguardava, Rehvenge parlava una lingua straniera. «Non
capisco perché non si prende cura di se stesso.»
«Hmmm.» Rehvenge rise sommessamente e lei sentì nelle viscere, oltre che
all'orecchio, la carica erotica di quel suono. «Oh... allora forse è solo un
pretesto per poterci rivedere.»
«Senta, la sola ragione per cui ho chiamato è...»
«Che le serviva una scusa. Mi ha chiuso la bocca, in sala visita, ma in realtà
aveva voglia di parlarmi. Così ha chiamato per il braccio per potermi sentire
al telefono. E adesso eccomi qua.» Quella voce si abbassò ancora di più.
«Posso scegliere cosa farmi fare da lei?»
Ehlena rimase in silenzio. Finché lui disse, «Pronto?»
«Ha finito? Oppure vuole pestare ancora un po' l'acqua nel mortaio, tirando
a indovinare quello che sto facendo?»
Dopo un attimo di silenzio, Rehvenge scoppiò in una gran risata baritonale.
«Sapevo che c'era più di un motivo per cui lei mi piace.»
Ehlena si rifiutò di lasciarsi ammaliare. Invano. «Ho chiamato per il suo
braccio. Punto. L'infermiera di mio padre se n'è appena andata e stavamo
parlando del suo...»
Ammutolì di colpo, rendendosi conto di quello che aveva rivelato; aveva la
sensazione di essere inciampata nell'equivalente verbale dell'angolo di un
tappeto.
«Continui», disse lui in tono grave. «Per piacere.»
«Ehlena? Ehlena...»
«Ci sei, Ehlena?»
In seguito, molto tempo dopo, Ehlena avrebbe concluso che quelle tre
parole erano state il precipizio. Ci sei, Ehlena?
Erano state davvero l'inizio di tutto ciò che era seguito, la linea di partenza
di un viaggio sconvolgente camuffata sptto forma di una semplice domanda.
Era lieta di non aver saputo, all'epoca, dove l'avrebbe condotta. Perché a
volte l'unica cosa che può farti superare l'inferno è sapere che ci sei già troppo
dentro per uscirne.
In attesa di una risposta, Rehv strinse il cellulare nel pugno così forte da
schiacciarlo contro la guancia, e uno dei tasti emise un bip della serie "Ehi,
amico, vedi di piantarla."
L'imprecazione elettronica parve rompere l'incantesimo per entrambi.
«Scusi», farfugliò lui.
«Non fa niente. Io, ehm...»
«Diceva?»
Non si aspettava che Ehlena rispondesse, ma... lei lo fece. «Stavo parlando
con l'infermiera di mio padre di un taglio che gli sta dando dei problemi, e
questo mi ha fatto venire in mente il suo braccio.»
«Suo padre è malato?»
«Sì.»
Rehv attese che continuasse, chiedendosi se insistere l'avrebbe fatta
smettere... ma fu lei a risolvere la questione.
«Alcune delle medicine che prende, gli fanno perdere l'equilibrio, così va a
sbattere contro le cose e non sempre si accorge di essersi ferito. È un
problema.»
«Mi dispiace. Assisterlo dev'essere dura, per lei.»
«Sono un'infermiera.»
«E una figlia.»
«Così è stato per motivi professionali. Quando l'ho chiamata.»
Rehv sorrise. «Posso farle una domanda?»
«Prima io. Perché non vuole farsi dare un'occhiata al braccio? E non mi dica
che Havers ha visto quelle vene. Se le avesse viste le avrebbe prescritto degli
antibiotici, e se lei li avesse rifiutati avrei trovato un'annotazione in proposito
nella sua cartella. Senta, per curarlo bastano delle pillole... e io so che lei non
ha la fobia delle medicine. Prende una qìtantità esagerata di dopamina.»
«Se era preoccupata per il mio braccio, perché non me ne ha parlato alla
clinica?»
«L'ho fatto, se ben ricorda.»
«Non così.» Rehv sorrise nel buio della stanza, facendo scorrere la mano su
e giù sul piumino di visone. Non riusciva a sentirla, ma immaginava che la
pelliccia fosse morbida come i capelli di Ehlena. «Continuo a pensare che lei
volesse sentirmi al telefono.»
La pausa che seguì gli fece temere che Ehlena attaccasse.
Si rizzò a sedere, come se la posizione verticale potesse impedirle di
chiudere la telefonata. «Sto solo dicendo che... be', merda, quello che voglio
dire è che... mi fa piacere che abbia chiamato. Qualunque sia il motivo.»
«Alla clinica non gliene ho più parlato perché quando ho inserito nel
computer le annotazioni di Havers lei se n'era già andato, E stato lì che me ne
sono ricordata.»
Lui ancora non credeva che la telefonata fosse unicamente professionale.
Avrebbe potuto spedirgli una e-mail. Avrebbe potuto dirlo al dottore.
Avrebbe potuto scaricare su una delle infermiere del turno di giorno
l'incombenza di controllare.
«Quindi non c'è proprio speranza che lei si senta in colpa per avermi
sbattuto la porta in faccia?»
Lei si schiarì la gola, «Le chiedo scusa.» «Be', la perdono. Totalmente.
Completamente. Dava l'idea di aver passato una serataccia.»
Il sospiro di lei fu una chiara manifestazione di spossatezza. «Già, non è
stata delle migliori.»
«Perché?»
Un'altra lunga pausa. «Lei è molto meglio al telefono, lo sa?»
Lui rise. «Molto meglio in che senso?»
«E più facile parlarle. In effetti è... piuttosto facile parlare con lei.»
«Me la cavo, nei tête-à-tête.»
Improvvisamente si accigliò, ripensando all'allibratore che aveva torturato
in ufficio. Merda, quel poveraccio era solo uno dei tantissimi spacciatori di
droga, tirapiedi di Las Vegas, baristi e papponi che aveva costretto a cantare a
furia di botte, nel corso degli anni. La sua filosofia era sempre stata che la
confessione faceva bene all'anima, specialmente quando toccava a degli
stronzi convinti che lui non si sarebbe accorto che lo stavano fregando.
Quello stile gestionale serviva anche a lanciare un chiaro messaggio in
un'attività in cui la debolezza segnava la tua morte: i traffici loschi richiedono
il pugno di ferro e lui aveva sempre creduto che quella fosse semplicemente
la realtà in cui viveva.
Adesso, però, in quel silenzio, con Ehlena così vicina, sentiva che i suoi
"tête-à-tête" erano una cosa di cui scusarsi, e da nascondere.
«Allora, perché non è stata una bella serata?» chiese, incapace di stare zitto.
«Per mio padre. E poi... be', mi hanno dato buca.»
Rehv si accigliò, tanto da sentire una lieve fitta in mezzo agli occhi. «A un
appuntamento?» «Sì.»
Non sopportava il pensiero che lei uscisse con un altro. E
contemporaneamente invidiava quel figlio di puttana, chiunque fosse. «Che
somaro. Mi scusi, ma è stato proprio un somaro.»
Ehlena rise, e quel suono gli piacque da morire, specie perché il suo corpo,
per reazione, si scaldò ancora di più. Cavolo, altro che doccia bollente: quella
risatina sommessa, pacata, era quello che gli ci voleva.
«Sta sorridendo», disse piano.
«Sì. Cioè, immagino. Come fa a saperlo?»
«Era solo una speranza.»
«Be', sa essere affascinante.» Poi subito, quasi a voler dissimulare il
complimento, aggiunse, «L'appuntamento non era niente di che, comunque.
Non lo conoscevo neanche troppo bene. Era solo per prendere un caffè.»
«Ma poi ha concluso la serata al telefono con me. Che è infinitamente
meglio.»
Lei rise di nuovo. «Be', non saprò mai come potrebbe essere uscire con lui.»
«Ah, no?»
«E che... be', ci ho pensato e non credo che uscire sia una buona idea, per
me, al momento.» Il senso di trionfo che lo pervase si smorzò all'istante
quando lei precisò, «Con nessuno.» «Hm.»
«Hm? Cosa significa hm?»
«Significa che ho il suo numero di telefono.»
«Ah, sì, è veto...» S'interruppe bruscamente quando lo sentì cambiare
posizione. «Un momento, ma lei è... a letto?»
«Sì. E prima che si spinga oltre, è meglio che non lo sappia.»
«È meglio che non sappia che cosa?»
«Quello che non ho addosso.»
«Ehm...» A quell'esitazione, Rehv intuì che stava sorridendo di nuovo. E
arrossendo, probabilmente. «Allora eviterò di fare domande.» \
«Saggia decisione. Siamo solo io e le lenzuola... oops, l'ho detto
veramente?»
«Sì. Sì, l'ha fatto.» Ehlena abbassò leggermente la voce, come se lo stesse
immaginando nudo. E non fosse minimamente pentita di quelle fantasie
sconce.
«Ehlena...» Rehv si fermò, le sue voglie di symphath gli diedero
l'autocontrollo per rallentare. Sì, la voleva nuda com'era lui in quel momento.
Ma ancora di più la voleva al telefono.
«Cosa?» fece lei.
«Suo padre... è molto che è malato?»
«Io, ehm... sì, sì. E schizofrenico. Adesso però gli stiamo facendo prendere
delle medicine e sta meglio.»
«Accidenti. Dev'essere proprio dura. Perché lui c'è ma in realtà non c'è,
giusto?»
«Sì... è esattamente così.»
Assomigliava al modo in cui viveva lui, pensò Rehvenge, il suo lato
symphath una costante realtà "altra" che lo perseguitava mentre lui tentava di
vivere, una notte dopo l'altra, come una persona normale.
«Le spiace se le chiedo», disse Ehlena con cautela, «a cosa le serve la
dopamina? Nella sua cartella clinica non c'è una diagnosi circostanziata.»
«Probabilmente perché Havers mi ha in cura da sempre.»
Ehlena rise, imbarazzata. «Sì, dev'essere per questo.»
Merda, cosa diavolo le aveva detto?
Il symphath in lui disse, Pazienza, mentile e basta. Ma tutt'a un tratto nel suo
cervello si fece sentire un'altra voce, una voce flebile e sconosciuta, ma
assolutamente irresistibile. Ignorando cosa fosse, tuttavia, lui continuò come
al suo solito.
«Ho il morbo di Parkinson. O meglio, l'equivalente del Parkinson per i
vampiri, per così dire.»
«Oh... mi spiace. Ecco perché usa il bastone, allora.»
«Ho un pessimo senso dell'equilibrio.»
«La dopamina le fa bene, però. In pratica non ha nessun tremore.»
Quella voce pacata nel suo cervello si trasformò in uno strano dolore al
centro del petto, per un istante Rehvenge gettò la maschera e disse la verità.
«Non so cosa farei senza quel farmaco.»
«Le medicine di mio padre sono state miracolose.»
«Lo assiste da sola?» quando Ehlena rispose con un mmhm Rehv chiese,
«Dov'è il resto della sua famiglia?»
«Siamo solo io e lui.»
«Allora sta portando un fardello enorme.»
«Be', gli voglio bene. E, a ruoli invertiti, lui farebbe lo stesso con me. E
quello che genitori e figli fanno gli uni per gli altri.»
«Non sempre. E chiaro che la sua famiglia è fatta di brava gente.» Prima di
riuscire a fermarsi disse, «Ma è questo il motivo per cui si sente sola, giusto?
Si sente in colpa se lo lascia anche solo per un'ora, ma se resta a casa non può
ignorare il fatto che la sua vita le sta passando accanto. E in trappola e urla,
ma non cambierebbe niente di niente.»
«Devo andare.»
Rehv strinse le palpebre con forza, quel dolore al petto si diffuse in tutto il
corpo come un incendio nell'erba secca. Con la forza del pensiero accese una
luce, perché il buio era troppo vicino alla sua stessa esistenza.
«È solo che... io so cosa vuol dire, Ehlena. Non per i suoi stessi motivi... ma
capisco benissimo quel senso di separatezza. Sa, l'idea di guardare gli altri
vivere la loro vita... oh, cazzo, lasciamo perdere. Spero che dorma bene...»
«E così che mi sento quasi tutto il tempo.» La voce di Ehlena era dolce,
adesso, e Rehv fu lieto che avesse capito cosa stava cercando di dirle, anche se
era stato eloquente come un gatto randagio.
Ora era lui a sentirsi in imbarazzo. Non era abituato a parlare così... o a
sentirsi così. «Senta, adesso la lascio riposare un po'. Sono contento che abbia
chiamato.»
«Sa... anch'io.»
«E, Ehlena?» «Sì?»
«Credo che abbia ragione. Non è una buona idea impelagarsi in una
relazione sentimentale, al momento.»
«Davvero?»
«Sì. Buona giornata.»
Ci fu una pausa. «Buona,,, giornata. Aspetti...» «Cosa?»
«Il braccio. Cosa ha intenzione di fare per quel braccio?» «Non si preoccupi,
andrà a posto. Ma grazie dell'interessamento. Significa molto.»
Rehv riagganciò per primo e posò il telefono sul piumino di visone. Chiuse
gli occhi senza spegnere la luce. E non dormì neanche un po'.
Capitolo 14
Nel quartier generale della confraternita Wrath abbandonò
le speranze di superare a breve l'angoscia per la crisi conBeth. Poteva
passare un mese intero a rimuginare sulla sua poltroncina, che diamine, ma
sarebbe servito solo a farsi venire il culo quadro.
E nel frattempo i fratelli, fuori in corridoio, diventavano sempre più nervosi
e impazienti.
Spalancò la porta con la forza del pensiero e i vampiri guerrieri si misero
sull'attenti con sincronismo perfetto. Wrath guardò i loro corpi alti e
muscolosi davanti alla balconata, oltre la distesa azzurro pallido dello studio,
e li riconobbe non dal viso, dal vestito o dall'espressione, ma dall'eco che
ciascuno di loro risvegliava nel suo sangue.
Le cerimonie alla Tomba, che li avevano uniti tutti quanti in un vincolo
indissolubile, per quanto remote nel tempo non avevano ancora perso la loro
risonanza.
«Non statevene lì impalati», disse mentre i membri della confraternita lo
fissavano, immobili. «Non ho aperto quella cazzo di porta per farmi
ammirare come una bestia allo zoo.»
I fratelli entrarono con un gran trapestio di stivali - tranne Rhage, che
sfoggiava un paio di infradito, la sua tenuta standard quand'era a casa, quale
che fosse la stagione. Ognuno andò a piazzarsi al suo solito posto: Z in piedi
accanto al camino, V e Butch su un sofà dalle gambe sottili rinforzato di
recente. Rhage si avvicinò alla scrivania accompagnato dal flip-flip-flip delle
sue ciabattine e premette il tasto del vivavoce per collegarsi telefonicamente
con Phury.
Nessuno fece commenti su tutte le carte sparse sul pavimento.
Nessuno accennò a raccoglierle. Fecero tutti come se niente fosse e Wrath lo
apprezzò molto.
Nel chiudere la porta con la mente, il suo pensiero andò a Tohr. Il fratello
era in casa, in fondo alla galleria delle statue, a qualche porta di distanza, ma
era come su un altro pianeta. Invitarlo era improponibile... sarebbe stata una
crudeltà, considerato dov'era con la testa.
«Pronto?» disse Phury al telefono.
«Siamo tutti qui», lo informò Rhage prima di scartare un Toot- sie Pop e
avviarsi flip-flippando verso una orrenda poltrona verde.
Quella mostruosità era di Tohr; l'avevano spostata lì dall'ufficio per
permettere a John Matthew di dormirci sopra, subito dopo l'assassinio di
Wellsie e la scomparsa di Tohrment. Rhage tendeva a sedersi lì perché, con la
sua stazza, era la scelta più sicura per il suo fondoschiena, sofà rinforzati in
acciaio compresi.
Ora che tutti erano sistemati, sulla stanza calò il silenzio, fatta eccezione per
gli scrocchi dei molari di Hollywood su quel coso alla ciliegia che aveva in
bocca.
«Oh, per l'amor del cielo», gemette alla fine Rhage senza levarsi il leccalecca di bocca. «Dicci tutto, qualunque cosa sia, altrimenti mi metto a urlare..
E’ morto qualcuno ? »
No, pensò Wrath, ma in effetti aveva come la sensazione di avere ucciso
qualcuno.
Il re guardò Rhage, poi tutti gli altri, uno a uno. «Io sarò in coppia con te,
Hollywood.»
«In coppia? Nel senso di...» Rhage si guardò intorno per assicurarsi che
anche gli altri avessero sentito la stessa cosa. «Non stai parlando di una
partita a ramino, giusto?»
«No», disse piano Z. «Non credo proprio.»
«Porca puttana.» Rhage tirò fuori un altro lecca-lecca dalla tasca della felpa
nera. «Ma è legale?»
«Adesso sì», bofonchiò V.
«Aspettate, aspettate...» disse Phury dal telefono «è per rimpiazzare me?»
Wrath scosse la testa, anche se il fratello non poteva vederlo. «È per
rimpiazzare le tante perdite che abbiamo subito.»
La discussione esplose all'improvviso, effervescente come una lattina di
Coca Cola appena aperta. Butch, V, Z e Rhage si misero a parlare tutti
insieme finché una voce metallica non li interruppe:
«Allora voglio tornare anch'io.»
Tutti guardarono il telefono... tutti tranne Wrath, che fissava Z per studiare
la sua reazione. Zsadist non aveva problemi a manifestare la rabbia. Mai. Ma
nascondeva ansia e preoccupazione come i soldi in presenza di una banda di
rapinatori: mentre ancora le parole del suo gemello riecheggiavano nella
stanza, Z, in piena modalità di autodifesa e teso come una corda di violino,
non lasciava trapelare nulla in termini di emozioni.
Ah, vedi, pensò Wrath. Quel bastardo dalla pelle dura aveva una fifa blu.
«Sei sicuro che sia una buona idea?» chiese lentamente Wrath. «Forse
combattere non è quello che ti serve al momento, fratello.»
«Sono quasi quattro mesi che non tocco uno spinello», ribatté Phury al
vivavoce. «E non ho in progetto di ricominciare a drogarmi.»
«Lo stress non ti faciliterà le cose.»
«Perché, starmene seduto con le mani in mano mentre voialtri siete fuori a
combattere invece sì?»
Fantastico. Il re e il Primate della razza sul campo di battaglia per la prima
volta nella Storia. E perché? Perché la confraternita ormai era alla frutta.
Gran record da battere. Un po' come vincere la cinquanta metri "culo" alle
Olimpiadi degli Sfigati.
Cristo.
Poi però gli tornò in mente quel civile morto. C'era un'alternativa migliore?
No.
Appoggiandosi all'indietro sulla delicata poltroncina, fissò serio Z.
Quasi avvertendo quello sguardo su di sé, Zsadist si staccò dal camino e si
mise a camminare su e giù per lo studio. Tutti sapevano a cosa stava
pensando: Phury in overdose sul pavimento di un gabinetto, una siringa di
eroina vuota accanto a lui sulle piastrelle.
«Z?» Era la voce di Phury. «Z? Prendi la cornetta.»
Quando Zsadist parlò al telefono col suo gemello, la sua faccia, con quella
brutta cicatrice, assunse un'espressione così torva che persino Wrath la notò.
Un'espressione che non migliorò mentre diceva, «Uh-huh. Sì. Uh-huh. Lo so.
Giusto.» Ci fu una pausa lunghissima. «No, sono ancora qui. Okay. Va bene.»
Pausa. «Giuramelo. Sulla vita di mia figlia.»
Un attimo dopo Z inserì di nuovo il vivavoce, rimise a posto il ricevitore e
tornò al camino.
«Sono anch'io della partita», disse Phury.
Wrath cambiò posizione su quella maledetta poltrocina; avrebbe voluto che
tante cose fossero diverse. «Sai, forse in un altro momento ti avrei ordinato di
farti da parte. Ma adesso dico solo... Quando puoi cominciare?»
«Al tramonto. Affiderò a Cormia la responsabilità delle Elette finché sono
sul campo.»
«Pensi che ,sarà d'accordo?»
Ci fu una pausa. «Sa chi ha sposato. E voglio essere sincero con lei.»
Ahia.
«Adesso ho io una domanda», disse piano Z. «Riguarda il sangue secco
sulla tua maglietta, Wrath.»
Il re si schiarì la gola. «È già da un po' che ho ricominciato, a dire il vero. A
combattere.»
La temperatura nella stanza precipitò di colpo. Erano Z e Rhage che
esternavano la loro incazzatura per non essere stati informati.
Poi, all'improvviso, Hollywood imprecò. «Un momento... un momento. Voi
due lo sapevate... lo sapevate già, vero? Perché non sembrate sorpresi.»
Sotto lo sguardo truce del fratello, Butch si schiarì la gola. «Io gli servivo
per ripulire il campo dai ¡esser moribondi. E V ha cercato di fargli cambiare
idea.»
«Quand'è cominciata, Wrath?» sibilò Rhage.
«Quando Phury ha smesso di combattere.»
«Vorrai scherzare!»
Z andò a passo di carica verso uno dei finestroni alti fino al soffitto e,
malgrado le tapparelle fossero abbassate, rimase con lo sguardo fisso davanti
a sé, come se potesse vedere i giardini all'esterno. «Ringrazia il cielo che non
ti sei fatto ammazzare, là fuori.»
Wrath scoprì le zanne «Credi che non sappia più come si combatte solo
perché adesso sono dietro questa scrivania?»
Dal telefono si levò la voce di Phury. «Okay, calma, tutti quanti. Adesso lo
sappiamo tutti e d'ora in avanti le cose cambieranno. Nessuno combatterà più
da solo, a costo di stare in tre. Però devo sapere una cosa: deve diventare di
dominio pubblico? Lo annuncerai alla riunione del consiglio di dopodomani
sera?»
Cribbio, proprio non moriva dalla voglia di affrontare quel simpatico faccia
a faccia. «Credo che per ora sia meglio tenerlo per noi.»
«Già», sibilò Z, sarcastico, «perché essere sinceri, dopo tutto?»
Wrath ignorò la frecciata. «Però lo dirò a Rehvenge. So che alcuni membri
della glymera si lamentano per i raid di quest'estate; Se il malcontento
dovesse diffondersi, Rehv potrà sfruttare questa informazione per calmare le
acque.»
«Abbiamo finito?» chiese Rhage in tono piatto.
«Sì. E tutto.»
«Allora io levo le tende.»
Hollywood uscì a grandi passi dalla stanza, seguito a ruota da Z, altre due
vittime della bomba che Wrath aveva appena sganciato.
«Allora, come l'ha presa Beth?» s'informò V.
«Tu cosa dici?» Wrath si alzò e seguì l'esempio della coppia che era appena
uscita.
Era il momento di andare a cercare la dottoressa Jane per farsi
ricucire, sempre ammesso che i tagli non si fossero già rimarginati.
Doveva essere pronto per uscire di nuovo a combattere, l'indomani.
Nella luce fredda e limpida del mattino, Xhex si smaterializzò oltre un alto
muro di cinta riprendendo forma tra i rami spogli di un grosso acero. La
sontuosa villa che aveva di fronte riposava nel suo parco curatissimo, come
una perla grigia incastonata in una montatura di filigrana; robusti alberi
denudati dall'inverno si ergevano intorno alla vecchia magione di pietra,
ancorandola al prato ondulato, tenendola a terra.
Sotto il debole sole di dicembre ciò che di notte sarebbe apparso cupo
sembrava semplicemente venerabile ed elegante.
Xhex portava occhiali da sole scurissimi, l'unica concessione che era
costretta a fare al suo lato vampiresco se usciva durante il giorno. Dietro le
lenti quasi nere, la sua vista acuta notò ogni sensore di movimento, ogni luce
di sicurezza e ogni finestra piombata chiusa da una tapparella.
Penetrare all'interno sarebbe stata una sfida. I vetri delle finestre erano
sicuramente rinforzati in acciaio, il che escludeva di poter entrare
smaterializzandosi, anche con le tapparelle alzate. Grazie al suo lato
symphath, Xhex sentì che dentro c'era molta gente: i domestici in cucina, quelli
che dormivano al piano di sopra e altri che si muovevano nel resto delle
stanze. Non era una casa felice, le griglie emotive delle persone al suo interno
erano piene di sentimenti cupi e pesanti.
Smaterializzandosi, Xhex riprese forma sul tetto dell'ala principale della
villa, spargendo all'intorno una versione symphath del mhis. Più che
cancellarsi completamente, era diventata un'ombra tra le altre ombre
proiettate dai comignoli e dall'impianto di riscaldamento e condizionamento,
un espediente per neutralizzare i sensori di movimento.
Vicino a un condotto di aerazione trovò una griglia di acciaio piuttosto
spessa, imbullonata alle pareti metalliche. Idem per il comignolo. Chiuso con
una lastra di solido acciaio.
Non era una sorpresa. Avevano un ottimo sistema di sicurezza, lì.
Il modo migliore per penetrare all'interno era aprire una delle finestre con
una piccola sega a batterie, nottetempo. Gli alloggi della servitù, sul retro,
erano un buon punto d'accesso: coi domestici al lavoro, quella parte della
casa sarebbe stata più tranquilla.
Entrare. Localizzare il bersaglio. Eliminarlo.
Le istruzioni di Rehv erano di lasciare il cadavere bene in vista, dunque non
doveva preoccuparsi di nasconderlo o di sbarazzarsene.
Attraversò il tetto camminando sulla ghiaia che lo rivestiva; i cilici intorno
alle cosce le penetravano nei muscoli a ogni passo; il dolore le toglieva un po'
di energia fornendole la giusta concentrazione; entrambe le cose l'aiutavano a
tenere incatenati i suoi impulsi di symphath nel cortile del suo cervello.
Nel corso della missione non avrebbe indossato quelle bande chiodate.
Xhex si fermò a osservare il cielo. Il vento asciutto e tagliente prometteva
neve, e presto. Il gran gelo dell'inverno stava arrivando lì a Caldwell.
Ma da secoli era nel suo cuore.
Sotto di sé, sotto i suoi piedi, avvertì di nuovo la presenza delle persone che
si aggiravano per casa e lesse le loro emozioni. Era pronta a ucciderle tutte, se
glielo avessero ordinato, pronta a massacrarle senza pensarci e senza esitare
mentre giacevano nei loro letti, si occupavano delle faccende domestiche,
consumavano uno spuntino di mezzogiorno o si alzavano per fare una
pisciatina prima di tornarsene a dormire.
Il macello e lo sporco lasciati dalla morte, tutto quel sangue, non la
turbavano minimamenteproprio come una H&K o una Glock se ne fregano
delle macchie sui tappeti, degli schizzi sulle piastrelle o delle arterie
sanguinanti. La sola cosa che vedeva quando si metteva al lavoro era il colore
rosso, e comunque, dopo un po', gli occhi sbarrati per il terrore e le bocche
che esalavano a fatica l'ultimo respiro sembravano tutti uguali.
Era quella la grande ironia. In vita, ognuno è un bellissimo fiocco di neve
diverso dagli altri, ma quando la morte arriva e ci cattura si è solo un
anonimo ammasso di pelle, muscoli e ossa destinati a raffreddarsi e a
decomporsi secondo ritmi prevedibili.
Lei era la pistola impugnata dal suo capo. Lui premeva il grilletto, lei
sparava, il bersaglio cadeva e, sebbene delle vite sarebbero cambiate per
sempre, per tutti gli altri sul pianeta, lei compresa, il giorno dopo il sole
sarebbe sorto e tramontato come sempre.
Lei la vedeva così, quando pensava ai suoi impegni lavorativi: per metà
lavoro e per metà obbligo morale, per ciò che Rehv faceva per proteggere
entrambi.
Al tramonto sarebbe tornata in quel luogo per fare quello che doveva fare e
se ne sarebbe andata con la coscienza intatta e sicura come il caveau di una
banca.
Dentro e fuori, senza più pensarci.
Il metodo e la vita di un killer sono questi.
Capitolo 15
Gli alleati sono il terzo raggio, nella ruota della guerra. Risorse e reclute
forniscono il motore tattico che consente di affrontare, impegnare e ridurre
dimensioni e potenza del nemico. Gli alleati rappresentano un vantaggio
strategico, persone dagli interessi in linea con i tuoi, anche se filosofie e
obiettivi finali possono divergere. Sono importanti quanto i primi due fattori,
se si vuole vincere, ma un po' meno controllabili,
A meno che non si sappia come negoziare.
«Siamo in viaggio da un pezzo», disse Mr D al volante della Mercedes del
defunto padre adottivo di Lash.
«E lo saremo ancora per un po'.» Lash diede un'occhiata all'orologio.
«Non mi ha detto dove stiamo andando.»
«No. Non l'ho fatto, vero?»
Lash guardò fuori dal finestrino della berlina. Gli alberi ai due lati della
Northway sembravano schizzi a matita cui ancora mancavano le foglie:
querce spoglie, aceri alti e sottili e betulle scheletriche. L'unica cosa verde
erano i tozzi bastioni di conifere, sempre più numerosi via via che si
addentravano nell'Adirondack Park.
Cielo grigio. Autostrada grigia. Alberi grigi. Sembrava che il paesaggio
dello Stato di New York si fosse beccato l'influenza o roba del genere, aveva
lo stesso aspetto malaticcio di chi non ha fatto in tempo a farsi la vaccinazione
antinfluenzale.
Erano due i motivi per cui Lash non si era sbottonato sul luogo in cui lui e il
suo vice erano diretti. Il primo era decisamente vergognoso, e faticava ad
ammetterlo anche con se stesso: non era sicuro di riuscire a portare a termine
l'incontro che aveva organizzato.
Questi alleati erano complicati, ecco la verità, e già il solo fatto di avvicinarli
equivaleva a stuzzicare un vespaio con un bastone, Lash lo sapeva bene. Sì, il
potenziale per una grande alleanza c'era, ma se la lealtà è un buon attributo
in un soldato, è decisiva in un alleato, e nel luogo in cui erano diretti la lealtà
era un concetto sconosciuto come la paura. Così era più o meno fottuto su
entrambi i fronti, ecco perché non parlava. Se l'incontro non andava bene o se
subodorava qualcosa di poco chiaro, avrebbe desistito, e in tal caso non c'era
bisogno che Mr D conoscesse tutti i dettagli del soggetto con cui avevano a
che fare.
L'altro motivo per cui aveva le labbra sigillate era che la controparte poteva
anche non presentarsi. Nel qual caso, di nuovo, preferiva non lasciare traccia
del piano che aveva concepito.
Sul ciglio della strada un piccolo cartello verde con ima scritta bianca
catarifrangente diceva: CONFINE USA 38.
Eh sì, altre trentotto miglia e si era fuori dagli Stati Uniti... ecco perché la
colonia dei symphath era lassù. L'obiettivo era allontanare il più possibile
quegli stronzi psicotici dalla popolazione civile dei vampiri. Obiettivo
centrato. Àncora più vicino al Canada e avresti dovuto mandarli affanculo e
augurargli di andare a morire ammazzati in francese.
Lash aveva stabilito un contatto con i symphath grazie al vecchio schedario
alfabetico del suo padre adottivo che, al pari della sua automobile, si era
rivelato molto utile. In qualità di ex leahdyredel consiglio, Ibix sapeva come
contattarli in caso di necessità, ovvero se un symphath nascosto in mezzo al
resto della popolazione veniva scoperto e andava deportato. Naturalmente
ogni forma di diplomazia tra le due specie era esclusa. Sarebbe stato come
offrire a un serial killer non solo la propria gola, ma anche i coltelli con cui
sgozzarla.
L'e-mail di Lash al re dei symphath era stata succinta e garbata; in essa si era
identificato per quello che era veramente, non per quello che gli avevano
fatto credere di essere: lui era Lash, capo della Lessening Society. Lash, figlio
dell'Omega. E stava cercando un'alleanza contro i vampiri che avevano
discriminato e ostracizzato i symphath.
Il re dei symphath non voleva vendicare la mancanza di riguardo mostrata
nei confronti della sua gente?
La risposta che aveva ricevuto era cortese al punto che Lash quasi si era
precipitato a incontrarlo, poi però si era ricordato, dai tempi del suo
addestramento, che i symphath trattavano tutto come una partita a scacchi fino a quando catturavano il tuo re, trasformavano la regina in una puttana e
davano alle fiamme i tuoi castelli. Nella sua risposta il capo della colonia
aveva detto che una discussione collegiale nell'interesse reciproco sarebbe
stata la benvenuta; Lash voleva essere così cortese da recarsi lì al nord?
Poiché le possibilità di spostamento del re in esilio erano, per definizione,
limitate.
Lash aveva preso la macchina perché anche lui aveva imposto una
condizione, ovvero la presenza di Mr D. In realtà aveva avanzato quella
richiesta solo per stabilire un piano di parità. I symphath volevano che lui
andasse da loro? Bene, allora lui si sarebbe portato dietro uno dei suoi
uomini. E dato che il lesser non poteva smaterializzarsi, si era reso necessario
quel lungo viaggio in macchina.
Cinque minuti dopo Mr D imboccò un'uscita dell'autostrada e attraversò un
centro urbano grande come uno dei sette parchi cittadini di Caldwell. Non
c'erano grattacieli, solo edifici in mattoni di quattro o cinque piani, sembrava
quasi che i rigidi mesi invernali avessero bloccato la crescita non solo degli
alberi, ma anche dell'architettura.
Su indicazione di Lash puntarono verso ovest, oltrepassando coltivazioni di
meli senza foglie e allevamenti di bovini delimitati da staccionate.
Come già in autostrada, Lash divorava con gli occhi il paesaggio. Gli
sembrava ancora impossibile guardare il sole lattiginoso di dicembre che
gettava ombre sui marciapiedi, sui tetti delle case o sulla terra marrone sotto i
rami spogli degli alberi. Alla sua rinascita aveva ricevuto dal suo vero padre
un nuovo scopo nella vita, insieme al dono della luce del giorno, e lui se li
godeva immensamente entrambi.
Un paio di minuti dopo, il GPS della Mercedes andò in tilt. Dovevano
essere vicini alla colonia e infatti, come previsto, ecco la strada che stavano
cercando. Ilene Avenue era segnalata solo da un minuscolo cartello stradale.
Altro che Avenue: era un semplice viottolo sterrato in mezzo ai campi di
grano.
Sul terreno accidentato la berlina fece del suo meglio, assorbendo grazie
agli ammortizzatori i crateri creati dalle pozzanghere, ma sarebbe stato più
agevole viaggiare su un cavolo di fuoristrada. Alla fine, tuttavia, comparve in
lontananza una fitta cerchia di alberi; la fattoria che costituiva il fulcro
intorno al quale si affollavano era in ottime condizioni, di un bianco
abbagliante con imposte e tetto verde scuro. Come in uno di quei biglietti
natalizi degli umani, da due dei quattro comignoli usciva un filo di fumo
mentre sulla veranda c'erano delle sedie a dondolo e dei sempreverdi
ornamentali.
Avvicinandosi passarono davanti a un cartello bianco e verde scuro, molto
discreto, con scritto: ORDINE MONASTICO TAOI- STA, FONDATO NEL
1982. •
Mr D fermò la Mercedes, spense il motore e si fece il segno della croce. Una
vera scemenza. «C'è qualcosa che non mi quadra.»
D piccolo texano non aveva tutti i torti. La porta principale era aperta e il
sole inondava il caldo pavimento in legno di ciliegio, ma dietro la facciata
accogliente c'era qualcosa di losco. Era tutto troppo perfetto, troppo calcolato
per mettere i visitatori a proprio agio, indebolendo così i loro istinti di
autodifesa.
Tipo una ragazza carina con una malattia sessualmente trasmissibile, pensò
Lash.
«Andiamo», disse.
Scesero entrambi; Mr D impugnò la Magnum mentre Lash non si disturbò
neanche a prendere la pistola. Suo padre gli aveva insegnato molti trucchetti
e, contrariamente a quando aveva a che fare con gli umani, non aveva
problemi a tirar fuori le sue doti speciali davanti a un symphath. Fare un po' di
scena poteva aiutarli, se non altro a vederlo nella giusta luce.
Mr D si sistemò il cappello da cowboy. «Non mi quadra proprio per
niente.»
Lash socchiuse gli occhi. A ogni finestra pendevano delle tendine di pizzo;
la stoffa era linda come appena candeggiata, ma faceva venire la pelle d'oca.. .
Ehi, ma, si muoveva?
In quel momento si rese conto che non si trattava di pizzo, ma di ragnatele.
Popolate da aracnidi bianchi.
«Sono.,., ragni quelli?»
«Già.» Non era proprio il tipo di arredamento che avrebbe scelto lui, pensò
Lash, ma mica doveva viverci, lì dentro.
Tutti e due ebbero un attimo di esitazione davanti al primo dei tre gradini
della veranda. Alcune porte aperte non sono un segno di benvenuto, e questa
era una di quelle... più che "salve come va?" sembrava dicesse "entrate così
possiamo usare la vostra pelle per confezionare un bel mantello da supereroe
per uno dei pazienti di Hannibal Lecter."
Lash sogghignò. Chiunque abitasse in quella casa faceva proprio al caso
suo.
«Vuole che vada a suonare il campanello?» chiese Mr D. «Per vedere se c'è
qualcuno?»
«No, aspettiamo. Verranno loro da noi.»
Infatti, come previsto, in fondo al salone principale comparve qualcuno.
L'essere che videro avanzare verso di loro aveva tanta di quella roba in
testa e sulle spalle da dare del filo da torcere a un set di Broadway. Il tessuto,
di uno strano bianco scintillante, catturava la luce rifrangendola nel ricco
panneggio, e tutto il suo peso era sorretto da un'alta cintura di broccato
bianco.
Molto impressionante. Se ti piaceva il genere monarca-sacerdote.
«Salve, amico», disse una voce bassa e seducente. «Sono quello che stai
cercando, il capo di questi reietti.»
Le "s" erano strascicate in modo esagerato, fin quasi a diventare parole a se
stanti, e l'accento suonava molto simile alla vibrazione ammonitrice della
coda di un serpente a sonagli.
Lash si sentì pervadere da un fremito d'eccitazione che gli arrivò fino
all'uccello. Il potere, in fin dei conti, ti manda su di giri più dell'ecstasy, e la
creatura ferma sulla soglia trasudava autorità da tutti i pori.
Due mani lunghe ed eleganti si alzarono verso il cappuccio bianco,
tirandolo indietro. Il volto dai lineamenti delicati e aristocratici del capo
consacrato dei symphath era liscio come la sua veste spettacolare. Il
patrimonio genetico che aveva generato quello stupendo killer effeminato era
raffinato al punto che i sessi quasi si riducevano a uno solo, le caratteristiche
maschili e femminili si mescolavano, con una prevalenza di quello femminile.
Il sorriso, però, era di ghiaccio. E gli scintillanti occhi rossi tradivano
un'astuzia che rasentava la malvagità.
«Non desiderate entrare?»
La bella voce del serpente fondeva insieme tutte le parole e Lash si ritrovò
ammaliato da quel suono.
«Sì», disse, decidendo seduta stante. «Grazie.»
Fece un passo avanti, ma il re alzò una mano.
«Un momento, per favore. Dì al tuo compagno di non avere paura, per
favore. Qui non vi accadrà nulla di male.» Erano affermazioni molto gentili,
all'apparenza, ma il tono era duro – Lashinterpretò nel senso che in casa non
erano i benvenuti se Mr D impugnava la pistola.
«Metti via la pistola», ordinò sottovoce. «Penso io a proteggerci.»
Mr D rimise nella fondina la calibro 357, trattenendosi dal dire
solito "sissignore", e il symphath si fece da parte per lasciarli entrare.
Salendo i gradini, Lash si accigliò e guardò in giù. Sul legno i pesanti anfibi
non facevano il minimo rumore, e lo stesso accadde sulle lastre della veranda,
quando si avvicinarono alla porta.
«Noi preferiamo il silenzio.» Il symphath sorrise, rivelando una chiostra di
denti regolari, il che fu una sorpresa. Evidentemente le zanne di quelle
creature, un tempo strettamente imparentate con i vampiri, con l'evoluzione
della specie erano sparite. Se ancora si nutrivano di sangue, non dovevano
farlo molto spesso, a meno che non avessero confidenza con i coltelli.
Con un ampio gesto del braccio, il re indicò alla sua sinistra. «Vogliamo
accomodarci in salotto?»
Il "salotto" più che altro era una "sala da bowling con sedie adondolo".
L'immenso salone era tutto pavimenti tirati a lucido e pareti intonacate di
bianco. In fondo, quattro sedie a dondolo Shaker erano disposte a
semicerchio intorno al camino acceso come se, spaventate da tutto quel
vuoto, si fossero radunate per trarne conforto.
«Accomodatevi, prego», disse il re, sollevando e allargando la lunga veste
prima di prendere posto su una delle sedie dalle gambe sottili.
«Tu stai in piedi», ordinò Lash a Mr D il quale, obbediente, si piazzò dietro
la sedia di Lash.
Le fiamme divoravano i ceppi che le alimentavano senza il consueto,
allegro, crepitio. Le sedie a dondolo non emisero il benché minimo
scricchiolio, quando il re e Lash vi poggiarono il loro peso. I ragni, silenziosi,
scesero ciascuno al centro della propria ragnatela, quasi fossero preparati a
fungere da testimoni.
«Tu e io abbiamo una causa comune», esordì Lash.
«Così sembri credere.»
«Credevo che quelli come te trovassero allettante la vendetta.»
Il re sorrise e Lash sentì di nuovo nel pene quello strano fremito. «Sei male
informato. La vendetta è solo una rozza difesa emotiva in risposta a un
affronto.»
«Mi stai dicendo che non lo ritenete alla vostra altezza?» Lash si appoggiò
allo schienale e cominciò a dondolare avanti e indietro sulla sedia. «Hmmm...
forse allora vi ho giudicato male.»
«Siamo più sofisticati di così, sì.»
«O forse siete solo un branco di checche vestite da donna.»
Il sorriso del symphath scomparve. «Siamo di gran lunga superiori a coloro
che hanno creduto di imprigionarci. In verità, noi preferiamo stare tra noi.
Siamo stati noi a concepire questo esito, cosa credi? Sciocco. I vampiri sono la
base grossolana da cui ci siamo evoluti, scimpanzé a confronto della nostra
superiore facoltà di raziocinio. Ti piacerebbe restare tra gli animali quando
invece puoi vivere in modo civile con la tua gente? Certo che no. I simili si
piacciono, i simili si cercano. Le menti comuni e quelle superiori si
accompagnano solo con chi condivide la loro stessa condizione.» Le labbra
del re si curvarono in un sorriso. «Sai bene che è vero. Neanche tu sei rimasto
al punto di partenza, o sbaglio?»
«No, hai ragione.» Lash scoprì per un attimo le zanne; il male che aveva
dentro, proprio come quello dei divoratori di peccati, non si era integrato tra i
vampiri. «Adesso occupo il posto che mi spetta.»
«Dunque vedi, se non avessimo aspirato al risultato finale che abbiamo
ottenuto in questa colonia, forse non avremmo cercato vendetta, ma
intrapreso un'azione correttiva tale da conciliare il nostro destino coi nostri
interessi.»
Lash smise di dondolarsi. «Se non ti interessava un'alleanza potevi dirmelo
con una cazzo di e-mail.»
Negli occhi del re si accese una strana luce, una luce che eccitò ancora di
più Lash, ma al tempo stesso lo disgustò. Lui non aveva nessuna simpatia per
gli omosessuali, e tuttavia... be', che cavolo, suo padre aveva un debole per i
maschi; forse anche lui aveva ereditato in parte quella propensione.
E allora Mr D avrebbe avuto motivo di pregare.
«Se ti avessi mandato una e-mail non avrei avuto il piacere di conoscerti.»
Quegli occhi rosso rubino scivolarono lungo il corpo di Lash. «E sarebbe stato
un peccato per i miei sensi.»
Il piccolo texano si schiarì la gola, neanche si stesse soffocando con la
lingua.
Quando quel verso di disapprovazione si spense, la sedia del re cominciò a
dondolare avanti e indietro in silenzio. «C'è una cosa che potresti fare per me,
tuttavia... una cosa che a sua volta mi obbligherebbe a darti ciò che cerchi ovvero localizzare i vampiri, se non erro. Questo è da sempre l'obiettivo della
Lessening Society: trovare i vampiri nelle loro case nascoste.»
Il bastardo aveva colpito nel segno. Con i raid dell'estate Lash era andato a
colpo sicuro perché era stato di persona nelle tenute dei suoi bersagli, avendo
partecipato alle feste di compleanno dei suoi amici, ai matrimoni dei cugini e
ai balli della glymera tenutisi proprio in quelle ville. Adesso, però, ciò che
restava della élite dei vampiri era disseminato in case sicure fuori città o
addirittura fuori dallo Stato, e lui non ne conosceva gli indirizzi. Nel caso dei
civili, poi, non sapeva neanche da che parte cominciare, perché non aveva
mai socializzato col proletariato.
I symphath, invece, erano in grado di avvertire la presenza degli altri, sia
umani che vampiri, riuscivano a vederli anche attraverso solide mura o
attraverso le fondamenta dei seminterrati. Se voleva fare progressi, Lash
aveva bisogno di quella capacità di penetrazione; era l'unica cosa che gli
mancava tra tutti gli strumenti fornitigli da suo padre.
Lash puntò di nuovo l'anfibio sul pavimento e ricominciò a dondolare allo
stesso ritmo del re.
«E di preciso cosa vorresti da me?», chiese in tono strascicato.
re sorrise. «La coppia è la cellula fondamentale della nostra società, giusto?
L'unione di un maschio con una femmina. E tuttavia, all'interno di questi
rapporti intimi, la discordia è diffusa. Si fanno promesse che poi non si
mantengono, si prendono impegni che poi non vengono rispettati. Contro tali
trasgressioni occorre adottare dei provvedimenti.»
«Suona tanto come un desiderio di vendetta, amico.»
Su quel volto liscio si dipinse un'espressione compiaciuta. «Non
vendetta, no. Un'azione correttiva. Che qualcuno debba morire... è
semplicemente ciò che le circostanze richiedono.»
«Qualcuno dovrà morire, eh? E così i symphath non credono nel divorzio?»
Negli occhi rosso rubino del re si accese un lampo di disprezzo. «Nel caso
di un compagno infedele che fuori dal letto compie, azioni contrarie al fulcro
della relazione, la morte è il solo divorzio possibile.»
Lash annuì. «Capisco la logica. Chi è il bersaglio, allora?»
«Ti impegni ad agire?»
«Non ancora.» Non gli era ancora del tutto chiaro fin dove gli convenisse
spingersi. Sporcarsi le mani all'interno della colonia non faceva parte del suo
piano originale.
Il re smise di dondolarsi e si alzò in piedi. «Pensaci, allora, e prendi una
decisione. Quando sarai pronto a ricevere da noi ciò che ti serve per la tua
guerra, torna da me e io ti mostrerò come procedere.»
Lash si alzò in piedi a sua volta. «Perché non uccidi tu stesso la tua
compagna?»
Il lento sorriso del re assomigliava a quello di un cadavere, rigido e gelido.
«Mio carissimo amico l'affronto che più mi ferisce, non è tanto l'infedeltà, che
mi aspettavo, quanto l'arrogante presunzione che non avrei mai scoperto
l'inganno prima è una inezia. La seconda è imperdonabile. Ora... vi
accompagno alla macchina?»
«No, non c'è bisogno.»
«Come preferisci.» Il re tese la mano a sei dita. «E stato un vero piacere...»
Lash allungò la sua e appena i due palmi entrarono in contatto sentì una
scossa elettrica lungo il braccio. «Sì. Okay. Ti farò sapere.»
Capitolo 16
Lei era con lui... oh, Dio, finalmente era tornata con lui. Tohrment, figlio di
Hharm, premuto contro la sua amata, nudo, sentiva la sua pelle vellutata e il
suo ansimare mentre le accarezzava il seno. Capelli rossi... capelli rossi su
tutto il guanciale contro cui l'aveva rovesciata e sulle lenzuola bianche
profumate di limone... capelli rossi attorcigliati intorno al suo braccio
muscoloso.
Girava il pollice intorno al capezzolo turgido e baciava con trasporto,
lentamente, quelle labbra morbide. L'avrebbe portata al culmine del desiderio
per poi montarle sopra penetrandola con forza, tenendola giù.
A lei piaceva essere schiacciata dal suo peso. Le piaceva sentirlo sopra di sé.
Nella loro vita in comune Wellsie era una femmina indipendente, dotata di
una determinazione e una tenacia da fare invidia a un bulldog, ma a letto le
piaceva stare sotto.
Fece scivolare la bocca sul suo seno, succhiando il capezzolo, rigirandolo tra
le labbra, baciandolo.
«Tohr...»
«Cosa, leelan? Ancora? Forse ti farò aspettare...»
Ma non ci riuscì. La coccolò, accarezzandole ventre e fianchi. Mentre lei si
contorceva, le leccò il collo facendole scorrere le zanne sulla giugulare. Non
vedeva l'ora di bere il suo sangue. Per qualche motivo moriva di fame. Forse
aveva combattuto molto.
Lei gli affondò le dita tra i capelli. «Attaccati alla mia vena...»
«Non ancora.» Il piacere sarebbe stato ancora più grande, se lo avesse
rimandato di qualche minuto... la smania per il suo sangue lo avrebbe reso
ancora più dolce.
Risalendo verso la bocca di lei, la baciò più appassionatamentedi prima,
penetrandola con la lingua mentre con gesto deliberato le sfregava il membro
contro la coscia, come promessa di un'altra, più intima invasione. Lei era
eccitatissima, il suo odore sovrastava la fragranza al limone delle lenzuola,
facendogli pulsare le zanne e lacrimare il glande.
La sua shellan era l'unica femmina che avesse mai posseduto. Erano
entrambi vergini, la prima notte di nozze... e lui non aveva mai desiderato
nessun'altra.
«Tohr...»
Dio, quanto gli piaceva il suono sommesso della sua voce. Gli piaceva tutto
di lei. Erano promessi sposi prima ancora di nascere e appena si erano
conosciuti era stato amore a prima vista. Il destino era stato così generoso con
loro.
Tohr fece scorrere il palmo sulla sua vita e poi...
Si fermò; qualcosa non andava. Qualcosa...
«Il tuo ventre... il tuo ventre è piatto.»
«Tohr...»
«Dov'è il piccolo?» Tohrment si ritrasse in preda al panico. «Eri incinta.
Dov'è il piccolo? Sta bene? Cosa ti è successo... stai bene?»
«Tohr...»
Lei aprì gli occhi, e lo sguardo di cui Tohrment si era beato per oltre un
secolo si focalizzò su di lui. Una tristezzaindicibile, simile a quella che ti fa
rimpiangere di essere nato, prosciugò tutto il rossore eccitato dal bel viso di
lei.
Alzò il braccio e gli posò la mano sulla guancia. «Tohr...»
«Cos'è successo?»
«Tohr...»
Il velo di lacrime sui suoi occhi e il tremito nella sua bella voce lo
spezzarono in due. Poi lei cominciò a dissolversi, il suo corpo scompariva
sotto il tocco di Tohr, i suoi capelli rossi, il suo volto incantevole, i suoi occhi
disperati svanirono a poco a poco, finché davanti a lui restarono solo i
cuscini. Poi, in un ultimo colpo di grazia, anche l'aroma al limone delle
lenzuola e il naturale odore di pulito di Wellsie lasciarono le sue narici, e non
rimase più niente...
Tohr si rizzò sul materasso, gli occhi traboccanti di lacrime, il cuore a pezzi,
come se gli avessero conficcato dei chiodi nel petto. Respirando a fatica, si
Strinse lo sterno e aprì la bocca per gridare.
Non ne uscì alcun suono. Non aveva la forza di urlare.
Ricadendo contro i cuscini, si asciugò con mani tremanti le guance bagnate
cercando di calmarsi. Quando alla fine riprese fiato, si accigliò. Il cuore
saltellava nella cassa toracica, più che battere vibrava e, senza dubbio a causa
di quegli spasmi inconsulti, aveva il capogiro.
Alzando la T-shirt guardò i pettorali sgonfi e il torace rattrappito e ordinò al
suo organismo di continuare a deperire. Episodi di quel genere si erano
verificati con crescente regolarità e violenza, e lui sperava ardentemente che,
prima o poi, lo avrebbero aiutato a morire nel sonno. Il suicidio era escluso se
volevi entrare nel Fado e stare con i tuoi cari defunti, ma lui stava operando
sulla base dell'assunto che si può efficacemente trascurare se stessi fino alla
morte. Il che, tecnicamente, non era un suicidio come spararsi in bocca,
legarsi un cappio intorno al collo o tagliarsi le vene dei polsi.
L'odore di cibo proveniente dal corridoio lo spinse a guardare l'orologio. Le
quattro del pomeriggio. O invece era mattina? Le tende erano tirate, quindi
non sapeva se le tapparelle erano su o giù.
Qualcuno bussò piano alla porta.
Grazie al cielo non era Lassiter, che entrava quando gli pareva.
Evidentemente gli angeli caduti non conoscevano la buona educazione. 0 il
diritto a starsene un po' per conto proprio. O limiti di qualunque tipo,
Chiaramente quel grande incubo luminoso era stato scacciato dal paradiso
perché Dio non aveva gradito la sua compagnia più di quanto la gradisse
Tohr.
Bussarono di nuovo sommessamente. Doveva essere John.
«Sì», disse Tohr, lasciando ricadere la maglietta mentre si raddrizzava sui
cuscini. Le braccia, un tempo forti come gru meccaniche, lottarono sotto il
peso delle spalle avvizzite.
John, che non era più un ragazzino, entrò con un vassoio traboccante di
cibarie e una faccia piena di ingiustificato ottimismo.
Tohr lo guardò mentre posava il carico sul comodino. Pollo alle erbe, riso
allo zafferano, fagiolini verdi e panini freschi.
Poteva essere benissimo un gatto spiaccicato avvolto nel filo spinato, per
quél che gli importava, ma prese comunque il piatto, aprì il tovagliolo,
impugnò forchetta e coltello e si mise all'opera.
Mastica. Mastica. Mastica. Manda giù. Mastica ancora. Manda giù. Bevi.
Mastica. Mangiare era un gesto meccanico e involontario come respirare,
qualcosa di cui era solo vagamente consapevole, una necessità, non un
piacere.
Il piacere era una cosa confinata nel passato... e nei suoi sogni, una tortura.
Ripensò alla sua shellan premuta contro di sé, nuda, tra le lenzuola profumate
di limone, e quell'immagine fugace bastò ad accenderlo di desiderio e a farlo
sentire vivo, non un sopravvissuto. Ma quell'impeto vitale si spense in fretta,
come una fiamma senza uno stoppino in grado di mantenerla in vita.
Mastica. Taglia. Mastica. Inghiottì. Bevi.
Mentre lui mangiava, il ragazzo se ne stava seduto vicino alle tende chiuse,
un gomito sul ginocchio, il mento sul pugno, un Pensatore di Rodin in carne e
ossa. John era sempre così, ultimamente, sempre tormentato da qualcosa.
Tohrment sapeva benissimo cosa lo assillava, ma la soluzione che avrebbe
posto fine alla sua mesta preoccupazione, prima lo avrebbe fatto soffrire
terribilmente.
E a lui spiaceva. Molto.
Cristo, perché Lassiter non lo aveva lasciato in quel bosco? Maledetto
angelo, avrebbe potuto tirare diritto per la sua strada e invece no, Sua
Signoria Alogena doveva fare l'eroe.
Tohr spostò gli occhi su John e si soffermò sul suo pugno. Era enorme, e il
mento e la mascella che vi erano appoggiati erano forti, virili. Il ragazzino si
era trasformato in un bel giovanotto; d'altronde, in quanto figlio di Darius,
aveva un ottimo patrimonio genetico. Uno dei migliori.
Pensandoci bene... era identico a D, una copia carbone, in realtà, blue jeans
a parte. Darius si sarebbe tagliato le vene piuttosto che farsi vedere in blue
jeans, compresi quelli effetto usato disegnati da qualche stilista di grido che
piacevano tanto a John.
In effetti, spesso D assumeva proprio quella posa quando rimuginava sulla
vita, tutto pensieroso « afflitto come la celebre scultura di Rodin...
Un lampo argenteo occhieggiò nella mano libera di John. Era una monetina
da un quarto di dollaro; se la rigirava tra le dita nella sua versione di un tic
nervoso.
Quella sera c'era qualcosa di diverso; non era ilAsolito John appollaiato in
silenzio sulla sedia. Era successo qualcosa.
«Cosa c'è?» chiese Tohr, la voce ridotta a un raschio. «Stai bene?»
John lo guardò, sorpreso.
Per evitare quello sguardo, Thor abbassò gli occhi, infilzò un pezzo di pollo
e se lo mise in bocca. Mastica. Mastica. Inghiottì.
A giudicare dai rumori di sottofondo, John si stava lentamente riscuotendo
dai suoi pensieri, quasi temesse che i movimenti bruschi potessero
spaventare la domanda inespressa che aleggiava tra loro.
Tohr gli lanciò un'altra occhiata e rimase in attesa; dopo qualche istante
John si infilò in tasca la monetina e, con un'elegante economia di gesti, disse,
Wrath ha ripreso a combattere. V l'ha appena comunicato a me e ai ragazzi.
Tohr era arrugginito con la lingua dei segni, ma non così arrugginito. Per la
sorpresa abbassò la forchetta. «Un momento... è ancora re, giusto?»
Sì, ma stasera ha detto ai fratelli che ricomincerà a fare in turni sul campo. O forse
aveva già ricominciato, ma se lo era tenuto per sé. Credo che i fratelli siano incavolati
con lui.
«Tornerà sul campo? Impossibile. Al re non è consentito combattere.»
Adesso sì. E ricomincerà anche Phury.
«Ma che cazzo...? Il Primole non deve...» Tohr si accigliò. «C'è qualche
cambiamento nella guerra? Sta succedendo qualcosa?»
Non lo so. John si strinse nelle spalle appoggiandosi allo schienale della
sedia e accavallando le gambe. Altra cosa che Darius faceva sempre.
In quella posa il figlio sembrava vecchio com'era stato il padre, anche se
meno per le gambe accavallate e più per la stanchezza negli occhi azzurri.
«Non è legale», disse Tohr.
Adesso lo è. Wrath si è incontrato con la Vergine Scriba.
Una messe di domande cominciò a ronzare nella testa di Tohr, mettendo a
dura prova il cervello impreparato a elaborare quel carico inconsueto. In quel
vortice disarticolato era difficile pensare in modo coerente; era come tenere
tra le braccia cento palline da tennis: per quanto si sforzasse, alcune
scivolavano via e rimbalzavano tutt'intorno, creando una gran confusione.
Alla fine, rinunciando a cercare una logica, disse, «Be', questo sì che è un bel
cambiamento... auguro buona fortuna a tutti e due.»
Il sommesso sospiro di John riassunse il tutto alla perfezione, mentre Tohr,
staccata la spina dal mondo, ricominciava a mangiare. Quand'ebbe finito
piegò il tovagliolo con cura e bevve un'ultima sorsata d'acqua.
Accese la TV sulla CNN perché non aveva voglia di pensare e non tollerava
il silenzio. John si trattenne per un'altra mezz'oretta e, quando chiaramente
non ce la fece più a stare fermo, si alzò in piedi e si sgranchì.
Ci vediamo a fine serata.
Ah, così era pomeriggio. «Io sono qui.»
John prese il vassoio e uscì senza fermarsi, senza esitazioni. All'inizio ce
n'erano state tante, quasi sperasse che, giunto davanti alla porta, Tohr lo
avrebbe fermato per dire, Sono pronto ad affrontare la vita. Terrò duro. Adesso sto
abbastanza bene da prendermi cura di te.
Ma la speranza non è eterna.
Quando la porta si chiuse, Tohr scostò le lenzuola dalle gambe scheletriche
e con grande fatica buttò i piedi giù dal letto.
Era pronto ad affrontare qualcosa, sì, ma non la sua esistenza. Con un
grugnito e una spinta, barcollò fino al gabinetto, andò al water e alzò il
coperchio di quel trono di porcellana. Si piegò sulla tazza e a un suo comando
lo stomaco evacuò il pasto senza tante storie.
All'inizio aveva dovuto infilarsi un dito in gola, ma ora non più. Gli bastava
contrarre il diaframma e veniva su tutto, come topi che scappano da una
fogna in piena,
«Devi darci un taglio.»
La voce di Lassiter si armonizzava con lo scroscio dello sciacquone. Più che
logico.
«Ma tu non bussi mai, Cristo?»
«Sono Lassiter. L-A-S-S-I-T-E-R. Com'è possibile che tu mi confonda ancora
con qualcun altro? Devo attaccarmi un cartellino col nome?»
«Sì, sulla bocca.» Tohr si accasciò sul marmo del pavimento e si prese la
testa tra le mani. «Puoi tornare a casa, sai. Puoi andartene quando vuoi.»
«Metti in moto quel tuo culo piatto, allora, perché soltanto così mi
convincerai a farlo.»
«Bene, ecco una ragione per vivere»
Un sommesso tintinnio stava a significare che, tragedia delle tragedie,
l'angelo si era appena issato a sedere sul piano del lavandino. «Allora, che si
fa stasera? Aspetta, lasciami indovinare, ce ne stiamo qui seduti in un silenzio
imbronciato. O invece no... hai deciso di cambiare programma: mettiamo il
muso con accorata intensità, giusto? Brutto birbante. Non sarà troppo, questa
botta di vita? Un altro po' e potresti ritrovarti ad aprire un concerto rock.»
Con un'imprecazione, Tohr si alzò in piedi e andò ad aprire il rubinetto
della doccia nella speranza che, se continuava a ignorarlo, quel chiacchierone
si sarebbe stufato più ili fretta e sarebbe passato a rovinare il pomeriggio di
qualcun altro.
«Domanda», disse l'angelo. «Quando tagliamo quello zerbino che ti sta
crescendo sulla testa? Se si allunga ancora un po' dovremo falciarlo come il
fieno.»
Tohr si tolse T-shirt e boxer godendosi l'unica consolazione possibile,
poiché obbligato a subire la compagnia di Lassiter: mostrargli le chiappe.
«Cavolo, culo piatto è proprio azzeccato come soprannome», bofonchiò
Lassiter. «Hai un paio di palloni sgonfi, lì dietro. Fammi pensare... Ehi,
scommetto che Fritz ha una pompa per biciclette. Dico per dire.»
«Non ti piace il panorama? Sai dov'è la porta. È quella cosa su cui non bussi
mai.»
Tohr non aspettò neanche che l'acqua si scaldasse; si infilò sotto il getto e si
lavò senza sapere bene perché... non aveva amor proprio, quindi non gliene
fregava niente di quello che gli altri pensavano della sua igiene personale.
Vomitare aveva uno scopo preciso. Fare la doccia... forse era solo
un'abitudine.
A occhi chiusi, aprì le labbra e si piazzò di fronte al soffione. Mentre l'acqua
gli entrava in bocca lavando via la bile dalla lingua, un pensiero si insinuò nel
suo cervello.
Wrath era fuori a combattere. Da solo.
«Ehi, Tohr.»
Tohr si accigliò. L'angelo non lo chiamava mai per nome. «Cosa.»
«Stasera è diverso.»
«Sì, solo se mi lasci in pace. Oppure se ti impicchi in questo bagno. Ci sono
ben sei soffioni tra cui scegliere.»
Tohr si insaponò tutto, sentendo le ossa e le giunture che spuntavano dalla
pelle sottile.
Wrath fuori da solo.
Shampoo. Sciacquati. Voltati di nuovo verso il getto d'acqua. Apri la bocca.
Fuori. Da solo.
Terminata la doccia, l'angelo era lì fuori ad aspettarlo con un asciugamano,
tutto servizievole.
«Stasera è diverso», ripetè piano Lassiter.
Tohr lo guardò per davvero, vedendolo per la prima volta, anche se erano
insieme da quattro mesi. L'angelo aveva i capelli neri e biondi lunghi come
quelli di Wrath, ma non era un amante del travestitismo, malgrado la chioma
alla Cher sciolta sulla schiena. Il suo guardaroba era decisamente in stile
Esercito/Marina: magliette nere, pantaloni mimetici e anfibi, ma non era tutto
in stile militare. Quel cazzone era pieno di piercing come un puntaspilli e
accessoriato come un portagioielli, con anellini e catene d'oro alle orecchie, ai
polsi e alle sopracciglia. E c'era da scommettere che ne aveva anche sul petto
e sotto la cintura... Tohr non voleva neanche pensarci. Non aveva bisogno
d'aiuto per vomitare, grazie mille.
Passandogli l'asciugamano, l'angelo disse in tono grave, «È ora di
svegliarsi, Cenerentola.»
Tohr stava per fargli notare che si era confuso con la Bella Addormentata,
quando fu assalito da un ricordo, neanche gli fosse stato iniettato nel lobo
frontale. Era la notte in cui aveva salvato la vita di Wrath, nel lontano 1958, e
le immagini gli tornarono alla mente nitidissime, come fosse appena
successo.
Il re era fuori. Da solo. In città.
Mezzo morto e sanguinante nella fogna.
Una Edsel lo aveva centrato in pieno. Una cazzo di Edsel decappottabile,
azzurra come l'ombretto di una cameriera da tavola calda.
Da quello che Tohr aveva capito in seguito, Wrath stava inseguendo un
¡esser quando, svoltato l'angolo di corsa, un'auto
enorme lo aveva investito. Thor, a due isolati di distanza, aveva sentito lo
stridore dei freni e lo schianto dell'impatto, e si apprestava a non fare
assolutamente nulla.
Incidenti automobilistici tra umani? Non era un suo problema.
Poi però aveva visto un paio di lesser passare di corsa davanti al vicolo in
cui si trovava. I non morti correvano all'impazzata sotto la pioggerellina
sottile, come se avessero qualcuno alle calcagna, ma attaccato al culo non
avevano nessuno. Tohr aveva atteso qualche istante, aspettandosi di vedere
uno dei suoi fratelli, ma non era sopraggiunto nessuno.
Non aveva nessun senso. Se un lesser fosse stato investito da una macchina,
i suoi amichetti non avrebbero abbandonato la scena. Dopo aver ucciso
l'umano alla guida e ogni eventuale passeggero, avrebbero infilato il loro
morto nel bagagliaio e si sarebbero allontanati a bordo dell'auto: l'ultima cosa
che la Lessening Society voleva era un lesser moribondo che gocciolava per
strada sangue nero.
Forse però era solo una coincidenza. Un pedone umano. Oppure un ciclista.
O magari due auto.
La frenata era stata una sola, però, e non spiegava la coppia di corridori
sbiancati che gli erano cascati davanti come due piromani in fuga
dall'incendio appena appiccato.
Tohr era corso sulla Trade e dietro l'angolo aveva visto un umano in
cappello e impermeabile accovacciato accanto a un corpo grande il doppio di
lui. La moglie del tizio, vestita con uno di quei vaporosi abiti-sottoveste tipici
degli anni Cinquanta, se ne stava impalata davanti ai fari dell'auto, stretta
nella sua pelliccia.
La gonna rosso fuoco era dello stesso colore delle scie sull'asfalto, ma
l'odore del sangue versato non era umano. Era quello di un vampiro. E il
vampiro investito aveva i capelli lunghi...
La voce della donna era stridula. «Dobbiamo portarlo all'ospedale...»
Tohr si era fatto avanti, interrompendola. «È mio.»
L'uomo aveva alzato la testa. «Il suo amico... non l'ho visto... Vestito di
nero... è spuntato dal nulla...»
«Ci penso io.» A quel punto Thor aveva smesso di dare spiegazioni e con la
forza del pensiero aveva fatto cadere i due umani in una sorta di trance, poi,
grazie alla suggestione, li aveva spinti a risalire in macchina e a ripartire, con
l'impressione di aver travolto un bidone dell'immondizia. La pioggia si
sarebbe incaricata di lavare via il sangue dal muso dell'automobile e
l'ammaccatura potevano sistemarla per conto loro.
Col cuore che batteva come un martello pneumatico, si era chinato sopra il
corpo dell'erede al trono della razza. C'era sangue dappertutto, sgorgava
veloce da uno squarcio alla testa di Wrath, così Tohr si era tolto il giubbotto e
a morsi aveva strappato una striscia di cuoio. Dopo aver fasciato le tempie
dell'erede al trono e aver legato più stretta che poteva la benda di fortuna,
aveva fermato un camion di passaggio puntando la pistola contro il
messicano al volante, e si era fatto portare fino al quartiere dove stava
Havers.
Nel cassone posteriore dell'autocarro aveva tenuto premuta la mano sulla
ferita alla testa di Wrath, sotto la pioggia gelida. Una pioggia di fine
novembre, forse dicembre. Meno male che non era estate, comunque. Senza
dubbio il freddo aveva rallentato il cuore di Wrath e abbassato la sua
pressione sanguigna.
A mezzo chilometro dalla casa di Havers, nella zona più esclusiva di
Caldwell, Tohr aveva ordinato all'umano di accostare e, dopo avergli ripulito
a fondo il cervello, lo aveva indotto a proseguire per la sua strada.
I minuti impiegati per arrivare alla clinica erano stati tra i più lunghi della
sua vita, ma alla fine era riuscito a ricoverare Wrath e Havers aveva suturato
quello che si era rivelato essere un taglio all'arteria temporale.
Il giorno dopo la vita di Wrath era appesa a un filo. Malgrado Marissa lo
avesse nutrito, il re aveva perso talmente tanto sangue da non rispondere alle
cure come previsto e Tohr era rimasto tutto il tempo seduto su una sedia al
suo capezzale. Vedendo Wrath steso immobile, Tohr aveva avuto la
sensazione che l'intera razza fosse in bilico tra la vita e la morte: l'unico
vampiro titolato per salire al trono era sprofondato in un sonno comatoso, a
pochi neuroni di distanza da uno stato vegetativo permanente.
La notizia era trapelata e tutti ne erano rimasti scossi: le infermiere e il
dottore, gli altri pazienti - che erano passati a pregare per quel re refrattario
ad assumere il ruolo di sovrano - i fratelli, che chiamavano ogni quarto d'ora
coi vecchi telefoni a rotella.
La sensazione collettiva era stata che senza Wrath non c'era nessuna
speranza. Nessun futuro. Nessuna prospettiva.
Wrath era sopravvissuto; si era svegliato con la luna storta, il genere di cosa
che ti fa tirare un sospiro di sollievo... perché se un paziente ha l'energia per
essere così incazzoso, significa che ce la farà.
La sera successiva, dopo essere rimasto privo di conoscenza per
ventiquattr'ore di fila e aver spaventato a morte tutti quelli che gli stavano
intorno, Wrath si era staccato la flebo, si era vestito e se n'era andato.
Senza una parola a nessuno di loro.
Tohr si era aspettato... qualcosa. Non un grazie, ma un qualche
riconoscimento o... qualcosa. Adesso Wrath era un burbero figlio di puttana,
ma all'epoca era decisamente tossico, diamine.
Ma anche così … niente? Dopo che gli aveva salvato la vita?
Per certi versi gli ricordava il modo in cui lui stava trattando John.
E i suoi fratelli.
Si legò l’asciugamano intorno alla vita e pensò al punto più importante di
quel ricordo. Wrath là fuori a combattere, da solo. Nel lontano 58 era stato un
colpo di fortuna che Tohr fosse stato dov’era | e avesse trovato il re prima
che fosse troppo tardi.
«E’ ora di svegliarsi», ripetè Lassiter.
Capitolo 17
Al calar della sera Ehlena sperò di non fare di nuovo tardi al lavoro. Con il
ticchettio dell'orologio in sottofondo, aspettava di sopra, in cucina, con il
CranRas e le medicine polverizzate. Era stata meticolosa nel pulire: aveva
messo via il cucchiaio, aveva controllato due volte tutte le superfici, si era
persino assicurata che il soggiorno fosse in perfetto ordine.
«Papà?» chiamò, in cima alle scale.
Mentre cercava di cogliere rumori di passi strascicati e mormorii sconnessi,
ripensò allo strano sogno che aveva fatto durante il giorno. Aveva visto Rehv
in lontananza, al buio, le braccia penzoloni lungo i fianchi. Il suo magnifico
corpo nudo era illuminato a giorno, come in mostra, i muscoli gonfi in una
esibizione di potenza, la pelle di un caldo marrone dorato. Aveva la testa
china e gli occhi chiusi, come se stesse riposando.
Ammaliata, quasi rispondendo a un richiamo, lei si era avvicinata
attraversando un gelido pavimento di pietra e chiamandolo ripetutamente
per nome.
Lui non aveva reagito. Non aveva alzato la testa. Non aveva aperto gli
occhi.
La paura le aveva gelato il sangue nelle vene, col cuore che batteva
all'impazzata si era messa a correre, ma lui era rimasto sempre distante, un
obiettivo destinato a rimanere irrealizzato, una meta irraggiungibile.
Si era svegliata in lacrime e tutta tremante. Man mano che il turbamento si
era dissipato il significato del sogno era apparso chiaro, ma in realtà non
aveva bisogno di sentirsi dire dal suo subconscio ciò che già sapeva.
Riscuotendosi, chiamò di nuovo, «Papà?»
Non ottenendo risposta, Ehlena prese la tazza di suo padre e scese in
cantina. Camminava lentamente, ma non perché temesse di rovesciare il
CranRas rosso sangue sull'uniforme bianca. Ogni tanto suo padre non si
alzava da solo e lei doveva scendere di sotto, e ogni volta si chiedeva se fosse
successo, alla fine, se suo padre fosse passato nel Fado.
Non era pronta a perderlo. Non ancora, per quanto la situazione fosse dura.
Infilò la testa nella sua stanza e lo vide seduto alla scrivania intagliata a
mano, circondato da pile disordinate di carte e candele spente.
Grazie, Vergine Scriba.
Mentre i suoi occhi si abituavano alla penombra, Ehlena si preoccupò di
come la mancanza di luce potesse danneggiare la vista di suo padre, ma le
candele sarebbero rimaste spente perché in casa non c'erano fiammiferi né
accendini. L'ultima volta che suo padre aveva messo le mani su un cerino
erano ancora nella loro vecchia casa... e lui aveva dato fuoco all'appartamento
perché glielo avevano ordinato le sue voci.
Era capitato due anni prima, ed era il motivo per cui era entrato in terapia
farmacologica.
«Papà?»
Lui alzò gli occhi da tutta quella confusione e parve sorpreso. «Figliola cara,
come stai stasera?»
Sempre la stessa domanda, a cui lei dava sempre la stessa risposta
nell'Antico Idioma. «Bene, papà, E tu?»
«Come sempre sono deliziato dal tuo saluto. Ah, sì, la doggen mi ha versato il
succo. Molto gentile da parte sua.» Suo padre prese la tazza. «Dove stai
andando?»
Questo preludeva al loro passo a due verbale in cui lui diceva di non
approvare che lei lavorasse, lei spiegava che lo faceva perché le piaceva e lui
scrollava le spalle sconsolato dichiarando di non capire la giovane
generazione.
«Adesso devo proprio andare», disse Ehlena, «ma tra pochissimo arriverà
Lusie.»
«Sì, bene, bene. Ho da fare con il mio libro, in verità, ma le terrò compagnia per un
po', com'è giusto che sia. Però poi dovrò rimettermial lavoro», e agitò la mano
indicando la rappresentazione fisica del suo disordine mentale, l'eleganza del
gesto in contrasto col caos dei fasci di carte pieni di assurdità. «Non posso
trascurarlo.»
«Ma certo, papà.»
Lui finì il CranRas e, quando Ehlena fece per levarglielo di mano, si
accigliò. «Non dovrebbe farlo la cameriera?»
«Mi fa piacere aiutarla. Ha tante di quelle faccende da sbrigare.» Era la verità. La
doggen doveva seguire tutte le regole relative aglioggetti e al loro posto, oltre
a fare la spesa, portare a casa i soldi, pagare le bollette e prendersi cura di lui.
La doggen era stanca. La doggen era distrutta.
Ma la tazza doveva assolutamente tornare su in cucina.
«Papà, per favore lascia andare la tazza, così posso portarla su di sopra. La
cameriera ha paura di disturbarti, e vorrei risparmiarle questa
preoccupazione.»
Per un attimo gli occhi di suo padre la misero a fuoco come accadeva un
tempo, «Hai un cuore buono e generoso. Sono così orgoglioso che tu sia mia figlia.»
Ehlena batté convulsamente le palpebre e, con voce strozzata, disse, «Il tuo
orgoglio significa tutto per me.»
Lui le strinse la mano con forza. «Vai, figliola cara. Vai a fare questo tuo
"lavoro", e poi torna a casa da me a raccontarmi com'è andata la tua nottata.»
Oh... Dio.
Proprio quello che le aveva detto tanto tempo prima, quando lei
frequentava la scuola privata, sua madre era ancora viva e tutti e tre vivevano
in seno alla famiglia e alla glymera, come gente che conta.
Al suo ritorno a casa, Ehlena lo sapeva, quasi certamente suo padre non si
sarebbe ricordato di chiederle niente, a differenza di come faceva un tempo,
ma sorrise comunque, assaporando le gustose briciole del passato.
«Come sempre, caro papà. Come sempre.»
Ehlena uscì, accompagnata dal fruscio delle pagine che venivano sfogliate e
dal tink-tink-tink di una penna d'oca sul bordo di un calamaio di cristallo.
Di sopra, risciacquò la tazza, la asciugò e la ripose nell'armadietto, poi
controllò che nel frigorifero fosse tutto al suo posto. Appena ricevette l'SMS
in cui Lusie l'avvertiva che stava arrivando, uscì, chiuse a chiave la porta e si
smaterializzò verso la clinica.
Giunta al lavoro provò un sollievo enorme nell'essere come tutti gli altri:
arrivare in orario, mettere le cose nell'armadietto, chiacchierare del più e del
meno prima dell'inizio del turno.
Ma poi Catya le si avvicinò tutta sorrisi alla macchinetta del caffè. «Allora...
com'è andata ieri sera? Dai, racconta.»
Ehlena terminò di riempire la tazza, nascondendo una smorfia dietro una
lunga sorsata che le ustionò la lingua. «Credo che "non pervenuto" renda
bene l'idea.»
«Non pervenuto?»
«Già. Nel senso che non si è fatto vedere.»
Catya scosse la testa. «Accidenti.»
«No, non fa niente. Davvero. Sì, insomma, non è che ci sperassi granché.»
Sì, come no, si era fatta solo un gran film sul futuro, un film che comprendeva
cose come un hellren, una famiglia tutta sua, unii vita degna di essere vissuta.
Niente di che. «Non fa niente.»
«Sai, Ieri sera pensavo... Io ho un cugino che...»
«Grazie, ma no. Con mio padre nello stato in cui è preferisco non uscire con
nessuno.» Ehlena si accigliò, ricordando con quanta velocità Rehv si era detto
d'accordo con lei, su quel punto. Si poteva argomentare che questo ne faceva
una specie di gentiluomo, ma era difficile non sentirsi lievemente infastidita.
«Voler bene a tuo padre non significa...»
«Ehi, cosa ne dici se mi occupo del banco accettazione durante il cambio di
turno?»
Catya si interruppe, ma i suoi occhi chiari lanciavano una quantità di
messaggi, per la maggior parte riassumibili nella domanda, "Quando si
sveglierà questa ragazza?"
«Ci vado subito», disse Ehlena, voltandosi.
«Non dura per sempre.»
«Certo che no. Quasi tutti quelli del turno di notte sono già arrivati.»
Catya scosse la testa. «Non intendevo questo, e lo sai. La vita non dura per
sempre. Tuo padre ha una grave patologia psichiatrica e tu sei molto buona
con lui, ma potrebbe restare così per un altro secolo.»
«Nel qual caso mi resterebbero grosso modo altri settecento anni. Vado
all'accettazione. Scusami »
All'accettazione Ehlena prese posta dietro al computer e lo accese. In sala
d'attesa non c'era nessuno perché il sole era appena tramontato, ma presto i
pazienti avrebbero cominciato ad arrivare e lei non vedeva l'ora di tuffarsi in
quella distrazione.
Scorrendo il programma giornaliero ai Havers non vide nulla di insolito.
Visite di controllo, esami di routine, medicazioni chirurgiche... /
Il campanello esterno suonò e lei diede un'occhiata al monitor di sicurezza.
Fuori c'era un tizio senza appuntamento infagottato nel cappotto contro il
vento gelido.
Ehlena premette il pulsante del citofono e disse, «Buonasera. Come posso
aiutarla?»
Il viso che si voltò verso la telecamera non le giungeva nuovo. L'aveva già
visto. Tre sere prima. Era il cugino di Stephan.
«Alix?» disse. «Sono Ehlena. Come st...»
«Sono venuto a vedere se l'hanno portato qui.» «Chi?»
«Stephan.»
«Non credo, ma fammi dare una controllata. Tu intanto scendi.» Ehlena
premette il tasto che sbloccava la serratura e controllò al
computer l'elenco dei degenti. Fece scorrere i nomi uno a uno mentre
apriva la serie di porte per Alix.
Nessun accenno al ricovero di Stephan.
Alix entrò in sala d'attesa e appena Ehlena lo guardò in faccia le si ghiacciò
il sangue. I cerchi scuri sotto gli occhi grigi segnalavano molto più che una
semplice mancanza di sonno.
«Stephan non è tornato a casa, ieri sera», disse Alix.
Rehv detestava il mese di dicembre, e non solo perché il freddo nella parte
settentrionale dello Stato di New York gli faceva venir voglia di darsi fuoco,
pur di scaldarsi.
A dicembre faceva buio presto. Il sole, quello sfaticato di un pelandrone,
smetteva di lavorare alle quattro e mezzo del pomeriggio, il che significava
che gli appuntamenti da incubo del primo martedì del mese cominciavano in
anticipo.
Erano solo le dieci quando entrò nel Black Snake State Park dopo un
viaggio di due ore di macchina verso nord. Trez, che si smaterializzava
sempre fin lassù, doveva essersi già appostato nei pressi del capanno, attento
a non farsi notare e pronto a fargli da guardia del corpo.
Oltre che da testimone.
Trez si poteva ragionevolmente definire il suo migliore amico, e il fatto che
dovesse assistere a tutta la scena era un'aggravante, in quel casino infame,
l'ennesima rottura di palle. Ma, una volta finito con la Principessa, Rehv
aveva bisogno di aiuto per tornare a casa, questo era il guaio, e Trez era bravo
in quel genere di cose.
Xhex pretendeva di sobbarcarsi quel compito, naturalmente, ma di lei non
ci si poteva fidare. Non quando c'era di mezzo la principessa. Se Rehv si fosse
distratto anche solo per un attimo, sulle pareti del capanno si sarebbe stesa
una nuova mano di vernice fresca... del genere raccapricciante.
Come sempre, Rehv posteggiò nel parcheggio sterrato ai piedi del versante
in ombra della montagna. Non c'erano altre automobili, e si aspettava che
anche i sentieri che si dipartivano a ventaglio dal parcheggio fossero deserti.
Guardò fuori dal parabrezza; era tutto rosso e piatto ai suoi occhi.
Disprezzava la sua sorellastra, detestava guardarla e sperava che quelle loro
luride scopate finissero, una buona volta, ciononostante il suo corpo non era
intorpidito e freddo, ma vivo e fremente: nei calzoni, l'uccello era già
prontissimo per quello che stava per succedere.
Se solo si fosse deciso a scendere dalla macchina.
Posò la mano sulla maniglia, ma non ce la fece a tirare la levetta, proprio
non se la sentiva.
Che pace. Il silenzio era rotto solo dal sommesso ticchettio del motore della
Bentley che si raffreddava.
Sehza ino!ivo pensò alla bella risata di Ehlena, e fu questo a far-gli aprire la
portiera. In fretta mise fuori la testa mentre lo stomaco SÌ serrava come un
pugno, e quasi vomitò. Mentre il freddo placava la nausea, cercò di scacciare
dalla mente Ehlena. Lei era cosi pulita, rispettabile e gentile; trovava
intollerabile anche solo sfiorarla col pensiero quando si apprestava a fare
quelle porcherie.
Il che era una sorpresa.
Proteggere qualcuno dal mondo crudele, da ciò che era letale, e pericoloso,
sporco, osceno e ripugnante non faceva parte del suo DNA. Ma aveva
imparato a farlo quando si trattava delle uniche tre femmine normali della
sua vita. Per quella che lo aveva messo al mondo, quella che lui aveva
cresciuto come una figlia e per la piccola che sua sorella aveva partorito di
recente, era pronto ad affrontare ogni tipo di minaccia, a uccidere a mani
nude chiunque potesse far loro del male, a stanare e distruggere anche la
benché minima fonte di pericolo.
E in qualche modo, dopo la piacevole chiacchierata che avevano fatto
qualche ora prima, anche Ehlena era entrata a far parte di quella lista
ristrettissima.
Il che significava che doveva tagliarla fuori. Insieme alle altre tre.
Vivere da puttana gli andana bene perché la faceva pagare cara a quella che
si scopava, e poi la prostituzione era quello che si meritava, né più né meno,
considerato il modo in cui il suo vero padre aveva violentato sua madre,
costringendola a concepirlo. Ma doveva vedersela da solo. Soltanto lui
entrava in quel capanno e costringeva il suo corpo a fare quello che faceva.
Le poche femmine normali della sua vita dovevano stare alla larga, lontano
da tutto questo, il che significava cancellarle dai suoi pensieri e dal suo cuore
quando andava lassù. Più tardi, dopo essersi ripreso, dopo una doccia e una
dormita, avrebbe potuto ripensare ai dolci occhi nocciola di Ehlena, al suo
intenso profumo di cannella e al modo in cui aveva riso, suo malgrado,
mentre chiacchieravano. Per il momento tagliò fuori dal suo lobo frontale lei,
sua madre, sua sorella e la sua adorata nipotina, chiudendo a chiave tutti i
ricordi in una sezione separata del cervello.
La principessa cercava sempre di insinuarsi nella sua testa, e lui non voleva
che scoprisse nulla delle persone che gli stavano a cuore.
Quando una violenta raffica di vento quasi gli sbatté la portiera sulla testa,
Rehv si tirò sulle spalle lo zibellino, scese dalla Bentley, abbassò le sicure e si
avviò verso l'imbocco del sentiero; sotto le suole delle sue Cole Haan il
terreno ghiacciato scricchiolava, duro e compatto.
Tecnicamente il parco adesso era chiuso per la stagione invernale, una
catena chiudeva il largo viottolo che proseguiva oltre il grande cartello con la
pianta della montagna e i bungalow da affittare. Erano le condizioni
atmosferiche, però, più che i forestali dell'Adirondack Park Service, a tenere
lontani i gitanti. Dopo aver scavalcato la catena, Rehv ignorò il foglio dove i
visitatori potevano lasciare la propria firma, anche se in teoria non si
prevedevano visite. Rehv non scriveva mai il suo nome.
Già, perché le guardie forestali umane avevano proprio bisogno di sapere
cosa succedeva tra due symphath in uno di quei capanni.
Cooooome nooo.
Uno dei lati positivi del mese di dicembre era che il bosco era meno
claustrofobico d'inverno; querce e aceri, ridotti a tronchi e rami scheletrici,
lasciavano filtrare senza più ostacoli la notte stellata. Tutt'intorno a loro, i
sempreverdi se la spassavano un mondo, i rami frondosi erano un vaffanculo
arboreo ai loro fratelli adesso spogli, una rivalsa per tutto il vistoso fogliame
autunnale che gli altri alberi avevano ostentato fino a poco tempo prima.
Penetrando oltre la linea degli alberi, Rhev segui la pista principale che via
via si restringeva. Altri sentieri più piccoli si diramavano a destra e a sinistra,
contrassegnati da segnali in legno grezzo con nomi come Passeggiata
dell'Amicizia, Fulmine a ciel sereno, Picco Lungo e Picco Corto. Proseguì
diritto, il fiato che si condensava in nuvolette di vapore, il rumore dei
mocassini sul terreno ghiacciato che risuonava in modo esagerato. Sopra la
sua testa brillava una affilata falce di luna che, con i suoi impulsi di symphath
quasi fuori controllo, era rosso rubino come gli occhi della sua ricattatrice.
Trez Comparve sotto forma di una brezza gelida che soffiava lungo il
sentiero.
«Ehilà, amico», lo salutò piano Rehv.
La voce di Trez fluttuò nel suo cervello mentre la forma d'Ombra della
guardia del corpo si condensava in un'onda scintillante SBRIGATI, CON LEI.
PRIMA TI CURIAMO MEGLIO È.
«Sarà quel che sarà.» PRIMA È MEGLIO È.
«Vedremo.»
Maledicendolo, Trez si dissolse di nuovo in una gelida folata di vento che,
spazzando il sentiero, sparì.
Per quanto Rehv odiasse andare lì, a volte non voleva più andare via,
questa era la verità. Gli piaceva far male alla principessa, e lei era una ottima
avversaria. Scaltra, veloce, crudele. Era l'unico sfogo per il suo lato malvagio
e, come un corridore affamato di allenamenti, ne aveva bisogno.
E poi forse era come con il suo braccio: l'infezione era piacevole.
Rehv imboccò il sesto sentiero sulla sinistra, dove si poteva procedere solo
in fila indiana, e ben presto avvistò il capanno. Al chiaro di luna i tronchi di
cui era fatto avevano un colore che ricordava il vino rosato.
Giunto davanti alla porta allungò la mano sinistra e, quando strinse le dita
intorno alla maniglia di legno, pensò a Ehlena e all’interesse che aveva
dimostrato telefonandogli per il braccio.
Per un breve attimo risentì il suono della sua voce all'orecchio.'
Non capisco perché non si prende cura di se stesso.
La porta gli venne strappata di mano, spalancandosi così ii fretta da andare
a sbattere contro il muro.
La principessa era ritta al centro del capanno; la veste rosso fuoco, I rubini
al collo e gli occhi rosso sangue erano tutti del colore dell'odio. Con i capelli
raccolti in modo da lasciar libero il collo, la carnagione pallida e gli scorpioni
albini che usava a mo' di orecchini, era orrendamente magnifica, una
bambola Kabuki confezionata da una mano malefica. E lei era malefica. La
sua tenebra lo investì a ondate, scaturendo dal centro del suo petto anche se
nulla intorno in lei si muoveva e il suo volto lunare restava impassibile.
Allo stesso modo, la sua voce era tagliente come una lama. «Non c'è
nessuna spiaggia nella tua mente, stasera. No. Nessuna spiaggia.»
Rehv nascose in tutta fetta Ehlena, sostituendola con lo splendido
stereotipo di paesaggio delle Bahamas, tutto sole, mare e sabbia. L'aveva
visto in televisione, anni prima, uno "Speciale evasione", come l'aveva
definito l'annunciatrice, con la gente in costume che passeggiava mano nella
mano. L'immagine, quanto mai vivida, era il sospensorio ideale per le gonadi
della sua materia grigia.
«Chi è quella?»
«Chi?» fece Rehv, entrando. J
Il capanno era caldo grazie a lei: l'agitazione molecolare dell'aria era un
trucchetto, e adesso era potenziato dalla sua collera. Ma il calore generato
dalla principessa non era allegro come quello di: un camino... più che altro
assomigliava alle vampate che ti assalgono quando te la fai sotto dalla paura.
«Chi è la femmina nella tua mente?»
«La modella di una pubblicità televisiva, mia carissima troia», rispose lui
con lo stesso tono suadente. Poi, senza voltarle la schiena, chiuse la porta
senza fare rumore. «Gelosa?»
«Per essere gelosa dovrei sentirmi minacciata. E sarebbe assurdo.» La
principessa sorrise. «Ma credo che dovresti dirmi chi è.»
«E questo che vuoi fare? Parlare?» Con ostentazione, Rehv lasciò che la
pelliccia si aprisse e si prese in mano l'uccello duro e il pesante scroto . «Di
solito mi vuoi per qualcosa di più che una semplice conversazione.»
«Verissimo. L'uso più nobile e migliore che si può fare di te è come... com'è
che lo chiamano gli umani? Vibratore, dico bene? Un giocattolo con cui una
femmina può masturbarsi.»
«femmina non è necessariamente la parola che userei per descriverti.»
«In effetti. Amore andrà benissimo.»
La principessa alzò la mano verso lo chignon, facendo scorrere le dita
ossute a tre nocche sulla complicata acconciatura, il polso sottilissimo. Il suo
corpo non era diverso: i symphath avevano la corporatura di giocatori di
scacchi, non di quarterback, in armonia con la loro predilezione per lo scontro
cerebrale, più che fisico. Nell'abbigliamento non erano né maschi né
femmine, ma piuttosto una versione distillata di entrambi i sessi, ecco perché
la principessa lo desiderava tanto. Le piaceva il suo corpo, i suoi muscoli, la
sua smaccata e brutale virilità, e durante il sesso di solito voleva essere legata
- cosa che di sicuro a casa non sperimentava. Per quel che ne sapeva lui, la
versione symphath dell'atto sessuale si riduceva a qualche posizione mentale
seguita da un paio di sfregamenti e da un ansito da parte del maschio.
Inoltre, era pronto a scommettere che il loro zio era meno dotato di un
criceto, con due palle grosse come gomme da matita.
Non che avesse mai verificato... ma, andiamo, lo zio non era esattamente un
concentrato di testosterone.
La principessa fece il giro del capanno, quasi ostentando la propria grazia,
ma c'era un motivo ben preciso in quel peregrinare da una finestra all'altra
guardando fuori.
Sempre quelle finestre della malora.
«Dov'è il tuo cane da guardia, stasera?»
«Vengo sempre da solo.»
«Menti al tuo amore.»
«Perché mai dovrei mostrare questo spettacolo a qualcuno?»
«Perché io sono bellissima.» La principessa si fermò davanti ai vetri più
vicini alla porta. «E laggiù sulla destra, vicino al pino.»
Rehv non aveva bisogno di piegarsi di lato e guardare fuori per sapere che
la principessa aveva ragione. Naturale che avvertisse la presenza di Trez; solo
non poteva sapere con certezza dove o cosa fosse.
Ciononostante disse, «Ci sono alberi e basta.»
«Falso.»
«Paura delle ombre, Principessa?»
Quando lei lo guardò da sopra la spalla, anche lo scorpione albino appeso
al suo lobo sinistro entrò in contatto visivo con lui.
«La paura non c'entra. Il punto e l'infedeltà. Io non tollero l'infedeltà»
«A meno che non sia tu a praticarla, naturalmente.»
« Oh ma io ti sono fedelissima, amore mio. Fatta eccezione per il fratello di
nostro padre, come sai.» La principessa si voltò, ergendosi in tutta la sua
statura. «Il mio sposo è l'unico, a parte te. E vengo qui da sola.»
«Le tue virtù sono innumerevoli, anche se, come ho già detto* ti prego di
fare entrare qualcun altro nel tuo letto. Anche cento altri maschi.»
«Nessuno reggerebbe il confronto con te.»
Rehv veniva assalito dall'impulso di vomitare ogni volta che la, principessa
gli faceva un falso complimento, e lei lo sapeva. Il che naturalmente era il
motivo per cui insisteva a dire stronzate come' quella.
«Dimmi», aggiunse per cambiare argomento, «dato che hai tirato in ballo
nostro zio, come sta quel figlio di buona donna?»
«Ti crede ancora morto. Quindi io ho fatto la mia parte.»
Rehv infilò la mano nella tasca dello zibellino e tirò fuori i duecentocinquantamila dollari in rubini tagliati. Gettò il simpatico sacchettino
per terra, accanto al bordo della lunga veste della principessa, e si tolse la
pelliccia. La giacca del completo e i mocassini seguirono a ruota. Poi fu la
volta dei calzini di seta, dei pantaloni e della camicia. Niente boxer. Perché
prendersi il disturbo di metterli?
Rehvenge rimase fermo di fronte a lei in piena erezione, i piedi ben piantati
per terra, il fiato cheentrava e usciva dal grosso torace. «E io sono pronto a
completare la nostra transazione.»
La principessa fece scorrere gli occhi rosso rubino lungo il suo corpo e
indugiò sul suo sesso, schiudendo le labbra e passandosi la lingua biforcuta
sul labbro inferiore. Gli scorpioni alle sue orecchie agitarono le zampette
pregustando ciò che stava per accadere, - come in risposta alla vampata che le
aveva arrossato le guance.
La principessa indicò il sacchettino di velluto. «Raccoglilo dammelo come si
deve.»
«No.»
«Raccoglilo.»
«Ti piace chinarti davanti a me. Perché dovrei privarti del tuo passatempo
preferito.»
La principessa infilò le mani nelle lunghe maniche della tunica e gli si
avvicinò con la fluidità tipica dei symphath, fluttuando sul pavimento di
legno. Lui non si spostò di un millimetro, meglio morire piuttosto che
arretrare di un passo davanti ai tipi come lei.
Si fissarono a lungo e, in quel silenzio ostile .quanto opprimente, Rhev
sperimentò una terribile comunione con lei. Erano fatti della stessa pasta e,
per quanto detestasse ammetterlo, provava un senso di sollievo nel poter
essere se stesso.
«Raccogli,..»
«No.»
La principessa abbassò le braccia e le sue mani a sei dita fendettero l'aria
davanti al suo viso; lo schiaffo che lo colpì fu duro e tagliente come gli occhi
rosso rubino della sua ricattatrice. Rehv si rifiutò di piegare la testa
all'indietro per l'impatto, mentre lo schiocco riecheggiava sonoro come un
piatto che va in frantumi.
«Porgimi la decima come si deve, te lo ordino. E voglio sapere chi è quella
femmina. Avevo già percepito il tuo interesse per lei... quando sei lontano da
me.»
Rehv tenne appiccicata al lobo frontale la pubblicità della spiaggia, sapendo
che la principessa stava bluffando. «Io non mi inchino davanti a te né a
nessun altro, troia. Quindi se vuoi quel sacchetto dovrai toccarti la punta dei
piedi. Quanto a quello che credi di sapere, ti sbagli. Non c'è nessuna
femmina.»
Lei lo schiaffeggiò di nuovo; il colpo si diffuse lungo la spina dorsale
palpitando nel glande. «Ti inchini davanti a me ogni volta che vieni qui col
tuo patetico pagamento e col tuo sesso affamato. Tu hai bisogno di questo,
hai bisogno di me.»
Lui le andò sotto a muso duro. «Non sopravvalutarti, Principessa. Tu per
me sei un compito ingrato, non una libera scelta.»
«Sbagliato. Tu vivi per odiarmi.»
La principessa gli prese in mano l'uccello, stringendolo con forza tra le dita
degne di una salma. Nel sentire quella stretta e quelle carezze, Rehv fu
assalito dal disgusto... e tuttavia, suo malgrado, l'erezione lacrimò sull'attenti:
pur non trovando affatto attraente la principessa, il suo lato symphath era
attratto da quel duello di volontà, era questo l'aspetto erotico del loro
rapporto.
La principessa si protese verso di lui, sfregando con l'indice l'uncino alla
base del membro eretto. «Chiunque sia la femmina nella tua testa, non può
competere con quello che abbiamo noi due.»
Rehv alzò le mani ai lati del collo della sua ricattatrice e premette i pollici
fino a farla ansimare. «Potrei staccarti la testa dalla spina dorsale.»
«Non lo farai.» Lei gli fece scorrere sul collo le labbra rosse e lucide,
scorticandolo col rossetto alla polvere di peperoncino. «Perché non
potremmo fare questo se io fossi morta.»
«Non sottovalutare il fascino della necrofilia. Specie con te come vittima.»
L'afferrò per lo chignon e diede uno strattone. «Vogliamo metterci al lavoro?»
«Dopo che avrai raccolto...»
«Scordatelo. Io non mi piego.» Con la mano libera le strappò il davanti della
tunica, scoprendo il body di rete che indossava sempre, poi la fece voltare
spingendola con la faccia contro la porta e insinuandosi tra le pieghe di raso
rosso, mentre lei ansimava. Il body era intriso di veleno di scorpione che,
mentre Rehv si faceva strada verso il suo sesso, gli penetrava nella pelle. Con
un po' di fortuna poteva scoparsela per un po' con la tunica addosso...
La principessa si smaterializzò, sottraendosi alla sua stretta, e riprese forma
davanti alla finestra da cui Trez poteva guardare all'interno. In un baleno la
veste sparì, rimossa dalla forza del pensiero, rivelando la sua nudità. Come la
serpe che era, la principessa aveva un fisico robusto e insieme sottilissimo;
alla luce della luna che si rifletteva sulle sue maglie intrecciate, il body
scintillante sembrava fatto di scaglie.
Aveva i piedi piantati ai due lati del sacchetto di rubini.
«Adesso mi renderai lode», disse, infilandosi la mano tra le cosce e
accarezzandosi la vulva. «Con la tua bocca.»
Rehv avanzò e si mise in ginocchio. Poi, alzando gli occhi su di lei, disse
sorridendo, «E tu raccoglierai quel sacchetto.»
Capitolo 18
Ferma davanti alla camera mortuaria della clinica, col cuore in gola e le
braccia strette intorno al petto, Ehlena pregava. Malgrado l'uniforme, non
stava aspettando in veste di infermiera e il cartello all'altezza degli occhi con
scritto RISERVATO AL PERSONALE le vietava di entrare come avrebbe fatto
con chiunque vestito normalmente. I minuti scorrevano lenti come secoli e lei
fissava le lettere neanche avesse dimenticato come si fa a leggere. La parola
riservato era sulla metà superiore della porta, al personale sull'altra metà.
Grosse lettere rosse in stampatello. Sotto c'era anche una traduzione
nell'Antico Idioma.
Alix aveva appena varcato quella soglia, affiancato da Havers.
Ti prego... non Stephan. Ti prego, fa' che il cadavere non identificato non sia quello
di Stephan.
Il lamento che filtrò attraverso la porta con scritto RISERVATO AL
PERSONALE le fece chiudere gli occhi talmente forte da provocarle il
capogiro.
Non le aveva dato buca, alla fin fine.
Dieci minuti dopo Alix uscì, pallido in volto, le occhiaie rosse per le tante
lacrime asciugate. Havers, subito dietro di lui, appariva ugualmente straziato.
Ehlena si fece avanti e prese tra le braccia Alix, «Mi dispiace tanto.»
«Come... come faccio a dirlo ai suoi genitori... Non volevano che venissi
qui... Oh, Dio...»
Ehlena tenne stretto il corpo tremante del vampiro finché Alix non si
raddrizzò, passandosi le mani sulla faccia. «Non vedeva l'ora di uscire con
te.»
«Anch'io.»
Havers posò la mano sulla spalla di Alix. «Vuoi portarlo via con te?»
Il vampiro si voltò verso la porta della camera mortuaria, le labbra serrate.
«Dovremo dare inizio al... rito funebre... ma...»
«Vuoi che lo prepari io?» si offrì sottovoce Havers.
Alix chiuse gli occhi e annuì. «Sua madre non deve vederlo in faccia.
Morirebbe di dolore. Lo farei io, ma...»
«Ci pensiamo noi», disse Ehlena. «Fidati. Ci prenderemo cura di lui con
rispetto e reverenza.»
«Non credo che ce la farei...» Alix la guardò. «Faccio male?»
«No.» Ehlena gli teneva entrambe le mani. «E ti prometto che lo faremo con
amore.»
«Ma io dovrei assistere,..»
«Puoi fidarti di noi.» Mentre Alix batteva convulsamente le palpebre, lei
con dolcezza lo condusse via dalla porta della camera mortuaria. «Vai ad
aspettare in una delle stanze riservate ai familiari.»
Ehlena accompagnò il cugino di Stephan in fondo al corridoio, fino alla
sezione con le stanze per i pazienti. Quando incrociò un'altra infermiera, le
chiese di accompagnarlo in una sala d'attesa privata, poi tornò alla camera
mortuaria.
Prima di entrare fece un profondo respiro e raddrizzò le spalle. Quando
spalancò le porte fu investita dal profumo di erbe aromatiche e vide Havers
ritto accanto a un corpo coperto da un lenzuolo bianco. Per un attimo si sentì
mancare.
«Il mio cuore è gonfio di dolore», disse il medico. «Molto afflitto. Non
volevo che quel povero ragazzo vedesse suo cugino ridotto in questo stato,
ma dopo aver identificato i vestiti lui ha insistito, Voleva vederlo a tutti i
costi.»
«Perché voleva essere sicuro.» L'avrebbe fatto anche lei, in quella
situazione, pensò Ehlena.
Havers sollevò il lenzuolo, ripiegandolo sul petto del morto, ed Ehlena si
tappò la bocca con la mano soffocando un ansito.
Il volto massacrato, pieno di chiazze, era quasi irriconoscibile.
Ehlena deglutì una volta. Poi un'altra. E una terza.
Santissima Vergine Scriba, ventiquattr'ore prima era vivo. Vivo, in centro e
ansioso di vederla. Poi la sfortuna di prendere una strada invece che un'altra
ed eccolo lì, steso su un gelido lettino d'acciaio inox, pronto a essere
preparato per il rito funebre.
«Vado a prendere le bende», disse Ehlena con voce strozzata mentre
Havers toglieva il lenzuolo.
L'obitorio era piccolo, c'erano solo otto celle refrigerate e due tavoli settori,
ma in compenso era ben equipaggiato. Le bende cerimoniali erano custodite
nell'armadio vicino alla scrivania; quando Ehlena aprì lo sportello venne
investita da una fresca fragranza di
erbe aromatiche. Le strisce di lino erano larghe sette-otto centimetri e
confezionate in rotoli grandi più o meno come i pugni di Ehlena. Intrise di
una miscela di rosmarino, lavanda e sale marino, emanavano un aroma
piacevole che ciononostante la faceva rabbrividire ogni volta che lo sentiva.
Morte. Era l'odore della morte.
Ne prese dieci rotoli e li impilò tra le braccia, poi tornò nel punto in cui il
cadavere di Stephan era esposto alla vista nella sua nudità, salvo un telo
all'altezza dell'inguine.
Un istante dopo, Havers uscì da uno spogliatoio sul retro con indosso un
camice nero legato con una fusciacca nera. Intorno al collo, appeso a una
lunga catena d'argento, c'era un arnese tagliente finemente decorato, così
antico che il motivo curvilineo a filigrana sul manico si era leggermente
annerito in certi punti.
A capo chino Ehlena ascoltò Havers rivolgere alla Vergine Scriba le
preghiere di rito, in cui chiedeva che Stephan riposasse in pace nel tenero
abbraccio del Fado. Quando il dottore fu pronto, Ehlena gli porse il primo dei
rotoli profumati e insieme cominciarono ad avvolgere la mano destra di
Stephan, com'era consuetudine. Con estrema cura e delicatezza, Ehlena tenne
sollevato l'arto freddo e grigio mentre Havers lo avvolgeva stretto, facendo
un doppio giro con la benda di lino. In questo modo risalirono fino alla spalla
prima di passare alla gamba destra, poi fu la volta della mano sinistra, del
braccio sinistro e della gamba sinistra.
Quando Havers scoprì l'inguine Ehlena si voltò dall'altra parte, come si
conveniva a una femmina. Nel caso di un cadavere femminile non avrebbe
dovuto farlo, mentre un assistente maschio, per rispetto, si sarebbe voltato.
Dopo i fianchi bendarono il busto fino al petto e infine le spalle.
Ogni volta che avvolgevano il lino, l'aroma di erbe le penetrava nelle narici,
finché ebbe la sensazione di non riuscire più a respirare.
O forse, più che l'odore nell'aria, erano i pensieri nella sua testa. Stephan
poteva essere il suo futuro? Erano destinati a una conoscenza carnale?
Avrebbe potuto essere il suo hellren e il padre dei suoi figli?
Domande che non avrebbero mai trovato risposta.
Ehlena si accigliò. No, in realtà l'avevano trovata.
Per ognuna di esse la risposta era un no.
Porgendo un altro rotolo al medico della razza, si chiese se Stephan aveva
vissuto una vita piena e soddisfacente.
No, pensò. Era stato imbrogliato. Completamente. Ingannato.La faccia
venne coperta per ultima; Ehlena tenne sollevata la testa di Stephan mentre il
dottore lentamente l'avvolgeva nelle bende, più e più volte. Ehlena respirava
a fatica e, quando Havers coprì gli occhi di Stephan, dai suoi cadde una
lacrima che atterrò sulla fasciatura bianca.
Havers le mise brevemente una mano sulla spalla prima di terminare il
lavoro.
Il sale nelle fibre di lino fungeva da sigillante, impedendo ai fluidi corporei
di filtrare attraverso il tessuto; il minerale preservava inoltre il corpo in vista
della sepoltura. Le erbe avevano una funzione evidente, nel breve periodo,
poiché mascheravano ogni odore sgradevole, ma erano anche emblematiche
dei frutti della terra e dei cicli della crescita e della morte.
Con un'imprecazione, Ehlena tornò all'armadio a prendere un sudario nero,
nel quale, con l'aiuto di Havers, avvolse Stephan. Il colore nero all'esterno
simboleggiava la mortalità e la corruttibilità della carne, il bianco all'interno
la purezza e l'incandescenza dell'anima nel Fado, la sua dimora eterna.
Ehlena un tempo aveva sentito che i rituali servono a scopi importanti, al di
là di quello pratico. In teoria dovrebbero aiutare a guarire psicologicamente,
ma lì, ritta accanto al cadavere di Stephan, le sembravano tutte sciocchezze.
Era tutta un'illusione consolatoria, un patetico tentativo di contenere con
delle pezze profumate le esigenze di un destino crudele.
Nient'altro che una fodera pulita sopra un divano macchiato di sangue.
Dopo qualche istante di silenzio accanto a Stephan, spinsero la lettiga fuori
dall'uscita posteriore dell'obitorio, dentro un sistema di tunnel che correva
sotto i garage. Lì, sistemarono Stephan dentro una delle quattro ambulanze
identiche a quelle usate dagli umani.
«Li porto tutti e due a casa dei genitori di Stephan», disse Ehlena.
«Vuoi che ti faccia accompagnare da qualcuno?»
«Credo che per Alix sia meglio non avere altri spettatori.»
«Però stai attenta, d'accordo? Non solo con loro, ma per la tua sicurezza.»
«Sì.» In ogni ambulanza c'era una pistola sotto il sedile del conducente;
appena Ehlena aveva cominciato a lavorare alla clinica, Catya le aveva
insegnato a sparare: senza dubbio era in grado di fronteggiare qualunque
pericolo.
Con l'aiuto di Havers chiuse gli sportelli dell'ambulanza e lanciò
un'occhiata all'ingresso del tunnel. «Credo che rientrerò in clinica passando
dal parcheggio. Ho bisogno di una boccata d'aria.»
Havers annuì. «E io farò lo stesso. Ho bisogno anch'io di un po'd'aria
fresca.»
Insieme uscirono nella notte tersa e gelida.
Da quella brava puttana che era, Rehv fece tutto quello che gli venne
ordinato. Il fatto che fosse brusco e scortese era una concessione al suo libero
arbitrio - e, di nuovo, parte del motivo per cui la principessa amava quegli
incontri.
Alla fine, quando tutti due si ritrovarono stremati - lei per tutte le volte che
era venuta e lui perché il veleno di scorpione gli era penetrato fin dentro al
sangue - quei rubini della malora rimasero dove li aveva gettati. Sul
pavimento.
La principessa, ansimante, era appoggiata scompostamente contro il
davanzale della finestra, le dita a tre nocche allargate, probabilmente perché
sapeva che gli facevano venire la pelle d'oca. All'altro capo del capanno, il più
lontano possibile da lei, Rehv si reggeva in piedi a stento.
Respirava a fatica; detestava l'odore di sesso sporco che impregnava l'aria
del capanno, e poi l'odore della principessa lo avvolgeva completamente,
soffocandolo al punto che, malgrado il suo sangue di symphath, gli veniva da
vomitare. O forse era il veleno. Chissà.
Lei alzò ima delle mani ossute, indicando il sacchetto di velluto.
«Raccoglili.»
Rehv la guardò dritto negli occhi e scosse lentamente la testa a destra e a
sinistra.
«Farai meglio a tornare da nostro zio», disse con voce roca. «Scommetto che
se stai lontana per troppo tempo s'insospettisce.»
Fu questo a convincerla. Il fratello del loro padre era un sociopatico
sospettoso e calcolatore. Proprio come loro due.
Una tara di famiglia, per così dire.
La veste della principessa si levò da terra da sola e fluttuò verso di lei,
restando sospesa nell'aria al suo fianco; da una tasca interna la principessa
tirò fuori una larga fusciacca rossa che si fece scivolare tra le cosce, legandosi
la vulva per non disperdere ciò che Rehv le aveva lasciato dentro. Poi si
rivestì, sistemando in qualche modo lo strappo nel tessuto. Quindi fu la volta
della cintura d'oro - o almeno Rehv dava per scontato che fosse d'oro, visto
come rifletteva la luce.
«Porgi i miei rispetti allo zio», disse sarcastico. «O... anche no.»
«Raccoglili.»
«O ti chini a prendere quel sacchetto oppure lo lasci lì dov'è.»
Gli occhi della principessa si accesero della malvagità che rendeva così
divertente bisticciare con gli assassini; i due symphath si scambiarono lunghe
occhiate ostili.
Fu la principessa a cedere. Proprio come aveva previsto Rehv.
Con sua immensa soddisfazione, fu lei a raccogliere il sacchetto; quasi
venne di nuovo per quella capitolazione, quel suo aculeo uncinato
minacciava di scattare anche se non c'era nulla a cui agganciarsi.
«Potresti diventare re», disse la principessa, tendendo una mano; il
sacchetto di velluto con i rubini si alzò da terra. «Se lo uccidi potresti
diventare re.»
«Se ti uccidi potrei essere felice.»
«Tu non sarai mai felice. Sei di una razza a parte, costretto a1 vivere di
menzogne tra esseri inferiori.» La principessa sorrise c sul suo volto si dipinse
una gioia autentica. «Tranne che qui con me. Qui puoi essere sincero. Al mese
prossimo, amore mio.»
Gli mandò un bacio con quelle mani orribili e si smaterializzò,
dissolvendosi come il fiato di Rehv fuori dal capanno, disperso nell'aria
notturna.
Le ginocchia gli cedettero e Rehv crollò per terra, incapace di muoversi.
Steso sulle assi di legno grezzo sentiva tutto: il fremito nei muscoli delle
cosce, il formicolio del glande mentre il prepuzio lentamente tornava a posto,
la deglutizione compulsiva provocata dal veleno di scorpione.
Mentre il calore del capanno si dissipava, la nausea lo travolse in una fetida
ondata oleosa, lo stomaco si strinse a pugno e il suo contenuto gli sali in gola
in un imperioso "fuori di qui". Obbedendo prontamente agli ordini, il conato
di vomito gli spalancò la bocca, ma non ne uscì niente.
Non mangiava mai prima di un appuntamento con la principessa, non era
così sprovveduto.
Trez entrò senza fare rumore; solo quando si trovò davanti i suoi anfibi,
Rehv si accorse che il suo migliore amico era lì con lui.
«Usciamo di qui», disse il Moro con voce gentile.
Rehv attese una pausa tra i conati prima di tentare di tirarsi su da terra.
«Fammi... vestire.»
Il veleno di scorpione si stava diffondendo rapidamente nel suo sistema
nervoso centrale, lungo le neuro-autostrade e le neuro- strade secondarie, al
punto che trascinarsi fino ai vestiti diede luogo a una imbarazzante esibizione
di debolezza. Il guaio era che l'antidoto al veleno doveva restare in macchina
perché altrimenti la principessa lo avrebbe scovato, e mostrare una simile
debolezza era come porgere l'arma carica al nemico.
Trez doveva essersi spazientito a quello spettacolo perché andò a prendere
la pelliccia. «Mettiti questa, così possiamo iniettare subito l'antiveleno.»
«Prima... mi vesto.» Era un amor proprio da puttana.
Imprecando, Trez si inginocchiò con la pelliccia. «Per l'amor del cielo,
Rehv...»
«No...» Un affanno incontrollabile lo interruppe, facendolo accasciare al
suolo; lungo e disteso per terra, Rehv si godette un primo piano dei nodi
nelle assi di pino del pavimento.
Cristo, se stava male, quella sera. Mai stato peggio.
«Spiacente, Rehv, ma adesso faccio io.»
Ignorando quei patetici tentativi di rifiutare il suo aiuto, Trez lo avvolse
nello zibellino, lo prese in braccio e lo portò fuori come un elettrodomestico
rotto.
«Non puoi andare avanti così», disse Trez, mentre le sue lunghe gambe li
portavano in fretta fino alla Bentley.
«Vuoi... vedere?»
Per salvare se stesso e Xhex, e per salvaguardare la libertà di entrambi, era
costretto a farlo.
Capitolo 19
Rehv si svegliò in camera sua, nell'Adirondack Great Camp che usava come
casa sicura. Capì dove si trovava dai finestroni alti fino al soffitto, dal fuoco
che crepitava allegramente all'altro capo della stanza e dai putti intagliati
nella pediera di mogano del letto. Ciò che non aveva ben chiaro era quante
ore erano passate dall'appuntamento con la principessa. Una? Cento?
All'altro capo della stanza buia, Trez era seduto su una comoda poltrona
imbottita color sangue di bue, intento a leggere alla fioca luce giallastra di
una lampada a stelo.
Rehv si schiarì la gola. «Che libro è?»
Il Moro alzò gli occhi a mandorla e gli scoccò uno sguardo acuto di cui
Rehv avrebbe fatto volentieri a meno. «Sei sveglio.»
«Che libro è?»
«È il Dizionario della Morte delle Ombre.»
«Lettura leggera. E io che ti credevo mi fan di Candace Bushnell.»
«Come ti senti?»
«Bene. Alla grande. Pimpante da matti.» Con un grugnito, Rehv si tirò un
po' più su sui cuscini. Malgrado la pelliccia di zibellino a contatto della pelle
nuda, le trapunte, i plaid e i piumini, era ancora gelato come il culo di un
pinguino; Trez doveva avergli iniettato un sacco di dopamina. Ma almeno
l'antidoto aveva fatto effetto, quindi il fiato corto e l'affanno erano spariti.
Trez chiuse lentamente la copertina dell'antico volume. «Mi sto solo
preparando, tutto qua.»
«Ad abbracciare il sacerdozio? Credevo che volessi diventare re.»
Il Moro posò il tomo sul basso tavolino accanto a sé e si erse in tutta la sua
altezza. Dopo essersi sgranchito ben bene si avvicinò al letto. «Vuoi qualcosa
da mangiare?»
«Sì. Sarebbe carino.»
«Dammi un quarto d'ora.»
Quando la porta si chiuse alle spalle dell'amico, Rehv cercò a tastoni la tasca
interna della pelliccia, tirò fuori il cellulare e controllò: non c'erano messaggi.
Niente SMS.
Ehlena non lo aveva cercato. Ma perché avrebbe dovuto?
Con gli occhi fissi sul telefonino fece scorrere il pollice sui tasti. Moriva
dalla voglia di sentire la sua voce, come se quel suono potesse spazzare via
tutto quello che era accaduto al capanno.
Come se lei potesse spazzare via gli ultimi venticinque anni.
Rehv entrò nella rubrica e visualizzò sul display il numero di Ehlena.
Probabilmente era al lavoro, ma se le lasciava un messaggio forse l'avrebbe
richiamato durante la pausa. Esitò, poi però premette chiama e si portò il
telefono all'orecchio.
Non appena sentì squillare fu assalito da una disgustosa immagine di se
stesso nell'atto di fare sesso con la principessa, i fianchi che pompavano senza
posa, il chiaro di luna che proiettava ombre oscene sull'assito grezzo.
Interruppe bruscamente la chiamata con la sensazione di essere tutto
coperto di lozione alla merda.
Dio, tutte le docce del mondo non sarebbero bastate a ripulirlo abbastanza
da parlare con Ehlena. Al mondo non c'era abbastanza sapone, candeggina o
paglietta. La rivide nella sua uniforme immacolata da infermiera, i capelli
biondo ramato raccolti in una ordinata coda di cavallo, le scarpe bianche in
perfetto stato, e capì che se mai l'avesse toccata l'avrebbe contaminata per
sempre.
Col pollice intorpidito, accarezzò il piatto display del cellulare come fosse la
guancia di Ehlena, poi lasciò ricadere la mano sul letto. La vista delle vene
rosso vivo del braccio gli rammentò un altro paio di cosette che aveva fatto
con la principessa.
Non aveva mai pensato al suo corpo come a un dono particolare. Era grosso
e muscoloso, quindi era utile, e piaceva all'altro sesso, il che significava che
per certi versi era una risorsa. Funzionava bene, anche... be', eccezion fatta
per gli effetti collaterali della dopamina e l'allergia al veleno di scorpione.
Ma non era il caso di preoccuparsene.
Steso sul letto in penombra, col telefono in mano, rivide altre scene
spaventose vissute con la principessa... lei che gli faceva un pompino, lui che
la faceva piegare a novanta gradi e la prendeva da dietro, la sua bocca che si
dava da fare tra le cosce di lei. Ricordò la sensazione che provava quando
l'uncino del suo uccello scattava, agganciandoli insieme.
Poi ripensò a Ehlena che gli misurava la pressione... e a come si era scostata
da lui.
Aveva fatto bene.
E lui faceva male a chiamarla.
Con cura deliberata mosse il pollice sui tasti per visualizzare il suo numero
di cellulare. Senza esitazione lo cancellò dalla rubrica e, mentre lei spariva,
sentì un calore inaspettato al petto... era il segno che, secondo il suo lato
materno, aveva fatto la cosa giusta.
La prossima volta, in clinica, avrebbe chiesto di un'altra infermiera. E se
avesse rivisto Ehlena l'avrebbe lasciata in pace.
Trez entrò con un vassoio con sopra pappa d'avena, tè e pane tostato senza
burro.
«Mmm!», fece Rehv senza entusiasmo.
«Fai il bravo e mangia tutto. La prossima volta ti porto uova e pancetta.»
Col vassoio in bilico sulle ginocchia, Rehv buttò il cellulare sulla pelliccia e
prese un cucchiaio. Di punto in bianco e senza alcun motivo apparente disse,
«Sei mai stato innamorato, Trez?»
«Naa.» Il Moro tornò alla poltrona nell'angolo, la lampada a stelo gli
illuminava il bel volto olivastro. «iAm ci ha provato, io sono stato a guardare
e ho deciso che non fa per me.»
«iAm? Dai, racconta. Non sapevo che tuo fratello avesse avuto una
puttanella.»
«Lui non ne parla mai, e io non l'ho mai conosciuta. Ma per un po' è stato
malissimo, come solo una femmina sa farti stare male.»
Rehv mescolò lo zucchero di canna spolverizzato sopra il porridge. «Pensi
che ti sposerai mai?»
«No.» Trez sorrise, mostrando la dentatura bianca e perfetta. «Perché tutte
queste domande?»
Rehv si portò il cucchiaio alla bocca e mangiò. «Niente. Così.»
«Sì, come no.»
«Questo porridge è fantastico.»
«Ma se tu lo odi, il porridge.»
Rehv fece una risatina e continuò a mangiare per evitare di parlare;
l'argomento "amore" non era affar suo. Il lavoro invece sì.
«Novità, ai club?» chiese.
«Tutto tranquillo, per ora.»
«Bene.»
Rehv lentamente si sbafò tutto il Quaker Oats chiedendosi come mai, se giù
a Caldwell andava tutto liscio come l'olio, aveva quel senso di vuoto alla
bocca dello stomaco.
Il porridge, probabilmente, pensò. «Hai detto a Xhex che sto bene, vero?»
«Sì», rispose Trez, riprendendo il libro che stava leggendo. «Ho mentito.»
Seduta alla scrivania, Xhex guardava due dei suoi migliori buttafuori, Big
Rob, Rob il Grosso, e Silent Tom, Tom il Silenzioso. Erano umani, ma svegli, e
nei loro jeans a vita bassa avevano proprio l'aria falsamente rilassata che lei
cercava.
«Cosa possiamo fare per lei, capo?» chiese Big Rob.
Piegandosi in avanti sulla sedia, Xhex tirò fuori dalla tasca posteriore dei
calzoni di pelle dieci banconote piegate. Con gesto deliberato le aprì sulla
scrivania, dividendole in due mucchietti che poi fece scivolare verso i due
uomini.
«Dovete farmi un lavoretto extra.»
I cenni d'assenso dei due furono rapidi come le loro mani sui centoni.
«Tutto quello che vuole», disse Big Rob.
«L'estate scorsa avevamo un barista che abbiamo licenziato perché rubava.
Un tizio di nome Grady. Ve lo ricordate...»
«Ho visto sul giornale quello schifo su Chrissy.»
«Lurido bastardo», interloquì per una volta Silent Tom.
Non la sorprese che conoscessero tutta la storia. «Dovete trovarmi Grady.»
Vedendo che Big Rob faceva schioccare le nocche, Xhex scosse la testa. «No.
Dovete solo trovarmi l'indirizzo. Se lui vi vede, voi lo salutate e filate via.
Intesi? Non dovete sfiorarlo neanche con un dito.»
I due buttafuori sorrisero, torvi. «Nessun problema, capo», mormorò Big
Rob. «Lo lasceremo a lei.»
«Lo sta cercando anche la polizia.»
«Ci scommetto.»
«Non vogliamo che la polizia scopra quello che state facendo.»
«Nessun problema.»
«Penserò io a farvi sostituire durante i turni di lavoro. Prima lo trovate, più
mi farete felice.»
Big Rob lanciò un'occhiata a Silent Tom. Un attimo dopo entrambi tirarono
fuori di tasca le banconote che Xhex aveva dato loro e le fecero scivolare
verso di lei.
«Lo faremo per Chrissy, capo. Non si preoccupi.»
«So che posso stare tranquilla, sapendo che ve ne occupate voi due.»
La porta si chiuse alle spalle dei due buttafuori e Xhex si passò le mani su e
giù sulle cosce, facendo penetrare ancora di più i cilici nella carne. Moriva
dalla voglia di andare a caccia, ma con Rehv su al nord e gli affari da
concludere in serata, non poteva lasciare il club. E poi, cosa altrettanto
importante, non poteva mettersi a scarpinare in prima persona in cerca di
Grady: quel detective della Omicidi di sicuro la teneva d'occhio.
Spostò gli occhi sul telefono, assalita dall'impulso di bestemmiare. Trez
aveva chiamato qualche ora prima per informarla che Rhev aveva finito con
la principessa; il tono della sua voce le aveva detto quello che le parole
avevano taciuto: il fisico di Rehv non avrebbe retto ancora per molto quella
tortura.
L'ennesima situazione da cui era esclusa a forza, costretta a starsene seduta
ad aspettare con le mani in mano.
L'impotenza non faceva per lei, ma quando c'era in ballo la principessa era
abituata a sentirsi impotente. Più di vent'anni prima, Xhex aveva compiuto
delle scelte che avevano messo lei stessa e Rehvenge in quella situazione;
all'epoca Rehv le aveva detto che si sarebbe occupato della faccenda a una
condizione: lei doveva lasciarlo fare a modo suo senza interferire. Le aveva
fatto giurare di starne fuori e, per quanto la cosa la facesse morire, Xhex
aveva mantenuto la promessa e convissuto con la consapevolezza che Rehv
era finito tra le mani di quella troia per causa sua.
Maledizione, avrebbe tanto voluto che Rehv perdesse la pazienza e gliene
dicesse di tutti i colori. Almeno ima volta. Invece lui continuava a sopportare
tutto quanto, pagando col proprio corpo il debito contratto da lei.
Lo aveva trasformato in una puttana.
Xhex uscì dal suo ufficio perché non sopportava di stare un minuto di più
con se stessa e sperò in una zuffa, lì al club, tipo l'implosione di un triangolo
amoroso, con uno dei clienti che molla un manrovescio a un altro per qualche
squinzia con le labbra a canotto e le tette rifatte, o magari un appuntamento
galante finito male nella toilette degli uomini al mezzanino. Cazzo, aveva un
tale bisogno di sfogarsi che era pronta ad attaccar briga anche con un ubriaco
che si lamentava del suo Patron o con le coppiette arrapate che si
strusciavano negli angoli, pronte a oltrepassare il confine tra effusioni e
penetrazione vera e propria.
Aveva bisogno di menare le mani, e più gente c'era, più aumentavano le
probabilità di riuscirci. Se solo ci fosse stato...
La sua solita fortuna. Tutti si stavano comportando bene.
Miserabili cazzoni.
Alla fine si spostò nell'area VIP perché stava facendo sclerare i buttafuori
sulla pista da ballo con tutto quell'andare su e giù come una belva in gabbia,
in cerca della rissa a tutti i costi. E poi, soprattutto, doveva mostrare i muscoli
su un terreno molto più importante.
Oltrepassato il cordone di velluto, i suoi occhi andarono diritti al tavolo
della confraternita. John Matthew e i suoi amici non c'erano, ma d'altra parte
era ancora presto; dovevano essere fuori a caccia di lesser. Il momento di
scolarsi qualche Corona sarebbe arrivato più tardi, semmai.
Non le importava che John si facesse vivo o meno.
Neanche un po'.
Si avvicinò ad iAm e chiese, «Ci siamo?»
Il Moro annuì. «Rally è pronto con la merce. I compratori dovrebbero
arrivare tra venti minuti.»
«Bene.»
Quella sera c'erano due partite di coca da vendere; si parlava di cifre a sei
zeri e, con Rehv fuori combattimento e Trez su al nord con lui, lei e iAm
erano responsabili delle transazioni. I quattrini sarebbero passati di mano in
ufficio, ma la merce andava caricata in macchina nel vicolo sul retro, perché
quattro chili di polvere sudamericana purissima non era il genere di roba che
Xhex voleva far ballare dentro il club. Era già abbastanza un problema che i
compratori entrassero con la grana nelle valigette, cazzo.
Appena giunta davanti alla porta dell'ufficio, Xhex scorse Marie-Terese che
si avvicinava a un tizio in completo elegante. L'uomo la guardava con un
misto di soggezione e meraviglia, neanche lei fosse l'equivalente femminile di
un'auto sportiva di cui qualcuno gli aveva appena dato le chiavi.
Quando fece per prendere il portafoglio, la fede nuziale che aveva al dito
brillò.
Marie-Terese scosse la testa e allungò la bella mano affusolata per fermarlo,
poi tirò in piedi il tizio stregato dal suo fascino e fece strada verso i bagni sul
retro, dove sarebbe avvenuto lo scambio di denaro.
Voltandosi, Xhex si ritrovò davanti al tavolo della confraternita.
Guardando il posto dove di solito si sedeva John Matthew, pensò al cliente
più affezionato di Marie-Terese. Era pronta a scommettere che quel figlio di
buona donna, che stava per sganciare cinquecento bigliettoni per farsi
succhiare o scopare, o magari mille per tutte e due le cose, non guardava sua
moglie con la stessa eccitazione e lussuria. Era la fantasia il suo afrodisiaco.
Lui non sapeva niente di Marie-Terese, non aveva idea che due anni prima
suo figlio era stato rapito dal suo ex marito e adesso lei lavorava per pagare il
riscatto e riavere indietro il bambino. Per lui Marie-Terese era un magnifico
pezzo di carne con cui spassarsela un po', qualcosa da usare e poi
dimenticare. Senza impegno. Facile. Pulito.
Tutti i clienti erano così.
Ed era così anche John. Per lui lei era una fantasia. Niente di più. Una bugia
erotica che richiamava alla mente per venire quando si masturbava - cosa per
cui in realtà non lo biasimava, visto che faceva lo stesso con lui. E la cosa
buffa era che John era uno degli amanti migliori che avesse mai avuto, anche
se questo era dovuto al fatto che poteva fargli tutto quello che voleva per
tutto il tempo che voleva, finché non si sentiva appagata, e non c'erano mai
lamentele, pretese o restrizioni.
Senza impegno. Facile. Pulito.
Nell'auricolare sentì la voce di iAm. «I compratori sono appena entrati.»
«Perfetto. Leviamoci il pensiero.»
Dopo aver concluso entrambe le transazioni aveva una faccenduola privata
da sbrigare. Quella sì era una cosa che non vedeva, l'ora di fare. Entro la fine
della serata avrebbe trovato esattamente il tipo di sfogo di cui aveva bisogno.
Dall'altra parte della città, in un tranquillo vicolo cieco di un quartiere
sicuro, Ehlena, parcheggiata con l'ambulanza di fronte a un modesto villino
in stile coloniale, era bloccata.
La chiave non voleva saperne di entrare nel quadro di accensione.
Avendo archiviato quella che doveva essere la parte più ardua del viaggio,
avendo cioè consegnato Stephan tra le braccia dei suoi cari, era una sorpresa
constatare che infilare la chiave nel quadro di accensione fosse più difficile.
«E dai...» Ehlena si concentrò sull'impresa di fermare il tremito alla mano e
finì con la faccia praticamente attaccata al pezzetto di metallo che mancava
regolarmente la fessura in cui doveva entrare.
Si abbandonò contro lo schienale con un'imprecazione, consapevole di
peggiorare l'angoscia della famiglia che abitava in quella casa: l'ambulanza
parcheggiata proprio lì davanti, infatti, era un'altra dichiarazione lampante
della tragedia appena subita.
Come se il cadavere del figlio adorato non fosse più che abbastanza.
Ehlena voltò la testa verso le finestre del villino. Dietro le tendine di garza
si muovevano delle ombre.
Dopo essere entrata in retromarcia nel vialetto d'accesso, aveva atteso nella
notte gelida che Alix entrasse in casa. Un attimo dopo la porta del garage si
era alzata sferragliando e Alix si era avvicinato con un altro vampiro più
anziano che somigliava molto a Stephan. Lei lo aveva salutato con un inchino
e gli aveva stretto la mano, poi aveva aperto il portello posteriore
dell'ambulanza. Il vampiro non era riuscito a trattenersi dal premere una
mano sulla bocca quando lei e Alix avevano spinto fuori la lettiga.
«Figlio mio...» aveva esclamato gemendo.
Ehlena non avrebbe mai dimenticato il suono di quella voce. Sepolcrale.
Disperata. Affranta.
Alix e il padre di Stephan lo avevano portato dentro casa e, proprio come
all'obitorio, qualche istante dopo si era sentito un suono lamentoso. Questa
volta, però, era il lamento funebre più acuto di una femmina. La madre di
Stephan.
Alix era tornato mentre Ehlena stava spingendo la lettiga den- rro
l'ambulanza; batteva convulsamente le palpebre, come se un forte vento gli
soffiasse in faccia. Dopo avergli fatto le condoglianze e porto i suoi saluti,
Ehlena di era seduta al volante e... non era riuscita a mettere in moto quel
maledetto veicolo.
Dall'altra parte delle tendine di garza vide due sagome abbracciate. Che poi
divennero tre. Poi ne arrivarono altre.
Senza motivo apparente, Ehlena pensò alle finestre della casa che aveva
affittato per sé e per suo padre, tutte coperte con dei fogli di alluminio che
tenevano fuori il mondo esterno.
Chi avrebbe vegliato sul suo cadavere avvolto nelle bende profumate, alla
sua morte? Suo padre il più delle volte la riconosceva, ma spesso perdeva
ogni contatto con lei. I colleghi alla clinica erano molto gentili, ma quello era
lavoro, niente di personale. Lusie era pagata per venire a casa loro.
Chi si sarebbe preso cura di suo padre?
Aveva sempre dato per scontato che se ne sarebbe andato lui per primo, ma
i genitori di Stephan di sicuro avevano pensato la stessa cosa.
Ehlena distolse lo sguardo dai parenti del defunto e guardò fuori dal
parabrezza dell'ambulanza.
La vita è troppo breve, per quanto a lungo si viva. Quando arriva il nostro
turno, nessuno è pronto a lasciare gli amici, i parenti, le cose che ci hanno resi
felici, che si abbiano cinquecento anni come suo padre o cinquanta come
Stephan.
Il tempo è una fonte infinita di giorni e di notti solo per la galassia nel suo
complesso.
Questo le diede da riflettere: come diavolo stava impiegando il tempo a sua
disposizione? Il suo lavoro le dava uno scopo, certo, e lei si prendeva cura di
suo padre, come normalmente si fa con i propri cari. Ma dove stava andando?
Da nessuna parte. E non solo perché se ne stava seduta in quell'ambulanza
con le mani tremanti al punto da non riuscire a infilare una chiave.
Non che volesse cambiare qualcosa. Voleva solo qualcosa per se stessa,
qualcosa che la facesse sentire viva.
D'un tratto fu assalita dall'immagine dei profondi occhi color ametista di
Rehvenge, poi, come una telecamera che arretra poco a poco, vide il suo volto
scolpito, la cresta da moicano, i vestiti eleganti e il bastone.
Questa volta, quando allungò la mano con la chiave, riuscì a infilarla al
primo colpo e il motore diesel si ridestò con un ruggito. Il condizionatore le
soffiò addosso una ventata d'aria fredda, Ehlena lo spense, ingranò la prima e
si lasciò alle spalle la casa, il vicolo cieco e il quartiere.
Che adesso non le appariva più così tranquillo.
Al volante, era concentrata sulla guida e al tempo stesso distratta, assorta
nell'immagine di un maschio che non poteva avere e che al momento
desiderava da impazzire.
I suoi sentimenti erano sbagliati sotto molti punti di vista. Erano un
tradimento di Stephan, anche se in realtà non lo conosceva veramente. Le
sembrava irrispettoso desiderare un altro mentre la famiglia di Stephan
piangeva sul suo cadavere.
Solo che lei, comunque, avrebbe voluto Rehvenge.
«Maledizione.»
La clinica era sull'altra riva del fiume; meno male, perché non se la sentiva
di rimettersi subito al lavoro. Era troppo sconvolta, triste e arrabbiata con se
stessa.
Quello che le ci voleva era.
Starbucks, Ah, sì, ecco quello che le ci voleva.
A neanche dieci chilometri di distanza, in una piazza che ospitava un
supermercato Hannaford, un fioraio, una boutique LensCrafters e un
Blockbuster, trovò uno Starbucks aperto fino alle due del mattino. Parcheggiò
l'ambulanza lì di fianco e scese.
Quando era uscita dalla clinica con Alix e Stephan non aveva pensato di
prendere il cappotto, quindi si strinse al petto la borsetta e di corsa attraversò
il marciapiede e varcò la soglia. All'interno, il locale era come quasi tutti gli
Starbucks: finiture rosse di legno, pavimento piastrellato grigio scuro, tante
finestre, sedie imbottite e tavolini. Al bancone c'erano in vendita delle tazze,
un espositore di vetro con un vasto assortimento di dolci - torte al limone o al
cioccolato e noci, focaccine dolci - e due umani sui vent'anni addetti alle
macchine del caffè. Nell'aria, l'aroma di nocciole, caffè e cioccolato spazzò via
il profumo di erbe del bendaggio funebre che ancora indugiava nelle sue
narici.
«Cosa le porto?» chiese il ragazzo più alto.
«Un latte macchiato grande. Con schiuma, ma senza panna montata. E me
lo metta in due bicchieri di carta, uno dentro l'altro, così non mi brucio. Con
doppio sottobicchiere.»
L'umano le sorrise e non si mosse. Aveva una corta barba scura, un anellino
al naso e una maglietta con la scritta TOMATO EATER - mangiatore di
pomodori - disegnata con delle gocce che potevano essere di sangue o, dato il
nome della band, di ketchup. «Nient'altro? Le focaccine alla cannella sono
una cannonata.»
«No, grazie.»
Lui le tenne gli occhi addosso mentre preparava la sua ordinazione; per
evitare le sue attenzioni, Ehlena frugò nella borsetta e controllò il cellulare nel
caso Lusie...
1 CHIAMATA SENZA RISPOSTA. Visualizzare?
Ehlena premette sì, pregando che non si trattasse di suo padre...
Comparve il numero di Rehvenge, non il suo nome perché non lo aveva
memorizzato nella rubrica. Ehlena rimase a fissare le cifre.
Dio, era come se le avesse letto nel pensiero.
«Il suo latte macchiato. Ehi, pronto?»
«Scusi.» Rimise a posto il telefono, prese quello che le porgeva il cameriere
e lo ringraziò.
«L'ho messo in un bicchiere doppio, come mi aveva chiesto. E ho
raddoppiato anche il sottobicchiere.»
«Grazie.»
«Ehi, lavora in uno degli ospedali qui vicino?» chiese il ragazzo,
adocchiando la sua uniforme.
«Clinica privata. Grazie di nuovo.»
Uscì in fretta e si infilò subito nell'ambulanza. Di nuovo al volante, bloccò le
portiere, mise in moto e accese immediatamente il riscaldamento.
Il latte macchiato era proprio buono. Caldissimo. Aveva un sapore squisito.
Prese di nuovo il telefonino, entrò nel registro delle chiamate ricevute e
selezionò il numero di Rehvenge.
Fece un gran sospiro e bevve una lunga sorsata di latte.
Poi premette chiama.
Il destino aveva il prefisso 518.Chissà.
Capitolo 20
Lash parcheggiò la Mercedes 550 sotto uno dei ponti di Caldwell;la berlina
nera era indistinguibile dalle ombre proiettate dai mastodontici piloni di
calcestruzzo. L'orologio digitale sul cruscotto gli disse che la resa dei conti era
vicina.
Sempre ammesso che nessuno combinasse qualche casino.
Nell'attesa, tornò con la mente all'incontro con il capo dei symphath.
Ripensandoci, non gli piaceva proprio il modo in cui quel tizio l'aveva fatto
sentire. Lui si scopava le pollastre. Punto. Non i maschi. Mai.
Quelle stronzate andavano bene per frocetti come John e la sua banda di
cacasotto.
Lash sorrise, al buio; moriva dalla voglia di ripresentarsi a quei coglioni.
All'inizio, subito dopo essere stato resuscitato dal suo vero padre, non voleva
aspettare. John e i suoi amichetti di sicuro bazzicavano ancora lo ZeroSum,
quindi trovarli non sarebbe stato un problema. Ma il tempismo è tutto. Lui
stava ancora familiarizzando con la sua nuova vita e voleva essere sicuro di
sé al momento in cui avrebbe schiacciato John e ucciso Blay di fronte a
Qhuinn, per poi massacrare lo stronzo che lo aveva assassinato.
Il tempismo è importante.
Neanche a farlo apposta, due auto svoltarono tra i piloni. La Ford Escort era
della Lessening Society mentre la Lexus argentata era l'auto del grossista di
Grady.
Che bei cerchioni aveva la LS 600h. Proprio belli.
Grady fu il primo a scendere dalla Escort, seguito da Mr D e da altri due
lesser; sembrava di vedere l'evacuazione di una macchina di clown, data la
quantità di carne che c'era stipata dentro.
Mentre i quattro si avvicinavano alla Lexus, dalla 600h scesero due uomini
con indosso eleganti cappotti invernali. Quando i due umani, in sincrono,
infilarono la mano destra nella giacca, Lash riuscì a pensare solo, Meglio che
da quelle tasche escano delle pistole piuttosto che dei distintivi. Se Grady
aveva mandato tutto a puttane e quei due erano sbirri sotto copertura stile
Crockett e Tubbs in una versione rivisitata di Miami Vice, la faccenda si
complicava.
Ma invece no... niente distintivi della polizia di Caldwell, solo due
chiacchiere da parte dei due tizi in cappotto, probabilmente del tipo, Chi
cazzo sono quei tre coglioni che ti sei portato dietro? Non era una transazione
d'affari privata?
Grady si voltò verso Mr D in preda al terror panico e il piccolo texano prese
in pugno la situazione facendosi avanti con una valigetta di alluminio. Dopo
averla posata sul baule della Lexus, la aprì rivelando quella che aveva tutta
l'aria di essere una montagna di mazzette di banconote da cento dollari. In
realtà erano mazzette di banconote da un dollaro con in cima un unico
centone. I tizi in cappotto guardarono in giù...
Pop. Pop.
Grady balzò indietro mentre i trafficanti crollavano a terra come stracci per
il pavimento; la sua bocca si spalancò come una tazza del water. Prima che
prorompesse in un "oh mio Dio che cosa hai fatto", Mr D gli andò sotto a
muso duro mollandogli uno sganassone per metterlo a tacere.
I due lesser infilarono le pistole nei giubbotti di cuoio e Mr D, richiusa la
valigetta, si mise al volante della Lexus, Mentre il texano si allontanava,
Grady guardò in faccia i due uomini pallidi, come in attesa di venire
impallinato a sua volta.
Invece loro si limitarono a tornare verso la Escort.
Dopo un istante di confusione, Grady li seguì trotterellando dinoccolato,
come se tutte le sue giunture fossero troppo lubrificate, ma, quando fece per
aprire la portiera posteriore, i due non morti si rifiutarono di farlo salire.
Appena realizzò che stavano per piantarlo lì, Grady andò nel panico e
cominciò ad agitare le braccia e a urlare. Piuttosto sciocco, da parte sua,
considerato che era a quattro o cinque metri da un paio di tizi con due
pallottole nel cranio.
Al momento era consigliabile starsene zitti.
Uno dei due lesser doveva avere pensato la stessa cosa, perché con mano
ferma estrasse la pistola puntandola contro la testa di Grady.
Silenzio perfetto. Almeno da parte di quell'idiota, che adesso era immobile.
Due portiere sbatterono e il motore della Escort si avviò con un tonfo e un
sibilo. I due non morti partirono con uno stridore
di pneumatici, schizzando di terriccio ghiacciato gli anfibi e gli stinchi di
Grady.
Lash accese i fari della Mercedes e Grady si voltò di scatto, schermandosi
gli occhi con le braccia.
Lash ebbe la tentazione di stenderlo con la macchina, ma per il momento gli
era ancora utile, quindi toccava risparmiarlo.
Lash mise in moto la Mercedes, si avvicinò al figlio di puttana e abbassò il
finestrino. «Sali in macchina.»
Grady abbassò le braccia. «Che cosa cavolo è successo...»
«Chiudi il becco. Sali in macchina.»
Lash chiuse il finestrino e attese che Grady si accasciasse sul sedile accanto
al suo. Quel cazzone si allacciò la cintura di sicurezza coi denti che battevano
come due nacchere, e non per il freddo: era bianco come un cencio e sudava
come un travestito al Giant Stadium.
«Tanto valeva che li facessi fuori in pieno giorno», balbettò Grady mentre si
dirigevano verso la strada asfaltata che costeggiava il fiume. «Ci sono occhi
dappertutto...»
«Appunto», disse Lash. Gli suonò il cellulare e lui rispose, accelerando su
per la rampa d'accesso all'autostrada. «Molto bene, Mr D.»
«E andata alla grande, direi», disse il texano. «Solo che non vedo traccia di
droga. Dev'essere nel baule.»
«E in macchina. Da qualche parte.»
«Ci vediamo sempre a Hunterbred?» «Sì.»
«Ehi, ehm, senta, ha in mente di farci qualcosa, con questa macchina?»
Lash sorrise, nell'oscurità, pensando che l'ingordigia è una grande
debolezza per un subordinato. «La faccio ridipingere e poi mi procuro un
numero di telaio e delle targhe false.»
Ci fu un attimo di silenzio, come se il lesser si aspettasse di sentire
qualcos'altro. «Oh, ottimo. Sissignore.»
Lash chiuse la comunicazione col discepolo e si voltò verso Grady. «Voglio
sapere tutto degli altri grossi trafficanti in città. Nomi, zone di spaccio, tipo di
merce, tutto quanto.»
«Non so se ho tutte queste inf...»
«Allora farai meglio a procurartele.» Lash gli gettò in grembo il cellulare.
«Fai le telefonate che ti servono. Indaga. Voglio ogni singolo pusher in città.
Poi voglio il trafficante che li rifornisce. Il pesce più grosso di Caldwell.»
Grady lasciò ricadere la testa contro lo schienale. «Merda. Credevo che
questo sarebbe stato... tipo, compito mio.»
«Questo è stato il tuo secondo errore. Comincia a chiamare e trovami quello
che ti ho chiesto.»
«Senta... non credo che sia... forse dovrei andare a casa...»
Lash gli sorrise, scoprendo le zanne e fulminandolo con lo sguardo. «Sei già
a casa.»
Grady si ritrasse sul sedile, poi si smise ad armeggiare goffamente con la
maniglia, anche se correvano a più di 110 chilometri l'ora.
Lash bloccò le portiere. «Spiacente, ormai sei in ballo e devi ballare, non
puoi tirarti indietro sul più bello. Adesso fai quelle cazzo di telefonate e vedi
di non deludermi. Altrimenti ti faccio a pezzettini, e mi godrò ogni secondo
delle tue urla.»
Fuori dal Porto Sicuro, Wrath se ne stava immobile nel vento gelido,
fregandosene altamente del brutto tempo. Di fronte a lui, come appena uscita
da uno sdolcinato sogno a occhi aperti, la casa dalla struttura irregolare che
fungeva da rifugio per le vittime di violenza domestica era grande e
accogliente, le finestre protette da pesanti tendaggi, una ghirlanda sul
portone, lo zerbino sul primo gradino in alto con la scritta BENVENUTI in
corsivo.
In quanto maschio non poteva entrare, quindi attese come una di quelle
siepi ornamentali sul prato marrone indurito dal gelo, pregando che la sua
adorata leelan fosse lì dentro... e accettasse di vederlo.
Dopo aver passato tutto il giorno nel suo studio nella speranza che Beth
tornasse da lui, alla fine l'aveva cercata per tutta la casa. Non trovandola, si
era augurato che stesse facendo volontariato lì al Porto Sicuro, come accadeva
spesso.
Sul portico posteriore comparve Marissa, che si chiuse la porta alle spalle.
La shellan di Butch, nonché ex di Wrath, che per anni si era nutrito del suo
sangue, come sempre aveva un'aria molto professionale nel suo tailleur
pantalone nero, i capelli biondi raccolti in un elegante chignon e avvolta nel
suo tipico odore d'oceano.
«Beth se n'è appena andata», disse quando lui si fece avanti.
«Tornava a casa?»
«Redd Avenue.»
Wrath si irrigidì. «Ma che ca... Perché è andata là?» Merda, la sua shellan in
giro da sola per Caldwell? «Vuoi dire nel suo vecchio appartamento?»
Marissa annuì. «Credo che volesse tornare dove tutto è cominciato.»
«E sola?»
«Per quanto ne so.»
«Gesù Cristo, è già stata rapita una volta», sbottò lui. Vedendo che Marissa
si ritraeva spaventata, Wrath si maledisse. «Senti, scusa. Non sono molto
lucido, al momento.»
Un istante dopo Marissa sorrise. «Sembra brutto dirlo, ma sono contenta di
vederti così agitato. Te lo meriti.»
«Già, sono stato uno stronzo. Proprio uno stronzo.»
Marissa alzò la testa verso il cielo. «A questo proposito, avrei un consiglio,
quando andrai da lei.»
«Spara.»
Lei raddrizzò il volto perfetto, tornando a concentrarsi su Wrath; la sua
voce si fece mesta. «Cerca di non arrabbiarti. Sembri un orco quando ti
incavoli e in questo momento Beth ha bisogno di qualcuno che le ricordi
perché dovrebbe abbassare la guardia con te, non il contrario.»
«Non hai tutti i torti.»
«Auguri, mio signore.»
Lui la salutò con un rapido cenno del capo e si smaterializzò direttamente
all'indirizzo di Redd Avenue, dove Beth aveva un appartamento all'epoca del
loro primo incontro. Durante il tragitto ebbe un assaggio di quello che la sua
shellan doveva affrontare ogni notte che lui usciva a combattere. Santissima
Vergine Scriba, come faceva Beth a gestire la paura? L'idea che qualcosa
potesse andare storto? Il fatto che là fuori ci fossero pericoli a ogni angolo di
strada?
Riprendendo forma davanti al palazzo, pensò alla sera in cui era andato a
cercarla dopo la morte di suo padre. Era stato un salvatore riluttante,
inadeguato, costretto dalle ultime volontà testamentarie del suo amico ad
aiutarla nella transizione, quando ancora Beth era all'oscuro della sua vera
identità.
Il primo approccio non era andato bene. Ma la seconda volta che aveva
provato a parlarle... be', quella era andata molto bene.
Dio, che voglia di stare di nuovo con lei così. Nudi, pelle contro pelle,
muovendosi all'unisono, con lui che, affondato dentro di lei, la marchiava
come una sua proprietà.
Ma la strada per arrivarci era molto lunga, sempre ammesso che ricapitasse,
un giorno.
Wrath girò intorno al palazzo, fino a raggiungere il cortile sul retro;
camminava senza fare rumore, proiettando un'ombra enorme sul terreno
ghiacciato sotto i suoi piedi.
Beth era raggomitolata su un traballante tavolino da picnic dove lui stesso
si era seduto una volta, e guardava dentro l'appartamento che aveva di
fronte, proprio come aveva fatto lui quando era andato a cercarla, quella
prima volta. Il vento gelido le scompigliava i capelli scuri dando
l'impressione che fosse sottacqua, intenta a nuotare in mezzo a forti correnti
contrarie.
Doveva averlo sentito dall'odore, perché voltò la testa di scatto. Lo guardò,
raddrizzandosi sulla sedia, le braccia strette intorno al parka North Face che
le aveva comprato lui.
«Che cosa ci fai qui?»
«Marissa mi ha detto dov'eri.» Wrath lanciò un'occhiata alla vetrata
scorrevole dell'appartamento, poi riportò lo sguardo su di lei. «Ti spiace se ti
faccio compagnia?»
«Ehm... okay. Va bene.» Beth si spostò leggermente quando lui si avvicinò.
«Non avevo intenzione di stare qui ancora per molto.»
«Ah no?»
«Stavo per venire da te. Non sapevo quando saresti uscito a combattere e
pensavo che magari c'era tempo, prima di... Ma poi, non so, io...»
Lasciò la frase in sospeso e Wrath si sedette accanto a lei; le gambe del
tavolino scricchiolarono sotto il suo peso. Voleva metterle un braccio intorno
alla vita, ma si trattenne, sperando che il parka facesse il suo lavoro, e la
tenesse ben calda.
Nel silenzio, gli ronzavano in testa sciami di parole, tutte di scusa, tutte
cazzate. Aveva già detto che gli spiaceva e Beth sapeva che diceva sul serio; la
speranza di poter fare qualcosa di più per farsi perdonare da lei lo avrebbe
accompagnato per molto tempo ancora.
In quella notte gelida, mentre se ne stavano lì, sospesi tra il loro passato e il
loro naturo, l'unica cosa che poteva fare era stare seduto vicino a Beth a
guardare le finestre buie dell'appartamento in cui un tempo lei abitava...
prima che il fato li facesse incontrare.
«Non ricordo di essere mai stata particolarmente felice, qui», disse piano
lei.
«Ah no?»
Beth si passò la mano sulla faccia, scostandosi i capelli dagli occhi. «Non mi
piaceva tornare a casa dal lavoro e stare qui da sola. Per fortuna c'era Boo.
Senza quel gatto., sì, insomma, la tele può aiutare, sì, ma solo fino a un certo
punto.»
Wrath non sopportava il pensiero di tutta quella solitudine. «Allora non
vorresti tornare indietro?»
«Cristo, no.»
Wrath tirò un gran sospiro di sollievo. «Mi fa piacere.»
«Lavoravo per quel porco, quel coglione, Dick, facendo il lavoro di tre
persone, senza nessuna prospettiva di carriera perché ero una ragazza e
perché i veterani del giornale, più che appartenere a un club... erano una vera
e propria cricca.» Beth scosse la testa. «Ma sai qual era la cosa peggiore?»
«Qual era?»
«Vivevo con questa sensazione che stesse succedendo qualcosa, qualcosa di
importante, ma io non sapevo cosa fosse. Era come... come se sapessi che c'era
un segreto, e che era un segreto spaventoso, solo non riuscivo a capire cosa
fosse. Mi faceva quasi impazzire.»
«Così scoprire che non eri del tutto umana è stato...»
«Questi ultimi mesi con te sono stati peggio.» Lo guardò. «Quando ripenso
a quest'autunno... sapevo che qualcosa non quadrava. In un angolo della mia
mente lo sapevo, lo sentivo, assolutamente. Ogni tanto non venivi a letto e se
ci venivi non era per dormire. Non riuscivi a trovare pace. Non mangiavi
quasi più. Non bevevi mai il mio sangue. Fare il re ti ha sempre stressato, ma
in questi ultimi due mesi c'era qualcosa di diverso.» Beth tornò a fissare il suo
vecchio appartamento. «Io lo sapevo, ma non volevo guardare in faccia la
realtà, non volevo ammettere che forse mi mentivi su una cosa così grossa e
terrificante come il fatto di andare a combattere da solo.»
«Merda, non volevo farti questo.»
Il profilo di Beth era bello e duro insieme, quando riprese a parlare. «Credo
che questo sia parte della crisi che sto attraversando in questo momento.
Tutta questa faccenda mi riporta al modo in cui vivevo ogni giorno della mia
vita. Dopo la transizione e dopo che noi due siamo andati ad abitare con i
fratelli, mi sentivo così sollevata, perché finalmente sapevo con certezza
quello su cui mi ero sempre interrogata. La verità era incredibilmente
concreta. Mi dava stabilità, mi faceva sentire al sicuro.» Si voltò di nuovo
verso di lui. «Ma questa cosa, le tue bugie... mi sembra di non potermi più
fidare della mia realtà. Non mi sento al sicuro, ecco. Voglio dire, tutto il mio
mondo ruota intorno a te. lutto il mio mondo. È tutto basato su di te, perché
la nostra unione è il fondamento della mia vita. Per questo il problema non è
solo che sei tornato a combattere, in realtà c'è molto di più.»
«Già.» Cazzo. Cosa diavolo aveva detto?
«So che avevi le tue ragioni.» «Già.»
«E so che non volevi farmi soffrire.» Questa frase venne pronunciata con
una intonazione crescente, una domanda più che un'affermazione.
«Non volevo, assolutamente.»
«Però sapevi che questa cosa mi avrebbe fatto soffrire, vero?»
Wrath poggiò i gomiti sulle ginocchia e si piegò sulle braccia muscolose.
«Sì. Ecco perché non riuscivo a dormire. Non mi sembrava giusto tenertelo
nascosto.»
«Avevi paura che mi sarei rifiutata di lasciarti uscire a combattere o roba
del genere? Che ti avrei denunciato per aver violato la legge? O cosa?»
«Il fatto è questo... Alla fine di ogni nottata tornavo a casa e mi dicevo che
non l'avrei più fatto. E invece a ogni tramonto mi ritrovato a prendere i
pugnali. Non volevo farti preoccupare, e mi ripetevo che non sarebbe durata
a lungo. Ma hai ragione tu. Non avevo in mente di smettere.» Si stropicciò le
palpebre sotto gli occhiali avvolgenti e la testa cominciò a pulsare.
Accarezzandosi la coscia, rimise a posto gli occhiali da sole e, con cautela, le
prese la mano.
Nessuno dei due parlò mentre si tenevano per mano, stretti l'uno all'altra.
A volte le parole valgono meno dell'aria che le trasporta, quando vogliamo
sentirci vicini a qualcuno.
Il vento gelido spazzava il cortile facendo frusciare le foglie secche; a un
certo punto le luci si accesero nel vecchio appartamento di Beth, illuminando
il cucinotto e la stanza principale.
Beth ridacchiò. «Hanno messo i mobili esattamente dove li avevo io, col
futon contro la parete più lunga.»
Il che significava che ebbero una visione molto chiara della coppia che entrò
incespicando nel monolocale, puntando dritto verso il letto. Gli umani erano
avvinghiati, labbra contro labbra, inguine contro inguine, e atterrarono sul
futon in un groviglio di membra, l'uomo sopra e la donna sotto.
Come imbarazzata da quello spettacolo, Beth scese dal tavolo e si schiarì la
gola. «Sarà meglio che me ne torni al Porto Sicuro.»
«Oggi sono di riposo. Starò a casa, sai, tutta la notte.»
«Bene. Cerca di riposarti un po'.»
Dio, che orrore quella distanza tra loro, ma almeno si parlavano. «Vuoi che
ti accompagni?»
«Non ce n'è bisogno.» Beth si strinse nel parka, affondando il viso nel
colletto imbottito. «Dio, che freddo.»
«Già.» Adesso che era giunto il momento di separarsi, Wrath era in ansia
per la loro situazione e la paura gli schiarì la vista. Dio, quanto odiava
l'espressione desolata sul volto di Beth. «Non puoi sapere quanto mi
dispiace.»
Beth gli accarezzò la guancia. «Lo sento dalla tua voce.»
Lui le prese la mano e se la mise sul cuore. «Non sono niente, senza di te.»
«Non è vero.» Beth si liberò dalla sua stretta. «Sei il re. Chiunque sia la tua
shellan, tu sei tutto.»
Così dicendo si smaterializzò nel nulla, la sua presenza calda e vitale
sostituita dal gelido vento invernale.
Wrath attese per una decina di minuti, poi si smaterializzò verso il Porto
Sicuro. Dopo tutto il tempo passato a nutrirsi a vicenda, Beth aveva nelle
vene tantissimo sangue del suo hellren. Grazie a quel sangue, Wrath avvertiva
la presenza della sua shellan all'interno delle solide mura della struttura
imbottita di sistemi di sicurezza, e sapeva che era protetta.
Col cuore gonfio di angoscia, Wrath si smaterializzò di nuovo e tornò alla
grande casa della confraternita: aveva dei punti da farsi levare e un'intera
notte da passare da solo nel suo studio.
Capitolo 21
Un'ora dopo che Trez aveva riportato il vassoio in cucina, lo stomaco di
Rehv era in piena rivolta. Cribbio, se neanche il porridge era più un alimento
commestibile dopo l'incontro . con la principessa, che cosa gli restava?
Banane? Riso in bianco? Omogeneizzati Gerber del cazzo?
E non era solo il suo tratto digestivo a essere fottuto. Se fosse stato in grado
di sentire qualcosa era certissimo di avere anche il , mal di testa, oltre a una
nausea tremenda. In presenza di una fonte luminosa, come quando Trez
passava a controllare come stava, le palpebre si mettevano a battere in
automatico, ballando su e giù in una scoordinata versione oculare della
Safety Dance; poi cominciava a salivare e a deglutire compulsivamente. Per
cui doveva 1 avere la nausea.
Quando gli suonò il cellulare lo prese e se lo portò all'orecchio senza
voltare la testa. Quella sera allo ZeroSum c'era parecchia roba in programma,
e doveva tenere d'occhio la situazione. «Sì.»
«Salve... mi ha chiamato?»
Gli occhi di Rehv schizzarono verso la porta del bagno, da cui filtrava una
luce soffusa.
Oh, Dio, non si era ancora fatto la doccia.
Era ancora sporco del sesso fatto con la principessa. Malgrado Ehlena fosse
ad almeno tre ore di macchina e lui non fosse davanti a una webcam, si
sentiva uno schifo anche solo a parlare con lei.
«Ehi», gracchiò.
«Si sente bene?»
«Sì.» Era una bugia grande come una casa, tradita dalla voce cavernosa.
«Be', io, ehm... ho visto che mi aveva chiamato...» Nel sentire un verso
strozzato, Ehlena si interruppe. «Lei sta male.»
«No...»
«Per l'amor di Dio, venga alla clinica per favore...»
«Non posso. Non sono...» Dio, non ce la faceva a parlare con lei. «Non sono
in città. Sono su al nord.»
Ci fu una lunga pausa. «Le porto gli antibiotici.»
«No.» Ehlena non poteva vederlo in quello stato. Merda, non poteva
rivederlo mai più. Lui era schifoso. Una lurida puttana schifosa che si faceva
toccare, succhiare e usare da una femmina che odiava, e si piegava a fare lo
stesso con lei.
La principessa aveva ragione. Lui era un cazzo di vibratore.
«Rehv? Mi lasci venire lì da lei.»
«No.»
«Non si faccia questo, maledizione!»
«Lei non può salvarmi!» gridò Rehvenge.
Dopo quello sfogo pensò, Gesù... e questa da dove era saltata fuori?
«Scusi... è stata una nottataccia.»
Quando Ehlena finalmente parlò, la sua voce era un sussurro quasi
impercettibile. «Non mi faccia questo. Non voglio vederla all'obitorio. Non
mi faccia questo.»
Rhev strinse gli occhi con forza. «Io non le sto facendo proprio niente.»
«Col cavolo.» La voce le si incrinò in un singhiozzo.
«Ehlena...»
Il suo gemito di disperazione uscì dal cellulare anche troppo distintamente.
«Oh... Cristo. E va bene, si uccida pure.»
E gli attaccò il telefono in faccia.
«Cazzo.» Rhev si stropicciò la faccia. «Cazzo!»
Si drizzò a sedere e scagliò il telefonino contro la porta della camera da
letto. Proprio mentre rimbalzava contro i pannelli di legno e volava per aria,
si rese conto che aveva distrutto l'unica cosa che custodiva il numero di
Ehlena.
Con un ruggito e uno scatto scomposto si catapultò giù dal letto,
seminando coperte dappertutto. Mossa poco intelligente. Quando i piedi
intorpiditi toccarono lo scendiletto partì come un frisbee e, dopo un breve
volo, atterrò a faccia in giù. Al momento dell'impatto un rumore simile allo
scoppio di una bomba riecheggiò sulle assi del pavimento, e lui strisciò verso
il cellulare, seguendo la luce che ancora rischiarava il display.
Ti prego, oh, ti scongiuro, se esiste un Dio...
Ce l'aveva quasi a tiro, quando la porta si spalancò mancandogli la testa per
un pelo e colpendo il telefono... che schizzò dalla parte opposta come un
disco da hockey. Rehv si voltò di scatto, lanciandosi verso il cellulare e
gridando a Trez. «Non spararmi!»
Trez, in posizione d'attacco, puntò la pistola verso la finestra, poi verso
l'armadio e infine verso il letto. «Cosa cazzo è stato?»
Rehv si appiattì a terra per arrivare al cellulare, che stava roteando sotto il
letto. Quando riuscì ad afferrarlo, chiuse gli occhi e se lo avvicinò al viso.
«Rehv?»
«Ti prego...»
«Cosa? Ti prego... cosa?»
Rhev aprì gli occhi. Lo schermo sfarfallava; premette i tasti in fretta.
Chiamate ricevute... chiamate ricevute... chiamate r...
«Rehv, cosa diavolo sta succedendo?»
Eccolo. Il numero. Rehv fissò le sette cifre dopo il prefisso neanche fossero
la combinazione della sua cassaforte, cercando di memorizzarle.
Lo schermo si spense e lui lasciò ricadere la testa sul braccio.
Trez si accovacciò accanto a lui. «Stai bene?»
Rehv si spinse fuori da sotto al letto e si mise a sedere, la stanza girava
come una giostra. «Oh... cazzo.»
Trez mise via la pistola. «Cosa è successo?»
«Ho fatto cadere il cellulare.»
«Sì, certo. Perché è così pesante da fare tutto quel... Ehi, calma,» Trez lo
sorresse mentre cercava di mettersi in piedi. «Dove credi di andare?»
«Devo farmi una doccia. Devo...»
Altre immagini di se stesso con la principessa gli invasero il cervello. La
rivide con la schiena inarcata, la rete rossa che si sollevava sulle natiche e lui
che, affondato nel suo sesso, pompava fino ad agganciarla con quel suo
uncino, eiaculando in profondità.
Rehv si premette i pugni sugli occhi. «Devo...»
Oh, Gesù... Lui raggiungeva sempre l'orgasmo quando faceva sesso con la
sua ricattatrice. E non una volta sola, ma di solito tre o quattro. Almeno le
puttane del suo club, che odiavano quello che facevano per denaro, potevano
consolarsi col fatto che non provavano nessun piacere. Ma quando un
maschio veniva non c'era altro da aggiungere, giusto?
Sentì arrivare l'urto di vomito e, in preda al panico, si trascinò in bagno. Il
porridge e il pane tostato provarono a liberarsi con successo; per fortuna Trez
era lì, pronto a sorreggerlo sopra il cesso. Pur non sentendo i conati, Rehv era
sicurissimo che il suo esofago si stava torcendo perché, dopo un paio di
minuti di tosse convulsa in cui cercò faticosamente di respirare, vide le stelle
e cominciò a vomitare sangue.
«Sdraiati», disse Trez.
«No, la doccia...»
«Non sei in condizione...» «Devo levarmela di dosso!» La voce di Rhev
tuonò per tutta la casa, non solo in camera da letto. «Per l'amor del cielo...
non la sopporto.»
Per un attimo fu lì lì per gridare porca puttana-. Rehv non era tipo da
chiedere un giubbotto di salvataggio anche se stava annegando, e non si
lamentava mai dell'accordo con la principessa. Andava all'appuntamento,
faceva quello che doveva fare e ne pagava le conseguenze, perché gli
conveniva, se voleva salvaguardare il segreto suo e di Xhex.
E c'è una parte di te che ne gode, puntualizzò una voce dentro di lui. Quando sei
dentro di lei sei libero di essere te stesso senza doverti scusare con nessuno.
Vaffanculo, disse a se stesso.
«Scusa se ho alzato la voce», gracchiò al suo amico.
«Naa, non fa niente. Non è colpa tua.» Con delicatezza, Trez
sollevò dal pavimento e cercò di metterlo seduto sul piano dei lavandini.
«Era ora.»
Rehv si gettò verso la doccia.
«No», disse Trez, spingendolo indietro. «Prima facciamo scendere l'acqua
calda.»
«Tanto non sentirò niente.»
«La tua temperatura corporea ha già abbastanza problemi. Stai fermo lì.»
Mentre; Trez infilava il busto dentro la doccia di marmo e apriva
rubinetto, Rhev si fissava l'uccello, lungo e floscio contro la coscia.
Sembrava il membro di qualcun altro, ed era un bene.
«Sai che potrei ucciderla», disse Trez. «Potrei farlo sembrare un incidente.
Nessuno lo saprebbe mai.»
Rehv scosse la testa. «Non voglio coinvolgerti in questo schifo. Ci siamo
caduti già in troppi.»
«L'offerta è sempre valida.»
«Ho preso nota.»
Trez infilò la mano sotto il getto. Col palmo sotto l'acqua corrente, i suoi
occhi color cioccolato si volsero all'indietro e, d'un tratto, si riempirono di
collera. «Tanto per essere chiaro, se muori spellerò viva quella troia nella
migliore tradizione della s'Hisbe, e spedirò i brandelli di pelle a tuo zio. Poi
arrostirò la sua carcassa su uno spiedo e la rosicchierò fino all'osso.»
Rehv abbozzò un sorriso; non era cannibalismo, pensò, perché sul piano
genetico Ombre e symphath avevano in comune quello che gli umani hanno in
comune con i polli.
«Figlio di puttana di un Hannibal Lecter», mormorò.
«Sai com'è.» Trez scrollò via l'acqua dalla mano. «Symphath... per noi Ombre
non c'è pasto migliore.»
«Pensi a un bel contorno di fave?» «Naa, ma potrei accompagnarla con un
buon bicchiere di Chianti e un piatto di pommes frìtes . La carne mi piace solo
con le patate. Dai, infilati sotto la doccia e lavati via quel tanfo di troia.»
Trez si avvicinò all'amico e lo tirò giù dal piano di marmo.
«Grazie», mormorò Rehv, mentre insieme zoppicavano verso la doccia.
Trez si strinse nelle spalle, ben sapendo che non stavano parlando della
visitina in bagno. «Tu faresti lo stesso per me.» «Già.»
Sotto il getto bollente, Rehv si insaponò tutto con il Dial finché la pelle non
fu rosso lampone e uscì dalla doccia solo dopo essersi lavato e sciacquato tre
volte. Trez gli passò una salvietta e Rhev si asciugò il più in fretta possibile
senza perdere l'equilibrio.
«A proposito di favori...» disse, «Mi serve il tuo telefono. Il tuo telefono e
un po' di privacy.»
«Okay.» Trez lo aiutò a rimettersi a letto e gli rimboccò le coperte. «Cribbio,
meno male che il piumone non è finito nel fuoco.»
«Allora, mi presti il telefono?»
«Vuoi giocarci a pallone?»
«No, se mi lasci la porta chiusa.»
Trez gli allungò un Nokia. «Trattalo bene. E nuovo di zecca.»
Rimasto solo, Rehv premette con cautela i tasti e poi digitò chiama senza
troppe speranze; non aveva la più pallida idea se il numero fosse giusto.
Drin. Drin. Drin.
«Pronto?»
«Ehlena, mi dispiace tanto...»
«Ehlena?» disse la voce femminile. «Mi spiace, ma non c'è nessuna Ehlena a
questo numero.»
Seduta in ambulanza, Ehlena tratteneva le lacrime per abitudine. Non che
qualcuno potesse vederla, ma non era un problema di anonimato. Mentre il
suo latte macchiato si raffreddava nel bicchiere doppio con doppio
sottobicchiere e il riscaldamento andava a singhiozzo, cercò di mantenere un
contegno perché era quello che faceva sempre.
Finché il CB non emise un gracchio spaventandola a morte.
«Base a unità quattro», disse Catya. «Rispondi, unità quattro.»
Vedi, ecco perché non posso mai abbassare la guardia, pensò Ehlena afferrando il
ricevitore. Dover rispondere nel bel mezzo di un pianto dirotto? Bella figura
avrebbe fatto.
Col pollice premette il tasto parla. «Qui unità quattro.»
«Stai bene?»
«Ehm, sì. Avevo solo bisogno di,.. Sto arrivando.»
«Non c'è fretta. Fai pure con calma. Volevo solo assicurarmi che stessi
bene.»
Ehlena lanciò un'occhiata all'orologio. Dio, erano quasi le due del mattino.
Era seduta lì fuori ad asfissiarsi con motore e riscaldamento accesi da quasi
due ore.
«Scusa tanto, non avevo idea che fosse così tardi. Vi serve l'ambulanza?»
«No, eravamo solo in pensiero per te. So che hai assistito Havers con quel
cadavere e...»
«Sto bene.» Ehlena abbassò il finestrino per far entrare un po' d'aria fresca e
ingranò la prima.
«Arrivo subito.»
«Non correre, e... senti, perché non ti prendi il resto della serata libera?»
«Non ce n'è bisogno...»
«Scusa, ma insisto. Ho già cambiato i turni, così hai libero anche domani.
Hai bisogno di staccare un po', dopo stasera.»
Ehlena avrebbe voluto protestare, ma non voleva apparire sulla difensiva e
poi, visto che la decisione era già stata presa, non c'era più niente da fare.
«D'accordo.»
«Torna pure con calma.»
«Va bene. Passo e chiudo.»
Attaccò il ricevitore e si diresse verso il ponte che l'avrebbe portata sull'altra
riva del fiume. Proprio mentre accelerava sulla rampa d'accesso, le suonò il
cellulare.
E così Rehv la stava richiamando. Be', non c'era da sorprendersi.
Tirò fuori il telefono solo per avere la conferma che era lui, non perché
avesse intenzione di rispondere.
Numero sconosciuto?
Premette chiama e si portò il cellulare all'orecchio. «Pronto?»
«Sei tu?»
La voce profonda di Rehv riusciva sempre a darle un brivido caldo, anche
se era incavolata nera con lui. E con se stessa. Per tutta quanta la situazione,
fondamentalmente.
«Sì», disse. «Ma non è il suo numero di telefono.»
«No. Il mio cellulare ha avuto un incidente.»
Ehlena si affrettò a parlare prima che lui si lanciasse nelle solite scuse.
«Senta, non sono affari miei. Qualunque cosa le stia capitando. Ha ragione lei,
non posso salvarla.»
«Perché ci tieni tanto a provarci?»
Lei si accigliò. Se la domanda fosse stata autocommiseratoria o accusatoria
avrebbe chiuso la telefonata e cambiato numero di cellulare. Ma nella voce di
lui c'era solo una sincera confusione. Quella, e una enorme stanchezza.
«Proprio non capisco... perché», mormorò Rehv.
La risposta che gli diede fu semplice e sincera. «Come potrei non farlo?»
«E se non me lo meritassi?»
Ehlena pensò a Stephan steso sull'acciaio inossidabile di quel tavolo
settorio, il corpo freddo e martoriato. «Chiunque abbia un cuore che batte
merita di essere salvato.»
«È per questo che sei diventata infermiera?»
«No. Sono diventata infermiera perché un giorno voglio fare il medico.
Salvare la gente è il mio modo di vedere il mondo.»
Il silenzio tra loro parve eterno.
«Sei in macchina?» disse alla fine lui.
«In un'autoambulanza, in realtà. Sto tornando alla clinica.»
«Sei fuori da sola?» ringhiò lui.
«Sì, e si risparmi le cazzate da macho. Ho una pistola sotto il sedile e so
come usarla.»
Dal telefono uscì una risatina sottile. «Okay, molto eccitante. Spiacente, ma
è così.»
Ehlena non riuscì a trattenere un sorriso. «Lei mi fa diventare matta, lo sa?
Anche se non la conosco nemmeno, mi fa andare fuori di testa.»
«Lo prendo come un complimento.» Ci fu una pausa. «Scusa per prima. Ho
avuto una nottataccia.»
«Sì, be', vale anche per me. Sia per le scuse che per la nottataccia.»
«Cosa è successo?»
«Non mi va di parlarne. Troppo complicato. E lei?»
«Idem.»
Rehv cambiò posizione facendo frusciare le lenzuola. «È di nuovo a letto?»
«Sì. E... sì, come l'altra volta, meglio non approfondire.»
Lei sorrise apertamente. «Mi sta dicendo che farei meglio a non chiederle
cosa ha addosso?»
«Indovinato.»
«Ci stiamo ripetendo un po' troppo, lo sa?» Poi si fece seria. «A me pare che
lei stia proprio male. Ha la voce roca.»
«Tra un po' starò meglio.»
«Senta, posso portarle quello che le serve. Se non può venire in clinica
posso portarle io la medicina.» Il silenzio all'altro capo della linea era così
profondo e si protrasse così a lungo che Ehlena a un certo punto disse,
«Pronto? E ancora lì?»
«Domani sera... possiamo vederci?»
Lei strinse le mani sul volante. «Sì.»
«Abito all'ultimo piano del Commodore. Lo conosci?» «Sì.»
«Riesci a farcela per mezzanotte? Lato est.» «Sì.»
Il sospiro con cui Rehv accolse quella risposta parve di rassegnazione. «Ti
aspetto. Guida piano, okay?»
«Okay. E lei non lanci più il suo telefono.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché se davanti a me avessi avuto uno spazio aperto, invece del
cruscotto di un'ambulanza, avrei fatto la stessa cosa.»
La risata di lui la fece sorridere, ma appena premuto chiudi e rimesso il
cellulare nella borsetta tornò seria.
Procedeva a una velocità regolare di 100 chilometri all'ora e la strada che
aveva davanti era liscia e diritta, ma era come se, perduto il controllo, stesse
sbandando da un guardrail all'altro lasciandosi dietro una scia di scintille via
via che seminava pezzi di ambulanza.
Vederlo l'indomani sera, stare da sola con lui in un luogo appartato, era
proprio quello che non doveva fare.
Ma l'avrebbe fatto comunque.
Capitolo 22
Montrag, figlio di Rehm, riagganciò il telefono e guardò fuori, dalle
portefinestre dello studio di suo padre. I giardini, gli alberi e i prati ondulati,
al pari della grande villa e di tutto ciò che essa conteneva, adesso erano suoi,
non più un lascito da ereditare in un giorno ancora lontano.
Nel contemplare quel panorama, godendosi il senso di proprietà, era
tutt'altro che soddisfatto. Tutto era chiuso per l'inverno, le aiole svuotate, i
rigogliosi alberi da frutta coperti da una rete di protezione, gli aceri e le
querce spogli. Come conseguenza si vedeva il muro di cinta, cosa tutt'altro
che attraente. Meglio far coprire quegli orrendi cosi del sistema di sicurezza,
Montrag si voltò, avvicinandosi a una veduta più piacevole, quantunque
appesa alla parete. Con un moto di reverenza ammirò il suo quadro preferito,
come aveva sempre fatto, poiché Turner meritava una venerazione assoluta,
sia per le sue doti artistiche sia per la scelta dei soggetti. Specie in quell'opera:
il sole che tramontava sul mare era un capolavoro sotto moltissimi punti di
vista: le tonalità oro, pesca e rosso vivo erano una autentica gioia per occhi
privati dalla biologia della possibilità di contemplare la sfolgorante fornace
che sosteneva, ispirava, e scaldava il mondo.
Un dipinto simile sarebbe stato l'orgoglio di qualunque collezione.
Montrag di Turner ne aveva tre solo in quella casa.
Con la mano scossa da un fremito di anticipazione, strinse tra le dita
l'angolo in basso a destra della cornice dorata e staccò la marina dal muro. La
cassaforte incassata nella parete era grande quanto il quadro. Dopo aver
formato la combinazione, udì uno scatto quasi impercettibile, da cui era
impossibile intuire che ciascuno dei sei perni retrattili era grosso come un
avambraccio.
La cassaforte si aprì senza fare rumore e all'interno si accese una luce che
illuminò uno spazio di tre metri e mezzo per tre metri e mezzo circa, pieno di
astucci di cuoio per gioielli, mazzette di banconote da cento dollari e
cartelline di documenti.
Montrag avvicinò un elegante sgabello con la seduta ricamata ad ago con
un motivo floreale e vi salì sopra. Infilò il braccio fino in fondo alla cassaforte,
dietro tutti gli atti di compravendita immobiliari e i certificati azionari, e tirò
fuori un forziere, poi richiuse la cassaforte e rimise a posto il quadro. Con un
senso di euforia e onnipotenza, portò la cassetta di metallo alla scrivania e
prese la chiave dallo scomparto segreto nell'ultimo cassetto in basso a
sinistra.
Era stato suo padre a rivelargli la combinazione della cassaforte e a
mostrargli quel nascondiglio e Montrag, a sua volta, avrebbe passato quelle
informazioni ai suoi futuri figli maschi. Ecco come ci si assicurava che gli
oggetti di valore non andassero perduti. Tramandandoli di padre in figlio.
Il coperchio della cassetta non si aprì con la stessa facilità ben lubrificata
della cassaforte. I cardini, disturbati nel loro riposo, protestarono con un
cigolio e con riluttanza svelarono il contenuto del suo ventre di metallo.
Erano ancora lì. Ringraziando la Vergine Scriba, erano ancora lì.
Pagine relativamente prive di valore, che di per sé valevano meno di un
centesimo, pensò Montrag infilando la mano all'interno. Anche l'inchiostro
che ne impregnava le fibre valeva al massimo un centesimo. Eppure, in virtù
di ciò che vi era scritto, avevano un valore inestimabile.
Senza di esse la sua vita era in pericolo.
Estrasse uno dei due documenti, non importava quale poiché erano
identici. Con cautela strinse tra le dita quello che per i vampiri era
l'equivalente di un affidavit, una dichiarazione di tre pagine, scritta a mano e
firmata col sangue, relativa a un evento occorso ventiquattro anni prima. La
firma autenticata da un notaio sulla terza pagina era tutta pasticciata, uno
scarabocchio marrone appena leggibile.
D'altronde, era stata fatta da un moribondo.
Il "padre" di Rehvenge, Rempoon.
I documenti esponevano tutta la spaventosa verità nell'Antico Idioma: il
rapimento della madre di Rehvenge da parte dei symphath, il concepimento e
la nascita di Rehvenge, la fuga della femmina e in seguito le sue nozze con
Rempoon, un aristocratico. L'ultimo paragrafo, così come il resto del
documento, era una condanna inappellabile.
Sul mio onore, e sull'onore dei miei avi, dichiaro che questa notte il mio figliastro,
Rehvenge, mi ha aggredito a mani nude procurandomi ferite mortali. L'ha fatto con
premeditazione, avendomi attirato con l'inganno nel mio studio con l'intenzione di
provocare un alterco. Io ero disarmato. Dopo avermi ferito, egli ha sistemato la stanza
in modo da simulare un'irruzione dall'esterno da parte di estranei. Mi ha
abbandonato sul pavimento affinché la morte ghermisse con la sua gelida mano la
mia forma corporea, quindi ha lasciato questa casa. Sono stato ridestato brevemente
dal mio caro amico Rehm, giunto in visita per discutere di certi affari.
Non ho alcuna speranza di sopravvivere. Il mio figliastro mi ha ucciso. Queste sono
le ultime parole che pronuncerò su questa Terra in quanto spirito incarnato. Che la
Vergine Scriba possa accogliermi senz'altro indugio nel Fado in virtù della sua
immensa grazia.
Come il padre di Montrag gli aveva spiegato in seguito, Rempoon aveva
ragione su quasi tutta la linea. Rehm era passato a trovarlo per motivi di
lavoro e aveva trovato non solo la casa deserta, ma il corpo insanguinato del
suo socio... allora aveva fatto ciò che ogni vampiro di buon senso avrebbe
fatto: si era messo a rovistare nello studio. Agendo nella convinzione che
Rempoon fosse morto, aveva cercato di trovare i documenti relativi alla loro
impresa per far sparire l'esigua partecipazione del socio, in modo da risultare
unico proprietario dell'azienda.
Avendo concluso con successo le sue ricerche, Rehm stava già andando via
quando Rempoon aveva dato segni di vita sussurrando un nome.
Se nei panni dell'opportunista Rehm non aveva avuto problemi, ritrovarsi
complice di un omicidio gli pareva un po' troppo. Aveva quindi chiamato il
dottore e, nell'attesa del suo arrivo, le parole confuse del moribondo gli
avevano riferito una storia scioccante, una storia che valeva ben più
dell'azienda. Con grande prontezza, Rehm aveva documentato il racconto e
la sconcertante confessione sulla vera natura di Rehvenge; facendo firmare
tale dichiarazione a Rempoon l'aveva trasformata in un documento legale.
Rempoon aveva poi perso conoscenza e, all'arrivo di Havers, era già morto.
Andandosene, Rehm si era portato via i documenti di lavoro e gli affidavit,
ed era stato erroneamente onorato come un valoroso eroe per aver tentato di
salvare l'amico morente.
In seguito l'utilità della confessione era risultata evidente, ma l'opportunità
di mettere subito in gioco simili informazioni era meno chiara. Scontrarsi con
un symphath era pericoloso, come testimoniato dalla morte violenta di
Rempoon. Da intellettuale qual era, Rehm aveva accantonato quelle
informazioni senza divulgarle... finché non era stato troppo tardi per poterle
sfruttare.
La legge imponeva di denunciare i symphath e Rehm era in possesso di una
prova schiacciante in tal senso. Avendo perso troppo tempo a considerare le
alternative a sua disposizione, tuttavia, si era ritrovato in una posizione
pericolosa: si poteva ragionevolmente sostenere, infatti, che avesse protetto
l'identità di Rehvenge. Se si fosse fatto avanti ventiquattro o quarantott'ore
dopo la morte del suo socio sarebbe stato un conto. Ma una settimana? Due
settimane? Un mese dopo?
Troppo tardi. Piuttosto che sperperare completamente quel patrimonio,
Rehm aveva informato Montrag degli affidavit e il figlio aveva subito capito
l'errore commesso dal padre. Nel breve periodo non c'era stato nulla da fare;
c'era un unico scenario in cui quelle carte valessero ancora qualcosa...
scenario che si era verificato proprio l'estate precedente, quando Rehm era
stato ucciso dai lesser e suo figlio aveva ereditato tutto, documenti compresi.
Montrag non poteva essere incolpato della scelta paterna di non svelare ciò
che sapeva. Gli bastava dichiarare di essersi imbattuto per caso in quelle carte
tra le cose di suo padre; denunciando la loro esistenza, e con essa anche
Rehvenge, faceva semplicemente ciò che era tenuto a fare.
Non sarebbe mai saltato fuori che le conosceva sin dall'inizio.
E nessuno avrebbe mai creduto che non fosse stato Rehv a decidere di far
fuori Wrath. In fin dei conti era un symphath, e non ci si poteva mai fidare di
quello che dicevano i symphath. Ma, soprattutto, sia che premesse
materialmente il grilletto sia che si limitasse a ordinare il regicidio, Rehv era
spacciato comunque: essendo il leahdyre del consiglio, infatti, poteva trarre il
massimo vantaggio dalla morte del sovrano. Che poi era proprio il motivo
per cui Montrag lo aveva fatto elevare a quel ruolo.
Rehvenge avrebbe sistemato il re e poi Montrag si sarebbe presentato al
consiglio prostrandosi davanti ai colleghi. Avrebbe dichiarato di aver trovato
i documenti solo al termine del trasloco nella casa del Connecticut, un mese
dopo le incursioni e dopo la nomina di Rehv a leahdyre. Avrebbe giurato che,
subito dopo il ritrovamento, aveva contattato telefonicamente il re
rivelandogli la natura della questione... ma Wrath lo aveva costretto al
silenzio a causa della posizione compromettente in cui quelle carte mettevano
il fratello Zsadist: dopo tutto, quest'ultimo era sposato con la sorella di
Rehvenge, la quale, sulla base dell'affidavit, risultava imparentata con un
symphath.
Wrath, naturalmente, non poteva smentirlo, essendo morto, ma soprattutto
era già malvisto per il modo in cui aveva ignorato le critiche costruttive della
glymera. Il Consiglio dei Princeps era prontissimo a credere a un altro errore
del sovrano, vero o presunto che fosse.
Era un piano intricato, ma avrebbe funzionato perché, col re assassinato, il
primo posto in cui la razza sarebbe andata a cercare il colpevole era proprio
ciò che restava del consiglio, e Rehv, un symphath, era il capro espiatorio
perfetto: certo che un symphath era capace di fare una cosa del genere! E
Montrag avrebbe contribuito a rafforzare il suo supposto movente
testimoniando che Rehv era andato a trovarlo prima dell'assassinio
parlandogli con bizzarra convinzione di cambiamenti senza precedenti. Oltre
tutto, le scene del crimine non sono mai completamente incontaminate. Di
sicuro sarebbero state rinvenute tracce che collegavano Rehv alla morte del
re, o perché c'erano veramente o perché tutti avrebbero cercato proprio quel
tipo di prove.
E quando Rehv avrebbe puntato il dito contro Montrag, nessuno gli
avrebbe creduto: in primo luogo perché era un symphath, ma anche perché,
seguendo l'esempio paterno, Montrag aveva sempre coltivato una
reputazione di persona saggia e affidabile, tanto nei rapporti d'affari che nella
condotta sociale. Per quel che ne sapevano i suoi colleghi membri del
consiglio, lui era irreprensibile, incapace di qualsivoglia inganno, una
persona di valore dalle origini impeccabili. Nessuno di loro sospettava che lui
e suo padre avevano tradito ben più di un socio, collega e familiare... poiché
entrambi erano stati molto attenti a scegliere le loro vittime in modo da
salvare le apparenze.
Risultato? Rehv sarebbe stato accusato di alto tradimento, arrestato e
condannato a morte secondo la legge dei vampiri, oppure deportato nella
colonia dei symphath, dove lo avrebbero ucciso perché era un mezzosangue.
L'uno o l'altro esito era ugualmente accettabile.
Era tutto previsto, tutto pianificato, ecco perché Montrag aveva appena
chiamato il suo amico più caro.
Prese l'affidavit, lo piegò in due é lo infilò in una spessa busta color panna.
Poi, da una scatola di cuoio goffrato, estrasse un foglio della sua carta da
lettere personalizzata e scribacchiò in fretta una breve missiva al vampiro che
avrebbe designato come suo vice, cementando il palcoscenico per la caduta d
Rehvenge. Nel biglietto spiegava che, come si erano già detti al telefono,
questo era ciò che aveva trovato tra le carte personali di suo padre... e se il
documento veniva convalidato, lui era preoccupato per il futuro del
consiglio.
Naturalmente la cosa sarebbe stata verificata dallo studio legale del suo
collega. Ma per allora Wrath sarebbe morto e Rehv sarebbe stato pronto per
la gogna.
Montrag accese un bastoncino di ceralacca rossa, ne fece cadere alcune
gocce sulla linguetta della busta con dentro l'affidavit e la sigillò. Sul davanti
scrisse il nome del destinatario, e nell'Antico Idioma precisò CONSEGNARE
A MANO; poi chiuse a chiave la cassetta di metallo, la infilò sotto la scrivania
e rimise al sicuro la chiave nello scomparto segreto.
Premendo un tasto sul telefono chiamò il maggiordomo, che prese in
consegna la busta e immediatamente si premurò di recapitarla nelle mani
giuste.
Soddisfatto, Montrag portò la cassetta di metallo alla cassaforte a muro,
spostò il quadro, formò la combinazione rivelatagli da suo padre e rimise a
posto l'altro affidavita per tenerne una copia per sé era una questione di
prudenza, una salvaguardia nel caso capitasse qualcosa al documento che era
in viaggio oltre il confine con il Rhode Island.
Nel rimettere a posto il Turner, il paesaggio gli parlò come sempre e
Montrag, per un attimo, si concesse di uscire dal manicomio che stava
creando a bella posta per immergersi nel magnifico e calmo mare del dipinto.
La brezza doveva essere calda, pensò.
Santissima Vergine Scriba, quanto gli mancava l'estate, in quei gelidi mesi
invernali. Ma d'altra parte sono i contrasti ad allietare il cuore. Senza il freddo
dell'inverno non si apprezzerebbero fino in fondo le afose notti di luglio e
agosto.
Cercò di immaginare dove sarebbe stato di lì a sei mesi, quando la luna
piena del solstizio si sarebbe alzata sopra la distesa urbana di Caldwell. Per
giugno sarebbe stato re, un monarca eletto e rispettato. Se solo suo padre
fosse stato ancora vivo per vedere...
Montrag tossì. Inspirò con un singhiozzo. Sentì qualcosa di bagnato sulla
mano.
Guardò in basso. La camicia bianca era tutta sporca di sangue.
Aprendo la bocca per chiamare aiuto tentò di fare un profondo respiro, ma
gli uscì solo un suono gorgogliante...
Le mani scattarono verso il collo e trovarono un gayser che schizzava fuori
dall'arteria carotidea recisa. Voltandosi di scatto, Montrag vide una femmina
ritta di fronte a lui, con un taglio di capelli maschile e un paio di pantaloni di
pelle. Il coltello che aveva in mano aveva la lama rossa, e il suo viso era una
maschera calmissima di distaccato disinteresse.
Montrag cadde in ginocchio davanti a lei, poi si rovesciò a faccia in giù,
sulla destra, le mani che ancora tentavano di trattenere il sangue, la linfa
vitale, dentro il corpo invece di spargerlo sull'Aubusson di suo padre.
Era ancora vivo quando lei lo fece rotolare sulla schiena, tirò fuori un
attrezzo smussato di ebano e si inginocchiò accanto a lui.
In quanto killer su commissione, le prestazioni lavorative di Xbex andavano
valutate in base a due criteri. Primo, aveva centrato il bersaglio? La risposta
era ovvia. Secondo, era stato un lavoro pulito? Nel senso che non c'erano stati
danni collaterali sotto forma di altre morti - per proteggere se stessa, la sua
identità eo l'identità di chi le aveva commissionato il lavoro.
In questo caso, il primo punto sembrava un gioco da ragazzi, visto che
l'arteria di Montrag si era trasformata in un tubo di scarico. Il secondo invece
era ancora una questione aperta, quindi doveva agire in fretta. Tirò fuori il lys
dai calzoni di pelle, si chinò sopra quella carogna e non perse più di un
nanosecondo a guardarlo roteare gli occhi.
Lo afferrò per il mento, voltandogli la faccia verso di sé. «Guardami.
Guardami.»
Montrag spostò su di lei due occhi atterriti e Xhex gli mostrò il lys. «Sai
perché sono qui e chi mi ha mandata. Non è Wrath.»
Evidentemente gli arrivava ancora abbastanza aria al cervello perché,
inorridito, formò un nome con le labbra, Rehvenge, prima di roteare ancora
gli occhi.
Lei gli lasciò andare il mento e lo schiaffeggiò con violenza. «Stai attento,
stronzo. Guardami.»
Con lo sguardo fisso nel suo e la mano di nuovo stretta sulla sua mascella,
Xhex gli spalancò ancora di più le palpebre dell'occhio sinistro. «Guardami.»
Prese il lys e lo premette dentro l'orbita, nell'angolo vicino al naso,
insinuandosi nel suo cervello e innescando così ogni sorta di ricordi. Ah...
interessante. Era stato proprio un bastardo intrallazzatore, specializzato nel
fregare soldi alla gente.
Montrag batté le mani sul tappeto affondandovi le dita con forza, mentre in
gola gli montava un gorgoglio che invano tentava di trasformarsi in urlo. Il
bulbo oculare uscì dal cranio come una goccia di melata dalla foglia,
perfettamente tondo e intatto. L'occhio destro fece altrettanto. Xhex li mise in
un sacchetto di velluto mentre Montrag agitava frenetico braccia e gambe sul
suo costosissimo tappeto, ritraendo le labbra fino a mostrare ogni dente,
molari compresi.
Xhex lo lasciò alla sua morte scomposta, uscendo dalla portafinestra dietro
la scrivania e smaterializzandosi fino all'acero da cui il giorno prima aveva
tenuto d'occhio la casa. Attese lì per una ventina di minuti e poi seguì con lo
sguardo una doggen che, entrata nello studio, vide il corpo e lasciò cadere il
vassoio d'argento che aveva in mano.
Mentre la teiera e il servizio di porcellana rimbalzavano sul pavimento,
Xhex aprì il cellulare, premette chiama e lo accostò all'orecchio. Quando la
voce profonda di Rehv rispose, disse, «E fatta, l'hanno trovato. È stato un
lavoro pulito e ti sto portando un ricordino. Tempo stimato di arrivo dieci
minuti.»
«Ben fatto», mormorò Rehv, compiaciuto. «Ben fatto, cazzo.»
Capitolo 23
Al telefono, Wrath si accigliò. «Adesso? Vuoi che venga su da te adesso?»
La voce di Rehv era serissima, per la serie "mica sto cazzeggiando". «Questa
cosa va fatta di persona e io non posso muovermi.»
All'altro capo dello studio, Vishous, che stava per fare rapporto sul lavoro
svolto per rintracciare la fonte di quelle casse di armi, sillabò, Che cazzo
succede?
Che era esattamente quello che stava pensando Wrath. Un symphath ti
chiama due ore prima dell'alba e ti chiede di andare su al nord perché ha
"qualcosa da darti." Sì, okay, il soggetto in questione era il fratello di Bella, ma
la sua natura era quella che era, e quel "qualcosa" non era un cesto di frutta,
poco ma sicuro.
«Wrath, è importante», insistette Rehv.
«Okay, arrivo subito.» Wrath chiuse la telefonata e guardò Vishous.
«Vado...»
«Phury è fuori a caccia, stanotte. Non puoi andarci da solo.»
«In casa ci sono le Elette.» Da quando Phury aveva preso le redini come
Primale, le Elette andavano e venivano dal grande cottage di Rehv.
«Non è esattamente il tipo di protezione che avevo in mente.»
«So badare a me stesso, grazie tante.»
V incrociò le braccia sul petto, fulminandolo con i suoi occhi di diamante.
«Partiamo subito o prima preferisci perdere tempo a cercare di farmi
cambiare idea?»
«E va bene, hai vinto. Ci vediamo nell'atrio alle cinque.»
Uscendo dallo studio insieme a Wrath, V disse, «Senti, per quei fucili... ci
sto ancora lavorando. Per ora non ho in mano niente di concreto, ma mi
conosci. Non durerà ancora per molto. I numeri di matricola sono stati limati,
ma non importa; scoprirò dove v cavolo li hanno presi.»
«Lo spero proprio, fratello. Lo spero davvero tanto.»
Dopo aver preso le armi, i due vampiri si spostarono a nord in ima libera
danza di molecole, puntando sul grande cottage che Rehv possedeva sugli
Adirondack e materializzandosi sulle tranquille rive di un lago. La casa era
una enorme villa a due piani in stile vittoriano, col tetto rivestito di assicelle
di legno, finestre a piombo dai vetri romboidali e verande in legno di cedro
sia al pianterreno che al primo piano.
Molti angoli, molte ombre. E molte di quelle finestre sembravano occhi.
La magione era già abbastanza sinistra di per sé, ma essendo oltretutto
circondata da una sorta di campo magnetico protettivo - l'equivalente del
mhis per i symphath - veniva da pensare che fosse abitata da Freddy, Jason e
Michael Myers in persona, insieme a tutta la banda di bifolchi armati di
motoseghe del famoso film horror. Tutt'intorno alla proprietà, la paura era
uno steccato intangibile di filo spinato mentale; persino Wrath, che sapeva di
cosa si trattava, fu ben contento di oltrepassare quella barriera.
Mentre il re si sforzava di mettere a fuoco la vista, Trez, una delle guardie
del corpo di Rehv, aprì la porta a due battenti che affacciava sulla veranda di
fronte al lago e alzò la mano in segno di saluto.
Wrath e V risalirono il prato ghiacciato facendo scricchiolare l'erba sotto gli
stivali; nessuno dei due estrasse le armi, ma V si tolse il guanto che copriva la
mano destra incandescente. Trez era il tipo che incute rispetto, e non solo
perché era un'Ombra. Col fisico muscoloso di un pugile e lo sguardo acuto di
uno stratega, il Moro era fedele a Rhev e,a Rehv soltanto. Per proteggerlo,
Trez era pronto a spianare un-intero isolato urbano in un batter d'occhio.
«Allora, come butta, amico?» lo apostrofò Wrath salendo i gradini della
veranda.
Trez gli andò incontro e i due si salutarono battendo i palmi. «Alla grande,
e tu?»
«Bene, come sempre.» Wrath gli diede una gran pacca sulla spalla. «Ehi, se
mai ti venisse voglia di un lavoro vero, vieni a trovarci.»
«Sto bene dove sono, ma grazie.» Il Moro fece un gran sorriso e si voltò
verso V, puntando gli occhi scuri sulla mano scoperta. «Senza offesa, ma non
ti stringerò quella roba.»
«Saggia decisione», disse Vishous porgendogli la sinistra. «Però tu mi
capisci.»
Wrath fece saltellare il sacchetto sul palmo della mano. «Quando glieli hai
cavati?»
«Una mezz'oretta fa», rispose Xhex. «Non mi sono fermata a pulire.»
«Be', di sicuro coglieranno il messaggio. E io andrò comunque a quella
riunione.»
«Sicuro che sia una mossa saggia?» fece Rehv. «Chiunque altro ci sia dietro
questa storia non verrà più da me, perché ormai sa da che parte sto. Ma non
significa che non troverà altri disposti ad accettare l'incarico.»
«Si accomodino pure», disse Wrath. «Io ho chiuso con gli scontri mortali.»
Lanciò un'occhiata a Xhex. «Montrag ha fatto qualche nome?»
«Gli ho tagliato la gola da un orecchio all'altro. Parlare era dura.»
Wrath sorrise e guardò V. «Sai, è una sorpresa che voi due non andiate
d'accordo.»
«Non proprio», ribatterono all'unisono Xhex e Vishous.
«Posso spostare la riunione del consiglio», mormorò Rehv. «Se vuoi
indagare tu stesso per vedere chi altri era coinvolto.»
«No. Se avessero avuto un po' di palle avrebbero cercato di uccidermi da
soli, invece di chiederlo a te. Quindi delle due l'una: non sapendo se Montrag
li ha smascherati prima di venire accecato correranno a nascondersi, perché è
quello che fanno i vigliacchi; oppure getteranno la colpa su qualcun altro.
Quindi la riunione resta confermata.» v
Rehv sorrise misterioso, il suo lato symphath chiaramente compiaciuto.
«Come vuoi.»
«Però da te voglio una risposta sincera», disse Wrath.
«Qual è la domanda?»
«Sul serio pensavi di uccidermi quando Montrag te l'ha chiesto?»
Rehv rimase in silenzio per qualche istante. Poi lentamente annuì. «Sì. Ma,
come ho già detto, adesso sei in debito con me e, date le... circostanze della
mia nascita, per così dire... questo per me conta molto più di qualunque
favore possa farmi un qualunque viscido aristocratico.»
Wrath annuì, reciso. «È una logica che rispetto.»
«E in più, parliamoci chiaro» - Rehv sorrise di nuovo - «col suo matrimonio,
mia sorella è entrata a far parte della vostra famiglia.»
«Eh, sì, symphath. Proprio così.»
Dopo aver messo l'ambulanza in garage, Ehlena attraversò il parcheggio ed
entrò nella clinica. Doveva prendere le sue cose dall'armadietto, ma non era
stato quello a spingerla fin lì. Di solito a quell'ora di notte Havers era
impegnato a compilare cartelle cliniche nel suo ufficio, e fu lì che lei si
diresse. Giunta davanti alla sua porta, si lisciò i capelli all'indietro e li legò
stretti alla base del collo. Aveva ancora addosso il cappotto - non era costato
molto, ma era di lana nera e sembrava fatto su misura, quindi le sembrava di
avere un aspetto decente.
Bussò sullo stipite e, quando una voce cortese la invitò a entrare, lo fece. Il
vecchio ufficio di Havers, nella clinica distrutta dall'attentato, era uno
splendido studio in stile vecchio continente, pieno di pezzi d'antiquariato e
volumi rilegati in pelle. Da quando si erano trasferiti in quella nuova clinica,
il suo spazio di lavoro privato non era diverso da quello di chiunque altro:
pareti bianche, pavimento di linoleum, scrivania d'acciaio inox, poltroncina
girevole nera.
«Ehlena», disse Havers alzando gli occhi dalle cartelle che stava
esaminando. «Come sta?»
«Stephan è tornato a casa...»
«Mia cara, non avevo idea che lo conoscessi. Me l'ha detto Catya.»
«Io... sì.» Ma forse non avrebbe dovuto confidarsi con la collega.
«Santissima Vergine Scriba, perché non me l'hai detto?»
«Perché volevo rendergli onore.»
Havers si tolse gli occhiali di tartaruga e si stropicciò gli occhi. «Ahimè,
questo posso capirlo. Tuttavia avrei preferito saperlo. Avere a che fare con i
morti non è mai facile, ma è particolarmente arduo se li conosciamo di
persona.»
«Catya mi ha messo di riposo per il resto del turno...»
«Sì, gliel'ho detto io. Hai avuto una nottata pesante.»
«Be', la ringrazio. Prima di andare, però, volevo chiederle di un altro
paziente!»
Havers si rimise gli occhiali. «Ma certo. Di chi si tratta?»
«Rehvenge. È stato qui ieri sera.»
«Mi ricordo. Ha dei problemi con le sue medicine?»
«Per caso ha visto il suo braccio?»
«Il suo braccio?»
«L'infezione al braccio destro.»
Il medico della razza spinse gli occhiali di tartaruga fino alla radice del
naso. «Non mi ha detto che il braccio gli dava fastidio. Se vuole tornare a farsi
vedere sarò lieto di dargli un'occhiata. Ma come sai non posso prescrivergli
niente senza prima averlo visitato.»
Ehlena fece per ribattere, quando un'altra infermiera infilò dentro la testa.
«Dottore? Il suo paziente è pronto in sala visita quattro.» «Grazie.» Havers
tornò a guardare Ehlena. «Adesso vada a casa a riposarsi.»
«Sì, dottore.»
Ehlena uscì dall'ufficio e seguì con lo sguardo il medico della razza che si
allontanava in tutta fretta, sparendo dietro l'angolo.
Rehvenge non sarebbe tornato lì a farsi visitare da Havers. Impossibile.
Primo, dalla voce le era parso troppo malato per lai lo e, secondo, si era già
dimostrato uno sciocco testardo quando di proposito aveva nascosto al
dottore quell'infezione.
Che stupido.
Ed era una stupida anche lei, considerato quello che le ronzava per la testa.
In linea generale, l'etica non era mai stata un problema per lei: fare la cosa
giusta non richiedeva troppe riflessioni, compromessi sui principi o calcoli
costi-benefici. Per esempio, sarebbe stato sbagliato frugare nelle scorte di
penicillina della clinica e sottrarne, be', diciamo, ottomilacinquecento
milligrammi in compresse.
Specie se poi davi le suddette compresse a un paziente che il dottore non
aveva visitato per un disturbo che andava sottoposto a terapia antibiotica.
Sarebbe stato sbagliato. Senz'ombra di dubbio.
La cosa giusta sarebbe stata chiamare il paziente e convincerlo a presentarsi
in clinica per farsi visitare dal medico. E se lui non voleva muovere le
chiappe? Be', allora pazienza.
Già, niente complicazioni così.
Ehlena si diresse verso la farmacia.
Decise di lasciar fare al destino. E - chi l'avrebbe mai detto? - era il
momento della pausa-sigaretta. Il piccolo orologio con la scritta TORNO
SUBITO indicava le tre e quarantacinque.
Ehlena controllò il suo orologio. Le tre e trentatré.
Sganciò lo sportello del bancone, entrò in farmacia, tirò dritto fino ai vasi di
penicillina e si versò in una delle tasche dell'uniforme quegli
ottomilacinquecento milligrammi in compresse - lo stesso dosaggio prescritto
a un paziente con un problema analogo, tre sere prima.
Rehvenge non sarebbe tornato molto presto alla clinica. Quindi gli avrebbe
portato lei quello che gli serviva.
Si disse che stava aiutando un paziente e questa era la cosa più importante.
Che diamine, probabile che gli stesse salvando la vita. Fece anche notare alla
sua coscienza che non si trattava di Oxy-Contin, Valium e morfina. Per quel
che ne sapeva lei, nessuno aveva mai cercato di sballarsi sniffando penicillina
in polvere.
Quando andò nello spogliatoio a recuperare il pranzo che si era portata da
casa, ma che poi non aveva mangiato, non provò il minimo senso di colpa. E
quando, a casa, andò in cucina a mettere le pillole in un sacchetto di plastica
per alimenti che poi infilò nella borsetta, non provò nessuna vergogna.
Quella era la strada che aveva scelto. Stephan era già morto quando era
arrivata da lui, e lei non aveva potuto fare di meglio che dare una mano ad
avvolgere nelle bende cerimoniali le sue membra fredde e rigide. Rehvenge
era vivo. Vivo e sofferente. E che fosse o meno la causa del suo male, lei
poteva ancora aiutarlo.
Il fine era morale anche se i mezzi non lo erano.
E a volte non si può fare di meglio.
Capitolo 24
Xhex tornò allo ZeroSum alle tre e mezzo del mattino, giusto in tempo per
chiudere il club. Aveva in sospeso anche una cosetta che la riguardava da
vicino e non vedeva l'ora di farla, invece di svuotare i registratori di cassa e
congedare il personale e i buttafuori.
Prima di lasciare il cottage montano di Rehv era andata in bagno e si era
rimessa i cilici, ma quegli accidenti non funzionavano. Era euforica. Ebbra di
potere. Proprio al limite. Tanto valeva legarsi le cosce con delle stringhe da
scarpe, per quel che servivano.
Si infilò nel settore VIP passando dalla porta laterale e passò in rassegna la
folla, ben consapevole che stava cercando qualcuno in particolare.
Ed eccolo lì.
Il fottutissimo John Matthew. Un lavoro ben fatto la mandava sempre su di
giri e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era stare vicino a uno come lui.
Quasi avesse avvertito il suo sguardo, John alzò la testa e i suoi occhi blu
scuro brillarono. Sapeva perfettamente cosa voleva Xhex. E, da come si
risistemò con discrezione il pacco nei calzoni, era pronto a rendersi utile.
Xhex non riuscì a trattenersi dal torturare entrambi. Gli inviò
telepaticamente una scena, ficcandogliela bene in testa: loro due in uno dei
bagni privati, lui seduto sul lavandino, piegato all'indietro, lei con un piede
piantato sul piano di marmo, con il suo pene affondato dentro, tutti e due
ansimanti.
John la guardò attraverso la stanza affollata, schiudendo le labbra; il rossore
sulle sue guance non aveva niente a che fare con l'imbarazzo: era l'effetto
dell'eccitazione che di sicuro gli stava rizzando l'uccello.
Dio, quanto lo desiderava.
L'amico di John, il rosso, la costrinse a riscuotersi da quel momento di follia.
Tornato al tavolo tenendo per il collo tre birre, vide la faccia seria e arrapata
di John e si bloccò di colpo, lanciandole un'occhiata sorpresa.
Merda.
Xhex liquidò con un gesto della mano i buttafuori che le si stavano
avvicinando e uscì dal settore VIP così di volata da rischiare di travolgere una
cameriera, buttandola giù come un birillo.
Il suo ufficio era l'unico luogo sicuro, e fu lì che si diresse a tutta velocità.
L'assassinio era un motore che, una volta avviato, era difficile far rallentare e i
ricordi dell'uccisione, del dolce momento in cui aveva incrociato gli occhi di
Montrag per poi privarlo della vista, stavano solleticando il suo lato symphath.
Per bruciare tutta quell'energia e tornare coi piedi per terra c'erano due
possibilità.
Fare sesso con John Matthew era decisamente una di esse. L'altra era molto
meno piacevole, ma non sempre si può scegliere e lei stava quasi per tirar
fuori il lys e cavare gli occhi a tutti gli umani che incontrava sulla sua strada.
Il che non sarebbe stato un bene per gli affari.
Un secolo dopo chiuse la porta sul frastuono e la ressa bestiale, ma non
trovò pace neanche in quel rifugio spoglio. Che cavolo, non riusciva a
rilassarsi neanche quel tanto che bastava a stringere i cilici. Si mise a
camminare intorno alla scrivania, una belva in gabbia pronta a esplodere,
cercando di darsi una calmata in modo da...
Con un boato il cambiamento si abbatté violento su di lei, il suo campo
visivo fu invaso da tutte le tonalità del rosso, come se qualcuno le avesse
appena messo un visore davanti agli occhi. D'un tratto la griglia emotiva di
ogni essere vivente presente nel locale le invase il cervello, pareti e pavimenti
sparirono, sostituiti dai vizi e dalle disperazioni, dalle collere e dai desideri
lascivi, dalle crudeltà e dal dolore che per lei erano solidi come un tempo era
stata la struttura del club.
Il suo lato symphath ne aveva abbastanza di fare il bravo ed era pronto a
scorticare vivo quel branco di umani ebeti e strafatti là fuori.
Quando Xhex schizzò via, neanche la pista da ballo stesse andando a fuoco
e lei fosse l'unica ad avere un estintore, John si lasciò sprofondare di nuovo
nel divanetto. Dopo che l'immagine nella sua testa si fu dissipata, il
formicolio sottopelle cominciò ad attenuarsi, ma la sua erezione non voleva
saperne " magari lesser sarà per un'altra volta".
Nei jeans, l'uccello intrappolato dietro la patta era duro.
Merda, pensò. Merda. Oh... merda.
«Vediamo di impedirgli di portarsela a letto, Blay», bofonchiò Qhuinn.
«Scusa», disse Blay, infilandosi nel séparé e passando le birre lesser agli altri
due. «Mi dispiace... Merda.»
Be', se quella non era una descrizione perfetta della situazione...
«Sai, tu le piaci sul serio», disse Blay con una punta di ammirazione.
«Voglio dire, pensavo che venissimo solo qui per permetterti di vederla. Ma
non sapevo che anche lei ti guardava in ! quel modo.»
John chinò il capo per nascondere le guance ormai moooolto più rosse dei
capelli di Blay.
«Sai dov'è il suo ufficio, John.» Qhuinn buttò indietro la testa,1 ingollando
una lunga sorsata di birra, senza staccargli di dosso gli ; occhi di due colori
diversi. «Vacci. Subito. Almeno uno di noi potrà trovare un po' di sollievo.»
John si appoggiò all'indietro, sfregandosi le cosce; pensava esattamente
quello a cui stava pensando Qhuinn. Ma aveva le palle - per farlo? E se
l'abbordava e lei gli diceva di no?
E se gli si ammosciava di nuovo?
Al ricordo di quello che aveva visto nella sua testa, però, non si preoccupò
più di tanto. Era pronto a venire seduta stante.
«Potresti entrare nel suo ufficio da solo», proseguì sottovoce Qhuinn. «Io
posso aspettare all'inizio del corridoio per assicurarmi che nessuno vi
interrompa. Sarai al sicuro, e sarà tutto molto intimo.»
John ripensò alla prima e unica volta in cui lui e Xhex si erano trovati
insieme in uno spazio ristretto. Era stato in agosto, nella toilette degli uomini
al mezzanino, lei lo aveva sorpreso a barcollare fuori da uno dei gabinetti,
ubriaco fradicio. Con tutto che era ciucco tradito, gli era bastato vederla per
essere assalito dalla voglia di fare sesso con lei... e, grazie alla spavalderia
infusagli da un ettolitro di Corona, aveva avuto l'incredibile faccia tosta di
avvicinarla e scribacchiare un messaggio su un asciugamano di carta. Era
stata una specie di vendetta per quello che lei stessa gli aveva suggerito di
fare.
Quel che è giusto è giusto. Voleva che Xhex dicesse il suo nome quando si
masturbava.
Da quella volta si erano tenuti lontani, lì al club, ma a letto erano
maledettamente vicini... e Xhex faceva quello che le aveva; chiesto, lui lo
sapeva; l'aveva capito da come lo guardava. E il piccolo scambio telepatico di
poco prima, in cui Xhex gli aveva comunicato quello che pensava dovessero
fare nei bagni, era la prova lampante che persino lei una volta ogni tanto
eseguiva gli ordini.
Qhuinn gli mise una mano sul braccio e quando John lo guardò, a gesti
disse, Il tempismo è tutto, John.
Verissimo. Xhex lo desiderava, e quella sera non lo desiderava solo nel
senso delle fantasie erotiche a cui si abbandonava quand'era a casa da sola.
John non sapeva cosa fosse cambiato per lei, o cos'avesse innescato quel
desiderio, ma il suo uccello se ne fregava altamente dei dettagli.
L'unica cosa che contava era il risultato.
Letteralmente.
E poi, per l'amor del cielo, voleva restare vergine per il resto della vita solo
per una cosa che aveva subito un secolo prima? Il tempismo era tutto, e lui era
arcistufo di starsene lì con le mani in mano, negando a se stesso ciò che
voleva veramente.
Si alzò in piedi e annuì deciso.
«Sia ringraziato il cielo, cazzo», esclamò Qhuinn scivolando fuori dal
séparé. «Blay, torniamo tra un po'.»
«Fate con comodo. E... buona fortuna, John, okay?»
Con una pacca sulla spalla dell'amico, John si tirò su i jeans prima di
avviarsi fuori dal settore VIP. Insieme a Qhuinn passò accanto ai buttafuori
ritti davanti al cordone di velluto, ai ballerini sudati che si strusciavano in
modo provocante, alle coppie che pomiciavano alla grande e alla folla che si
stava accalcando al bancone del bar per l'ultima ordinazione della serata. Di
Xhex neanche l'ombra; John si chiese se non fosse già andata via.
No, pensò. Doveva stare per forza lì per la chiusura, perché Rehv non si era
visto.
«Forse è già nel suo ufficio», disse Qhuinn.
Mentre salivano le scale del mezzanino, John ripensò alla prima volta che
l'aveva vista. Quando si dice partire col piede sbagliato. Lei lo aveva
trascinato in fondo a quel corridoio e lo aveva interrogato dopo averlo
beccato con una pistola nascosta nei calzoni; John l'aveva presa per
permettere a Qhuinn e Blay di spassarsela in pace con un paio di ragazze. Era
stato così che Xhex aveva scoperto come si chiamavate i suoi legami con
Wrath e la confraternita; il modo in cui lo aveva strapazzato durante la
perquisizione era stato eccitante da morire... una volta superato il timore che
volesse farlo a pezzettini.
«Io ti aspetto qui», disse Qhuinn fermandosi all'inizio del corridoio. «Andrà
tutto bene.»
John annuì e poi, un piede dopo l'altro, cominciò a camminare, e più
avanzava più il corridoio diventava buio. Giunto davanti alla porta di Xhex
non si fermò a riflettere, temendo di farsi prendere dalla paura e di tornare di
corsa dal suo amico.
Bella figura avrebbe fatto, altro che palle.
E poi lui voleva farla, questa cosa. Ne aveva bisogno.
Alzò le nocche per bussare... e rimase impietrito. Sangue, sentì odore di...
sangue.
Il sangue di lei.
Senza pensare spalancò la porta e...
Oh. Mio. Dio, esclamò, muto.
Xhex alzò la testa di scatto da quello che stava facendo e la sua vista lo
sconvolse. Si era tolta i calzoni di pelle e li aveva appoggiati sul bordo della
sedia, le gambe erano sporche del suo stesso sangue... sangue che sgorgava
copioso dalle bande chiodate agganciate intorno alle cosce. Aveva posato un
piede sulla scrivania ed era intenta a... stringerle?
«Esci subito di qui!»
Perché, sillabò lui, avvicinandosi, tendendo una mano. Oh... Dio, devi
smettere.
Con un ringhio gutturale, lei gli puntò il dito contro. «Non avvicinarti.»
John cominciò a muovere le mani in modo frenetico, anche se lei non capiva
la lingua dei segni. Perché ti stai facendo questo...
«Esci di qui. Subito.»
Perché? gridò lui, in silenzio.
Per tutta risposta, negli occhi di lei si accese un lampo rosso rubino, come se
dentro al cranio le fossero state montate delle lampadine colorate. John si
sentì gelare.
Nel mondo della confraternita erano solo loro a fare così.
«Vattene.»
John si voltò, fiondandosi verso la porta. Allungando la mano verso la
maniglia notò che si poteva bloccare dall'interno e, con un rapido scatto del
bottone in acciaio inossidabile, chiuse dentro Xhex in modo che nessun altro
potesse vederla.
Non si fermò neanche quando raggiunse Qhuinn. Tirò dritto, senza
controllare se il suo amico, nonché guardia del corpo, gli stava dietro.
Di tutte le cose che poteva mai scoprire su di lei, quella era proprio
impossibile da prevedere.
Xhex era una fottutissima symphath.
Capitolo 25
Dall'altra parte di Caldwell, su una strada alberata, Lash era seduto su una
poltrona imbottita foderata di velluto scuro, dentro una casa in arenaria
bruno-rossastra. Accanto a lui c'erano le uniche vestigia degli umani ricchi ed
eleganti che prima vivevano in quell'appartamento: i bei tendaggi damascati
andavano dal pavimento al soffitto, dando risalto ai bovindi affacciati sul
marciapiede.
Lash adorava quelle tende. Erano bordeaux, oro e nero, con un bordo di
palline di raso dorate grosse come biglie. Nella loro spudorata magnificenza
gli ricordavano la vita che aveva condotto quando abitava nella grande
magione in stile Tudor in cima alla collina.
Gli mancava l'eleganza di quella vita. La servitù. I pasti. Le automobili.
Passava tanto di quel tempo con le classi inferiori.
Le classi inferiori umane, cazzo, visto il bacino da cui attingevano i lesser.
Allungò una mano per accarezzare una delle tende, ignorando la nuvola di
polvere che si levò nell'aria immota non appena la sfiorò. Bellissima. Pesante
e robusta, senza nulla di dozzinale nel tessuto, nei colori, nei bordi o negli orli
cuciti a mano.
La sensazione tattile che gli procurava gli fece capire che gli serviva una
bella casa tutta sua, e pensò che magari poteva essere proprio la villa di
arenaria. A sentire Mr D, quella casa apparteneva da tre anni alla Lessening
Society, essendo stata acquistata da un Fore-lesser convinto che in zona ci
fossero dei vampiri. Nel vicolo sul retro c'era un garage a due posti che
garantiva la privacy, e lui non poteva sperare in ima casa più bella, ¿¡meno
nel breve periodo.
Grady entrò con un cellulare attaccato all'orecchio, nel giro finale del
circuito che percorreva nervosamente da due ore. La sua voce riecheggiava
fino all'alto soffitto riccamente decorato.
Adeguatamente motivato dall'adrenalina che aveva in corpo, l'amico aveva
tirato fuori i nomi di sette spacciatori e li aveva chiamati uno dopo l'altro,
strappando appuntamenti con ciascuno di loro.
Lash lanciò un'occhiata al pezzo di carta su cui Grady aveva scribacchiato
la sua lista. Solo il tempo poteva confermare la validità di tutti quei contatti;
uno di essi era decisamente solido, però. Il settimo nome, cerchiato in nero in
fondo all'elenco, apparteneva a qualcuno che Lash conosceva bene: il
Reverendo.
Alias Rehvenge, figlio di Rempoon. Proprietario dello ZeroSum.
Ovvero, lo stronzo che l'aveva sbattuto fuori dal club perché aveva venduto
pochi grammi di roba qui e là nel suo territorio. Incredibile non averci
pensato prima, cazzo. Certo che Rehvenge figurava in quella lista. Per forza.
Era il fiume che alimentava tutti i ruscelli, che cavolo, il trafficante con cui
trattavano direttamente i produttori sudamericani e cinesi.
Il che rendeva le cose ancora più interessanti.
«Okay, allora ci vediamo», disse Grady al telefono. Poi riattaccò e guardò
Lash. «Non ho il numero del Reverendo.»
«Però sai dove trovarlo, giusto?» Bella forza; tutti nel giro della droga, dai
pusher ai consumatori abituali, alla polizia, sapevano dove stava; perciò era
un miracolo che il locale non fosse chiuso già da un pezzo.
«Sarà un problema, però. Io non posso più mettere piede allo ZeroSum.»
Benvenuto nel club. «Vedremo di aggirare l'ostacolo.»
Non mandandoci un lesser per cercare di concludere un affare, però. Per
quello avevano bisogno di un umano. A meno di riuscire ad attirare
Rehvenge fuori dalla sua tana, cosa alquanto improbabile.
«Ho finito, adesso?» chiese Grady, lanciando un'occhiata disperata alla
porta, come un cane con un gran bisogno di uscire a fare una pisciatina.
«Hai detto che dovevi volare sotto la quota radar.» Lash sorrise, scoprendo
per un attimo le zanne. «Quindi tornerai a casa con i miei uomini.»
Grady non protestò; si limitò ad annuire e a incrociare le braccia sul petto di
quel cazzo di giubbotto con l'aquila. Tanta acquiescenza era equamente
attribuibile a personalità, paura e stanchezza. Doveva essersi reso conto che
era molto più inguaiato di quanto pensasse all'inizio. Quasi sicuramente era
convinto che le zanne di Lash fossero finte, una sorta di bizzarra protesi
estetica;
ma uno che crede di essere un vampiro può essere letale e pericoloso quasi
quanto chi lo è per davvero.
La porta a vento della cucina si aprì ed entrò Mr D con due pacchetti
quadrati avvolti nel cellofan, ciascuno grosso come una testa; quando il lesser
si avvicinò, Lash vide una montagna di dollari.
«Li ho trovati nel pannello laterale posteriore della macchina.»
Lash tirò fuori il coltello a serramanico e fece un buchino in ciascuno di essi.
Una leccatina alla polvere bianca e ricominciò a sorridere. «Ottima qualità. La
taglieremo il più possibile. Sai dove metterla.»
Mr D annuì e tornò in cucina. Quando rientrò in salotto, con lui c'erano
anche gli altri due lesser, e Grady non era l'unico a sembrare stravolto. I lesser
dovevano ricaricarsi ogni ventiquattr'ore e, a occhio e croce, erano in piedi da
qualcosa come quarantott'ore filate. Persino Lash, che poteva darci dentro per
giorni, si sentiva spompato.
Era ora di dormire un po'.
Alzandosi dalla poltrona si infilò il cappotto. «Guido io. Tu, Mr D, vieni in
Mercedes con me; sali dietro e assicurati che Grady si goda la scarrozzata.
Voialtri due prendete la bagnarola.»
Partirono tutti e cinque, lasciando nel box la Lexus senza targhe e col
numero di telaio limato.
Il viaggio fino al complesso residenziale di Hunterbred non prese molto
tempo, ma Grady riuscì comunque a schiacciare un pisolino. Lash lo vedeva
nello specchietto retrovisore: lo stronzo dormiva come un ghiro ronfando a
bocca aperta, la testa abbandonata contro lo schienale.
Comportamento che rasentava la mancanza di rispetto, altro che storie.
Lash accostò davanti all'appartamento dove abitavano Mr D e i suoi due
amichetti e allungò il collo verso il sedile posteriore.
«Sveglia, coglione.» Grady batté le palpebre, sbadigliando; Lash
disprezzava la debolezza; Mr D rimase impassibile. «Le regole sono semplici.
Se provi a scappare i miei uomini ti sparano seduta stante oppure chiamano i
poliziotti e gli dicono chi sei. Fai di sì con quella tua testa di cazzo, se hai
capito cosa sto dicendo.»
Grady annuì, anche se Lash aveva la sensazione che l'avrebbe fatto in
qualunque caso, indipendentemente da quello che gli si diceva. Mangiati i
piedi. Okay, certo, va bene.
Lash sbloccò le sicure. «Fuori dalla mia macchina.»
Altri cenni d'assenso mentre le portiere venivano spalancate e il vento
gelido penetrava nell'abitacolo. Scendendo dalla Mercedes, Grady si strinse
nel giaccone, raggomitolandosi su se stesso, e quella stupida aquila del cazzo
chiuse le ali. Mr D, invece, sembrava incurante del freddo... uno dei vantaggi
di essere già morto.
Lash uscì in retromarcia dal parcheggio e si diresse verso il posto dove
alloggiava in città. Era uno schifo di casetta a un piano in un quartiere pieno
di vecchi... con alle finestre tendine che venivano da negozi tipo Target, ideali
per tagliare fuori i vicini col glaucoma e il pannolone. L'unico vantaggio era
che nessuno, nella Società, conosceva l'indirizzo. Per motivi di sicurezza Lash
dormiva dall'Omega, ma tornare sulla Terra lo lasciava intontito per una
mezz'oretta, e lui non voleva essere colto alla sprovvista da nessuno.
"Sonno" era un eufemismo per quello che gli serviva. Più che chiudere gli
occhi e appisolarsi, praticamente sveniva, cosa che, a detta di Mr D, era
quello che succedeva a ogni lesser. Per una qualche ragione, col sangue di suo
padre nelle vene, i non morti erano come cellulari inutilizzabili, mentre si
ricaricavano.
Al pensiero di tornare in quella topaia gli venne una botta di depressione e
si ritrovò invece a guidare fino alla zona più ricca di Caldwell. Lì conosceva
le strade come il palmo della sua mano, e trovò senza problemi i pilastri in
pietra della sua vecchia casa.
Il cancello era chiuso e non si riusciva a vedere al di là dell'alto muro di
cinta, ma lui sapeva cosa c'era all'interno: i terreni, gli alberi, la piscina e il
terrazzo... tutto ben curato e tenuto alla perfezione.
Merda. Voleva tornare a vivere così. Quell'esistenza da poveracci con la
Lessening Society era come una valigia piena di vestiti da quattro soldi. Non
faceva per lui, non ci si riconosceva. Nella maniera più assoluta.
Parcheggiò la Mercedes e rimase seduto lì a fissare il viale d'accesso. Dopo
aver assassinato i vampiri che lo avevano cresciuto e averli sepolti nel
giardino laterale, aveva depredato la villa Tudor di tutto quello che non era
inchiodato, gli oggetti d'antiquariato erano stati immagazzinati in varie
abitazioni occupate da lesser, in città e fuori. Lash non era più tornato alla
villa finché non era andato a prendere la Mercedes, dando per scontato che,
in base al testamento dei suoi genitori, la proprietà fosse passata a un qualche
loro parente sopravvissuto agli attacchi sferrati da lui stesso contro
l'aristocrazia.
Dubitava che la tenuta risultasse ancora a nome della razza. Dopo tutto era
stata violata dai lesser e, come tale, era compromessa per sempre.
Sentiva la mancanza di quella villa, anche se non avrebbe potuto usarla
come quartier generale. Conteneva troppi ricordi e, soprattutto, era troppo
vicina al mondo dei vampiri. Non poteva rischiare di far cadere nelle mani
della confraternita i suoi piani, i conti bancari e i dettagli più riservati sulla
Lessening Society.
Un giorno avrebbe rivisto quei guerrieri, ma alle sue condizioni. Da quando
era stato ucciso da quel mutante difettoso di Qhuinn e tratto in salvo dal suo
vero padre, nessuno lo aveva più visto, a parte quel cazzone di John
Matthew... e anche quell'idiota di un muto l'aveva intravisto solo in modo
confuso e indistinto, il genere di cosa che, considerato che tutti l'avevano
visto cadavere, poteva essere liquidata come un abbaglio.
Lash amava i colpi di scena, gli ingressi a effetto. Al momento giusto
sarebbe ricomparso nel mondo dei vampiri, sì, ma da una posizione
dominante. E per prima cosa avrebbe vendicato la propria morte.
Quei progetti per l'avvenire gli fecero sentire un po' meno la mancanza del
passato; guardando gli alberi spogli agitati dalla furia del vento, pensò alla
forza della natura.
Lui voleva essere esattamente così.
Quando gli suonò il cellulare lo accostò all'orecchio. «Cosa c'è?»
La voce di Mr D era serissima. «Abbiamo avuto visite, signore.»
Lash strinse le mani sul volante. «Dove?»
«Qui.»
«Figli di puttana. Cos'hanno preso?»
«I vasi. Tutti e tre. Ecco perché sappiamo che sono stati i fratelli. Le porte
non sono state forzate e neanche le finestre, quindi non ho idea di come siano
entrati. Dev'essere successo nelle ultime due notti, perché non veniamo qui a
dormire da domenica.»
«Sono entrati nell'appartamento di sotto?»
«No, quello è ancora sicuro.»
Almeno un punto a loro favore. Ma i vasi mancanti erano un problema.
«Come mai non è scattato l'allarme?»
«Era staccato.»
«Gesù Cristo. Fatevi trovare lì quando arrivo, cazzo.» Lash chiuse la
telefonata e sterzò completamente il volante. Quando ripartì a tavoletta la
Mercedes schizzò in avanti e il paraurti anteriore strisciò contro le sbarre di
ferro della cancellata.
Ah, fantastico, cazzo.
Giunto a destinazione parcheggiò davanti alla scala d'accesso e, scendendo,
quasi scardinò la portiera. Con i capelli arruffati dalle raffiche gelide salì i
gradini a due a due e irruppe nell'appartamento come una furia, pronto a far
fuori qualcuno.
Grady era seduto su uno sgabello davanti al bancone della cucina, senza
giaccone, le maniche arrotolate, sul muso un'espressione della serie "io in
questa faccenda non voglio entrarci".
Mr D stava uscendo da una delle camere da letto, a metà di una frase. «...
non capisco come hanno fatto a trovarci...»
«Chi ha combinato questo casino?» tuonò Lash, chiudendo fuori l'ululato
del vento. «Mi interessa solo questo. Chi è il coglione che non ha inserito
l'allarme compromettendo questo indirizzo? E se non si fa avanti nessuno
riterrò te» - e così dicendo puntò il dito contro Mr D - «responsabile.»
«Non sono stato io.» Mr D guardò serio i suoi uomini. «Io non vengo qui da
due giorni.»
Il lesser sulla sinistra alzò le braccia, non in segno di sottomissione ma,
com'era tipico della sua razza, perché era pronto a combattere. «Io il mio
portafoglio ce l'ho qui, e non ho fiatato con nessuno.»
Tutti gli occhi si appuntarono sul terzo non morto. «Be', che cazzo volete?»
sbottò quello seccato; poi fece gran mostra di infilare la mano nella tasca, di
dietro. «Io ho il mio...»
Spinse la mano più a fondo, come se servisse a qualcosa. Poi si esibì in una
scenetta degna dei comici più esilaranti, controllando ogni tasca che aveva,
tra pantaloni, giaccone e camicia. Era pronto ad aprirsi anche il buco del culo
per darci un'occhiatina, nel caso il portafoglio si fosse infilato su per il colon.
«Dov'è il tuo portafoglio», chiese mellifluo Lash.
D'un tratto Mister Testa di Legno ebbe un'illuminazione. «Mr N... quello
stronzo! Abbiamo litigato perché voleva spillarmi dei soldi. Ci siamo menati
e deve avermi fregato il portafoglio.»
Mr D gli si avvicinò con calma da dietro e lo colpì alla testa con il calcio
della Magnum. La forza dell'impatto lo fece volare come un tappo di birra,
mandandolo a sbattere contro il muro, dove il lesser lasciò una scia di sangue
nero sull'intonaco immacolato mentre scivolava sul dozzinale tappeto
marrone.
Grady emise un guaito di sorpresa, come un terrier colpito da una
giornalata.
Poi suonò il campanello. Tutti guardarono in direzione del suono, poi verso
Lash.
Lui puntò il dito contro Grady. «Fermo dove sei.» Quando il campanello
suonò di nuovo, Lash annuì rivolto a Mr D. «Vai ad aprire.»
Il piccolo texano scavalcò il lesser steso per terra, infilando la pistola nella
cintola dei calzoni, quindi socchiuse la porta di uno spiraglio.
«Domino's», disse una voce maschile, mentre una folata di vento
s'insinuava dentro la stanza. «Oh... cavolo, attenzione!»
Poi fu tutta una commedia degli equivoci, il tipo di roba che si vede al
cinema in una farsa grossolana piena di gag di quart'ordine. Il vento furioso
sollevò la scatola che il fattorino stava estraendo dall'apposita borsa termica
rossa e la pizza-al-salame-pic- cante-eccetera volò verso Mr D. Da dipendente
modello qual era, lo zelantissimo addetto alle consegne col berrettino di
Domino's si lanciò in avanti per afferrarla... finendo addosso a Mr D e
atterrando rovinosamente dentro l'appartamento.
Cosa che, Lash era pronto a scommetterci, i dipendenti di Domino's erano
specificamente istruiti a evitare, per ovvi motivi. Piombare in casa di
qualcuno, anche se stavi compiendo un atto eroico, poteva farti incappare in
ogni sorta di situazione imbarazzante: un porno da pervertiti alla tele; la
casalinga cicciona senza reggiseno e con addosso i mutandoni della nonna;
una lurida stamberga con più scarafaggi che persone.
O anche un membro dei non morti che perde sangue nero da una ferita alla
testa.
Impossibile che il fattorino della pizzeria non vedesse quello che aveva
davanti. E questo significava che andava eliminato.
Dopo aver passato quello che restava della nottata a girovagare per il centro
di Caldwell in cerca di un lesser da far fuori, John riprese forma nel cortile del
quartier generale della confraternita, accanto alle auto parcheggiate in una
fila ordinata. Il vento impetuoso lo spinse da dietro, un bullo che voleva
buttarlo giù, ma lui resistette impavido a quell'assalto, senza spostarsi di un
millimetro.
Una symphath. Xhex era una symphath.
Mentre rimuginava su quella scoperta, Qhuinn e Blay si materializzarono al
suo fianco. Nessuno dei due gli aveva chiesto cosa cavolo era successo allo
ZeroSum, il che tornava a loro merito. Entrambi, tuttavia, continuavano a
fissarlo neanche fosse una specie di alambicco in un laboratorio scientifico,
quasi si aspettassero che cambiasse colore, rigurgitasse schiuma o roba del
genere.
Ho bisogno di stare un po' da solo, disse a gesti lui, senza incrociare il loro
sguardo.
«Non c'è problema», disse Qhuinn.
Seguì una pausa, durante la quale John attese che gli amici entrassero in
casa. Qhuinn si schiarì la gola una, due volte.
Poi con voce strozzata disse, «Scusa. Non volevo assillarti. Io...»
John scosse la testa e a gesti disse, Il sesso non c'entra. Per cui non
preoccuparti, okay?
Qhuinn si accigliò. «Okay. Sì, perfetto. Ehm... se hai bisogno di noi, ci trovi
qui in giro. Dai, andiamo, Blay.»
Blay lo seguì e tutti e due salirono i bassi gradini di pietra ed entrarono in
casa.
Finalmente solo, John non sapeva cosa fare o dove andare, ma non mancava
molto all'alba quindi, a parte una corsetta in giardino, aveva ben poche
alternative, lì fuori.
Per quanto, Dio, chissà se poteva azzardarsi a entrare. Si sentiva
contaminato da ciò che aveva scoperto.
Xhex era una symphath.
Rehvenge lo sapeva? Qualcun altro lo sapeva?
Sapeva benissimo cosa gli imponeva la legge. L'aveva imparato al corso di
addestramento: i symphath andavano denunciati e poi deportati, altrimenti si
diventava loro complici. Più chiaro di così.
Sì, ma poi? Cosa succedeva, dopo?
Già, non c'era bisogno di tirare a indovinare. Xhex sarebbe stata portata via,
come immondizia verso una discarica... e per lei le cose sarebbero andate
tutt'altro che bene. Chiaramente era una mezzosangue. John aveva visto dei
symphath in fotografia e Xhex non gli assomigliava per niente: quei figli di
puttana erano alti, sottili e facevano venire la pelle d'oca. Con ogni
probabilità, quindi, l'avrebbero uccisa lì alla colonia, perché, da quel che
aveva sentito, i symphath erano come gli aristocratici della glymera, in quanto
a discriminazioni.
Salvo per il fatto che amavano torturare l'oggetto del loro scherno. E non in
senso verbale.
Cosa cazzo doveva fare...
Quando si mise a tremare dal freddo sotto il giubbotto di pelle, entrò in
casa e salì direttamente al piano di sopra. La porta dello studio era aperta e si
sentiva la voce di Wrath, ma lui non si fermò per vedere il re. Tirò dritto e
svoltò l'angolo verso la galleria delle statue.
Non era diretto in camera sua, però.
Davanti alla porta di Tohr si fermò, lisciandosi un po' i capelli con la mano.
C'era una sola persona con cui voleva discutere con calma di quella faccenda,
e sperò, per una volta, di ottenere un minimo riscontro.
Aveva bisogno di aiuto. Disperatamente,
Bussò piano.
Nessuna risposta. Bussò di nuovo.
Nell'attesa, gli occhi fissi sui pannelli della porta, ripensò alle ultime due
volte in cui era piombato nella stanza di qualcuno senza essere stato invitato.
La prima era stata l'estate precedente, quando aveva fatto irruzione nella
camera da letto di Cormia e l'aveva trovata raggomitolata su un fianco, nuda
e con le cosce insanguinate. Risultato? Aveva massacrato di botte Phury
senza motivo, perché il sesso tra quei due era stato consensuale.
La seconda era stata con Xhex, quella sera. E guarda in che situazione
l'aveva cacciato.
Bussò più forte, abbastanza da svegliare un morto.
Nessuna risposta. Peggio, neanche il minimo rumore. Niente TV, niente
doccia, niente voci.
Fece qualche passo indietro per vedere se da sotto l'uscio filtrava un po' di
luce. Niente. Perciò dentro non c'era Lassiter.
Lentamente aprì la porta, deglutendo a fatica per la paura. Subito lo
sguardo gli cadde sul letto e, quando vide che Tohr non c'era, andò nel
panico più totale. Attraversato di corsa il tappeto orientale, irruppe nel
bagno, convinto di trovare il fratello steso nella Jacuzzi con i polsi tagliati.
Invece non c'era nessuno neanche lì.
Tornò in corridoio con nel cuore una speranza strana, vertiginosa.
Guardando a destra e a sinistra, decise di cominciare dalla stanza di Lassiter.
Nessuna risposta. Guardò dentro e trovò tutto pulito e in ordine; non c'era
nulla, a parte un tonificante profumo di aria fresca.
Buon segno. L'angelo doveva essere con Tohr.
John si fiondò nello studio di Wrath e, dopo aver bussato sullo stipite, infilò
dentro la testa, passando velocemente in rassegna il sofà dalle gambe sottili,
le poltrone e la mensola del camino contro cui i fratelli amavano appoggiarsi.
Wrath alzò gli occhi dalla scrivania. «Ehi, figliolo. Che succede?»
Oh, niente. Sai. Solo... scusa.
John scese in fretta lo scalone. Se Tohr, dopo tutto quel tempo, stava
facendo la sua prima incursione nel mondo esterno, di sicuro avrebbe evitato
di dare troppo nell'occhio. Con tutta probabilità avrebbe cominciato con
qualcosa di facile, tipo andare in cucina a mangiare qualcosa insieme
all'angelo.
Al pianterreno John attraversò il pavimento a mosaico dell'atrio e, quando
sentì delle voci maschili sulla destra, guardò nella sala del biliardo. Butch,
chino sul tavolo da biliardo, si apprestava a tirare, mentre Vishous, alle sue
spalle, cercava di distrarlo. La TV a schermo panoramico era sintonizzata su
un canale sportivo e fuori c'erano solo due bicchieri, uno con dentro un
liquido ambrato e l'altro con una roba trasparente che non era acqua.
Tohr non c'era, ma non aveva mai avuto una gran passione per i giochi. E
poi, visto come si punzecchiavano a vicenda, neanche fossero due
innamorati, Butch e Vishous non erano la compagnia ideale per chi voleva
solo tornare a bagnarsi i piedi nelle acque sociali.
John si voltò, attraversò in fretta la sala da pranzo già apparecchiata per
l'Ultimo Pasto, e andò in cucina, dove trovò... i dog- gen intenti a preparare
tre diversi tipi di condimenti per pasta, sfornare del pane italiano fatto in
casa, mescolare l'insalata, stappare bottiglie di vino rosso per lasciarle
respirare e... neanche di Tohr l'ombra.
La speranza a poco a poco si affievolì, lasciandosi dietro una sorta di aspra
inquietudine.
John andò da Fritz, maggiordomo straordinario, che lo salutò con un
sorriso raggiante sul vecchio volto rugoso. «Salve, padrone, come sta?»
John mosse le mani davanti al petto per non farsi vedere da nessun altro.
Senti, hai visto...
Merda, non voleva gettare nel panico l'intera casa solo perché era saltato
alle conclusioni. La casa era enorme, e Tohr poteva essere dovunque.
... qualcuno?
Fritz aggrottò le irsute sopracciglia bianche. «Qualcuno, padrone? Si
riferisce alle signore o...»
Maschi, disse a gesti John. Hai visto qualcuno dei fratelli?
«Be', sono qui a preparare la cena da quasi un'ora, ma so che molti sono già
rincasati dal campo di battaglia. Rhage, appena rientrato, ha mangiato i suoi
panini, Wrath è su nello studio e Zsadist è in bagno con la piccola. Vediamo...
oh, credo che Butch e Vishous stiano giocando a biliardo, perché qualche
minuto fa uno dei domestici ha servito loro da bere nella sala del biliardo.»
Bene, pensò John. Se un fratello che nessuno vedeva in giro per casa da, be',
diciamo quattro mesi, si fosse fatto vivo, di sicuro il suo nome sarebbe stato
in cima alla lista.
Grazie, Fritz.
«Cercava qualcuno in particolare?»
John scosse la testa e tornò nell'atrio, questa volta con passo pesante. Entrò
in biblioteca, convinto di non trovarci nessuno e infatti, come previsto, la
stanza era piena di libri e senza la minima traccia di Tohr.
Ma dove poteva...
Forse non era in casa.
John schizzò fuori dalla biblioteca e girò intorno allo scalone, facendo
stridere le suole degli stivali. Spalancò la porta nascosta sotto i gradini e
s'infilò dentro il tunnel sotterraneo.
Ma certo. Tohr doveva essere al centro di addestramento. Se voleva
svegliarsi e ricominciare a vivere sarebbe tornato sul campo, e questo
significava allenarsi per rimettersi in forma.
Quando emerse nell'ufficio, John era tornato anima e corpo nel regno delle
speranze e, non vedendo Tohr alla scrivania, non si sorprese.
Era lì che Tohr aveva appreso della morte di Wellsie.
John si precipitò in corridoio e il sommesso rumore dei pesi che cozzavano
uno contro l'altro suonò come una sinfonia alle sue orecchie, il senso di
sollievo che gli sbocciò nel petto gli fece formicolare mani e piedi.
Ma doveva stare calmo. Avvicinandosi alla sala pesi, cancellò il sorriso
dalla faccia e spalancò la porta...
Blaylock gli lanciò un'occhiata dalla panca. La testa di Qhuinn ballonzolava
su e giù al ritmo dello step.
John si guardò intorno; i suoi due amici interruppero quello che stavano
facendo; Blay mise giù il bilanciere e Qhuinn scese lentamente dallo step.
Avete visto Tohr? Chiese a gesti John.
«No», rispose Qhuinn, asciugandosi la faccia con una salvietta. «Perché lo
cerchi qui?»
John uscì di corsa e andò in palestra, dove non trovò altro che tubi al neon,
lucidi pavimenti in legno di pino e materassini di un blu acceso. Nel deposito
attrezzi c'erano solo gli attrezzi. La saletta per la fisioterapia era deserta. Idem
l'ambulatorio di Jane.
Tornando indietro verso il tunnel di collegamento con la grande casa della
confraternita, si mise a correre.
Appena entrato salì subito di sopra nello studio di Wrath; la porta era
ancora aperta, e questa volta John non bussò allo stipite. Andò dritto alla
scrivania e a gesti disse, Tohr è sparito.
Mentre il fattorino di Domino's arrancava goffamente nel tentativo di
afferrare la scatola della pizza, tutti gli altri rimasero impietriti.
«Per un pelo», disse l'umano. «Non volevo farla cad...»
Il ragazzo si immobilizzò, ancora accovacciato seguì con gli occhi la scia
nera sul muro fino al lesser, gemente e malconcio, che l'aveva lasciata, «...ere...
sul... tappeto.»
«Cristo», sibilò Lash, estraendo il coltello a serramanico dalla tasca interna,
facendo scattare la lama e avventandosi da dietro contro l'umano. Mentre
Mister Domino's si raddrizzava, Lash gli strinse il braccio intorno al collo,
conficcandogli il coltello nel cuore.
Il ragazzo si rattrappì con un ansito e la scatola con la pizza atterrò sul
pavimento, aprendosi; la salsa di pomodoro e il salame piccante erano in tinta
col sangue che sgorgava dalla ferita.
Grady balzò su dallo sgabello indicando il lesser ancora in piedi. «È stato lui
a dirmi che potevo ordinare la pizza!»
Lash puntò il coltello in direzione di quell'idiota. «Chiudi il becco.»
Grady si accasciò di nuovo sullo sgabello da bar.
Mr D, incazzato nero, si avvicinò al lesser superstite. «Gli hai dato tu il
permesso di ordinare la pizza? E così?»
«Mi hai detto di stare di guardia alla finestra nella camera sul retro»,
ringhiò il lesser di rimando. «E così che abbiamo scoperto che i vasi erano
spariti, ricordi? E stato il coglione lì sul tappeto a farlo telefonare.»
Mr D sembrava fregarsene della logica e, per quanto sarebbe stato
divertente vederlo avventarsi come un Jack Russell contro quel rinnegato di
un lesser, non c'era molto tempo. L'umano che si era presentato con la pizza
non sarebbe tornato alla base per fare altre consegne, e i suoi amichetti in
divisa se ne sarebbero accorti anche troppo presto.
«Chiama rinforzi», ordinò Lash, chiudendo il coltello e avvicinandosi al
lesser fuori combattimento. «Falli venire con un camioncino. Poi prendi le
casse con le pistole. Sgombriamo questo appartamento e anche quello di
sotto.»
Mr D si attaccò al telefono e cominciò a sbraitare ordini mentre l'altro lesser
andava nella camera da letto in fondo.
Lash guardò Grady, che fissava la pizza come se stesse seriamente
considerando di mangiarla direttamente dal tappeto. «La prossima volta
che...»
«Le armi sono sparite.»
Lash voltò la testa verso il lesser. «Come, scusa?»
«Le casse con le armi non sono nell'armadio.»
Per una frazione di secondo l'unica cosa a cui Lash riuscì a pensare fu
uccidere qualcuno, e l'unica cosa che salvò Grady dall'essere quel qualcuno
fu che si rifugiò in cucina, uscendo dal suo campo visivo.
La logica alla fine prevalse sull'emotività. «Sei responsabile
dell'evacuazione», disse Lash guardando Mr D.
«Signorsì.»
Lash indicò il lesser per terra. «Portatelo al centro di persuasione.»
«Signorsì.»
«Grady?» Nessuna risposta. Lash imprecò e, quando andò in cucina, trovò
l'umano che, chino di fronte al frigorifero, scuoteva la testa davanti agli
scomparti vuoti. O quel coglione aveva un sangue freddo da far spavento
oppure era di un egoismo schifoso, e Lash propendeva per la seconda ipotesi.
«Ce ne andiamo.»
L'umano chiuse lo sportello del frigo e arrivò da quel cane che era: in fretta
e senza fiatare, talmente in fretta da dimenticarsi il giubbotto.
Insieme uscirono fuori al freddo, e il caldo della Mercedes fu un sollievo.
Lash uscì lentamente dal complesso residenziale, perché se si fosse messo a
correre avrebbe rischiato di attirare l'attenzione dei vicini. «Quel tizio...»,
disse Grady guardandolo, «non quello con la pizza... quello; che è morto...
non era normale.»
«No. Non lo era.»
«E neanche tu.»
«No. Io sono divino.»
Capitolo 26
Al calar della sera Ehlena si mise l'uniforme da infermiera anche se non
doveva andare in clinica. Lo fece per due motivi: primo, era d'aiuto con suo
padre, che prendeva male qualunque cambiamento di programma; secondo,
aveva la sensazione che potesse garantirle un po' di distacco al momento di
incontrare Rehvenge.
Quel giorno non aveva chiuso occhio. Le immagini della camera mortuaria
e il ricordo della tensione nella voce di Rehvenge erano un'accoppiata
micidiale; lì sdraiata, al buio, la assillavano in un vortice di emozioni, fino a
farle dolere il petto.
Ma era proprio vero? Stava andando a un appuntamento con Rehvenge? A
casa sua? Com'era possibile?
Rammentare a se stessa che gli stava solo portando delle medicine l'aiutò
almeno in parte. Era solo una forma di assistenza medica, da infermiera a
paziente.
Quando gli aveva detto che non voleva uscire con nessuno, lui si era detto
d'accordo. E poi mica l'aveva invitata a cena. Gli avrebbe lasciato le pillole e
avrebbe cercato di convincerlo a farsi visitare da Havers. Tutto qua.
Dopo aver controllato come stava suo padre e avergli dato le medicine, si
smaterializzò fino al marciapiede di fronte al Commodore, in pieno centro.
Tenendosi nell'ombra, guardò la lucida facciata del grattacielo, colpita dal
contrasto con la squallida casetta a un piano che aveva in affitto.
Cribbio... vivere dentro tutto quel vetro-e-acciaio cromato costava.
Parecchio. E Rehvenge abitava nell'attico. E, oltre tutto, quella doveva essere
solo una delle case di sua proprietà, perché nessun vampiro sano di mente
avrebbe mai dormito, di giorno, circondato da tutte quelle vetrate.
Lo spartiacque tra la gente normale e quella ricca sembrava ampio quanto
la distanza tra il punto in cui si era fermata e quello in cui presumibilmente
Rehvenge la stava aspettando, e per un breve istante si cullò nella fantasia
che la sua famiglia avesse ancora un solido patrimonio. Forse allora avrebbe
indossato qualcosa di diverso da quel cappotto a buon mercato sopra
l'uniforme da infermiera.
Lì ferma per strada, sotto casa di Rehvenge, le sembrava impossibile essere
entrata tanto in confidenza con lui, ma d'altronde il telefono creava un
rapporto virtuale, appena un gradino sopra quello online. I due interlocutori
erano nel loro ambiente, invisibili l'uno all'altro, solo le loro voci si
mescolavano. Era una falsa intimità.
Aveva davvero rubato le pillole per quella persona?
Guardati in tasca, scema, pensò.
Con un'imprecazione Ehlena si materializzò sul terrazzo dell'attico,
sollevata dal fatto che fosse una nottata relativamente calma. Altrimenti, col
freddo che faceva, un vento anche non troppo forte a quell'altezza..,
Ma... cosa diavolo...
Attraverso le grandi vetrate la luce di un centinaio di candele trasformò la
tenebra in una nebbia dorata. All'interno dell'attico, le pareti erano nere e
c'erano... delle cose appese. Cose tipo gatti a nove code di metallo, frustini di
cuoio e maschere... e c'era un grande tavolo dall'aria antica che... No, un
momento, quello era un cavalletto per la tortura, possibile? Con cinghie di
cuoio che penzolavano ai quattro angoli.
Oh... cavolo, no. A Rehvenge piaceva quella roba?
Bene. Cambiamento di programma. Gli avrebbe lasciato gli antibiotici,
certo, ma fuori da una di quelle vetrate scorrevoli, perché non si sognava
neanche lontanamente di entrare. Non esisteva proprio...
Un vampiro enorme col pizzetto uscì dal bagno, asciugandosi le mani e
raddrizzandosi i calzoni di pelle. Con un agile saltello si issò sopra al
cavalletto e cominciò a legarsi una caviglia.
Di male in peggio. Cos'era, una cosa a tre?
«Ehlena?»
Ehlena si voltò di scatto, così in fretta da sbattere il fianco contro il muretto
che correva intorno al tetto. Quando vide chi era, si accigliò.
«Dottoressa Jane?» disse, perplessa: la serata stava passando direttamente
dall'"Oh cavolo no" al "Ma che cavolo?"
«Cosa ci f.,,»
«Credo che tu sia dalla parte sbagliata del grattacielo.»
«Dalla parte sbagliata... oh, un momento, questo non è l'attico di
Rehvenge?»
«No, è quello di Vishous e mio. Rehv sta dall'altra parte, sul lato est.»
«Oh...» Guance paonazze. Rosse come un pomodoro. E non per il vento.
«Scusi tanto, mi sono sbagliata ...»
La dottoressa spettrale rise. «Non fa niente.»
Ehlena si voltò di nuovo verso le vetrate, poi distolse in fretta lo sguardo.
Ma certo, quello era il fratello Vishous. Quello con gli occhi di diamante e i
tatuaggi sulla faccia.
«Devi andare sul lato est.»
Proprio come le aveva detto Rehv, giusto? «Ci vado subito.»
«Ti inviterei a tagliare da qui, ma...»
«Sì. Meglio che passi da quest'altra parte.»
La dottoressa Jane sorrise con una buona dose di faccia tosta. «Credo che
sia meglio, sì.»
Dopo essersi calmata, Ehlena si smaterializzò verso il lato destro del tetto
pensando: la dottoressa Jane una dominatrice?
Be', erano successe cose anche più strane.
Riprendendo forma, ebbe quasi paura a guardare attraverso il vetro,
considerato quello che aveva appena visto. Se Rehvenge aveva altra roba del
genere - o magari anche peggio, tipo vestiti da donna di taglia maschile o
animali da fattoria che giravano per casa - non era certa di riuscire a ritrovare
la calma necessaria per scappare via smaterializzandosi.
Ma invece no. Niente roba da travestiti o drag queen in stile RuPaul. Nulla
che richiedesse una mangiatoia o una staccionata. Solo un interno elegante, in
stile moderno, arredato con mobili semplici ed essenziali che dovevano
provenire dall'Europa.
Rehvenge emerse da una porta ad arco e, nel vederla, si fermò. Alzò una
mano e la vetrata davanti a lei si aprì, secondo il volere del padrone di casa;
dall'attico uscì un profumino delizioso.
Era... roast beef?
Rehvenge le andò incontro con una certa agilità, malgrado il bastone.
Quella sera indossava un dolcevita nero chiaramente di cachemire sotto a
uno stupendo completo nero; sembrava uscito dalla copertina di una rivista
di moda, affascinante, seducente, irraggiungibile.
Ehlena si sentì una sciocca. Vedendolo lì, nella sua splendida casa, non si
sentì inferiore a lui, questo no, solo fu chiaro che loro due non avevano niente
in comune. Che razza di illusioni si era fatta quando avevano chiacchierato al
telefono o quando si erano visti alla clinica?
«Benvenuta.» Rehvenge si fermò sulla soglia e tese la mano verso di lei. «Ti
avrei aspettato fuori, ma fa troppo freddo per me.»
Due mondi completamente diversi, pensò lei.
«Ehlena?»
«Scusi.» Gli diede la mano - sarebbe stato scortese non farlo - ed entrò
nell'attico. Ma dentro di sé lo aveva già lasciato.
I loro palmi entrarono in contatto e Rehv si sentì defraudato, derubato,
rapinato, distrutto. Così entrò: quando le loro mani si toccarono non sentì
nulla, mentre avrebbe voluto disperatamente sentire il calore di Ehlena.
Eppure, malgrado il suo intorpidimento sensoriale, la vista delle loro carni
che si univano bastò a fargli scintillare il petto, neanche lo avessero lustrato
con la paglietta.
«Salve», disse lei con voce sensuale mentre lui la tirava dentro.
Rehvenge chiuse la vetrata e tenne stretta la sua mano finché Ehlena non
ruppe il contatto, in apparenza per fare un giro e dare un'occhiata
all'appartamento. Ma in realtà Rehv sentiva che aveva bisogno del suo
spazio.
«La vista da qui è straordinaria.» Ehlena si fermò ad ammirare il panorama
della città scintillante di luci. «Buffo, da quassù sembra un modellino.»
«Siamo in alto, questo è certo.» Rehv la guardava in modo ossessivo,
assorbendola attraverso la vista. «Adoro questo panorama», mormorò.
«Non mi sorprende.»
«E poi c'è silenzio.» Intimità. Loro due soltanto e nessun altro al mondo. Lì
da solo con lei, in quel momento, poteva quasi credere che tutte le nefandezze
che aveva fatto fossero crimini commessi da un estraneo,
Ehlena abbozzò un sorriso. «Per forza. Qui accanto stanno usando i
bavagli... ehm...»
Rehv rise. «Hai sbagliato lato del grattacielo?»
«E quando mai?»
Dal rossore sulle sue guance, Rehv intuì che Ehlena non aveva visto solo gli
oggetti inanimati della collezione "Il Paradiso del Bondage" di V, e subito si
fece serissimo. «Devo dire qualcosa al mio vicino?»
Ehlena scosse la testa. «Non è stata assolutamente colpa sua, e per fortuna
lui e Jane non avevano ancora.., ehm, cominciato. Grazie a Dio.»
«Non hai un debole per certe cose, mi pare di capire.»
Ehlena riprese a contemplare il paesaggio. «Ehi, sono due adulti
consenzienti, quindi va tutto bene. Ma per quello che mi riguarda, mai nella
vita.»
Quando si dice la fine di un bel sogno. Se le pratiche sadomaso erano
troppo per Ehlena, come poteva capire quello che faceva lui? Scopare come
forma di riscatto una femmina che odiava. Che, oltre tutto, era anche la sua
sorellastra. Oh... e anche una symphath.
Come lui.
Il suo silenzio la indusse a voltare la testa. «Scusi. L'ho offesa?»
«Quella roba non piace neanche a me.» Eh, no, figurarsi. Lui era una
puttana di sani principi... le perversioni andavano bene solo se eri costretto a
praticarle. Abbasso le porcate consensuali che piacevano tanto a V e alla sua
compagna. Già, erano pratiche da condannare.
Lui non era all'altezza di Ehlena, Cristo.
Ehlena gironzolava per casa; le scarpe dalla suola di para non facevano
rumore sui pavimenti di marmo nero. Guardandola, Rehv si accorse che sotto
il cappotto di lana nera si era messa l'uniforme. Più che logico, se dopo
doveva andare al lavoro.
E dai, credevi davvero che sarebbe rimasta per tutta la notte? si disse.
«Posso prenderti il cappotto?» disse, sapendo che doveva essere accaldata.
«Io ho bisogno di tenere alto il riscaldamento, ma alla maggior parte della
gente dà fastidio.»
«Per la verità... adesso dovrei proprio andare», disse lei infilandosi una
mano in tasca. «Sono venuta solo per darle la penicillina.»
«Speravo che restassi per cena.»
«Mi dispiace.» Gli tese una busta di plastica. «Non posso.»
Immagini della principessa gli attraversarono la mente; Rehv rammentò a
se stesso che bella sensazione era stata comportarsi in modo corretto con
Ehlena... e cancellare il suo numero dal cellulare. Non aveva il diritto di
corteggiarla. Nessun diritto.
«Capisco.» Prese le pillole che lei gli porgeva. «Grazie per queste.»
«Ne prenda due quattro volte al giorno. Per dieci giorni. Promesso?»
Lui annuì, reciso. «Promesso.»
«Bene. E cerchi di farsi vedere da Havers, va bene?»
Ci fu un attimo di imbarazzo, poi lei alzò la mano. «Okay.., allora,
arrivederci.»
Ehlena si voltò e lui aprì la vetrata con la forza del pensiero, non fidandosi
di andarle troppo vicino.
Oh, ti prego, non andare. Ti prego non farlo, pensò.
Voleva solo sentirsi... pulito per un po'.
Lei uscì sul terrazzo e subito si fermò; lui sentì il cuore battere
all'impazzata.
Ehlena si voltò a guardarlo, il vento le scompigliava i capelli chiari intorno
al bel viso. «A stomaco pieno. Deve prenderle a stomaco pieno.»
Giusto. Informazioni mediche. «Il cibo non mi manca.»
«Bene.»
Dopo aver chiuso la porta, Rehv la guardò sparire nell'ombra e dovette
costringersi a voltarsi.
Lentamente, con l'aiuto del bastone, costeggiò la parete di vetro svoltando
l'angolo fino alla luce soffusa della sala da pranzo.
Due candele accese. Due posti apparecchiati con posate d'argento. Due
bicchieri da vino. Due bicchieri per l'acqua. Due tovaglioli piegati con cura
sopra due piatti.
Si accomodò sulla sedia che voleva dare a lei, quella alla sua destra, il posto
d'onore. Appoggiò il bastone alla coscia e posò la busta di plastica sul tavolo
d'ebano, lisciandola in modo da allineare gli antibiotici uno vicino all'altro, in
una fila ordinarissima.
Chissà perché non erano in un flaconcino arancione con l'etichetta bianca...
ma, comunque. Lei glieli aveva portati lì. Quello era l'importante.
Seduto in silenzio, al lume di candela e avvolto dall'aroma di roast beef
appena sfornato, Rhev accarezzò il sacchetto di plastica con l'indice
intorpidito. Una cosa la sentiva eccome, però. Proprio in mezzo al petto ... un
dolore in fondo al cuore.
Aveva compiuto un mucchio di misfatti nel corso della sua vita. Grandi e
piccoli.
Aveva provocato le persone solo per poterle conciare per le feste, che
fossero pusher improvvisati che spacciavano nel suo territorio, clienti che
maltrattavano le sue puttane o idioti che cazzeggiavano nel suo club.
Aveva fatto leva sui vizi altrui a proprio vantaggio. Venduto droga.
Venduto sesso. Venduto morte approfittando delle doti speciali di Xhex.
Aveva scopato per tutti i motivi più sbagliati.
Aveva ferito, mutilato, storpiato.
Aveva ucciso.
Eppure nulla di tutto ciò lo aveva turbato. Non c'erano mai stati rimpianti
né ripensamenti, mai neanche un barlume di compassione. Solo altre trame,
altri piani, altre angolazioni da scoprire e sfruttare.
Lì, a quel tavolo vuoto, però, in quell'attico vuoto, sentì quel dolore al petto
e lo riconobbe per quello che era: rimpianto.
Sarebbe stato straordinario meritare Ehlena.
Ma era solo una delle tante cose che non avrebbe mai potuto assaporare.
Capitolo 27
Mentre la confraternita si radunava nel suo studio, Wrath, dal suo punto
d'osservazione privilegiato dietro la scrivania frou-frou, teneva d'occhio John
all'altro capo della stanza. Sembrava che gli fosse passato sopra un camion;
pallido e immobile, non aveva partecipato minimamente alla discussione.
L'odore delle sue emozioni, tuttavia, era la cosa peggiore di tutte, perché non
ve n'era traccia. Non c'era né l'odore pungente della rabbia, né quello acre e
fumoso della tristezza e nemmeno l'aroma al limone della paura.
Niente. Ritto in mezzo ai fratelli e ai suoi due migliori amici, John era
isolato in una totale assenza di reazioni e in una sorta di trance emotiva... era
lì insieme agli altri, ma non era davvero con loro.
Brutto segno.
L'emicrania di Wrath, che, proprio come gli occhi, le orecchie e la bocca,
sembrava attaccata in permanenza al suo cranio, sferrò un rinnovato attacco
alle sue tempie e il re si appoggiò all'indietro sulla poltroncina, nella speranza
che un riallineamento della spina dorsale allentasse quella morsa alla testa.
Niente da fare.
Forse un'amputazione cranica avrebbe funzionato. Jane ci sapeva fare con
una sega in mano.
Seduto nell'orrenda poltrona verde di Tohr, Rhage diede un morso a un
Tootsie Pop, rompendo uno dei tanti silenzi imbarazzanti della riunione.
«Tohr non può essere andato lontano», borbottò Hollywood. «Non è
abbastanza in forze.»
«Ho controllato dall'Altra Parte», disse Phury al vivavoce. «Non è con le
Elette.»
«E se facessimo un salto alla sua vecchia casa?» suggerì Butch.
Wrath scosse la testa. «Non credo proprio che ci andrebbe. Troppi ricordi.»
Merda, neanche quell'accenno alla casa in cui aveva trascorso tanti bei
momenti suscitò qualcosa in John. In compenso finalmente si era fatto buio,
così avrebbero potuto uscire in cerca di Tohr.
«Io resto qui a vedere se torna», disse Wrath; proprio allora la porta si aprì e
V entrò con passo deciso. «Voialtri andate a cercarlo in città, prima però
sentiamo le ultime notizie dalla nostra Katie Couric», scherzò, riferendosi alla
famosa giornalista. «Katie?» disse con un cenno del capo a Vishous,
L'occhiataccia di V era la versione oculare di un dito medio bello dritto.
«Ieri sera la polizia ha ricevuto un rapporto da parte di un detective della
Omicidi. È stato rinvenuto un cadavere all'indirizzo in cui abbiamo trovato
quelle casse di armi. Un umano. H fattorino di una pizzeria. Singola ferita da
arma da taglio al torace. Il poveretto dev'essere incappato in qualcosa che non
doveva vedere. Sono appena entrato nel loro sistema per controllare i dettagli
del caso e, pensate un po', ho trovato un appunto su una macchia nera oleosa
sul muro accanto alla porta.» Si levò un coro di imprecazioni, molte delle
quali comprendevano la parola cazz... «Già, be', qui arriva la parte
interessante. Secondo il rapporto, nel parcheggio era stata notata una
Mercedes un paio d'ore prima che il titolare della pizzeria Domino's
chiamasse per dire che il suo dipendente non era rientrato al lavoro dopo
aver effettuato una consegna a quell'indirizzo. E una vicina di casa ha visto
un uomo biondo, naturalmente, salire su quella macchina con un altro tizio,
bruno di capelli. Ha detto che era strano vedere una berlina così vistosa in
quella zona.»
«Una Mercedes?» ripetè Phury al telefono.
Dopo aver condannato a morte un altro lecca-lecca, Rhage gettò il
bastoncino bianco nel cestino della carta straccia. «Già, da quando in qua la
Lessening Society butta tanti soldi in macchine del genere?»
«Appunto», confermò V. «Non ha nessun senso. Ma ecco il punto: i
testimoni hanno anche dichiarato di aver visto una Escalade nera dall'aria
sospetta, la sera prima... con un uomo vestito di nero che portava via... oh,
cavolo, cos'erano? Casse, sì, quattro casse dal retro di quella palazzina.»
Vishous fissava ostentatamente il suo coinquilino, che però scosse la testa.
«Però non hanno detto di aver preso il numero di targa», disse Butch. «E io
comunque ho cambiato tutte le targhe appena sono tornato. Quanto alla
Mercedes, i testimoni si confondono in continuazione. Può darsi che il biondo
e l'altro tizio non c'entrino niente con l'omicidio.»
«Be', io comunque terrò d'occhio la situazione», disse V. «Dubito che la
polizia riesca a stabilire un collegamento tra l'omicidio e il nostro mondo. Che
cavolo, un sacco di cose lasciano macchie nere, ma è meglio essere preparati
al peggio.»
«Se il detective che si occupa del caso è quello che penso io», disse piano
Butch «È tino in gamba. Uno molto in gamba.»
Wrath si alzò in piedi. «Okay, il sole è tramontato. Uscite di qui. John,
voglio parlarti un momento a quattr'occhi.»
Prima di parlare, Wrath attese che la porta si chiudesse alle spalle
dell'ultimo dei fratelli. «Lo troveremo, figliolo. Non preoccuparti.» Nessuna
reazione. «John? Cosa c'è?»
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto, gli occhi fissi davanti a
sé.
«John...»
John a gesti disse qualcosa che gli occhi semiciechi di Wrath interpretarono
come, Voglio andare fuori con gli altri.
«Col cavolo.» A queste parole, John voltò la testa di scatto. «Già, non esiste
proprio, dato che sei uno zombie. E risparmiami i tuoi "sto bene". Se credi che
ti lascerò combattere significa che non ci stai più con la testa.»
John si mise a girare per lo studio come se tentasse di calmarsi. Alla fine si
fermò e a gesti disse, Non ce la faccio a stare qui. In questa casa.
Wrath strinse gli occhi, nel vano tentativo di interpretare la lingua dei
segni, col solo risultato di peggiorare il suo mal di testa. «Come hai detto,
scusa?»
John spalancò la porta e un istante dopo comparve Qhuinn. Ci fu un gran
gesticolare e poi Qhuinn si schiarì la gola.
«Dice che stasera non ce la fa a stare qui. Non ce la fa e basta.»
«Okay, allora vai in qualche locale a ubriacarti fino a svenire. Ma niente
combattimenti.» Wrath recitò una silenziosa preghiera di ringraziamento per
la presenza instancabile di Qhuinn al fianco del ragazzo. «E, John... lo
troverò.»
Altri gesti frenetici, poi John si voltò verso la porta.
«Che cosa ha detto, Qhuinn?» chiese Wrath.
«Ehm... ha detto che non gli importa se lo trovi.»
«Non dirai sul serio, John.»
Il ragazzo si voltò di scatto e nella lingua del segni disse qualcosa che
Qhuinn tradusse. «Dice che, sì, parla sul serio. Dice che... non può più vivere
così... aspettando, chiedendosi ogni santo giorno quando entra in quella
stanza se Tohr si è - rallenta un attimo, John - ehm... se E fratello si è
impiccato o se ha preso di nuovo il volo. Anche se Tohr torna... John dice che
con lui ha chiuso. È stato abbandonato troppe volte.»
Difficile obiettare. Tohr non era stato granché come padre, ultimamente, la
sua sola impresa su quel fronte era stata la creazione della nuova generazione
di morti viventi.
Wrath si massaggiò le tempie con una smorfia. «Ascolta, figliolo, io non
sono una mente eccelsa, ma puoi parlare con me.»
Seguì un lungo silenzio contrassegnato da uno strano odore... una
fragranza asciutta, quasi stantia... rimpianto? Sì, era rimpianto.
John si inchinò leggermente, quasi a mo' di ringraziamento, poi uscì.
Qhuinn esitò. «Non lo lascerò combattere.»
«Bene. Così gli salverai la vita. Perché se imbraccia le armi nello stato in cui
è in questo momento, tornerà a casa dentro una cassa di pino.»
«Ricevuto.»
Appena la porta si chiuse il dolore alle tempie si scatenò, costringendo
Wrath a rimettersi seduto.
Dio, l'unica cosa che voleva fare era andare in camera, sdraiarsi sul letto
matrimoniale e poggiare la testa sui cuscini impregnati del profumo di Beth.
Voleva chiamarla per implorarla di raggiungerlo, giusto per stringersi a lei.
Voleva essere perdonato.
Voleva dormire.
Invece si rialzò, raccolse le armi dal pavimento accanto alla scrivania e le
infilò nei foderi e nelle fondine. Lasciò lo studio con in mano il giubbotto di
pelle, scese il grande scalone e uscì dal vestibolo nella notte gelida. Per come
la vedeva lui, il mal di testa gli avrebbe fatto compagnia ovunque andasse,
quindi tanto valeva rendersi utile e cercare Tohr.
Infilandosi il giubbotto, ripensò alla sua shellan e al luogo in cui era andata
la notte prima.
Porca miseria. Sapeva esattamente dov'era Tohr.
Ehlena aveva in mente di lasciare subito il terrazzo di Rehvenge, ma non
potè fare a meno di guardare un'ultima volta l'attico. Attraverso le grandi
vetrate vide Rehvenge voltarsi e camminare lentamente lungo il fianco
dell'attico...
Con lo stinco andò a sbattere contro qualcosa di duro. «Accidenti!»
Saltellando su un piede solo e massaggiandosi la gamba, lanciò
un'occhiataccia all'urna di marmo contro cui era finita.
Nel raddrizzarsi dimenticò il dolore.
Rehvenge era entrato in un'altra stanza e si era fermato davanti a un tavolo
apparecchiato per due, al lume di candela, in mezzo a uno sfolgorio di
cristalli e argenti. La lunga parete di vetro le mostrava tutto il disturbo che si
era preso per lei
«Accidenti...» mormorò.
Con la stessa deliberata lentezza con cui camminava, Rehvenge si mise a
sedere, guardando prima dietro di sé, quasi ad assicurarsi che la sedia fosse
dove doveva essere, poi appoggiandosi con entrambe le mani al tavolo e
infine abbassandosi. Il sacchetto con gli antibiotici che gli aveva portato era
posato sul tavolo; sembrava che lo accarezzasse; la delicatezza del gesto in
netto contrasto con le sue spalle larghe e con la forza oscura emanata dal suo
volto duro.
Osservandolo, Ehlena non sentì più il freddo del vento o il male allo stinco.
Alla luce soffusa delle candele, col capo chino e il profilo così deciso e
marcato, Rehvenge era incredibilmente bello.
D'un tratto alzò la testa e guardò dritto verso di lei, anche se era immersa
nelle tenebre.
Ehlena arretrò di qualche passo e sentì il muro del terrazzo contro il fianco,
ma non si smaterializzò. Neanche quando lui fece leva sul bastone e si erse in
tutta la sua statura.
Neanche quando la vetrata davanti a lui si aprì, docile, al suo volere.
Ci sarebbe voluta una bugiarda migliore di lei per fingere che stava solo
ammirando il panorama notturno. E non era così vigliacca da scappare.
Ehlena gli andò incontro. «Non ha preso le sue pillole.»
«È questo che stai aspettando?»
Ehlena incrociò le braccia sul petto. «Sì.»
Rehvenge lanciò un'occhiata al tavolo e ai due piatti vuoti. «Hai detto che
vanno prese a stomaco pieno.» «Sì.»
«Be', allora sembra proprio che dovrai guardarmi mangiare.» L'elegante
gesto del braccio con cui la invitò a entrare era una tentazione cui lei non
voleva cedere. «Vuoi sederti dentro con me? Oppure preferisci stare qui fuori
al freddo? Oh, aspetta, forse questo ti aiuterà a decidere.» Appoggiandosi
pesantemente al bastone, andò a spegnere le candele.
Le volute di fumo sopra gli stoppini le parvero un lamento per tutte le
possibilità mancate di quella sera: lui aveva preparato una cenetta romantica
per loro due, si era dato da fare, si era vestito in modo elegante.
Ehlena entrò perché aveva già rovinato abbastanza la serata.
«Accomodati», disse lui. «Torno subito col mio piatto. A meno che...»
«Ho già mangiato.»
Rehvenge abbozzò un inchino, mentre lei scostava una sedia dal tavolo.
«Ma certo.»
Lasciato il bastone contro il tavolo, Rehv uscì, appoggiandosi agli schienali
delle sedie e agli stipiti della porta a vento che portava in cucina. Quando
tornò, qualche minuto dopo, ripetè la stessa trafila con la mano libera prima
di prendere posto, con attenta concentrazione, sulla sedia con i braccioli a
capotavola. Senza dire una parola, afferrò una lucida forchetta in argento
sterling e cominciò a tagliare con cautela la carne, mangiando con grande
compostezza e rispetto dell'etichetta.
Cristo, pensò Ehlena; si sentiva un perfetta stronza, seduta lì, davanti a un
piatto vuoto, tutta abbottonata nel suo cappotto.
Il tintinnio della posata sulla porcellana faceva stridere il silenzio che
incombeva su di loro.
Ehlena lisciò il tovagliolo davanti a sé. Stava malissimo, per tutta una serie
di cose; così, pur non essendo una gran chiacchierona, si ritrovò a parlare,
perché semplicemente non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. «Due sere
fa...»
«Mmm?» Rehvenge rimase concentrato sul piatto, senza guardarla.
«Non mi aveva dato buca. Sa, a quell'appuntamento.»
«Be', buon per te.»
«È stato ucciso.»
Rehvenge alzò la testa di scatto. «Cosa?»
«Stephan, il ragazzo che dovevo vedere... è stato ucciso dai lesser. Il re lo ha
portato in clinica, ma io non sapevo che fosse lui finché non è arrivato suo
cugino a cercarlo. Io... ehm, l'altra sera ho passato il turno ad avvolgere il suo
cadavere nelle bende cerimoniali prima di riconsegnarlo alla sua famiglia.»
Scosse la testa. «Lo avevano massacrato... Era irriconoscibile.»
La voce le si spezzò e non volle saperne di continuare, così Ehlena rimase
seduta ad accarezzare il tovagliolo, nella speranza di rinfrancarsi.
Due flebili tintinnii segnalarono il fatto che Rehv aveva posato forchetta e
coltello sul piatto; poi le mise sul braccio la grossa mano.
«Mi dispiace davvero tanto», disse. «Non mi stupisce che tu non sia in vena
di tutto questo. Se l'avessi saputo...»
«No, non fa niente. v Davvero. Avrei dovuto spiegarmi meglio quando
sono arrivata. E solo che stasera sono un po' fuori fase. Non sono in me.»
Rehvenge le diede una stretta al braccio, poi si appoggiò all'indietro sulla
sedia, quasi temesse di opprimerla. Cosa che normalmente lei avrebbe
gradito, ma che stasera invece le parve un peccato. .. per usare una parola che
lui prediligeva. Sentire il suo tocco attraverso il cappotto era stato molto
piacevole.
A proposito, adesso sì che aveva caldo.
Si sbottonò il cappotto di lana e se lo tolse, «Si bolle, qui dentro.»
«Come ho già detto, posso abbassare il riscaldamento, se vuoi.»
«No.» Ehlena si accigliò, lanciandogli un'occhiata. «Come mai ha sempre
freddo? Effetti collaterali della dopamina?»
Lui annuì. «In realtà spiega soprattutto il bastone. Non sento né le braccia
né le gambe.»
Ehlena non aveva sentito di molti vampiri con quella reazione al farmaco,
ma d'altronde le reazioni individuali sono molto diverse. E anche
l'equivalente del Parkinson, nei vampiri, era una brutta malattia.
Rehvenge spinse via il piatto ed entrambi rimasero seduti a lungo in
silenzio. Al lume di candela lui sembrava come sfocato, la sua abituale
energia affievolita, l'umore tetro.
«Neanche lei è lo stesso di sempre», disse Ehlena. «Non che la conosca
benissimo, ma mi sembra...»
«Come?»
«Un po' come me. In un coma ambulante.»
Lui ridacchiò brevemente. «Molto azzeccato.»
«Le va di parlarn...»
«Ti va di mangiare un boccon...»
Risero entrambi, poi si bloccarono di colpo.
Rehvenge scosse la testa. «Senti, lascia che ti offra almeno il dolce. È il
minimo che possa fare. E poi non devi prenderlo come un appuntamento. Le
candele sono spente.»
«Per la verità, sa una cosa?»
«Hai mentito; non è vero che hai mangiato prima di venire e adesso stai
morendo di fame?»
Lei rise di nuovo. «Indovinato.»
Gli occhi color ametista di lui si fissarono nei suoi e l'aria tra loro cambiò;
Ehlena ebbe la sensazione che lui vedesse tante, troppe cose. Specialmente
quando, con voce sensuale, disse, «Posso sfamarti?»
Ipnotizzata, ammaliata, lei sussurrò, «Sì, per favore.»
Lui sorrise, rivelando due lunghe zanne bianche. «Proprio la risposta che
speravo.»
Chissà come sarebbe stato sentire in bocca il suo sangue, si chiese d'impeto
Ehlena.
Rehvenge emise un ringhio gutturale, quasi sapesse esattamente cosa stava
pensando. Ma non si spinse oltre; si alzò e andò in cucina.
Al suo ritorno Ehlena era riuscita a riprendersi almeno in parte, ma, quando
lui le posò davanti il piatto, venne investita da una deliziosa fragranza di
spezie... che non aveva nulla a che fare con quello che aveva cucinato.
Decisa a mantenere un certo contegno, Ehlena si mise il tovagliolo sulle
ginocchia e assaggiò il roast beef.
«Dio, ma è favoloso.»
«Grazie», disse Rehv sedendosi. «Ho seguito la ricetta dei doggen di casa
nostra. Accendi il forno a 120 gradi e infili dentro il roast beef, lo fai cuocere
per mezz'ora, poi spegni tutto e lasci riposare. Non bisogna aprire il forno per
controllare, il segreto è questo, bisogna fidarsi. E due ore dopo...»
«Il paradiso.»
«Il paradiso.»
Ehlena rise nel sentire la stessa parola uscire dalla bocca di tutti e due. «Be',
è proprio squisito. Si scioglie in bocca.»
«In tutta sincerità, prima che pensi che sono un grande chef, è l'unica cosa
che so cucinare.»
«Be', almeno una cosa la sa fare alla perfezione, è più di quanto possa dire
la maggior parte della gente.»
Lui sorrise e guardò le pillole. «Se adesso ne prendo una, te ne andrai
subito dopo cena?»
«Se le dico di no, mi dirà perché è così taciturno?»
«Sei tosta nelle trattative.»
«Dovrebbe essere una strada a doppio senso, tutto qua. Io le ho detto cosa
mi pesava.»
Rehvenge si rabbuiò, serrando le labbra e aggrottando le sopracciglia. «Non
posso parlarne.»
«Certo che può.»
I suoi occhi, adesso duri, la fulminarono. «Come tu puoi parlare di tuo
padre?»
Ehlena abbassò lo sguardo sul piatto e, con una cura esagerata, tagliò un
pezzo di carne.
«Scusa», disse Rehv. «Io... Merda.»
«No, non fa niente.» Ma non era vero. «A volte tiro troppo la corda. Va
benissimo nel mio mestiere, ma non altrettanto nei rapporti personali.»
Sulla stanza calò di nuovo il silenzio; Ehlena si mise a mangiare più in
fretta, meditando di andarsene appena finito.
«Sto facendo qualcosa di cui non sono fiero», disse all'improvviso lui.
Ehlena alzò gli occhi. Rehvenge aveva un'espressione decisamente cattiva:
collera e odio lo avevano trasformato, al punto che, non conoscendolo,
l'avrebbe spaventata. Quello sguardo malvagio non era rivolto a lei, tuttavia.
Era una manifestazione di ciò che provava verso se stesso. O verso qualcun
altro.
Ehlena capì che non era il caso di insistere. Specie visto l'umore del suo
commensale.
Quindi si sorprese nel sentirlo dire, «E una cosa ancora in corso.»
Chissà se era una questione di affari o personale, si chiese Ehlena.
Lui la guardò negli occhi. «C'entra una certa femmina.»
Giusto. Una femmina.
Okay, non aveva il diritto di sentire una morsa gelida intorno al petto. Non
erano affari suoi se lui stava già con qualcuno. O se era un playboy che
metteva insieme cenette a base di roast beef, lume di candela e seduzione per
Dio solo sapeva quante altre femmine.
Ehlena si schiarì la gola e posò coltello e forchetta. Tamponandosi la bocca
col tovagliolo, disse, «Caspita. Sa, non mi è venuto in mente dì chiederle se
era sposato. Non ha mica un cartello attaccato alla schiena...»
«Non è la mia shellan. E non la amo per niente. È complicato.»
«Avete un figlio insieme?»
«No, grazie a Dio.» v
Ehlena si accigliò. «E una relazione, però?»
«Immagino la si possa definire così.»
Sentendosi una perfetta idiota per essersi lasciata irretire da lui, Ehlena
posò il tovagliolo sul tavolo vicino al piatto e, ostentando un sorriso molto
professionale, si alzò e prese il cappotto.
«Adesso devo proprio andare. Grazie per la cena.»
Rehv imprecò. «Non avrei dovuto dire niente...»
«Se il suo scopo era portarmi a letto, ha ragione. Pessima mossa. Ma sono
contenta che sia stato sincero...»
«Non stavo cercando di portarti a letto.»
«Oh, certo che no, perché avrebbe significato tradire quell'altra.» Cristo,
perché la stava prendendo così male?
«No», ribatté secco lui, «Perché sono impotente. Credimi, se mi venisse
duro, il letto sarebbe il primo posto dove vorrei portarti.»
Capitolo 28
«Passare del tempo con te è come guardare la vernice che si asciuga.» La
voce di Lassiter riecheggiò fino alle stalattiti appese all'alta volta della Tomba.
«Senza neanche che la casa migliori - il che è una tragedia, visto com'è questo
posto. Voi ragazzi avete sempre un debole per le tinte fosche? Mai sentito
parlare dell'Ikea?»
Tohr si stropicciò la faccia, guardandosi intorno nella grotta che per secoli
era servita come sacro luogo d'incontro della confraternita. Dietro il massiccio
altare di pietra vicino a cui era seduto, la grande lastra di marmo nera con
incisi i nomi di tutti i fratelli occupava tutta la parete di fondo della caverna.
Ceri neri sopra pesanti pilastri gettavano una luce tremula sulle scritte
nell'Antico Idioma.
«Noi siamo vampiri», disse. «Mica fatine.»
«A volte non ne sono poi tanto sicuro. Non hai visto lo studio del vostro
re?»
«Wrath è quasi cieco.»
«Il che spiega perché non si è ancora impiccato in quell'orrore color
pastello.»
«Ma non ti stavi lamentando degli arredi troppo cupi?»
«Era una libera associazione.»
«Chiaramente.» Tohr evitò di guardare l'angelo: il contatto visivo rischiava
di dargli corda. Oh, ma, un momento, Lassiter non aveva bisogno di
incoraggiamenti.
«Ti aspetti che quel teschio sull'altare si metta a parlare con te o roba del
genere?»
«Per la verità stiamo aspettando tutti e due che tu riprenda fiato.» Tohr lo
guardò truce. «Dicci quando sei pronto. Qualunque momento è buono.»
«Dici sempre cose così carine.» L'angelo parcheggiò il fondoschiena
luminoso sui gradini di pietra accanto a Tohr. «Posso chiederti una cosa?»
«Posso dire di "no"?»
«No.» Lassiter si voltò a guardare il teschio. «Quel coso sembra più vecchio
di me. Il che è tutto dire.»
Era il primo fratello, il guerriero inaugurale che aveva combattuto il nemico
con grande valore e fermezza, il più sacro simbolo di forza e determinazione
all'interno della confraternita.
Per una volta Lassiter smise di dire cazzate. «Dev'essere stato un grande
combattente.»
«Credevo volessi chiedermi qualcosa.»
L'angelo si alzò con un'imprecazione sgranchendosi le gambe. «Sì, cioè...
come cazzo hai fatto a restare seduto lì per tutto quel tempo? Il sedere mi fa
un male del diavolo.»
«Già, i crampi al cervello sono una gran rottura.»
Anche se l'angelo non aveva tutti i torti. Tohr era seduto lì a guardare il
teschio e il muro di nomi dietro l'altare da tanto di quel tempo che il
fondoschiena, più che intorpidito, era indistinguibile dai gradini.
Era andato lì la sera prima attratto da una mano invisibile, spinto a cercare
ispirazione, chiarezza, un rinnovato legame con la vita. Invece aveva trovato
solo pietra. Pietra fredda. E una sfilza di nomi che un tempo significavano
qualcosa per lui, e adesso non erano altro che una lista della spesa di defunti.
«È perché cerchi nel posto sbagliato», disse Lassiter.
«Adesso puoi andare.»
«Ogni volta che me lo dici, mi viene da piangere.»
«Buffo, anche a me.»
L'angelo si chinò, preceduto dal profumo di aria fresca. «Né quel muro né
quel teschio ti daranno quello che cerchi.»
Tohr socchiuse gli occhi, rimpiangendo di non avere la forza di fare a botte
con l'angelo. «Ah no? Be', allora vuol dire che sei un bugiardo. "È giunto il
momento. Stanotte cambierà tutto." Tu sei la vergogna dei chiaroveggenti, lo
sai, sì? Racconti tante di quelle palle.»
Lassiter sorrise e, oziosamente, si aggiustò il piercing d'oro al sopracciglio.
«Se credi di attirare la mia attenzione facendo il villano ti sbagli di grosso.
Continua pure, tanto non m'interessa.»
«Perché cazzo sei qui?» sbottò Tohr; nel sentire la propria voce indebolita
dalla stanchezza si imbestialì ancora di più. «Perché cavolo non mi hai
lasciato dov'ero?»
L'angelo salì i gradini di marmo nero e si mise a camminare su e giù
davanti alla lucida lastra con incisi i nomi, fermandosi di tanto in tanto a
esaminarne uno o due.
«Il tempo è un lusso, che tu ci creda o no», disse.
«A me sembra più una maledizione.»
«Senza il tempo sai cosa ti resta?»
«Il Fado. Che poi è dov'ero diretto finché non sei arrivato tu,»
Lassiter fece scorrere l'indice sopra una fila di caratteri e Tohr distolse lo
sguardo appena vide cosa c'era scritto. Era il suo nome.
«Senza il tempo», disse l'angelo, «hai solo il pantano informe e senza fondo
dell'eternità.»
«Per tua informazione, la filosofia mi annoia.»
«Non è filosofia. E la realtà. È il tempo a dare significato alla vita.»
«Vaffanculo. Sul serio... vaffanculo.»
Lassiter inclinò il capo di lato, come se avesse udito qualcosa.
«Finalmente», bofonchiò. «Questo bastardo mi stava facendo arrabbiare.»
«Come hai detto?»
L'angelo si avvicinò a Tohr, si chinò proprio davanti alla sua faccia e,
scandendo bene le parole, disse, «Apri bene le orecchie, caro. È stata la tua
shellan, Wellsie, a mandarmi. Ecco perché non ti ho lasciato morire.»
Nel petto di Tohr il cuore si fermò; proprio in quel mentre l'angelo,
guardando in su, disse, «Perché ci hai messo tanto?»
La voce di Wrath suonò seccata, «Be', la prossima volta dì a qualcuno dove
cazzo sei...»
«Che cosa hai detto?» disse Tohr in un sussurro, mentre il re scendeva
rumorosamente verso l'altare.
Lassiter tornò a concentrarsi su di lui, nient'affatto contrito. «Non è quel
muro che devi guardare. Prova con un calendario, piuttosto. Un anno fa il
nemico ha sparato in faccia alla tua Wellsie. Svegliati, cazzo, e fai qualcosa.»
Wrath imprecò. «Ehi, calma, Lassi...»
Tohrment balzò su con qualcosa di simile alla forza di un tempo e,
malgrado la differenza di peso, si avventò contro l'angelo stendendolo sul
pavimento di pietra. Con le mani intorno alla sua gola, lo fissò in quegli occhi
bianchi e cominciò a stringere, scoprendo le zanne.
Ricambiando il suo sguardo, Lassiter per via telepatica gli inviò la voce
direttamente nel lobo temporale: Cosa hai intenzione di fare, stronzo? Vuoi
vendicarla o mancarle di rispetto, lasciandoti deperire così?
Wrath calò la mano, enorme come la zampa di un leone, sulla spalla di
Tohr, affondandogli le dita nella carne e tirandolo indietro. «Lascialo
andare.»
«Non...» Tohr aveva il respiro affannoso, «Non.,, ti azzardare...»
«Basta», sibilò Wrath.
Tohr venne scagliato all'indietro e, mentre rimbalzava col culo per terra, si
riscosse da quel raptus omicida. E si svegliò, anche.
Non sapeva come altro descriverlo: era come se qualcuno avesse fatto
scattare un interruttore e tutte le sue luci, prima spente, all'improvviso si
fossero accese e avessero ripreso vita.
Il viso di Wrath entrò nel suo campo visivo e Tohr lo vide con una
chiarezza che non conosceva più da... secoli. «Stai bene?» chiese il re. «Hai
preso una bella botta.»
Tohr fece scorrere le mani sulle braccia nerborute di Wrath, in cerca di
concretezza. Lanciò un'occhiata a Lassiter, poi guardò il re. «Scusa... non
volevo fargli male.»
«Vorrai scherzare. Tutti noi avremmo voluto strangolarlo.»
«Sapete, prima o poi mi verrà qualche complesso», disse Lassi- ter
tossendo, mentre cercava di riprendere fiato.
Tohr si aggrappò alle spalle del suo re. «Nessuno ha mai detto niente di
lei», gemette. «Nessuno ha mai fatto il suo nome, nessuno ha mai parlato di...
quello che è successo.»
Wrath lo sorreggeva per la nuca. «Per rispetto verso di te.»
Tohr spostò gli occhi sul teschio sopra l'altare e poi sul muro inciso.
L'angelo aveva ragione. C'era un solo nome in grado di svegliarlo, e non era
scritto lì.
Wellsie.
«Come hai fatto a capire dove eravamo?» chiese al suo re, senza staccare gli
occhi dal muro.
«A volte si ha bisogno di tornare all'inizio. Dove tutto è cominciato.»
«È ora», disse piano l'angelo caduto.
Tohr si guardò, guardò il corpo rinsecchito sotto gli abiti che gli pendevano
addosso. Era un quarto del vampiro di un tempo, forse anche meno. E non
solo per tutti i chili che aveva perso. «Oh, Cristo... guardatemi.»
La reazione di Wrath fu ferma e decisa. «Se tu sei pronto, noi siamo pronti
ad accoglierti di nuovo tra noi.»
Tohr guardò l'angelo, notando per la prima volta l'alone dorato che lo
avvolgeva. Inviato dal cielo. Inviato da Wellsie.
«Sono pronto», disse, a tutti e a nessuno in particolare.
Be', almeno non è corsa via quando ho sganciato la bomba, pensò Rehv
guardando Ehlena dall'altra parte del tavolo.
Impotente è una parola che è meglio evitare in presenza di una femmina che
ti interessa. A meno di usarla in frasi del tipo, Cazzo, no, NON sono impotente.
Ehlena si rimise a sedere. «Lei è... è per colpa delle medicine?» «Già.»
Lei distolse gli occhi di scatto, come se stesse facendo dei calcoli mentali, e
la prima cosa che gli venne da pensare fu, La lingua mi funziona ancora e
anche le dita.
Ma se la tenne per sé. «La dopamina mi fa uno strano effetto. Invece di
stimolare il testosterone lo prosciuga completamente.»
Ehlena increspò l'angolo della bocca. «Molto spiacevole, ma considerato
quanto è virile, senza questo inconveniente...»
«Sarei in grado di fare l'amore con te», concluse piano lui. «Questa è la
verità.»
Di scatto Ehlena riportò gli occhi su di lui, per la serie "porca miseria ho
sentito bene?"
Rehv si passò una mano sulla cresta da moicano. «Non ho intenzione di
scusarmi perché provo qualcosa per te, ma non voglio neanche mancarti di
rispetto cercando di passare all'azione. Vuoi un caffè? E già pronto.»
«Ehm... certo.» Quasi sperasse di schiarirsi le idee. «Senta...»
Rehvenge, che già si stava alzando, si fermò a metà. «Sì?»
«Io... ehm...»
Vedendo che Ehlena non continuava, lui si strinse nelle spalle. «Lascia che
ti porti il caffè. Voglio servirti. Mi rende felice.»
Felice era dir poco. Tornando in cucina, una soddisfazione incredibile
squarciò il velo del suo torpore. Nutrirla col cibo che aveva preparato per lei,
darle da bere per dissetarla, offrirle riparo dal freddo...
Il suo naso colse uno strano odore; all'inizio pensò che fosse il roast beef che
aveva lasciato fuori, perché l'aveva insaporito con delle spezie. Ma invece
no... non era quello.
Al diavolo il naso, aveva ben altro di cui preoccuparsi. Andò agli armadietti
e tirò fuori una tazza e un piattino. Dopo aver versato il caffè, fece per
raddrizzarsi i baveri della giacca...
E rimase di sasso.
Si portò la mano al naso e inspirò a fondo, incredulo. Non era possibile...
Eppure quell'odore non poteva essere altro, e non c'entrava niente col suo
lato symphath, l'intenso aroma speziato scaturito dal suo corpo era l'odore del
desiderio, il marchio che ogni vampiro innamorato lascia sulla pelle e sul
sesso della sua femmina per far sapere agli altri maschi che rischiano di
scatenare la sua ira, se solo si azzardano ad avvicinarsi.
Rehv abbassò il braccio e guardò la porta a vento, esterrefatto.
Giunti a una certa età non ci si aspetta più sorprese dal proprio corpo. Non
belle sorprese, almeno. Giunture arrugginite. Polmoni sfiatati. Vista debole. A
tempo debito, certo. Ma davvero, per i novecento anni o giù di lì che
seguivano la transizione, quello che avevi avevi.
Anche se bello forse non era il termine più esatto per descrivere quello
sviluppo inaspettato.
Senza un motivo apparente, Rehv pensò alla prima volta che aveva fatto
sesso. Era stato subito dopo la transizione, e alla fine del rapporto sessuale
era convinto che lui e la femmina si sarebbero sposati, avrebbero vissuto
insieme e sarebbero stati felici per il resto della vita. Lei era bellissima, una
femmina che il fratello di sua madre aveva portato in casa per fargliela usare
una volta entrato nel cambiamento.
Era una brunetta.
Cristo, non ricordava neanche più il suo nome.
Ripensandoci adesso, con tutto quello che aveva imparato nel frattempo su
maschi, femmine e attrazione sessuale, sapeva di averla sorpresa con le
dimensioni del suo corpo, dopo il cambiamento. Lei non si aspettava che le
piacesse quello che aveva davanti. Non si aspettava di desiderarlo. Ma invece
le era piaciuto, si erano accoppiati e il sesso era stato una rivelazione; il
contatto fisico, l'eccitazione, potente come una droga, il senso di potere che
aveva provato quando aveva assunto il controllo dopo le prime due volte.
Era stato allora che aveva scoperto di avere una punta ricurva alla base del
pene - forse la femmina, presa com'era dall'amplesso, non aveva notato che
dovevano aspettare un po' prima che potesse sfilarsi da lei.
Dopo, si era sentito sereno e appagato come non mai. Ma non c'era stato
nessun lieto fine, nessun "e vissero per sempre felici e contenti". Ancora
sudata, lei si era rivestita ed era andata alla porta. Uscendo, gli aveva sorriso
con dolcezza e gli aveva detto che non avrebbe fatto pagare niente alla sua
famiglia per il rapporto sessuale.
Suo zio l'aveva comprata perché nutrisse Rehv.
Buffo, ora che ci pensava: era davvero una sorpresa la fine che aveva fatto?
L'idea del sesso come merce gli era stata inculcata abbastanza presto... anche
se quella prima scopata, o meglio quelle prime, numerose, scopate, le aveva
offerte la casa, per così dire.
Per cui no, se quell'aroma penetrante significava che la sua natura di
vampiro si era sentimentalmente legata a Ehlena, non era una bella notizia.
Rehv prese il caffè e, con cautela, lo portò in sala da pranzo. Quando lo
posò davanti a Ehlena fu assalito dall'impulso di accarezzarle i capelli, ma
invece si sedette.
Lei si portò la tazza alle labbra. «Buono.»
«Non l'hai neanche assaggiato.»
«Sento l'odore. E mi piace molto.»
Non è il caffè, pensò lui. Proprio per niente.
«Be', anche a me piace molto il tuo profumo», disse, perché era uno stupido.
Lei si accigliò. «Ma non ho messo nessun profumo. Sì, insomma, a parte il
sapone e lo shampoo.»
«Be', allora mi piacciono quelli. E sono contento che tu sia rimasta.»
«Erano questi i suoi piani?»
I loro occhi si incontrarono. Merda, lei era perfetta. Luminosa come le
candele. «Farti restare fino al caffè? Sì, avevo in mente una cenetta romantica,
credo.»
«Pensavo che fosse d'accordo con me.»
Accidenti, quella sua voce così sexy gli faceva venir voglia di stringerla
contro il petto nudo.
«D'accordo con te?» ripetè, senza capire. «Diamine, se servisse a farti felice,
direi di sì a qualunque cosa. Ma a cosa ti riferisci, nello specifico?»
«Aveva detto... che non dovrei uscire con nessuno.»
Ah, giusto. «Infatti.»
«Non capisco.»
E allora Rehv ci diede dentro, accidenti a lui. Appoggiò il gomito
intorpidito sul tavolo e si protese verso di lei, accorciando le distanze. Ehlena
spalancò gli occhi, ma non si ritrasse.
Lui fece una pausa per darle la possibilità di dirgli di piantarla. Perché lo
fece? Non ne aveva la più pallida idea. Il suo lato symphath amava le pause
solo quando si trattava di analizzare la situazione o di sfruttare al meglio una
debolezza. Ma Ehlena gli faceva venir voglia di essere una brava persona.
Lei, comunque, non gli disse di darci un taglio. «Non... capisco», sussurrò.
«E semplice. Credo che non dovresti uscire con nessuno.» Rehv si avvicinò
ancora di più, fino a scorgere le pagliuzze dorate nei suoi occhi. «Ma io non
sono "nessuno".»
Capitolo 29
Io non sono "nessuno".
Fissando gli occhi color ametista di Rehv, Ehlena pensò che era proprio
vero. In quell'attimo di silenzio, mentre una esplosiva tensione erotica li
legava e il penetrante profumo di colonia aleggiava nell'aria, Rehvenge era
tutto e tutti.
«Lasciati baciare», disse lui.
Non era una domanda, ma Ehlena annuì comunque, e lui colmò la distanza
tra le loro bocche.
Le sue labbra erano delicate e il suo bacio ancora più delicato. Ma si staccò
troppo in fretta, davvero troppo in fretta, pensò Ehlena.
«Se ne vuoi ancora», disse Rehv con voce sensuale, «Io sono pronto.»
Con gli occhi fissi sulla sua bocca, Ehlena pensò a Stephan... e a tutte le
scelte che Stephan non poteva più fare. Stare con Rehvenge era qualcosa che
lei voleva. Non aveva senso, ma al momento non importava.
«Sì. Ne voglio ancora.» Poi però le venne in mente una cosa. Lui non
sentiva niente, giusto? Dunque cosa sarebbe successo se si fossero spinti
oltre?
Già, come sollevare l'argomento senza farlo sentire handicappato? E
quell'altra femmina? Lui non ci andava a letto, chiaramente, ma tra loro c'era
qualcosa di serio.
Gli occhi color ametista di lui si posarono sulle sue labbra. «Vuoi sapere
cosa ne ricavo io?»
Dio, che voce... era sesso allo stato puro.
«Sì», disse lei in un sussurro.
«Posso vederti come sei adesso.»
«E come... sono?»
Lui fece scorrere un dito sulla sua guancia. «Sei tutta rossa.» La carezza
proseguì sulle sue labbra. «Hai la bocca aperta perché stai pensando che ti
bacerò di nuovo.» Continuò ad accarezzarla con delicatezza, scendendo fino
al collo. «Il tuo cuore sta pompando. Lo vedo dalla tua vena, qui.» Si fermò in
mezzo ai suoi seni, schiudendo a sua volta le labbra, le zanne che si
allungavano. «Se vado avanti scoprirò che i tuoi capezzoli sono duri, penso, e
scommetto che ci sono anche altri segnali che sei pronta per me.» Si avvicinò
al suo orecchio e bisbigliò, «Sei pronta per me, Ehlena?»
Porca. Miseria.
La cassa toracica si strinse forte intorno ai suoi polmoni, una sensazione
dolce e inebriante di soffocamento, che fece apparire ancora più sconcertante
la vampata che all'improvviso sentì in mezzo alle cosce.
«Rispondimi, Ehlena.» Rehvenge le sfregò il naso sul collo, facendo scorrere
un canino aguzzo lungo la vena.
Abbandonando la testa all'indietro, lei si aggrappò alla manica del suo
completo elegante, stropicciandone la stoffa. Era passato tanto di quel
tempo... una vita... dall'ultima volta che qualcuno l'aveva abbracciata. Da
quando era stata qualcosa di diverso da un'infermiera e una badante. Da
quando aveva pensato che i suoi seni, i fianchi, le cosce non erano solo parti
da coprire prima di uscire in pubblico. Ed ecco che quel bellissimo maschio che tutto era tranne che "nessuno" - voleva stare con lei al solo scopo di farla
godere.
Batté le palpebre, frenetica, con la sensazione che lui le avesse appena fatto
un regalo e si chiese fin dove poteva arrivare quello cui stavano per dare
inizio. In passato, prima che la sua famiglia cadesse in disgrazia e venisse
distrutta dalla glymera, Ehlena era stata promessa in sposa a un vampiro, e
viceversa. La cerimonia nuziale, già fissata, non aveva mai avuto luogo dopo
il rovescio di fortuna della sua famiglia.
Quando ancora stavano insieme era andata a letto con lui, anche se, in
quanto membro dell'aristocrazia, non avrebbe dovuto perché non erano
ancora uniti formalmente. La vita le era parsa troppo breve per aspettare.
Adesso sapeva che era ancora più breve.
«Avrai un letto, in questa casa», disse.
«E ucciderei per portartici.»
Fu lei ad alzarsi e a tendergli la mano. «Andiamo.»
Al centro di tutto c'era Ehlena, e questo lo rendeva accettabile, si disse
Rehv. La mancanza di sensazioni lo escludeva completamente dall'equazione,
liberandoli entrambi dalle sgradevoli implicazioni legate a un suo
coinvolgimento.
Dio, che gioia. Era costretto a dare alla principessa il suo corpo, ma aveva
scelto liberamente di dare a Ehlena...
Be', cavolo, non sapeva di preciso cosa, ma era decisamente più del suo
uccello. E valeva anche infinitamente di più.
Non volendo appoggiarsi a lei afferrò il bastone e la portò in camera, col
suo letto grande come una piscina, il suo piumone di raso nero e il suo
panorama.
Chiuse la porta con la forza del pensiero, anche se in casa non c'era nessun
altro, e per prima cosa fece voltare Ehlena verso di sé e le sciolse i capelli. Le
onde di un biondo ramato ricaddero appena sotto le spalle; pur non
potendone apprezzare al tatto la consistenza setosa, Rehv sentì il profumo
naturale e delicato dello shampoo.
Lei era fresca e pulita, come un ruscello in cui lui poteva immergersi.
D'un tratto si fermò, trattenuto da un insolito rimorso di coscienza. Se lei
avesse saputo chi era veramente, se avesse saputo cosa faceva per vivere, se
avesse saputo cosa faceva col suo corpo, non lo avrebbe scelto. Ne era sicuro.
«Non fermarti», disse Ehlena, alzando il viso. «Per favore...»
Con un supremo sforzo di volontà, Rhev operò una sorta di separazione in
compartimenti stagni, allontanando dalla camera da letto tutte le cose brutte,
la vita deprecabile che conduceva e le realtà pericolose che doveva affrontare,
chiudendole a chiave fuori dalla porta, tagliandole fuori.
Per poter restare da solo con Ehlena.
«Non mi fermerò a meno che non sia tu a chiedermelo», disse. Si sarebbe
fermato veramente, senza fare domande. L'ultima cosa che voleva era farle
provare lo stesso senso di costrizione che provava lui riguardo al sesso.
Si chinò, posò le labbra sulle sue e la baciò con cautela. Non potendo
regolarsi in base alle sensazioni non voleva esagerare, e poi, se Ehlena voleva
qualcosa di più, poteva stringersi a lui...
Fu proprio ciò che fece, cingendolo tra le braccia e premendosi con forza
contro il suo inguine.
E... cazzo, lui sentì qualcosa. Di punto in bianco una sensazione si aprì un
varco nel muro del torpore, un guizzo appena accennato, ma decisamente
caldo. Per una frazione di secondo Rehv si ritrasse, trafitto dalla paura... ma
la sua visione era ancora tridimensionale e l'unico rosso che vedeva veniva
dalla sveglia digitale sul comodino.
«Va tutto bene?» chiese lei.
Lui attese un paio di secondi. «Sì... sì, assolutamente.» Fece scorrere gli
occhi sul suo viso. «Posso spogliarti?»
Oh, Dio, aveva sentito bene? «Sì.»
«Oh... grazie.»
Lentamente, Rehv sbottonò l'uniforme da infermiera, ogni centimetro di
pelle una rivelazione, un disvelamento più che uno spogliarello. E con
estrema attenzione le fece scivolare giù dalle spalle e poi dai fianchi, fino a
terra, la metà superiore della divisa. Quando la vide ritta davanti a sé, in
reggiseno bianco e collant bianchi, col bianco delle mutandine che si
intravedeva sotto le calze, si sentì stranamente onorato.
Ma non era finita. L'odore del sesso di lei gli scatenò in testa un'euforia
incredibile, neanche pippasse coca da una settimana e mezzo. Lei lo
desiderava. Quasi quanto lui desiderava soddisfare lei.
La sollevò cingendola per la vita e stringendola a sé. Non pesava niente, lo
capì dal fatto che il suo respiro non cambiò minimamente mentre
attraversava la stanza per stenderla sul letto.
Si scostò leggermente per guardarla; Ehlena non era come le femmine a cui
era abituato. Non spalancò le gambe, non cominciò a toccarsi, non inarcò la
schiena in qualche variante dello spudorato "vieni a prendermi, stallone".
Non voleva neanche farlo soffrire e non le interessava degradarlo... non
c'era nessuna crudeltà erotica e sfrenata nei suoi occhi.
Lo guardava con meraviglia e sincera aspettativa, senza il minimo calcolo o
artificio... un trilione di volte più sexy di tutte le femmine con cui era stato o
che aveva avuto intorno.
«Vuoi che resti vestito?»
«No.»
Rehv si liberò della giacca neanche fosse uno straccio per pavimenti,
buttando per terra senza il minimo riguardo quel capolavoro di Gucci. Scalciò
via i mocassini, slacciò la cintura e lasciò scivolare giù i calzoni. La camicia
venne via in fretta e altrettanto i calzini.
Giunto ai boxer esitò, i pollici infilati nell'elastico, pronto a levarli, ma
incapace di muoversi.
La mancanza di un'erezione lo imbarazzava.
Non avrebbe mai pensato che gli importasse. Diamine, il suo uccello floscio
era proprio ciò che rendeva possibile tutto questo, in realtà. Eppure si sentiva
meno virile.
O nient'affatto virile, per dirla tutta.
Tirò fuori le mani dai boxer e le mise sul sesso flaccido. «Questi li tengo su.»
Ehlena si protese verso di lui, gli occhi colmi di desiderio. «Voglio fare
l'amore con te. Vieni.»
Già, è una parola. "Venire" era fuori della sua portata. «Scusa», disse
sottovoce.
Ci fu un attimo di imbarazzo perché cosa mai poteva dire, lei? E tuttavia
Rehv attese comunque, desideroso di... qualcosa da lei.
Rassicurazione?
Cristo, cosa cazzo gli prendeva? Tutti quegli strani pensieri e quelle
bizzarre reazioni si incrociavano nel suo lobo temporale, tracciando sentieri
verso destinazioni di cui aveva solo sentito parlare da altri, luoghi come la
vergogna, la tristezza e la preoccupazione. L'insicurezza, anche.
Forse gli ormoni sessuali che Ehlena stava ridestando in lui erano come la
dopamina: producevano l'effetto opposto, trasformandolo in una donnicciola.
«Sei bellissimo, con questa luce», disse lei in tono sensuale. «Che spalle
larghe e che petto. Non riesco a immaginare come sia essere tanto forti. E il
tuo addome... vorrei averlo io così piatto e sodo. Le tue gambe sono così
robuste, tutte muscoli, neanche un filo di grasso.»
Facendo scorrere la mano sopra gli addominali scolpiti, Rehv abbassò lo
sguardo sul ventre di lei, leggermente arrotondato. «Per me sei perfetta così
come sei.»
La voce di lei si fece seria. «Anch'io penso lo stesso di te.»
Rehv inspirò con forza. «Sì?»
«Ti trovo molto sexy. Mi basta guardarti per... sentire una smania
irresistibile.»
Be'... ecco fatto, cosa voleva di più? Eppure gli ci volle uno strano tipo di
coraggio per infilare di nuovo le dita nell'elastico dei boxer e abbassarli
lentamente sulle cosce.
Quando si stese accanto a lei, fremeva tutto; lo capì vedendo come gli
tremavano i muscoli.
Gli interessava quello che Ehlena pensava di lui, del suo corpo, di quanto
stava per succedere in quel letto, ci teneva molto al suo giudizio. Con la
principessa, invece... non gliene fregava un accidente se le piaceva o meno
quello che le faceva. E le poche volte che era andato con le ragazze del suo
club era stato attento a non far loro del male, naturalmente, ma era stata solo
una transazione d'affari: sesso in cambio di denaro.
Con Xhex era stato un errore, semplicemente. Senza infamia né lode. Era
successo e non si sarebbe mai più ripetuto.
Ehlena fece scorrere le mani sulle sue braccia e sulle spalle. «Baciami.»
Rehv la guardò in fondo agli occhi e l'accontentò; posò le labbra sulle sue,
strofinandole con delicatezza, poi tirò fuori la lingua per leccarle la bocca.
Continuò a baciarla finché lei cominciò a dimenarsi sul letto e lo strinse
talmente forte che quella strana eco sensoriale si ripresentò di nuovo.
Rehvenge si fermò e aprì gli occhi per controllare, ma nella sua vista era tutto
normale, non c'era traccia di rosso.
Tornò a godersi i suoi baci, facendo molta attenzione perché non poteva
calibrare il contatto, lasciando che fosse lei ad avvicinarsi, per non
schiacciarla con la bocca.
Aveva una gran voglia di spingersi ben oltre... e lei gli lesse nel pensiero.
Fu Ehlena a slacciarsi il reggiseno, sganciando il fermaglio sul davanti e
denudandosi. Oh... cazzo, sì. Aveva i seni perfettamente proporzionati,
sovrastati da due capezzoli rosei e turgidi... che lui prontamente succhiò, uno
dopo l'altro.
Il suono dei suoi gemiti lo pervase da cima a fondo, sostituendo il freddo
con la vita, l'energia, il calore e il desiderio.
«Voglio leccarti lì sotto», ringhiò.
Il "sì, ti prego" di lei fu più che altro un gemito e il suo corpo gli fornì una
risposta ancora più chiara. Adesso le sue cosce si schiusero, le gambe si
allargarono, Rehv non poteva sperare in un invito più esplicito.
Quei collant dovevano sparire prima che cominciasse a strapparglieli via a
morsi.
Sforzandosi per quanto possibile di procedere con lentezza, la liberò da
quella costrizione, sfregando il naso sulle sue carni nude, giù, fino alle
caviglie, respirando a fondo il suo odore.
Lasciò le mutandine al loro posto.
Ciò che la sorprese di più fu la sua delicatezza.
A dispetto del suo fisico imponente, Rehvenge dimostrò un'attenzione
estrema, muovendosi con cautela sopra di lei, dandole in ogni momento la
possibilità di dirgli di no, di indirizzarlo verso qualcos'altro o di fermarlo del
tutto.
Ehlena non aveva la minima intenzione di fare nulla di tutto ciò.
Specie quando lui fece scivolare la grossa mano lungo l'interno della sua
gamba nuda e a poco a poco, inesorabilmente, le piegò in fuori la coscia.
Appena sentì le sue dita sfiorarle gli slip, fu scossa da una scarica elettrica, un
miniorgasmo che la lasciò ansimante.
Rehvenge si tirò su e all'orecchio le sussurrò, sensuale, «Mi piace quel
suono.»
La baciò con trasporto, accarezzandole il sesso sopra il bordo dei modesti
slip di cotone. Gli affondi della lingua si alternavano a tocchi leggerissimi, in
un contrasto irresistibile. Ehlena gettò la testa all'indietro abbandonandosi
completamente. Sollevò i fianchi, divorata dal desiderio; voleva che lui si
infilasse dentro le mutandine e sperò che Rehv la capisse al volo perché era
troppo smaniosa e senza fiato per parlare.
«Che cosa vuoi?» le bisbigliò lui all'orecchio. «Vuoi che tra noi non ci siano
più barriere?»
Quando Ehlena annuì, lui infilò il medio sotto l'elastico, e poi furono pelle
contro pelle e...
«Oh... Dìo», gemette lei, travolta dall'orgasmo.
Sorridendo come una tigre, Rehvenge l'accarezzò mentre veniva,
aiutandola a cavalcare l'onda del piacere. Quando alla fine si placò, Ehlena
provò un grande imbarazzo. Era da tantissimo che non faceva l'amore, e mai
le era capitato di farlo con uno come lui.
«Sei bella in una maniera incredibile», sussurrò lui prima che lei potesse
dire qualcosa.
Ehlena voltò la faccia verso il suo bicipite e baciò la pelle liscia sopra il
muscolo teso. «Non lo facevo da parecchio tempo.»
Lui si illuminò in volto.
«Mi piace. Molto.» Si chinò sul suo seno e le baciò il capezzolo. «Mi piace
che rispetti il tuo corpo. Non tutti lo fanno. Oh, e a. proposito, non ho ancora
finito.»
Le abbassò le mutandine sulle cosce e lei gli affondò le unghie nella nuca.
Rimase di sasso alla vista della sua lingua rosea che le titillava il capezzolo,
specie quando incrociò i suoi occhi di ametista mentre glielo stuzzicava,
girandoci intorno con la lingua... quasi a offrirle un assaggio delle attenzioni
che poteva aspettarsi più sotto.
Ehlena venne di nuovo. In modo travolgente.
Questa volta si lasciò andare completamente; che sollievo enorme essere se
stessa, e con lui. Superata l'estasi del piacere non trasalì nemmeno quando
Rehv cominciò ad aprirsi la strada, un bacio dopò l'altro, verso il suo ventre e
poi ancora più giù, fino al suo...
Ehlena mugolò così forte che si sentì l'eco.
Come già aveva fatto con le dita, lui la sfiorò appena con la bocca e proprio
per questo la sensazione fu ancora più vivida. Carezze delicatissime si
libravano sopra quel punto infuocato e vulnerabile del suo corpo, facendola
smaniare per qualcosa di più, tramutando ogni tocco delle sue labbra e della
sua lingua in una fonte di piacere e insieme di frustrazione.
«Ancora», lo implorò, spingendo i fianchi verso l'alto.
Lui alzò gli occhi color ametista. «Non voglio essere troppo brutale.»
«Non succederà. Ti prego... mi fa impazzire...»
Con un grugnito, Rehv si tuffò a sigillarle il sesso con la bocca,
succhiandola e risucchiandola con impeto. Lei venne di nuovo, questa volta
con una serie di spasmi violenti, ma lui fu perfetto. Senza fermarsi cavalcò le
sue contorsioni, il rumore delle labbra sulle labbra si mescolò alle grida
gutturali di lei, mentre lui la e citava spingendola più e più volte fino al
culmine del piacere.
Dopo Dio solo sa quanti orgasmi, lei si placò, e così anche 1ui. Ansimavano
entrambi, lui con la bocca contro la coscia di lei, le dita affondate dentro la
vulva, i loro odori che si fondevano nel'aria torrida del…
Ehlena si accigliò. Parte della fragranza inebriante che inondava la stanza
aveva... un che di speziato. La annusò a pieni polmoni. Rhevenge la guardò
negli occhi.
La sua espressione scioccata tradiva la conclusione a cui era giunta.
«Già, lo sento anch'io», disse brusco lui.
Ma non poteva essersi innamorato di lei, giusto? Possibile che succedesse
tanto in fretta?
«A certi maschi capita», disse lui. «Evidentemente.»
D'improvviso Ehlena si accorse che le aveva letto nel pensiero ma non se ne
curò. Considerato fin dove si era spinto, penetrarle nel cervello non le
sembrava intimo neanche la metà.
«Non me l'aspettavo», disse.
«Non era neanche nei miei programmi.» Rehvenge sfilò le dita e le leccò
con cura, in modo deliberato.
Il che, naturalmente, la mandò di nuovo su di giri.
Con gli occhi fissi nei suoi, lo guardò cambiare posizione sui â–  cuscini su
cui poco prima si era dimenata.
«Se non sai cosa dire, benvenuta nel club.»
«Non c’ è bisogno di dire niente», mormorò lei. «È così e basta.»
«Già.»
Rehvenge rotolò sulla schiena. Rimasero sdraiati così, al buio, a pochi
centimetri di distanza, eppure lei sentiva già la sua mancanza, come se fosse
partito, lasciando il paese.
Voltandosi su un fianco, appoggiò la testa al suo braccio e rimase a
guardarlo mentre lui fissava il soffitto.
«Vorrei poterti dare qualcosa», disse, rimandando a un'altra occasione la
questione dell'innamoramento. Troppe chiacchiere avrebbero sciupato ciò
che avevano appena condiviso, e lei voleva prolungarlo ancora per un po'.
Lui la guardò. «Sei impazzita? Devo ricordarti quello che abbiamo appena
fatto?»
«Voglio darti anch'io qualcosa di simile», insistette lei; poi, con una smorfia,
chiarì, «Non sto dicendo che mancava qualcosa... cioè... Oh, cavolo.»
Lui sorrise accarezzandole la guancia. «Sei molto dolce; non devi sentirti in
imbarazzo. E non sottovalutare quanto mi è piaciuto, tutto quanto.»
«Voglio dirti una cosa. Nessuno avrebbe potuto farmi sentire meglio o più
bella di quanto hai appena fatto tu.»
Rehv si voltò verso di lei assumendo la sua stessa posizione, la testa
poggiata sul grosso bicipite. «Capisci perché per me è stato bello?»
Ehlena gli baciò il palmo della mano e subito si accigliò. «Ma tu sei gelato.»
Rizzandosi a sedere lo coprì col piumone; lo avvolse bene e poi si
raggomitolò contro di lui, sopra le coperte.
Rimasero così per un secolo.
«Rehvenge?»
«Sì.»
«Attaccati alla mia vena.»
Da come lui trattenne il fiato capì di averlo scioccato da morire.
«Com... C-cosa?»
Lei non potè fare a meno di sorridere: non era il tipo di maschio che
balbetta spesso. «Bevi il mio sangue. Lascia che ti dia qualcosa anch'io.»
Più che allungarsi a poco a poco, le zanne di Rehv scesero di colpo dalla
mascella; Ehlena le vide attraverso le sue labbra schiuse.
«Non sono sicuro... che sia...» Il fiato corto rese la sua voce ancora più
profonda.
Ehlena gli posò la mano sul collo e lentamente gli massaggiò la giugulare.
«Io penso che sia un'idea grandiosa.»
Mentre gli occhi di lui brillavano violacei, lei si sdraiò sulla schiena e piegò
la testa di lato, esponendo la gola.
«Ehlena...» Rehvenge fece scorrere gli occhi sul suo corpo prima di
riportarli sul collo.
Adesso ansimava ed era paonazzo, un sottile velo di sudore gli copriva le
spalle che spuntavano da sotto le coperte. E non era tutto: il penetrante odore
di spezie aumentò fino a saturare l'aria; la sua chimica interna reagiva al
desiderio divorante per Ehlena, e a quello che si era offerta di fare per lui.
«Oh... merda, Ehlena...»
D'un tratto Rehvenge, accigliandosi, si guardò. La sua mano, quella che le
aveva accarezzato con tenerezza la guancia, sparì sotto le coperte e la sua
espressione cambiò: fervore e determinazione svanirono in un lampo,
lasciando solo un'inquietante sorta di disgusto.
«Scusa», disse roco. «Scusa... non posso...»
Rehvenge scese dal letto portandosi via il piumone, strappandoglielo via da
sotto il sedere. Si mosse in fretta... ma non abbastanza da impedirle di vedere
che era in erezione.
Era duro. Grosso, lungo e duro come un femore.
Eppure sparì in bagno sbattendo la porta.
Poi la chiuse a chiave.
Capitolo 30
John disse ai suoi amici che andava a riposare in camera sua e, quando fu
certo che Qhuinn e Blay si erano bevuti quella balla, sgattaiolò fuori
attraverso gli alloggi della servitù e andò dritto alio ZeroSum.
Doveva sbrigarsi perché, sicuro come l'oro, uno dei due sarebbe passato a
vedere come stava e subito dopo avrebbe formato una squadra di ricerca.
Bypassando l'ingresso principale del club, andò nel vicolo dove una volta
aveva visto Xhex spaccare la testa a un imbecille con la lingua lunga e una
manciata di coca. Localizzata la telecamera di sicurezza sopra l'uscita laterale,
alzò la testa e fissò la lente.
Quando la porta si aprì non ebbe bisogno di guardare per sapere che era lei.
«Vuoi entrare?» disse lei.
John scosse la testa, per una volta incurante della barriera comunicativa.
Merda, non sapeva cosa dirle. Non sapeva perché era lì. C'era dovuto andare
e basta.
Xhex uscì dal club e si appoggiò alla porta con la schiena, accavallando gli
stivali dalla punta d'acciaio. «L'hai detto a qualcuno?»
Lui la guardò dritto negli occhi e scosse la testa.
«Hai intenzione di farlo?»
Lui scosse la testa.
In un tono dolce che non le aveva mai sentito e che non si aspettava, Xhex
sussurrò, «Perché?»
John si limitò a scrollare le spalle. Francamente, era sorpreso che lei non
avesse tentato di cancellare i suoi ricordi. Sarebbe stato più semplice. Più
pulito...
«Avrei dovuto cancellare i tuoi ricordi», disse lei, spingendolo a chiedersi se
gli avesse letto nel pensiero. «Ma ieri sera ero parecchio confusa; tu sei
scappato di corsa e non l'ho fatto. Naturalmente adesso sono ricordi a lungo
termine, così...»
Ecco perché era andato lì, si rese conto John. Voleva rassicurarla che non
avrebbe aperto bocca.
La scomparsa di Tohr aveva rafforzato quella decisione. Quando era andato
a parlargli e aveva scoperto che era sparito di nuovo, e di nuovo senza una
parola, dentro di lui era scattato qualcosa, come un masso spostato da una
parte all'altra del giardino, un cambiamento permanente nel paesaggio.
John era da solo. Quindi le sue decisioni erano soltanto sue. Rispettava
Wrath e la confraternita, ma non era un fratello e forse non lo sarebbe mai
diventato. Era un vampiro, certo, ma aveva trascorso quasi tutta la vita fuori
dalla comunità dei suoi simili, quindi la repulsione nei confronti dei symphath
era qualcosa che non aveva mai del tutto capito. Sociopatici? E allora cosa
dire di Zsadist e di V, e di come si comportavano prima di trovare una
Compagna?
No, non avrebbe denunciato Xhex al re perché fosse deportata in quella
colonia. Non se ne parlava proprio.
«Allora cosa vuoi?» Adesso la voce di lei si era fatta dura.
Dato il genere di soggetti disperati, opportunisti e leccaculo con cui Xhex
aveva a che fare, sera dopo sera, John non fu affatto sorpreso dalla domanda.
Sostenendo il suo sguardo, scosse la testa e fece il gesto di tagliarsi la gola.
Niente, sillabò.
Xhex lo guardò con i suoi gelidi occhi grigi, e John sentì che si stava
insinuando nella sua testa. La lasciò frugare tra i suoi pensieri per vedere se
era sincero, perché quello l'avrebbe rassicurata più di tante parole.
«Sei più unico che raro, John Matthew», disse piano lei. «La maggior parte
della gente avrebbe sfruttato la cosa a proprio vantaggio, specie visti tutti i
vizi che posso soddisfare qui al club.»
Lui fece spallucce.
«Allora, dove stai andando? E dove sono i tuoi amici?»
Lui scosse la testa.
«Ti va di parlare di Tohr?» Lui la guardò negli occhi. «Scusa, ma è nella tua
testa», disse Xhex.
John scosse di nuovo la testa; qualcosa gli sfiorò la guancia e lui guardò in
su. Stava cominciando a nevicare, piccoli fiocchi turbinavano nel vento.
«La prima nevicata dell'anno», commentò Xhex, staccandosi dalla porta. «E
tu sei senza giaccone.»
John si guardò; soltanto allora si accorse che era uscito in jeans e maglietta.
Per lo meno si era ricordato di infilarsi le scarpe.
Xhex infilò una mano in tasca e gli allungò qualcosa. Una chiave. Una
piccola chiave di ottone.
«So che non hai voglia di tornare a casa tua e io ne ho ima qui vicino. E
sicura e sottoterra. Vacci, se ti va, stacci per tutto il tempo che vuoi. Goditi la
solitudine che cerchi finché non ti sentirai meglio.»
John stava per scuotere la testa quando lei disse nell'Antico Idioma,
«Permettimi di sdebitarmi in questo modo.»
Lui prese la chiave senza sfiorarle la mano e sillabò, Grazie.
Dopo che Xhex gli ebbe dato l'indirizzo, John la lasciò in quel vicolo con la
neve che cadeva dal cielo notturno. Giunto sulla Trade si voltò a guardare da
sopra la spalla. Ancora ferma accanto all'uscita laterale, Xhex lo fissava con le
braccia conserte e gli stivali ben piantati per terra.
I fiocchi delicati che atterravano sui corti capelli scuri e Sulle spalle nude e
muscolose non la addolcivano minimamente. Non era un angelo che gli
faceva una gentilezza per motivi comprensibilissimi. Era sfuggente,
pericolosa e imprevedibile.
E lui l'amava.
John alzò la mano per salutarla e svoltò l'angolo, mescolandosi a una
processione di umani imbacuccati che passavano in fretta da un bar all'altro.
Xhex rimase ferma dov'era anche dopo che l'imponente fisico di John fu
uscito dal suo campo visivo.
Più unico che raro, pensò di nuovo. Quel ragazzino era più unico che raro.
Rientrando nel club sapeva che era solo una questione di tempo prima che i
suoi due amichetti, o magari addirittura i membri della confraternita, si
facessero vivi per cercarlo. Lei avrebbe risposto che non lo aveva visto e che
non aveva la più pallida idea di dove fosse.
Stop.
Lui proteggeva lei; lei proteggeva lui.
Fine della storia.
Stava uscendo dall'area VIP, quando sentì la voce del suo buttafuori
all'auricolare. Imprecando, alzò l'orologio per parlare nel transistor. «Portalo
nel mio ufficio.»
Dopo essersi assicurata che le ragazze fossero sparite, passò nel settore non
riservato del locale e vide il detective de la Cruz che veniva scortato
attraverso la calca dei clienti.
«Sì, Qhuinn?» disse senza voltarsi.
«Cristo, devi avere gli occhi anche dietro la testa.»
«E tu dovresti tenerlo a mente», ribatté lei, guardandolo da sopra la spalla.
L'ahstrux nohstrum di John era il tipo di maschio che la maggioranza delle
femmine avrebbero voluto farsi. E anche parecchi ragazzi. Tra la maglietta
della Affliction e il giubbotto da motociclista, aveva abbracciato anima e
corpo il nero-su-nero, ma il suo stile era un po' pasticciato. La cintura con gli
occhielli di metallo e il risvolto arrotolato dei jeans effetto usato ricordavano
troppo i Cure, gli spike ritti in testa, il piercing al labbro e le sette grosse
borchie nere al lobo sinistro erano emo, le New Rock con dieci centimetri di
suola erano dark e i tatuaggi sul collo erano alla Hart & Huntington.
Quanto alle armi che - Xhex lo sapeva benissimo - nascondeva nelle fondine
a spalla... be', quelle erano in puro stile Rambo, mentre i pugni lungo i fianchi
venivano dritti dritti dalle Arti Marziali Miste.
Nell'insieme, comunque, a prescindere dall'origine delle singole
componenti, era sesso allo stato puro e, da quello che lei aveva visto al club,
Qhuinn aveva messo a frutto tutto il suo fascino. Al punto che i bagni sul
retro erano un po' la sua base operativa.
Dopo essere stato promosso guardia del corpo di John, tuttavia, il ragazzo
si era dato una calmata.
«Cosa c'è?» chiese Xhex.
«Hai visto John?» «No.»
Qhuinn socchiuse gli occhi di due colori diversi. «Non l'hai visto per
niente?»
«No.»
Il ragazzo la fissava sospettoso, ma non ne avrebbe cavato niente, Xhex ne
era più che sicura: mentire era al secondo posto, subito dopo l'assassinio,
nell'elenco delle sue abilità.
«Maledizione», bofonchiò lui, guardandosi intorno.
«Se lo vedo gli dico che lo stai cercando.»
«Grazie.» Qhuinn tornò a concentrarsi su di lei. «Senti, non so cosa cazzo è
successo tra voi due, e non sono affari mi...»
Xhex alzò gli occhi al cielo. «Il che chiaramente spiega perché adesso lo stai
tirando in ballo.»
«John è un bravo ragazzo. Tienilo a mente, okay?» Lo sguardo verdeazzurro di Qhuinn aveva quel tipo di lucidità che solo una vita davvero dura
può darti. «Un sacco di gente ci resterebbe male se venisse piantato nella
merda. Specialmente io.»
Nel silenzio che seguì, Xhex dovette riconoscergli un certo coraggio: quasi
nessuno aveva le palle di tenerle testa e, sotto il tono neutro con cui aveva
parlato, la minaccia era evidente.
«Sei in gamba, Qhuinn, lo sai? Sei uno a posto.»
Xhex gli diede una pacca sulla spalla prima di avviarsi verso il suo ufficio.
Il re era stato scaltro, quando lo aveva scelto per il ruolo di ahstrux nohstrum.
Qhuinn era un puttaniere depravato, ma era anche un killer fatto e finito, ed
era contenta che fosse lui a vegliare sul suo ragazzo.
A vegliare su John Matthew, cioè.
Perché non era il suo ragazzo. Neanche un po'.
Giunta davanti alla porta del suo ufficio, la spalancò senza esitazione.
«Buonasera, detective.»
José de la Cruz sfoggiava un altro spezzato da grandi magazzini e tanto lui
quanto il suo vestito, nonché il cappotto che copriva il tutto, avevano un'aria
sciupata.
«'Sera», disse il detective.
«Cosa posso fare per lei?» Xhex si sedette dietro la scrivania e gli fece cenno
di prendere la sedia che aveva usato l'ultima volta.
Lui non accolse l'invito. «Saprebbe dirmi dove si trovava la notte scorsa?»
Non del tutto, pensò lei. Perché a un certo punto aveva ucciso un vampiro,
e quelli non erano affari suoi.
«Ero qui al club. Perché?»
«C'è qualcuno in grado di confermarlo?»
«Sì. Può parlare con iAm o con chiunque altro del mio staff. A patto che mi
dica cosa cavolo sta succedendo.»
«Ieri notte abbiamo rinvenuto un indumento appartenente a Grady su una
scena del delitto.»
Oh, cazzo, se qualcun altro aveva impallinato quel figlio di puttana si
sarebbe incazzata. «Ma non il suo cadavere?»
«No. Era un giubbotto con un'aquila sulla schiena; lo portava sempre, era
risaputo. La sua firma, per così dire.»
«Interessante. Ma perché vuole sapere dov'ero?»
«Il giubbotto è macchiato di sangue. Non siamo sicuri se sia il sangue di
Grady oppure no, ma lo scopriremo domani.»
«E, di nuovo, perché vuole sapere dov'ero?»
De la Cruz piantò i palmi sulla scrivania e si piegò in avanti, gli occhi color
cioccolato seri da morire. «Perché ho come il sospetto che le piacerebbe
vederlo morto.»
«Gli uomini che picchiano le donne non mi piacciono, è vero, Ma tutto ciò
che lei ha in mano è il suo giubbotto, niente cadavere e, soprattutto, ieri notte
io ero qui. Per cui, se qualcuno l'ha fatto secco, non ero io.»
Il detective si raddrizzò. «Farete un funerale per Chrissy?»
«Sì, domani. Il necrologio è comparso sul giornale di oggi. Forse non aveva
molti parenti, ma era molto benvoluta in Trade Street. Qui siamo tutti una
grande famiglia felice.» Xhex abbozzò un sorrisetto. «Si metterà una fascia
nera al braccio per lei, detective?»
«Sono invitato?»
«È un paese libero. E poi lei verrebbe comunque, giusto?»
De la Cruz le rivolse un sorriso sincero e i suoi occhi persero molta della
loro aggressività. «Già. Le spiace se parlo con i suoi alibi? Raccolgo qualche
dichiarazione...»
«Niente affatto. Li faccio venire subito.»
Mentre Xhex parlava nell'orologio, il detective si guardò intorno e quando
lei abbassò il braccio disse, «I fronzoli non sono la sua passione, eh?»
«Mi piacciono le cose essenziali. Solo quello che mi serve e niente di più.»
«Huh. Mia moglie si diletta di arredamento, invece. Ha la capacità di
rendere le case accoglienti. E bello.»
«Sembra una donna in gamba.»
«Oh, lo è. E in più fa il miglior queso che abbia mai mangiato.» De la Cruz
la guardò. «Sa, ho sentito un sacco di cose su questo club.» «Ah sì?»
«Sì. In particolare dalla Buoncostume.» «Ah.»
«E, a proposito di Grady, ho fatto i compiti. È stato arrestato l'estate scorsa
per possesso di stupefacenti. E ancora in attesa di giudizio.»
«Be', so che verrà processato.»
«È stato licenziato da questo club appena prima del suo arresto, vero?»
«Per aver rubato dei contanti dal bar.»
«E non lo avete denunciato?»
«Se dovessi telefonare alla polizia ogni volta che uno dei miei dipendenti
frega un po' di grana dovrei inserire il vostro numero nelle chiamate rapide.»
«Ma ho sentito che non è l'unico motivo per cui l'avete cacciato via.»
«Non mi dica.»
«Trade Street, come ha detto lei, è una famiglia a sé... ma non significa che
non girino delle chiacchiere. E mi è stato detto che Grady è stato licenziato
perché spacciava qui al club.»
«Be', sarebbe più che logico, non le pare? Non permetteremmo mai a
nessuno di spacciare nel nostro locale.»
«Perché è territorio del suo capo e lui non gradisce la concorrenza.»
Xhex sorrise. «Non c'è nessuna concorrenza, qui, detective.»
Ed era la verità. Rehvenge era il capo. Punto. Se un qualunque
cazzone da strapazzo cercava di spacciare piccole quantità di roba, sotto il
tetto del club veniva punito. Senza pietà.
«A essere sincero non so bene come abbiate fatto», mormorò de la Cruz.
«Da anni girano voci su questo posto, ma nessuno è1 mai stato in grado di
raccogliere elementi sufficienti a giustificare un mandato di perquisizione.»
E questo perché le teste umane, comprese quelle attaccate sopra le spalle
degli sbirri, sono facilmente manipolabili. Qualunque cosa fosse stata vista o
sentita si poteva cancellare in un batter d'occhio.
«Qui non succede niente di losco», disse Xhex. «Ecco come facciamo.»
«Il suo capo è nei paraggi?»
«No, stasera è fuori.»
«Quindi le affida la gestione del locale, quando è via.»
«Come me, non sta mai via troppo a lungo.»
De la Cruz annuì. «Ottima politica. A proposito, non so se ha sentito, ma
sembra che sia in corso una guerra per il territorio.»
«Una guerra per il territorio? Credevo che le due metà di Caldwell fossero
in pace. Il fiume non è più una linea di confine.»
«Territorio nel senso di zona di spaccio. È una guerra tra spacciatori.»
«Non ne so niente.»
«Questo è l'altro caso a cui sto lavorando al momento. Abbiamo trovato due
spacciatori morti vicino al fiume.»
Xhex si accigliò, sorpresa di non saperne niente. «Be', la droga è un settore
pieno di rischi.»
«Gli hanno sparato alla testa, a tutti e due.»
«Be', questo sì che può scatenare una guerra tra bande.»
«Ricky Martinez e Isaac Rush. Li conosce?»
«Ne ho sentito parlare, ma ne hanno parlato i giornali.» Posò la mano sulla
copia del Caldwell Courier Journal ordinatamente piegata sulla scrivania. «E io
sono una gran lettrice.»
«Quindi avrà visto l'articolo su di loro, oggi.»
«Non ancora, ma stavo giusto per concedermi una pausa. Devo farmi la mia
dose quotidiana di Dilbert.»
«E quella striscia a fumetti ambientata in un ufficio? Io sono stato per anni
un fan di Calvin e Hobbes. Mi è spiaciuto un casino quando è finito e dopo
non mi sono mai veramente appassionato a quelli nuovi. Mi sa che sono un
po' antiquato.»
«I gusti sono gusti. Non c'è niente di male.»
«E quello che dice mia moglie.» De la Cruz lasciò vagare di nuovo lo
sguardo per la stanza. «Dunque, un paio di persone hanno detto che quei due
sono entrati in questo club, ieri sera.»
«Calvin e Hobbes? Uno era un bambino e l'altro una tigre. Nessuno dei due
avrebbe passato il vaglio dei miei buttafuori.»
De la Cruz sogghignò brevemente. «No, Martinez e Rush.»
«Ah, be', ha visto anche lei il locale. Ci transita un mare di gente ogni sera.»
«Verissimo. È uno dei club più frequentati della città.» De la Cruz infilò le
mani in tasca, il cappotto scivolò all'indietro e la giacca si gonfiò all'altezza
del petto. «Uno dei tossici che vivono sotto il ponte ha visto una Ford
vecchiotta insieme a una Mercedes nera e a una Lexus tutta cromata lasciare
la zona poco dopo che avevano fatto la festa a quei due.»
«Gli spacciatori possono permettersi belle macchine. Non so bene cosa
pensare della Ford.»
«Cosa guida il suo capo? Una Bendey, giusto? O ha cambiato macchina?»
«No, ha ancora la B.»
«Auto costosa.»
«Molto.»
«Conosce qualcuno con una Mercedes nera? Perché alcuni testimoni ne
hanno vista una nei pressi dell'appartamento in cui abbiamo trovato il
giubbotto di Grady.»
«No, non conosco nessuno con una Mercedes.»
Bussarono alla porta. Erano Trez e iAm; al loro confronto il detective
sembrava una Honda parcheggiata tra una coppia di Hummer.
«Be', vi lascio soli», disse Xhex, con assoluta fiducia nei due migliori amici
di Rehv. «Ci vediamo al funerale, detective.»
«Se non prima. Ehi, non ha mai pensato di prendere una pianta per qui
dentro? Potrebbe fare la differenza.»
«No, ho un talento speciale per far morire le cose», disse Xhex con un
sorriso tirato. «Sa dove trovarmi. A presto.»
Una volta chiusa la porta alle sue spalle, Xhex smise di recitare e si accigliò.
Le guerre tra bande non fanno bene agli affari e se Martinez e Rush erano
stati freddati significava che, malgrado il gelo di dicembre, a Caldwell
l'atmosfera si stava surriscaldando.
Merda, ci mancava solo questa.
Le vibrazioni provenienti dalla sua tasca le segnalarono che qualcuno
cercava di contattarla; appena vide chi era rispose alla chiamata.
«Hai già trovato Grady?» chiese sottovoce.
La voce profonda di Big Rob trasudava frustrazione. «Quello stronzo
dev'essersi dato alla macchia. Silent Tom e io abbiamo battuto tutti i locali,
siamo stati a casa sua e anche da un paio dei suoi amici.»
«Continuate a cercare, ma state attenti. Hanno appena trovato il suo
giubbotto su un'altra scena del crimine. Gli sbirri gli stanno alle costole.»
«Non molliamo finché non ce l'abbiamo nel mirino per lei.» «Bravo. Adesso
chiudi il telefono e rimettiti sulle sue tracce.»
«Agli ordini, capo.»
Capitolo 31
In bagno era buio pesto; Rehvenge andò a sbattere contro una delle pareti
di marmo, incespicò nel pavimento di marmo e rimbalzò contro il piano di
marmo dei lavandini. Il suo corpo era vivo e fremente di sensazioni: sentiva il
dolore al fianco dove aveva sbattuto, il respiro affannoso gli procurava un
bruciore ai polmoni, il cuore martellava contro lo sterno.
Lasciò andare il piumone di raso, accese le luci con la forza del pensiero e
guardò in giù.
Il suo uccello era grosso e rigido, il glande lucido e pronto alla
penetrazione.
Porca puttana.
Si guardò intorno. La sua vista era normale, il bagno bianco, nero e acciaio,
il bordo della Jacuzzi spuntava dal pavimento, la profondità evidente.
Eppure, anche se non c'era niente di piatto o di rosso rubino, i suoi sensi
erano acuti come non mai, il sangue ribolliva infocato nelle vene, la pelle era
pronta a farsi toccare, l'orgasmo nella sua erezione urlava per essere liberato.
Era innamorato perso di Ehlena.
Il che significava - almeno adesso che moriva dalla voglia di fare sesso con
lei - che il vampiro in lui stava sopraffacendo il symphath.
Il suo bisogno di possederla trionfava sulla tenebra che aveva dentro.
Dovevano essere gli ormoni legati all'innamoramento, pensò. Ormoni che
avevano sballato la sua chimica interna.
Quella sua nuova realtà non gli procurò nessuna gioia incontenibile, nessun
senso di trionfo, nessun impulso di gettarsi addosso a lei e pompare con
vigore. Riuscì solo a fissare il suo uccello pensando a dove l'aveva infilato
l'ultima volta, a quello che ci aveva fatto... con lui e col resto del suo corpo.
Gli veniva voglia di strapparselo via.
Per nulla al mondo lo avrebbe condiviso con Ehlena. Solo che... non poteva
tornare in camera così.
Lo strinse nella grossa mano e si accarezzò. Oh... cazzo... che bello...
Fantasticò di fare sesso orale con Ehlena, di sentire in bocca il suo fuoco, giù
giù fino in gola. Rivide le sue cosce spalancate, la vulva morbida e lucente di
umori, e se stesso che faceva scivolare le dita avanti e indietro mentre lei
gemeva dimenando il...
I testicoli si indurirono come pugni e le reni vennero percorse da un
fremito, e quel suo uncino disgustoso scattò, anche se non aveva nulla a cui
agganciarsi. Un ruggito minacciò di sfuggirgli, ma lui lo soffocò, mordendosi
il labbro fino a farlo sanguinare.
Venne sulla sua mano ma continuò a masturbarsi, appoggiandosi al piano
di marmo. Raggiunse più volte l'orgasmo, sporcando tutto lo specchio e i
lavandini, ma ancora non gli bastava - era come se il suo corpo non eiaculasse
da, tipo, cinquecento anni.
Quando alla fine la tempesta passò, Rehv si accorse che... merda, era
appiccicato al muro, la faccia premuta contro il marmo, le spalle curve, le
cosce che fremevano, neanche avesse dei cavi da trazione collegati alle scarpe.
Con mani tremanti pulì tutto, usando una delle salviette piegate con cura
sul portasciugamani, passandola sul piano di marmo, sullo specchio e sul
lavandino. Poi si lavò mani, uccello, stomaco e gambe perché si era sporcato
tutto, come quel bagno del cavolo.
Quando finalmente, dopo almeno un'ora, allungò la mano verso la
maniglia, quasi si aspettava che Ehlena se ne fosse andata, e non poteva certo
biasimarla: la femmina con cui in pratica aveva fatto l'amore gli offre la vena
e lui scappa in bagno atterrito e si chiude dentro a chiave.
Perché gli viene duro.
Gesù Cristo. La serata, cominciata maluccio, si era trasformata in un
tamponamento a catena, un groviglio di automobili sulla via di
Rapportolandia, la meta di chiunque sia avviato verso una relazione
sentimentale.
Rehv si fece coraggio e aprì la porta.
Appena la luce invase la camera da letto, Ehlena si rizzò a sedere tra le
lenzuola, preoccupata e... tutt'altro che critica. Non voleva farlo stare ancora
peggio, anzi. Non c'era traccia di condanna o calcolo, in lei, solo genuina
preoccupazione.
«Stai bene?»
Be', bella domanda.
Rehvenge chinò il capo e, per la prima volta, provò l'impulso di confidarsi
con un'altra persona. Neanche con Xhex, che ne aveva passate anche più di
lui, provava il bisogno di sfogarsi. Ma davanti a Ehlena, che lo fissava con i
suoi occhi nocciola sgranati e pieni di calore in quel volto incantevole,
perfetto, gli venne voglia di confessare tutto ciò che di sporco, schifoso,
meschino e malvagio aveva fatto in vita sua.
Giusto per essere onesto.
Già, ma in che posizione l'avrebbe cacciata, mettendo in tavola tutta la sua
vita? Ehlena sarebbe stata costretta a denunciarlo come symphath, temendo
per la sua stessa vita. Bel risultato. Complimenti.
«Vorrei essere diverso», disse, che poi era la cosa più vicina alla verità che
potesse permettersi, una verità che li avrebbe separati per sempre. «Vorrei
essere una persona diversa.»
«Io no.»
Perché non lo conosceva. Non per davvero. Eppure non sopportava l'idea
di non rivederla più, dopo quella notte passata insieme.
Così come non tollerava il pensiero che fosse terrorizzata da lui.
«Se ti chiedessi di tornare qui», disse, «e di permettermi di stare con te,
accetteresti?»
Lei non ebbe esitazioni. «Sì.»
«Anche se le cose non potessero essere... normali... tra noi? Sessualmente
parlando?» «Sì.»
Lui si accigliò, «Quello che sto per dire ti suonerà male...»
«Non fa niente; ho fatto anch'io la mia bella gaffe con te, in clinica. Così
almeno saremo pari.»
Rehv non potè fare a meno di sorridere, ma subito si rabbuiò. «Devo
sapere... perché. Perché accetteresti di tornare.»
Ehlena si allungò di nuovo sui cuscini e, con gesto languido e sensuale,
mosse la mano sopra il lenzuolo di raso che le copriva l'addome. «Ho una
sola risposta alla tua domanda, ma non credo che sia quello che vuoi sentire.»
Il gelido torpore, che stava tornando come i residui di quegli orgasmi che
aveva dissipato, accelerò la presa sul suo corpo.
Ti prego, fa' che non sia per pietà, pensò Rehv. «Dimmelo.»
Ehlena rimase a lungo in silenzio, spostando lo sguardo sul panorama
sfolgorante delle due metà di Caldwell.
«Vuoi sapere perché sarei pronta a tornare?» disse piano. «La sola risposta
che ho è... come potrei non farlo?» Lo guardò dritto negli occhi. «Per certi
versi mi sembra assurdo, ma d'altronde i sentimenti non hanno senso, no? E
non devono averne per forza. Stanotte... mi hai regalato sensazioni che non
solo non provavo da tantissimo tempo, ma che credo di non aver mai
provato.»
Scosse la testa. «Ieri ho preparato un cadavere... il cadavere di un mio
coetaneo, il cadavere di qualcuno che molto probabilmente era uscito di casa,
la sera in cui è stato ucciso, senza immaginare minimamente che sarebbe stata
la sua ultima sera. Non so fin dove arriverà questa...», così dicendo mosse la
mano avanti e indietro, tra loro due, «... cosa tra noi. Magari durerà solo una
notte o due. Magari un mese. Magari un decennio o anche più. So solo che la
vita è troppo breve per non tornare qui e stare di nuovo così, con te. La vita è
troppo breve, ecco, e stare con te mi piace troppo perché me ne freghi
qualcosa del resto, mi importa solo vivere un altro momento come questo.»
Rehvenge la fissava, il petto gonfio di gioia e commozione. «Eh- lena?»
«Sì?»
«Non prenderla per il verso sbagliato.»
Ehlena fece un gran sospiro; Rehv vide contrarsi le sue spalle nude. «Okay.
Ci proverò.»
«Se continui a venire qui, a essere così come sei.» Fece una pausa. «Mi
innamorerò di te.»
John trovò facilmente la casa di Xhex perché era a soli dieci isolati di
distanza dallo ZeroSum, anche se sembrava di stare in un altro mondo. Gli
eleganti edifici in arenaria lungo la strada erano in stile vecchio continente, e
quei ghirigori intorno ai bovindi gli davano l'idea che fossero vittoriani...
anche se non sapeva da dove gli derivasse tale convinzione.
Xhex non possedeva tutto un palazzo, ma un appartamento al seminterrato
di un edificio senza ascensore particolarmente bello. Sotto i gradini di pietra
che salivano dal marciapiede c'era una rientranza; John vi sgattaiolò dentro e
infilò la chiave in una strana serratura color rame. Appena entrato si accese
una luce. Non vide nulla di eccitante: lastre di pietra rosse sul pavimento,
blocchi di calcestruzzo imbiancati alle pareti. In fondo c'era un'altra porta con
un'altra strana serratura.
Si aspettava che Xhex vivesse in qualche posto esotico e pieno di armi.
Con montagne di collant autoreggenti e scarpe coi tacchi a spillo.
Ma quelle erano solo fantasie sue.
In fondo al corridoio aprì l'altra porta e si accesero altre luci. La stanza che
aveva davanti era senza finestre e vuota, salvo che per un letto; la quasi totale
assenza di arredamento non fu una sorpresa, data la nudità dell'atrio.
All'altro capo della stanza c'era un bagno, ma niente cucina, niente telefono,
niente TV. L'unica nota di colore della stanza era il miele delle vecchie assi di
pino del pavimento. I muri, come il corridoio, erano imbiancati, ma di
mattoni.
L'aria era sorprendentemente fresca, ma poi notò le bocchette di
ventilazione. Ce n'erano tre.
John si levò il giubbotto di pelle e lo posò sul pavimento. Poi si tolse gli
stivali, tenendo i pesanti calzettoni neri.
In bagno usò il water e si sciacquò la faccia.
Niente asciugamani. Usò i lembi della pesante camicia nera.
Si stese sul letto senza levarsi le armi, ma non perché avesse paura di Xhex.
Dio, forse era uno stupido. La prima cosa che gli avevano insegnato al corso
di addestramento della confraternita era che non bisogna mai fidarsi dei
symphath, e invece eccolo lì, a rischiare la vita stando nella casa di uno di
loro... per tutto il giorno, probabilmente, senza aver detto a nessuno dov'era.
Eppure era proprio ciò di cui aveva bisogno.
Al calar della sera avrebbe deciso il da farsi. Non voleva sfilarsi dalla
guerracombattere gli piaceva troppo. Gli sembrava... giusto, e non solo per la
difesa della specie. Gli sembrava quello che doveva fare, quello per cui era
nato e cresciuto.
Ma non era sicuro di poter tornare a vivere nella grande casa della
confraternita.
Dopo un po' che era lì immobile le luci si spensero e lui restò a fissare il
buio. Sdraiato a letto con la testa appoggiata a uno dei due cuscini piuttosto
duri, si rese conto che era la prima volta che era davvero solo da quando
Tohr, a bordo di una enorme Range Rover nera, era andato a prelevarlo in
quello schifo di appartamento.
Con incredibile chiarezza ricordò com'era stato vivere in quello squallido
buco di monolocale nella parte più pericolosa di Caldie. Ogni sera era
terrorizzato perché era tutto pelle e ossa, debole e indifeso; per via dello
stomaco delicatissimo beveva solo integratori alimentari e pesava meno di un
aspirapolvere. La porta che lo separava dai drogati, dalle prostitute e dai topi
grossi come somari gli sembrava sottile come un foglio di carta.
Aveva sognato di fare del bene nel mondo, E tuttora lo sognava.
Aveva sognato di innamorarsi di una donna e stare con lei, E tuttora lo
sognava.
Aveva sognato di trovare una famiglia, avere una madre e un padre, di fare
parte di un clan.
Questo non lo sognava più.
Stava cominciando a capire che le emozioni del cuore sono come i tendini
del corpo. Potevi tirarle e tirarle e tirarle e sentire il dolore della torsione e
dello stiramento... fino a un certo punto l'articolazione continuava a
funzionare e l'arto si piegava ed era in grado di reggere il peso e mantenersi
efficiente anche quando non era più sotto stress. Ma non poteva durare
all'infinito.
Lui si era spezzato. E non esisteva un equivalente emotivo del- l'artroscopia
chirurgica, ne era più che sicuro.
Nel tentativo di far riposare la testa per non impazzire, si concentrò su
quello che aveva intorno. La stanza era silenziosa, a parte una specie di
stufetta elettrica che però non faceva troppo rumore, e il palazzo sopra di lui
era deserto, nessun rumore di gente che girava per casa.
Chiuse gli occhi, sentendosi più al sicuro di quanto probabilmente avrebbe
dovuto.
D'altra parte era abituato a stare per conto suo. Il periodo trascorso con
Tohr e Wellsie, e poi con la confraternita, era un'anomalia. Era nato in quella
stazione degli autobus da solo, e da solo, sebbene circondato da un branco
sempre diverso di bambini, era stato all'orfanotrofio. E poi da solo era uscito
nel mondo esterno.
Era stato violentato e aveva superato il trauma senza l'aiuto di nessuno. Si
era ammalato e si era curato da solo. Si era fatto strada nella vita meglio che
poteva e con esiti tutt'altro che disprezzabili.
Era ora di tornare alle fondamenta.
E al fulcro del suo Io.
Il periodo con Wellsie e Tohr... e con i fratelli... era come un esperimento
mal riuscito... qualcosa che all'inizio sembrava avere un certo potenziale ma
che, alla fin fine, si era rivelato un fallimento.
Capitolo 32
Di notte o di giorno, per lui non faceva differenza. Questo pensava Lash
mentre, insieme a Mr D, entrava nel parcheggio di un mulino abbandonato
tracciando un ampio arco coi fari della Mercedes; non gli importava
incontrare il re dei symphath a mezzogiorno o a mezzanotte, perché in qualche
modo non era più intimorito da quel figlio di puttana.
Chiuse la 550 e con Mr D attraversò una distesa di asfalto in rovina fino a
un portone parecchio robusto, considerate le condizioni del fabbricato. Grazie
al nevischio lo scenario sembrava uscito da una pubblicità per pittoresche
vacanze nel Vermont, sempre che non si guardasse troppo da vicino il tetto
cadente o il rivestimento esterno tutto rovinato.
Il symphath era già dentro. Lash ne ebbe la certezza appena sentì il nevischio
turbinare sulle guance e udì scricchiolare la ghiaia sotto gli anfibi.
Mr D aprì la porta e Lash entrò per primo, per dimostrare che non aveva
bisogno di mandare avanti un sottoposto. All'interno del mulino non c'era
nulla, solo una gran massa di aria gelida, poiché l'edificio rettangolare era
stato ripulito da tempo di tutto ciò che potesse avere una qualche utilità.
Il symphath aspettava verso E fondo, accanto alla gigantesca ruota immersa
nel fiume come una vecchia cicciona che si godeva un bel bagno rinfrescante.
«Salve, amico mio, sono qui. È sempre un piacere vederti», lo salutò il re dei
symphath, facendo riecheggiare contro le travi del soffitto i suoi sibili da
serpente.
Lash si avvicinò lentamente, senza fretta, controllando e ricontrollando le
ombre proiettate dalle finestre. Niente. C'era solo il re. Bene.
«Hai riflettuto sulla mia proposta?» chiese il re.
Lash non era in vena di cazzeggiare. Dopo il casino col ragazzo delle
consegne di Domino's, la sera prima, e il fatto che entro un'oretta ci sarebbe
stato un altro spacciatore da far fuori, non era il momento di giocare.
«Sì. E sai una cosa? Non sono sicuro di doverti fare dei favori. Sto pensando
che o mi dai quello che voglio o... forse manderò i miei uomini su al nord a
massacrare te e tutti gli altri scherzi della natura che vivono lassù.»
Il piatto volto pallido del re si aprì in un placido sorriso. «E cosa ne
ricaveresti? Distruggeresti proprio gli strumenti con cui vuoi spuntarla sul
tuo nemico. Non sarebbe logico. Nessun condottiero farebbe mai un passo
simile.»
Lash sentì formicolare la punta dell'uccello, eccitato dal rispetto ispiratogli
dal re, anche se si rifiutava di ammetterlo. «Sai, non credo proprio che un re
abbia bisogno di aiuto. Perché non puoi arrangiarti da solo con
quell'omicidio?»
«Ci sono circostanze attenuanti e vantaggi nel farlo apparire come un
decesso estraneo alla mia influenza. Col tempo imparerai che le
macchinazioni nell'ombra a volte sono molto più efficaci di quelle condotte
alla luce del sole, davanti alla propria popolazione.»
Uno a zero per il symphath, anche se, di nuovo, Lash non era disposto a
fargli i suoi complimenti.
«Non sono poi così giovane», disse invece. 'Fanculo, era invecchiato
minimo un miliardo di anni negli ultimi quattro mesi.
«Ma neanche così vecchio. Meglio rimandare a un altro momento questa
conversazione, tuttavia.»
«Non sono in cerca di uno psicologo.»
«È un peccato. Entrare nella testa degli altri mi piace, ci so fare.»
Già, lo vedo, pensò Lash. «Questo tuo bersaglio, è un maschio o una
femmina?»
«Ha importanza?»
«Neanche un po'.»
Il symphath s'illuminò tutto, letteralmente. «E un maschio. E, come ho già
detto, siamo in presenza di circostanze insolite.»
«In che senso?»
«Sarà difficile arrivare fino a lui. Ha delle guardie del corpo parecchio
spietate.» Il re fluttuò verso una finestra e guardò fuori. Un istante dopo voltò
la testa come fanno i gufi, ruotando il collo di quasi centottanta gradi sulla
spina dorsale, poi, per un attimo, nei suoi occhi bianchi si accese un lampo
rosso fuoco. «Te la senti di portare a termine questa penetrazione?» «Sei
gay?» sbottò Lash.
Il re rise. «Vuoi dire se preferisco gli amanti del mio stesso sesso?»
«Già.»
«La cosa ti metterebbe a disagio?»
«No.» Sì, perché in un certo senso avrebbe dimostrato che andava su di giri
per uno che pendeva da quella parte,
«Non sei molto bravo a mentire», mormorò il re. «Ma invecchiando
imparerai.»
'Fanculo. «Io invece non penso che tu sia potente come credi.»
Sgombrato il campo dalle speculazioni sessuali, Lash capì di aver messo il
dito sulla piaga. «Attento ai paragoni...»
«Vostra Altezza si risparmi i pronostici stile oroscopo da giornaletto di
provincia. Se sotto quella tunica avessi un bel paio di palle ti libereresti da
solo di quel tizio.»
Il re si rasserenò in volto, come se con quello sfogo Lash avesse appena
dimostrato la propria inferiorità. «E invece preferisco che se ne occupi
qualcun altro. Molto più sofisticato, anche se non mi aspetto che tu capisca.»
Lash si smaterializzò proprio davanti al re e gli strinse le mani intorno al
collo sottile, poi, con uno spintone, lo schiacciò contro il muro.
Si guardarono negli occhi e, appena Lash sentì che l'altro tentava di
insinuarsi nella sua mente, istintivamente sbarrò l'ingresso al suo lobo
frontale.
«Non riuscirai a entrarmi nella testa, stronzo. Spiacente.»
Lo sguardo del re diventò rosso sangue. «No.»
«No cosa?»
«Non preferisco gli amanti del mio stesso sesso.»
Conclusione perfetta della schermaglia verbale di poco prima,
naturalmente: il sottinteso era che Lash gli stava appiccicato perché, dei due,
era lui quello con un debole per il pisello. Lash lasciò andare il re e si mise a
camminare su e giù per la stanza.
Adesso la voce del re era meno simile al sibilo di una serpe e più piatta e
concreta. «Tu e io siamo molto bene assortiti. Credo che otterremo tutti e due
quello che vogliamo da questa alleanza.»
Lash si voltò a fronteggiarlo. «Questo tizio, quello che vuoi morto, dove lo
trovo?»
«Il tempismo dev'essere perfetto. Il tempismo... è tutto.»
Rehvenge guardava Ehlena che si rivestiva e, anche se rivederla con
addosso quell'uniforme non era esattamente quello che voleva, lo spettacolo
di lei che si chinava e, lentamente, si infilava i collant non era niente male.
Proprio niente male.
Ridendo, lei raccolse il reggiseno e lo fece roteare intorno al dito. «Posso
mettermelo, adesso?»
«Assolutamente.»
«Vuoi che me la prenda comoda anche con questo?»
«Pensavo solo che con le calze fosse meglio non avere fretta.» Rehv fece un
sorriso da sciupafemmine, come peraltro si sentiva. «Sì, insomma, possono
smagliarsi, giust... Oh, misericordia...»
Senza attendere che lui completasse la frase, Ehlena inarcò la schiena
passandosi il reggiseno intorno al busto. Le piccole contorsioni che fece per
agganciarlo sul davanti lo lasciarono senza fiato... e questo prima che si
infilasse le spalline, lasciando le coppe incuneate sotto i seni.
Ehlena gli andò vicino. «Ho dimenticato come si mette. Mi aiuti?»
Rehv la attirò a sé con un ringhio, risucchiando in bocca un capezzolo e
stuzzicando l'altro col pollice. Sentendola ansimare, sistemò le coppe.
«Sono contento di essere l'addetto alla tua biancheria intima ma, sai, stavi
meglio senza.» Rehv alzò e abbassò le sopracciglia con fare allusivo e lei rise
così di gusto da fermargli il cuore. «Mi piace come ridi.»
«E a me piace farlo.»
Ehlena infilò i piedi nell'uniforme da infermiera e la tirò su,
abbottonandola.
«Peccato», fece lui.
«Vuoi sapere una cosa sciocca? L'ho messa anche se stasera non devo
andare al lavoro.»
«Sul serio? Perché?»
«Volevo mantenere le cose su un piano professionale, e invece eccomi qua,
felice che non sia andata così.»
Rehv si alzò e la prese tra le braccia, incurante ormai della propria nudità.
«Anch'io sono felice.»
La baciò teneramente e quando si scostarono lei disse, «Grazie per la
splendida serata.»
Rehv le infilò i capelli dietro le orecchie. «Che cosa fai domani?»
«Lavoro.»
«Quando stacchi?»
«Alle quattro.»
«Ci vediamo qui?»
«Sì», disse lei senza esitare.
Mentre uscivano dalla camera da letto e attraversavano la biblioteca, Rehv
disse, «Adesso vado a trovare mia madre.»
«Ah sì?»
«Sì, mi ha telefonato dicendo che voleva vedermi. Non lo fa mai.» Gli
sembrava così naturale condividere con lei i dettagli della sua vita. Be', alcuni,
quanto meno. «E tutta la vita che cerca di rendermi più spirituale, e spero che
non sia un invito a farmi entrare in qualche specie di ritiro.»
«Che cosa fai, a proposito? Di lavoro.» Ehlena rise. «So così poco di te.»
Rehv si concentrò sulla vista della città, al di sopra della spalla di lei. «Oh,
un sacco di cose. Per lo più nel mondo umano. Ho solo mia madre a cui
badare, adesso che mia sorella si è sposata.»
«Dov'è tuo padre?»
Sottoterra, dove merita di stare, lo stronzo. «È mancato.»
«Mi dispiace.»
Lo sguardo affettuoso di Ehlena gli accese nel petto quello che aveva tutta
l'aria di essere un barlume di senso di colpa. Rehv non rimpiangeva di aver
ucciso il suo vecchio, gli dispiaceva solo di nasconderle tante cose.
«Grazie», disse, rigido.
«Non voglio ficcare il naso, nella tua vita o nella tua famiglia, sono solo
curiosa, ma se preferisci...»
«No, è solo che...v non sono abituato a parlare di me stesso.» Era la pura
verità. «E... è un cellulare quello che sta suonando?»
Ehlena si accigliò, allontanandosi brusca. «È il mio. Nel cappotto.»
A grandi passi andò in sala da pranzo e, quando rispose, la tensione nella
sua voce era evidente. «Sì? Oh, ciao! Sì, no, io... adesso? Ma certo. E la cosà
buffa è che non devo neanche cambiarmi perché... Oh. sì. Ah-hah. Va bene.»
Giunto sulla soglia della sala da pranzo, Rehv sentì lo scatto del telefonino
che si chiudeva. «Tutto bene?»
«Ah, sì. Cose di lavoro.» Ehlena si avvicinò, infilandosi il cappotto. «Non è
niente. Problemi coi turni del personale, probabilmente.»
«Vuoi che ti dia un passaggio in macchina?» Dio, gli sarebbe piaciuto da
matti accompagnarla al lavoro, e non solo perché così avrebbero potuto stare
ancora un po' insieme. Un maschio vuole fare delle cose per la sua femmina.
Proteggerla. Occuparsi di lei...
Be', ma, cosa cavolo gli prendeva? Non che gli spiacessero i pensieri che lei
gli ispirava, ma era come se qualcuno gli avesse cambiato il CD. E, no, non
era quel cacchio di Barry Manilow.
Anche se adesso nel lettore c'era decisamente qualcosa dei Ma- roon 5.
Bleah.
«No, non ce n'è bisogno, ma grazie.» Ehlena si fermò davanti a una delle
vetrate scorrevoli. «Stanotte è stata una tale... rivelazione.»
Rehv si avvicinò, le prese il volto tra le mani e la baciò con trasporto. Poi
sussurrò, sensuale. «Solo grazie a te.»
Lei allora sorrise radiosa, illuminandosi tutta, e, all'improvviso, Rehvenge
fu assalito dal desiderio di spogliarla di nuovo per venire dentro di lei:
sentiva urlare dentro di sé l'istinto di marchiarla e l'unico modo per placarlo
fu dirsi che le aveva lasciato il suo odore sulla pelle.
«Mandami un SMS quando arrivi alla clinica, così saprò che sei al sicuro.»
«Va bene.»
Un ultimo bacio, poi lei uscì sul terrazzo e sparì nella notte.
Lasciando la casa di Rehvenge, Ehlena volava, e non solo perché si stava
smaterializzando al di là del fiume, verso la clinica. Per lei la notte non era
gelida, ma fresca. L'uniforme non era spiegazzata perché ci si erano rotolati
sopra, sul letto dov'era stata buttata, ma era sapientemente sgualcita. I capelli
non erano un disastro, avevano una piega sbarazzina.
La telefonata con cui l'avevano richiamata in clinica non era stata
un'intrusione, ma un'opportunità. Era al settimo cielo e niente poteva buttarla
giù. Era una delle stelle nel vellutato firmamento notturno, irraggiungibile,
intoccabile, al di sopra della mischia dei terrestri.
Riprendendo forma davanti ai garage della clinica, tuttavia, perse un po'
della sua rosata luminosità. Le pareva ingiusto sentirsi così euforica,
considerato ciò che era accaduto la sera prima: in quel momento i familiari di
Stephan non provavano la seppur minima parvenza di gioia, era pronta a
scommetterci la testa. Dovevano avere appena terminato il rituale funebre...
Sarebbero passati anni prima che potessero provare anche solo lontanamente
l'esaltazione che le gonfiava il petto quando pensava a Rehv.
Sempre che ci riuscissero. Ehlena aveva la sensazione che i genitori di
Stephan non sarebbero mai più stati gli stessi.
Con un'imprecazione attraversò in fretta il parcheggio, lasciando piccole
orme nere sulla spolverata di neve caduta qualche ora prima. In quanto
membro del personale, superare i controlli prima di arrivare alla sala d'attesa
non le prese molto tempo; giunta nell'area accettazione si tolse il cappotto,
puntando dritta verso il banco.
L'infermiere al computer alzò gli occhi e sorrise. Rhodes era uno dei
pochissimi maschi dello staff, e decisamente uno dei preferiti, alla clinica, il
tipo di ragazzo che va d'accordo con tutti, sempre pronto a sorridere, a dare
un abbraccio e a battere il cinque.
«Ehi, bella, come st...» Si accigliò quando Ehlena gli andò più
vicino, poi spinse indietro la sedia, distanziandosi da lei. «Ehm... ciao.»
Accigliandosi, Ehlena si guardò alle spalle, aspettandosi di vedere un
mostro, visto il modo in cui il collega si era scostato. «Stai bene?»
«Oh, sì. Assolutamente.» Gli occhi di Rhodes erano penetranti. «E tu come
stai?»
«Bene. Sono contenta di essere qui a dare una mano. Dov'è Catya?»
«Ti sta aspettando nell'ufficio di Havers, credo.»
«Allora ci vado subito.»
«Sì. Brava.»
Ehlena notò che Rhodes aveva la tazza vuota. «Vuoi che ti porti un caffè
quando ho finito?»
«No, no», si affrettò a dire lui, alzando le mani. «Sono a posto così. Grazie.
Davvero.»
«Sicuro di stare bene?»
«Sì. Benissimo. Grazie.»
Ehlena si allontanò, sentendosi una lebbrosa. Di solito lei e Rhodes erano
pappa e ciccia, ma stasera...
Oh, mio Dio, pensò. Rehvenge le aveva lasciato addosso il suo odore.
Doveva essere per questo.
Si voltò... ma cosa poteva dire, in realtà.
Sperando che Rhodes fosse l'unico ad accorgersene, andò nello spogliatoio
a posare il cappotto e poi uscì subito, salutando colleghi e pazienti strada
facendo. Giunta davanti all'ufficio di Havets, vide la porta aperta e il medico
seduto alla scrivania, mentre Catya, anche lei seduta, dava le spalle al
corridoio.
Ehlena bussò piano sullo stipite. «Salve.»
Havers alzò gli occhi e Catya la guardò da sopra la spalla. Sembravano
malati, tutti e due.
«Avanti», disse brusco il dottore. «E chiuda la porta.»
Col cuore che batteva all'impazzata, Ehlena ubbidì. Vicino a Catya c'era una
sedia libera, e lei si sedette perché d'improvviso si sentì cedere le ginocchia.
Era stata in quell'ufficio un'infinità di volte, di solito per ricordare al dottore
di mangiare, perché, quando iniziava con le cartelle dei pazienti, Havers
perdeva la cognizione del tempo. In questo caso, però, lui non c'entrava.
Ci fu un lungo silenzio, durante il quale gli occhi chiari di Havers si
rifiutarono di incrociare i suoi, mentre armeggiava con le stanghette degli
occhiali di tartaruga.
Fu Catya a parlare, e aveva la voce tesa. «Ieri sera, prima di uscire, una
delle guardie giurate che controllano tutte le registrazioni video mi ha fatto
notare che sei entrata in farmacia. Da sola.
Ha detto che ti ha vista prendere delle pillole e portarle via. Ho visionato il
nastro controllando gli scaffali in questione, era penicillina.»
«Perché non hai semplicemente portato qui Rehvenge?» disse Havers. «Lo
avrei visitato di nuovo immediatamente.»
Il momento che seguì sembrava uscito da una soap opera televisiva,
quando la telecamera zooma sul volto di uno dei personaggi: Ehlena ebbe la
sensazione che tutto si ritraesse da lei, l'ufficio si ritirava in lontananza
mentre lei, bruscamente illuminata dai riflettori, veniva sottoposta a un
attento esame al microscopio.
Le domande si accavallavano nella sua mente. Credeva davvero di farla
franca? E sì che sapeva delle telecamere di sicurezza... eppure non ci aveva
pensato quando si era infilata dietro il banco della farmacia, la sera prima.
Ora tutto sarebbe cambiato in conseguenza di quel gesto. La sua vita, un
tempo una lotta continua, sarebbe diventata insopportabile.
Colpa del destino? No... della stupidità.
Come diavolo aveva potuto fare una cosa del genere?
«Presenterò le mie dimissioni», disse brusca. «Con effetto immediato. Non
avrei mai dovuto farlo... ero preoccupata per lui, sconvolta per Stephan, e ho
commesso un terribile errore di valutazione, Sono profondamente
dispiaciuta.»
Né Havers né Catya dissero una sola parola, ma non ce n'era bisogno. Era
tutta una questione di fiducia e lei aveva tradito quella di entrambi. Oltre a
violare una caterva di regole sulla sicurezza dei pazienti.
«Libero il mio armadietto. E me ne vado immediatamente.»
Capitolo 33
Doveva andare a trovare sua madre più spesso. Fu questo che pensò
Rehvenge accostando davanti alla casa sicura in cui l'aveva fatta trasferire
quasi un anno prima. Dopo che la dimora di famiglia, a Caldwell, era stata
compromessa dai ¡esser, aveva sistemato tutti in quella villa Tudor, parecchi
chilometri a sud della città.
Era l'unica cosa buona derivata dal rapimento di sua sorella... be', quella, e
il fatto che Bella avesse trovato un compagno di valore nel fratello che l'aveva
salvata. Avendo portato via sua madre dalla città, infatti, lei e la sua adorata
doggen erano sfuggite alla carneficina dei membri dell'aristocrazia avviata
l'estate precedente dalla Lessening Society.
Rehv parcheggiò la Bentley di fronte alla grande villa; prima ancora che
scendesse dall'auto, il portone si aprì e la doggen di sua madre comparve sulla
soglia illuminata, stringendosi le braccia intorno al corpo per ripararsi dal
freddo.
Rehvenge aveva un paio di scarpe con la suola liscia, quindi fece molta
attenzione mentre camminava sul sottile strato di neve. «Mia madre sta
bene?»
La doggen lo guardò, gli occhi velati di lacrime. «È quasi giunta la sua ora.»
Rehv entrò e chiuse la porta, rifiutandosi di ascoltarla. «Impossibile.»
«Sono mortificata, padrone.» La doggen tirò fuori un fazzoletto bianco dalla
tasca dell'uniforme grigia. «Davvero... tanto.»
«È ancora troppo giovane.»
«Ha avuto una vita molto più lunga degli anni che ha.»
La doggen sapeva bene cos'era accaduto in quella casa nel periodo in cui il
padre di Bella aveva vissuto con loro. Aveva raccolto i cocci dei bicchieri e dei
piatti di porcellana in frantumi... Aveva fasciato e accudito.
«Non tollero che se ne vada», disse la cameriera. «Mi sentirò perduta senza
la mia padrona.»
Rehv le mise una mano intorpidita sulla spalla e strinse con delicatezza.
«Non puoi esserne sicura. Havers non l'ha ancora visitata. Lasciami andare su
da lei, va bene?»
Quando la doggen annuì, Rehvenge lentamente salì le scale fino al primo
piano, passando davanti ai ritratti a olio di membri della famiglia trasferiti lì
dalla vecchia casa.
In cima alle scale girò a sinistra e bussò a una porta a due battenti.
«Mahmen?»
«Sono qui, figlio mio.»
La risposta nell'Antico Idioma giunse da dietro un'altra porta, Rhev tornò
indietro ed entrò nello spogliatoio di sua madre; la fragranza familiare di
Chanel No. 5 lo calmò.
«Dove sei?» disse rivolto alla distesa di abiti appesi.
«Sono qui in fondo, figliolo adorato.»
Rehv si avviò lungo le file di camicette, gonne, tailleur e abiti da ballo,
inspirando a fondo. Il profumo preferito di sua madre, la sua firma, era su
tutti i capi di vestiario, appesi ordinatamente in base al colore e al modello; il
flacone da cui veniva era posato su una toilette finemente decorata, in mezzo
a trucchi, lozioni e ciprie in polvere.
Rehvenge la trovò davanti allo specchio triplo a figura intera. Stava
stirando.
Cosa alquanto bizzarra, che lo indusse a studiarla con attenzione.
Sua madre era regale anche in vestaglia rosa, i capelli bianchi raccolti sulla
testa perfettamente proporzionata, seduta in posa elegante su un alto
sgabello, il grosso diamante a forma di pera che brillava alla sua mano. A
un'estremità dell'asse da stiro dietro cui sedeva c'erano un cestino di vimini e
una bombola di appretto spray, mentre dall'altra parte c'era una pila di
fazzoletti stirati. Sua madre era a metà di un fazzoletto, il ferro da stiro
sibilava mentre lo passava avanti e indietro sul quadrato giallino pallido
piegato a metà.
«Mahmen, cosa stai facendo?» Okay, la risposta era ovvia, da un certo punto
di vista, ma sua madre era la signora del castello, Rhev non ricordava di
averla mai vista fare i lavori di casa, il bucato o niente del genere. C'erano i
doggen per queste cose.
Madalina lo guardò, gli occhi azzurro pallido erano stanchi, il sorriso era
l'espressione di uno sforzo più che di sincera gioia. «Questi erano di mio
padre. Li abbiamo trovati frugando nelle scatole che abbiamo portato qui
dalla soffitta della vecchia casa.»
La "vecchia casa" era quella in cui avevano vissuto per quasi un secolo, a
Caldwell.
«Potresti farlo fare alla tua cameriera.» Rehv si avvicinò a Madalina e le
diede un bacio sulla guancia. «Sarebbe felice di aiutarti.»
«L'ha detto anche lei, grazie.» Dopo avergli posato la mano sul viso, sua
madre tornò a quello che stava facendo, piegò di nuovo il quadrato di lino,
prese la bombola di appretto e vaporizzò sul fazzoletto. «Ma questa è una
cosa che devo fare io.»
«Posso sedermi?» chiese Rehv, accennando col capo alla sedia vicino allo
specchio.
«Oh, ma certo, che maleducata.» Madalina posò il ferro e fece per scendere
dallo sgabello. «Adesso ti prendo qualcosa da...»
Lui alzò la mano. «No, Mahmen, ho appena mangiato.»
Lei gli fece un inchino prima di tornare ad appollaiarsi sullo sgabello. «Ti
sono grata di questa visita, so che hai sempre tanto da fare...»
«Sono tuo figlio. Come puoi pensare che non voglia passare a trovarti?»
Il fazzoletto stirato finì in cima alla pila ordinata dei suoi simili, e l'ultimo
venne tirato fuori dal cesto.
Il ferro esalò una nuvola di vapore quando Madalina passò la sua piastra
rovente sopra il quadrato bianco. Rehv osservò nello specchio i suoi
movimenti lenti. Aveva le scapole sporgenti sotto la vestaglia di seta e sulla
nuca spiccavano le vertebre.
Quando Rehv tornò a concentrarsi sul suo viso, vide una lacrima scivolare
sul fazzoletto.
Oh... santissima Vergine Scriba, pensò. Non sono pronto.
Puntò il bastone per terra e andò a inginocchiarsi davanti a lei. Voltando lo
sgabello verso di sé, le tolse il ferro di mano e lo mise da parte, pronto a
portarla da Havers, disposto a pagare qualunque cifra in medicine, pur di
farle guadagnare un po' più di tempo.
«Mahmen, cosa ti affligge?» Rehv prese uno dei fazzoletti stirati del padre
di Madalina e le tamponò gli occhi. «Parlami, sono tuo figlio. Dimmi qual è il
peso che opprime il tuo cuore.»
Le lacrime non avevano fine e Rehvenge le asciugò a una a una. Lei era
incantevole anche alla sua età e anche se piangeva, una Eletta caduta che
aveva conosciuto una vita difficile, senza tuttavia perdere un briciolo
dell'antica grazia.
Quando alla fine Madalina si decise a parlare, la sua voce era sottile. «Sto
morendo.» Scosse la testa prima che Rhevenge potesse parlare. «No, siamo
sinceri. La mia fine è prossima.»
Vedremo, pensò Rehv tra sé.
«Mio padre» - così dicendo Madalina sfiorò il fazzoletto con cui Rehv le
aveva asciugato le lacrime - «mio padre... è strano
che pensi a lui giorno e notte, adesso, ma è così. Era il Vrimale, molto tempo
fa, e amava i suoi figli. La sua gioia più grande era il sangue del suo sangue e,
malgrado fossimo in tanti, manteneva i rapporti con tutti noi. Questi
fazzoletti sono ricavati dalle sue vesti. In verità, l'arte del cucito mi piaceva
molto; lui lo sapeva e mi diede in dono alcune delle sue tuniche.»
Madalina allungò una mano ossuta e lisciò la pila stirata. «Quando ho
lasciato l'Altra Parte, mi disse di prenderne qualcuno. Io ero innamorata di
un fratello e certa che la mia vita si sarebbe realizzata appieno solo stando
con lui. Naturalmente, poi...»
Già, era stato il poi a procurarle tanta sofferenza: poi era stata stuprata da
un symphath, era rimasta incinta di Rehvenge ed era stata costretta a dare alla
luce una mostruosità meticcia che, chissà come, aveva allattato e amato come
qualunque figlio avrebbe desiderato di essere amato. Per tutto il tempo in cui
era stata prigioniera del re dei symphath, il fratello che lei aveva amato l'aveva
cercata... solo per morire nel tentativo di riprendersela.
E le tragedie non erano ancora finite.
«Dopo che ero stata... restituita, mio padre, in punto di morte, mi chiamò al
suo capezzale», proseguì Madalina. «Di tutte le Elette, di tutte le sue spose e
di tutti i suoi figli, aveva voluto vedere me. Ma io non volevo andare. Non
sopportavo... di non essere più la figlia che lui conosceva.» I suoi occhi
imploranti incontrarono quelli di Rehv. «Non volevo che sapesse di me. Mi
sentivo sudicia.»
Dio, Rehv conosceva quella sensazione, ma la sua mahmen non meritava di
sopportare un tale fardello. Madalina non aveva idea dello schifo con cui lui
aveva a che fare, e non l'avrebbe mai saputo, perché il motivo principale per
cui lui si prostituiva era risparmiarle la tortura di vedere deportare suo figlio.
«Quando mi rifiutai di presentarmi, la Direttrice venne a dirmi che lui stava
soffrendo, che non sarebbe andato nel Fado finché non fossi passata a
trovarlo, che sarebbe rimasto in punto di morte per un'eternità, se non gli
avessi recato sollievo. La sera dopo ci andai con un gran peso sul cuore.» A
quel punto lo sguardo di sua madre si fece feroce. «Al mio arrivo al tempio
del Primate, lui voleva abbracciarmi, ma io non potevo... permetterglielo. Ero
solo un'estranea dal volto amato, nient'altro, e cercai di fare conversazione,
parlando di cose remote e inoffensive. Fu allora che lui disse una cosa che
finora non avevo capito fino in fondo. Disse, "L'anima, gravata dal dolore,
non vuole trapassare, sebbene il corpo stia per cedere." Era prigioniero del
mio lato irrisolto. Gli sembrava di aver fallito nel suo ruolo, sentiva che, se mi
avesse tenuta dall'Altra Parte, avrei avuto un destino più benevolo di quello
toccatomi in sorte dopo che me n'ero andata.»
Con un groppo un gola, Rehv d'un tratto fu assalito da un sospetto terribile.
La voce di sua madre era flebile, ma salda. «Mi avvicinai al letto, lui mi
prese la mano e io la tenni stretta tra le mie. Gli dissi allora che volevo bene a
mio figlio, che dovevo sposare un membro della glymera e che non tutto era
perduto. Mio padre mi scrutò in volto, in cerca della verità al di là delle
parole, e quando fu soddisfatto di ciò che vide, chiuse gli occhi... e si lasciò
andare. Sapevo che se non fossi andata da lui...» Madalina fece un gran
sospiro. «Non posso lasciare questa Terra visto come stanno le cose, in
verità.»
Rehv scosse la testa. «Ma noi stiamo tutti bene, Mahmen. Bella e la piccola
stanno bene e sono al sicuro. Io sono...»
«Basta.», Sua madre lo afferrò per il mento come faceva quand'era bambino,
sempre pronto a combinare guai. «So cosa hai fatto. So che hai ucciso il mio
hellren, Rempoon.»
Rehv valutò se fosse meglio mentire oltre ogni evidenza; ma
dall'espressione di sua madre capì che la verità era venuta a galla e che nulla
di ciò che poteva dire l'avrebbe convinta del contrario.
«Come... Come hai fatto a scoprirlo?»
«Chi altri avrebbe potuto farlo? Chi?» Lasciandogli il mento, Madalina gli
accarezzò la guancia; che gioia quel tocco caldo. «Non dimenticare che ho
visto questo tuo viso ogni volta che il mio hellren perdeva la pazienza. Il mio
figliolo, il mio figliolo forte e potente. Guardati.»
L'orgoglio sincero e affettuoso che sua madre nutriva per lui era qualcosa
che Rehv non aveva mai capito, date le circostanze del suo concepimento.
«So anche», sussurrò Madalina, «che hai ucciso il tuo vero padre.
Venticinque anni fa.»
Questo attirò ancora di più l'attenzione di Rehv. «Tu non dovevi saperlo.
Non dovevi sapere niente di tutto ciò. Chi te l'ha detto?»
Madalina staccò la mano dal suo viso e indicò, sul tavolino del trucco, una
ciotola di cristallo che Rehv aveva sempre creduto servisse alla manicure. «Le
vecchie abitudini di una scrivana Eletta sono dure a morire. L'ho visto
nell'acqua. Subito dopo che è successo.»
«E l'hai tenuto per te», disse Rehv, stupefatto.
«Ora però non potevo più farlo. Ecco perché ti ho fatto venire.»
L'orribile sensazione di poco prima tornò ad assalirlo, risultato dell'essere
intrappolato tra ciò che sua madre stava per chiedergli di fare e la ferma
convinzione che sua sorella non avrebbe tratto alcun giovamento dalla
conoscenza di tutti i sordidi segreti della sua famiglia. Bella era stata protetta
tutta la vita da quegli orrori e non c'era motivo di svelarle tutto proprio
adesso, specie se la loro madre stava morendo.
Cosa non vera, rammentò a se stesso Rehv.
«Mahmen...»
«Tua sorella non deve mai venirlo a sapere.»
Rehv si irrigidì, sperando di aver sentito bene. «Come hai detto?»
«Giurami che farai tutto ciò che è in tuo potere per assicurarti che Bella non
lo sappia mai.» Madalina si sporse in avanti e lo afferrò per le braccia,
affondandogli le dita nella carne; Rehv lo capì da come le ossa delle mani e
dei polsi le tiravano la pelle. «Non voglio che Bella si carichi di questi fardelli.
Tu sei stato costretto a farlo, e te l'avrei risparmiato se avessi potuto, ma non
ho potuto. Se Bella resterà all'oscuro di tutto, la prossima generazione non
dovrà soffrire. Nemmeno Nalla dovrà sopportare questo peso, che verrà
sepolto con te e con me. Giuramelo.»
Rehv la guardò negli occhi; non le aveva mai voluto tanto bene.
Annuì con decisione. «Guardami in faccia e stai tranquilla, te lo giuro. Bella e la
sua prole non lo sapranno mai. Il passato morirà con te e con me.»
Le spalle di sua madre si rilassarono sotto la vestaglia, e il suo sospiro
tremante la diceva lunga sul sollievo che provava. «Sei il figlio che tutte le
madri vorrebbero avere.»
«Come può mai essere vero?», disse piano Rhev.
«Perché non dovrebbe?»
Madalina si raddrizzò e gli tolse di mano il fazzoletto. «Questo lo stirerò di
nuovo, e poi, se vorrai, mi aiuterai ad andare a letto.»
«Ma certo. E vorrei chiamare Havers.»
«No.»
«Mahmen...»
«Vorrei morire senza intervento medico. Nessuno potrebbe più salvarmi,
ormai, in ogni caso.»
«Questo non puoi saperlo...»
Madalina alzò la bella mano col grosso anello di diamanti. «Domani sarò
già morta, prima che tramonti il sole. L'ho visto dentro la ciotola.»
Rehv rimase senza fiato, i polmoni si rifiutavano di funzionare. Non sono
pronto per questo. Non sono pronto. Non sono pronto...
Madalina fu estremamente puntigliosa con l'ultimo fazzoletto, allineò con
cura gli angoli prima di passarci sopra il ferro, lentamente, avanti e indietro.
Quand'ebbe finito, posò il quadrato perfetto sopra tutti gli altri, assicurandosi
che fosse bene allineato.
«E fatta», disse.
Rehv si appoggiò al bastone per alzarsi e le offrì il braccio; insieme si
avviarono con passo strascicato e malfermo verso la camera da letto.
«Hai fame?» chiese Rehv, tirando indietro le coperte e aiutandola a
sdraiarsi.
«No, sto bene così.»
Insieme sistemarono lenzuola, coperta e piumone, in modo che tutto fosse
piegato con cura sul petto dell'anziana femmina. Raddrizzandosi, Rehv seppe
con certezza che sua madre non sarebbe mai più scesa da quel letto; lo trovò
intollerabile.
«Bella deve venire qui», disse brusco. «Deve dirti addio.»
Sua madre annuì e chiuse gli occhi. «Deve venire subito e, per favore, dille
di portare la piccola.»
A Caldwell, nella grande casa della confraternita, Tohr camminava su e giù
per camera sua. Oddio, "camminava" era una parola grossa, visto quant'era
debole, barcollava, tutt'al più.
Ogni minuto e mezzo controllava la pendola; il tempo scorreva a un ritmo
allarmante e a un certo punto gli parve che la clessidra del mondo fosse
andata in frantumi, rovesciando dappertutto i secondi come granelli di
sabbia.
Gli occorreva più tempo. Più... Merda, ma sarebbe servito a qualcosa?
Non aveva idea di come affrontare quanto stava per succedere, ma sapeva
che tormentarsi non avrebbe cambiato le cose. Per esempio, non riusciva a
decidere se era meglio avere un testimone. Il vantaggio era che così era
ancora più impersonale; lo svantaggio era che, se crollava del tutto, un
testimone avrebbe assistito alla scena.
«Io resto.»
Tohr guardò Lassiter, allungato sulla chaise longue vicino alle finestre.
L'angelo aveva le gambe accavallate all'altezza delle caviglie e batteva un
anfibio da una parte e dall'altra, un'altra odiosa misurazione del tempo.
«E dai», disse Lassiter, «ho già visto nudo il tuo penoso fondoschiena. Cosa
può esserci di peggio?»
Le parole erano una tipica spacconata, ma il tono era sorprendentemente
gentile...
Qualcuno bussò piano. Quindi non era un fratello. E, dato che da sotto la
porta non filtrava nessun profumino delizioso, non era neanche Fritz con un
vassoio di vivande destinate a finire nel cesso.
L'appello a Phury aveva funzionato, evidentemente.
Tohr cominciò a tremare da capo a piedi.
«Okay, tranquillo.» Lassiter si alzò e corse da lui. «Siediti qui. Meglio non
farlo vicino a un letto. E dai... no, non ribellarti. Saicome funziona. È un
imperativo biologico, mica una libera scelta quindi non c’ è motivo di sentirsi
in colpa.»
Tohr si sentì tirare verso una sedia dallo schienale rigido accanto al comò;
appena in tempo: le ginocchia, perduto interesse per il loro mestiere,
cedettero in contemporanea facendolo crollare .Nello schianto; per la violenza
dell'impatto, Tohr rimbalzò sul sedile
«Non so come comportarmi.»
Il bel muso di Lassiter comparve proprio davanti al suo. «Ci penserà il tuo
corpo. Dimentica mente e cuore e lascia fare all'istinto. Tu non hai nessuna
colpa. Non c'è altro modo per sopravvivere.»
«Ma io non voglio sopravvivere.»
«Ma va? E io che credevo che tutta questa smania di autodistruzione fosse
solo un passatempo.»
Tohr non aveva la forza di inveire contro l'angelo, non aveva forza di
lasciare la stanza, non gliene restava abbastanza neanche per piangere.
Lassiter andò ad aprire la porta. «Ehi, grazie di essere venuta.
Tohr non ce la faceva a guardare l'Eletta che stava entrando ma era
impossibile ignorarne la presenza: il suo delicato profumo floreale fluttuò
verso di lui.
La naturale fragranza di Wellsie era più forte, un misto di rosa e gelsomino,
ma anche di spezie che riflettevano il suo carattere deciso.
«Mio signore», disse una voce femminile. «Sono l'Eletta Selena per
servirvi.»
Ci fu una lunga pausa.
«Vai da lui», disse piano Lassiter. «Dobbiamo sistemare questa faccenda»
Tohr si coprì il volto con le mani, abbandonando la testa sul collo. Riusciva
a stento a respirare mentre l'Eletta si sistemava sul pavimento ai suoi piedi.
Attraverso le dita ossute vide il candore della sua tunica fluente. Wellsie
non aveva una passione per i vestiti. L'unico che aveva mai veramente amato
era quello rosso e nero che aveva indossato per le nozze con lui.
1
Gli tornò alla mente un'immagine da quella cerimonia: vide con tragica
chiarezza il momento in cui la Vergine Scriba aveva afferrato le mani sue e di
Wellsie dichiarando che erano una bella coppia, proprio una bella coppia.
Legato alla sua femmina tramite la madre della razza, lui aveva sentito un
enorme calore e, quando aveva guardato negli occhi la sua amata, la
sensazione d'amore, determinazione e ottimismo era aumentata un milione di
volte.
Avevano davanti a sé un'intera vita di felicità e di gioia... e invece eccolo ad
affrontare una perdita inconcepibile da solo.
Anzi, peggio che solo. Solo e in procinto di introdurre nel proprio
organismo il sangue di un'altra.
«Sta succedendo tutto troppo in fretta», farfugliò dietro i palmi. «Non
posso... mi serve più tempo...»
E se quell'angelo della malora si azzardava a dire una sola parola sul fatto
che quello era il momento giusto, l'avrebbe fatto pentire di non avere i denti
infrangibili come i vetri di certe auto.
«Mio signore», disse piano l'Eletta, «tornerò un'altra volta, se è questo che
desiderate. E poi tornerò di nuovo, se ancora non sarà il momento giusto. E
tornerò ancora, e ancora, finché non sarete pronto. Vi prego... mio signore,
credetemi, il mio unico desiderio è essere d'aiuto, non farvi soffrire.»
Tohr si accigliò. L'Eletta sembrava molto cortese e non c'era traccia di
sensualità nelle sue parole.
«Dimmi di che colore hai i capelli», disse da dietro le mani.
«Sono neri come la notte, e li porto raccolti come le mie sorelle. Mi sono
presa la libertà di avvolgerli in un turbante, anche se non me lo avevate
chiesto. Ho pensato che... potesse essere d'aiuto.»
«Dimmi di che colore hai gli occhi.»
«Sono azzurri, mio signore. Di un azzurro pallido come il cielo.»
Quelli di Wellsie erano di un giallo ambrato come lo sherry.
«Mio signore», bisbigliò l'Eletta, «non c'è neanche bisogno che mi guardiate.
Lasciate che mi metta dietro di voi e potrete bere dal mio polso.»
Tohr udì un fruscio di stoffa e il profumo della femmina si spostò finché
non gli giunse da dietro le spalle. Thor abbassò le mani e vide le lunghe
gambe di Lassiter fasciate dai jeans. L'angelo aveva di nuovo accavallato le
caviglie, questa volta stando appoggiato contro il muro.
Un braccio sottile avvolto in un tessuto bianco gli comparve davanti.
Lentamente, la manica della veste si alzò, spostandosi sempre più su.
Il polso scoperto era fragile, la pelle candida e delicata.
Le vene sottopelle erano azzurrine.
Tohr sentì le zanne calare con forza dal palato e un ringhio uscirgli dalle
labbra. Quel bastardo di un angelo aveva ragione. Tutt'a un tratto nella sua
mente si fece il vuoto; a prendere il sopravvento fu il corpo, e quello di cui era
stato privato tanto a lungo.
Tohr agguantò la spalla dell'Eletta e, sibilando come un cobra, le affondò le
zanne nel polso, fino all'osso. Ci fu un grido d'allarme e un po' di scompiglio,
ma lui ormai succhiava, completamente assorto; come le mani di chi fa tiro
alla fune, i sorsi tiravano il sangue dentro lo stomaco, così in fretta da non
lasciargli neanche il tempo di assaporarlo.
Quasi uccise l'Eletta.
Se ne rese conto soltanto in seguito, dopo che Lassiter finalmente lo staccò
da lei, stendendolo con un pugno in testa... perché non appena l'angelo
l'aveva separato dalla fonte di quelle sostanze nutritive, Tohr aveva cercato di
avventarsi di nuovo sulla femmina.
L'angelo caduto aveva ragione.
La biologia, orribile motore ultimo di ogni specie, l'ha sempre vinta, anche
sul più saldo dei cuori.
E sul più devoto dei vedovi.
Capitolo 34
Giunta a casa, Ehlena fece finta di niente, congedò Lusie epassò a
controllare suo padre, che stava «facendo incredibili progressi» nel suo
lavoro. Non appena fu libera, tuttavia, andò in camera sua per connettersi a
Internet. Doveva capire quanti soldi avevano, fino all'ultimo centesimo, e
temeva che l'esito delle sue ricerche non le sarebbe piaciuto. Dopo essere
entrata nel suo conto bancario, diede una scorsa agli assegni ancora da
incassare e calcolò cosa doveva entrarle la prima settimana del mese. La
buona notizia era che doveva ancora ricevere lo stipendio di novembre.
I loro risparmi ammontavano a meno di undicimila dollari.
Non era rimasto niente da vendere e nessun margine di spesa sul bilancio
mensile.
Lusie doveva smettere di venire. Bella fregatura: Lusie avrebbe subito
tappato il buco con un altro cliente mentre Ehlena, una volta trovato un
nuovo lavoro, avrebbe dovuto cercare un'altra badante.
Sempre che lo trovasse, un altro lavoro. Di sicuro non come infermiera, in
ogni caso. Un licenziamento per giusta causa non era propriamente quello
che un datore di lavoro vuole vedere in un curriculum vitae.
Perché aveva rubato quelle dannate pillole?
Rimase lì seduta a fissare il monitor, rifacendo i conti in continuazione
finché tutti quei numeretti non si confusero nella sua mente e neanche più il
totale le risultò chiaro.
«Figliola cara?»
Ehlena si affrettò a spegnere il portatile perché suo padre non sopportava
gli aggeggi elettronici, e assunse un'espressione serena. «Sì? Volevo dire, sì?»
«Mi chiedevo se ti andrebbe di leggere uno o due brani del mio lavoro. Sembri in
ansia e io trovo che questo mi aiuta a ritrovare la calma.» L'anziano vampiro si
avvicinò strascicando i piedi, e con fare galante, le tese il braccio.
Ehlena si alzò, perché a volte non si può far altro che accettare le direttive
altrui. Non aveva nessuna voglia di leggere le farneticazioni che suo padre
aveva messo sulla carta. Non le andava di fingere che andasse tutto bene.
Avrebbe tanto voluto riavere indietro il suo genitore, anche solo per un'ora,
per poter discutere della brutta situazione in cui erano finiti per colpa sua.
«Sarebbe magnifico», disse con voce cortese ma spenta.
Seguì suo padre nello studio, aiutandolo ad accomodarsi sulla sedia, e volse
lo sguardo sulle pile disordinate di fogli. Che confusione. C'erano raccoglitori
di cuoio nero pieni fin quasi a scoppiare, cartellette che non si chiudevano
più, tanto erano colme, taccuini a spirale con i fogli che penzolavano fuori dai
bordi come lingue di cane, fogli bianchi sparsi qua e là, come se avessero
tentato di volare via senza troppo successo.
Era tutto il diario di suo padre, o almeno così diceva lui. In realtà erano solo
pagine e pagine di assurdità, la manifestazione fisica del suo disordine
mentale.
«Ecco. Siediti, siediti qui.» Suo padre liberò la sedia vicino alla scrivania,
spostando blocchi stenografici tenuti insieme da elastici marroncini.
Ehlena si mise seduta con le mani strette sulle ginocchia, nel tentativo di
mantenere la calma. La baraonda della stanza, come un magnete rotante,
faceva vorticare ancor più in fretta nella sua mente pensieri ed elucubrazioni,
e questo non era assolutamente la cosa di cui aveva bisogno.
Suo padre si guardò intorno e sorrise, come a scusarsi. «Quanta fatica per un
raccolto relativamente povero. Un po' come raccogliere perle. Quante ore ho trascorso
qui dentro, quante ore per raggiungere il mio obiettivo...»
Ehlena lo sentiva a stento. Se non poteva più permettersi di pagare l'affitto,
dove sarebbero andati? Esisteva qualcosa di ancora più a buon mercato, che
non fosse infestato da topi e scarafaggi? Come si sarebbe trovato suo padre in
un ambiente a cui non era abituato? Santissima Vergine Scriba, aveva pensato
di aver toccato il fondo il giorno in cui lui aveva dato fuoco alla loro vecchia
casa. Cosa poteva esserci di peggio?
Capì di essere nei guai quando tutto si annebbiò.
La voce di suo padre intanto continuava, imperterrita, attraversando a
passo di carica il suo silenzio spaventato. «Ho tentato di raccontare fedelmente
tutto ciò che ho visto...»
Ehlena non sentì molto di più.
Crollò. Seduta sulla seggiolina di fianco alla scrivania, subissata dalle
chiacchiere insensate, assurde di suo padre, schiacciata dalle proprie azioni e
dalla malaugurata decisione che li aveva precipitati tutti e due in quel
baratro, scoppiò a piangere.
Non era solo per aver perso il lavoro. Era per Stephan, per quello che era
successo con Rehvenge. Per il fatto che suo padre era un adulto incapace di
comprendere le realtà della loro situazione.
Perché si sentiva terribilmente sola.
Con le braccia strette intorno al corpo, pianse disperatamente,
singhiozzando, finché, troppo esausta per tutto, si accasciò su se stessa.
Alla fine fece un gran sospiro e si asciugò gli occhi con la manica
dell'uniforme, che ormai non le serviva più.
Quando guardò in su, suo padre era seduto impalato sulla sedia, con
un'espressione scioccata. «Insomma... figlia mia.»
Il punto era proprio questo. Potevano aver perso tutti i lussi della loro
posizione sociale, ma le vecchie abitudini erano dure a morire. Il riserbo della
glymera continuava a definire il loro modo di comunicare, per cui quel pianto
dirotto equivaleva a essere sdraiata sul tavolo con un alieno che le saltava
fuori dalla pancia.
«Perdonami, papà», disse, sentendosi sciocca. «Adesso me ne vado, se vuoi
scusarmi.»
«No... aspetta. Dovevi leggere.»
Ehlena chiuse gli occhi, esasperata. Per certi versi tutta la sua vita era stata
segnata dalla patologia mentale di suo padre e, sebbene per la maggior parte
lei vedesse i suoi sacrifici come un dovere verso di lui, quella sera era troppo
stravolta per riuscire a fingere di credere all'importanza cruciale di una cosa
inutile come il suo "lavoro".
«Papà, io...»
Uno dei cassetti della scrivania venne aperto e richiuso. «Ecco, figliola.
Prendi tutto quanto, non solo un brano.»
Ehlena aprì le palpebre a fatica...
E dovette chinarsi in avanti per essere sicura di aver visto bene. Tra le mani
di suo padre c'era un fascio di fogli bianchi perfettamente allineati, alto quasi
tre centimetri.
«Questo è il mio lavoro», disse lui, semplicemente. «Un libro per te, figlia mia.»
Al pianterreno della casa sicura in stile Tudor, Rehv aspettava accanto alle
finestre del soggiorno, guardando il bel prato ondulato all'esterno. Le nuvole
si erano dissolte e una mezzaluna brillava candida nel cielo invernale. Nella
mano intorpidita stringeva il cellulare nuovo, che aveva appena chiuso con
un'imprecazione.
Non riusciva a credere che al piano di sopra sua madre fosse in punto di
morte e che in quel preciso momento sua sorella e il suo hellren stessero
scapicollandosi per arrivare lì prima dell'alba, e, ciononostante, il lavoro
alzasse la sua orribile testa.
Un altro spacciatore morto. Con quello facevano tre nelle ultime
ventiquattr'ore.
Xhex era stata concisa e puntuale com'era nel suo stile. A differenza di
Ricky Martinez e Isaac Rush, i cui cadaveri erano stati rinvenuti lungo il
fiume, questo tale era saltato fuori dentro la sua macchina, nel parcheggio di
un centro commerciale, con una pallottola conficcata nella parte posteriore
del cranio. Il che significava che l'auto era stata guidata fin lì con dentro il
cadavere: nessuno sarebbe mai stato tanto stupido da freddare un figlio di
puttana in un posto sicuramente sorvegliato da una sfilza di telecamere di
sicurezza. La radio della polizia non aveva detto nient'altro, però, quindi per
ulteriori dettagli dovevano aspettare i giornali e i notiziari televisivi del
mattino.
Ma ecco il problema, e il motivo della sua imprecazione.
Tutti e tre i morti ammazzati avevano concluso degli acquisti con lui, nelle
ultime due serate.
Ragion per cui Xhex lo aveva interrotto durante la visita a casa di sua
madre. Più che regolamentato, il traffico di droga era non regolamentato del
tutto, e il punto di equilibrio raggiunto a Caldwell, tale per cui lui e i suoi
colleghi di un certo livello potevano fare soldi, era una cosa delicatissima.
In quanto boss della droga, i suoi fornitori erano un misto di trafficanti di
Miami, importatori portuali di New York, produttori di metamfetamine del
Connecticut e fabbricanti di ecstasy del Rhode Island. Erano tutti uomini
d'affari, proprio come lui, e per la maggior parte indipendenti, ovvero non
affiliati alla mafia statunitense. I rapporti tra loro erano solidi, gli uomini
all'altro capo dei traffici erano attenti e scrupolosi quanto lui: quello che
facevano si riduceva a una serie di transazioni finanziarie e a un prodotto che
passava di mano, proprio come in qualunque altro settore legale
dell'economia. I carichi via nave arrivavano a Caldwell in svariate sedi, e
venivano trasferiti allo ZeroSum, dove Rally era incaricato di assaggiare la
merce, tagliarla e confezionarla.
Era una macchina bene oliata; c'erano voluti dieci anni per metterla in
piedi, e mantenerla richiedeva una combinazione di impiegati ben pagati,
minacce di violenze fisiche, effettivi pestaggi e un'incessante tessitura di
relazioni.
Tre cadaveri bastavano a buttare nel cesso tutto quanto, provocando non
solo una grave perdita economica, ma anche una lotta di potere ai livelli più
bassi che non serviva a nessuno: qualcuno stava facendo fuori gente nel suo
territorio e i suoi colleghi si sarebbero chiesti se era lui a infliggere una
punizione o se invece, peggio, la stava subendo. I prezzi avrebbero subito
delle fluttuazioni, i rapporti sarebbero diventati tesi e avrebbero cominciato a
circolare informazioni distorte.
Bisognava occuparsene subito.
Doveva fare qualche telefonata per rassicurare i suoi importatori e
produttori che non aveva perso il controllo su Caldwell e che nulla avrebbe
intralciato la vendita della loro merce. Ma Cristo, perché proprio adesso?
Rehv alzò gli occhi al soffitto.
Per un attimo fantasticò di mollare tutto, ma erano solo cazzate. Finché la
principessa era in vita, lui era costretto a restare in affari, perché per nulla al
mondo avrebbe permesso a quella troia di distruggere il patrimonio della sua
famiglia. Dio solo sapeva se il padre di Bella non aveva già fatto abbastanza
in tal senso, prendendo pessime decisioni finanziarie.
Finché la principessa era in circolazione, Rehv sarebbe rimasto il signore
della droga di Caldie e avrebbe fatto le sue telefonate... anche se non dalla
casa di sua madre e non in quel momento riservato alla famiglia. Gli affari
potevano aspettare; prima di tutto veniva la famiglia, con le sue esigenze.
Anche se una cosa era chiara. Da lì in avanti Xhex, Trez e iAm dovevano
stare ancora più all'erta perché, poco ma sicuro, se qualcuno era così
ambizioso da eliminare quegli intermediari, molto probabilmente avrebbe
tentato di fare le scarpe a un pezzo grosso come Rehv. Il guaio era che per lui
sarebbe stato importante farsi vedere al club. Metterci la faccia era essenziale,
nei momenti di crisi, perché i suoi contatti nel giro avrebbero controllato se
correva a nascondersi. Meglio essere percepito come il potenziale
responsabile degli omicidi che come un cacasotto che scappa quando i giochi
si fanno duri.
Senza un vero motivo, aprì il telefonino per controllare le chiamate senza
risposta. Di nuovo. Niente da Ehlena. Ancora.
Forse aveva solo da fare alla clinica, ed era tutta presa dalla frenesia del
lavoro. Ma certo. E comunque la clinica non correva il rischio di venire
saccheggiata. Era in un luogo appartato, aveva un sistema di sicurezza a
prova di bomba e, se fosse successo qualcosa di brutto, lui l'avrebbe saputo.
Giusto?
Accidenti.
Accigliato, controllò l'orologio. Era ora di prendere altre due pillole.
Andò in cucina e, mentre mandava giù la penicillina con un bicchiere di
latte, un paio di fari illuminarono la facciata della casa.
Quando la Escalade si fermò davanti alla villa e le portiere si aprirono,
Rehv mise giù il bicchiere, puntò il bastone per terra e andò a salutare sua
sorella, il suo compagno e la loro figlioletta.
Bella aveva già gli occhi rossi quando entrò, perché lui le aveva fatto un
quadro chiaro della situazione. Subito dietro di lei, il suo hellren stringeva tra
le braccia enormi la figlioletta appisolata, tetro in volto.
«Sorella cara», disse Rehv, abbracciandola; senza lasciarla andare, batté il
palmo col fratello sfregiato. «Sonò contento di vederti, amico.»
Zsadist annuì con la testa rasata. «Anch'io.»
Bella si scostò, asciugandosi in fretta gli occhi. «Lei è di sopra a letto?»
«Sì, con lei c'è la sua doggen.»
Bella prese in braccio la figlioletta, poi Rehv fece strada su per le scale.
Giunto davanti alla camera da letto, per prima cosa bussò sullo stipite e attese
che sua madre e la sua fedele cameriera si preparassero a riceverli.
«Quanto è grave?» sussurrò Bella.
Rehv guardò sua sorella; quella era una delle rarissime occasioni in cui non
si sentiva forte per lei quanto avrebbe voluto.
«E giunta la sua ora», disse con voce roca.
Bella serrò gli occhi con forza proprio quando, con voce tremolante, la loro
mahmen disse, «Avanti.»
Rehv aprì uno dei battenti e sentì Bella inspirare con forza, ma ancor di più
sentì la sua griglia emotiva: tristezza e panico strettamente intrecciati si
rafforzavano a vicenda fino a formare una robusta scatola. Era il tipo di
impronta emotiva che vedeva solo ai funerali. Che tragedia.
«Mahmen», disse Bella entrando nella stanza.
Madalina tese le braccia, il volto soffuso di gioia. «Ecco i miei amori, i miei
carissimi amori.»
Bella si chinò a baciare la madre sulla guancia, poi con cautela le passò
Nalla. Poiché sua madre non aveva la forza di tenerla in braccio, venne
sistemato un cuscino perché vi poggiasse il collo e la testolina della piccola.
Madalina aveva un sorriso radioso. «Guardate che faccino... Diventerà una
bellezza, altro che.» Alzò una mano scheletrica verso Z. «E il papà, così fiero,
si prende cura con tanta forza d'animo delle sue due femmine.»
Zsadist si fece avanti e strinse con forza la mano tesa, chinandosi a sfiorare
le nocche con la fronte, com'era tradizione tra genero e suocera. «Le
proteggerò sempre.»
«Lo so. Non ho il minimo dubbio.» Madalina sorrise al feroce guerriero che
appariva del tutto fuori posto tra i pizzi drappeggiati intorno al letto... poi
però l'anziana femmina, esaurite le forze, abbandonò la testa di lato.
«La mia gioia più grande», mormorò fissando la nipotina.
Bella si sedette sul bordo del materasso, accarezzando delicatamente il
ginocchio della madre. Il silenzio nella stanza divenne morbido come un
piumino d'oca, un bozzolo di tranquillità che calò sopra tutti loro, sciogliendo
la tensione.
C'era un'unica cosa buona in tutto questo: una morte serena che rispetta il
giusto ordine delle cose è una benedizione quanto una vita lunga e serena.
La loro madre non aveva beneficiato della seconda, ma Rehv avrebbe
mantenuto la sua promessa, assicurandosi che la pace che regnava in quella
stanza permanesse ben al di là della morte di Madalina.
Bella si sporse verso la figlioletta sussurrando, «Dormigliona, svegliati per
Granhmen.»
Quando Madalina le accarezzò piano la guancia, Nalla si svegliò con uno di
quei versetti che fanno i bambini. Due occhi gialli e brillanti come diamanti si
fissarono sul bel viso anziano davanti a lei e la piccola sorrise tendendo le
manine paffute. Con la neonata aggrappata al dito, la nonna alzò gli occhi e,
al di là della nuova generazione, lanciò uno sguardo a Rehv. In quello
sguardo c'era una chiara supplica.
E lui le diede quello di cui aveva bisogno. Con un pugno sul cuore si
inchinò in modo quasi impercettibile, rinnovando il suo giuramento.
Sua madre batté convulsamente le palpebre, mentre le lacrime tremolavano
sulle ciglia, e lo travolse con un'ondata di gratitudine. Pur non sentendone il
calore, Rehv sapeva che la sua temperatura corporea si era alzata perché gli
venne da slacciarsi la pelliccia di zibellino.
Sapeva anche che era pronto a fare qualunque cosa pur di mantenere la sua
promessa. Una buona morte non è solo rapida e indolore, una buona morte
significa lasciare il proprio mondo in ordine, passare nel Fado con la
soddisfazione di sapere al sicuro e in buone mani i propri cari, certi che,
malgrado il dolore insito nell'elaborazione del lutto, si è detto e fatto tutto il
necessario. O, come nel caso specifico, non lo si è detto.
Era il dono più grande che potesse fare alla madre che lo aveva cresciuto
meglio di quanto meritasse, l'unico modo per ripagarla delle crudeli
circostanze della sua nascita.
Madalina sorrise con un lungo sospiro di gratitudine.
E tutto andò come doveva andare.
Capitolo 35
John Matthew si svegliò con la Hackler and Kock puntata contro la porta
che si stava aprendo, in fondo alla stanza spoglia di Xhex. Aveva il cuore
saldo e la mano ferma, e anche quando le luci si accesero non batté ciglio. Se
non avesse gradito chi aveva fatto scattare la serratura e girato la maniglia, gli
avrebbe piantato una pallottola nel petto.
«Tranquillo», disse Xhex entrando e chiudendo la porta. «Sono io.»
John rimise la sicura e abbassò la canna della pistola. «Sono colpita»,
mormorò lei appoggiandosi contro lo stipite. «Ti svegli come un guerriero.»
Lì davanti, ritta in piedi, il fisico muscoloso rilassato, era la femmina più
bella che avesse mai visto. II che significava che, a meno che anche Xhex non
volesse quello che voleva lui, doveva andare via. Le fantasie andavano bene,
ma la realtà era anche meglio, e non pensava di riuscire a tenere giù le mani.
John attese. E attese. Nessuno dei due si mosse. E va bene. Meglio andare via
prima di rendersi ridicolo. Fece per buttare le gambe giù dal letto, ma lei
scosse la testa. «No, resta dove sei.»
Okaaay. Questo però significava che doveva nascondersi in qualche modo.
Allungò la mano verso il giubbotto di cuoio e se lo tirò sull'inguine, perché
la pistola non era l'unica cosa pronta all'uso. Come al solito gli era venuto
duro, ordinaria amministrazione ogni volta che si svegliava.., oltre che un
problema quando nei paraggi c'era Xhex.
«Torno subito», fece lei, lasciando cadere il giubbotto nero e andando in
bagno.
La porta si chiuse e lui rimase a bocca aperta.
Possibile che fosse... proprio quello?
Si lisciò i capelli, si infilò la camicia nei calzoni e in fretta si risistemò
l'uccello. Che adesso non solo era duro, ma palpitava. Guardò in giù la verga
che premeva contro la patta dei jeans Abercrombie & Fitch, cercando di farle
capire che, se anche Xhex si tratteneva, non significava necessariamente che
le interessasse montarlo come si fa con i tori.
Xhex uscì qualche minuto dopo e si fermò accanto all'interruttore della luce.
«Hai qualcosa contro il buio?»
Lui scosse lentamente la testa.
La stanza piombò nell'oscurità e John la sentì avvicinarsi al letto.
Col cuore che batteva all'impazzata e l'uccello in fiamme, si affrettò a farsi
da parte, lasciandole un sacco di spazio. Quando Xhex si sdraiò, lui sentì ogni
minimo spostamento del materasso, la lieve carezza dei capelli sul cuscino, il
suo odore nelle narici.
Non riusciva a respirare.
Neanche quando lei sospirò, rilassata.
«Non hai paura di me», disse piano Xhex.
Lui scosse la testa anche se lei non poteva vederlo.
«Sei duro.»
Oh, Dio, pensò John. Altro che.
Per un istante fu assalito dal panico, uno sciacallo che balza fuori dalla
boscaglia ringhiandogli contro. Accidenti a lui, ma era difficile decidere cosa
fosse peggio: Xhex che lo toccava e lui che si ammosciava, come gli era
successo con l'Eletta Layla la notte della transizione; oppure Xhex che non lo
toccava per niente.
Xhex tagliò la testa al toro, voltandosi verso di lui e posandogli la mano sul
petto.
«Tranquillo», disse sentendolo trasalire.
Dopo che John si fu calmato, lei fece scorrere la mano verso il basso, sopra il
suo addome, e, quando strinse tra le dita il suo uccello attraverso i jeans, lui si
inarcò sul letto, spalancando la bocca in un gemito silenzioso.
Non ci furono preliminari, ma lui non ne voleva. Xhex gli slacciò la patta,
liberò il membro turgido e poi si sentì il fruscio dei calzoni di pelle che
toccavano terra.
Gli montò sopra, piantandogli i palmi sui pettorali e spingendolo giù sul
materasso. Qualcosa di caldo, morbido e umido si sfregò contro di lui e John
perse ogni timore di ammosciarsi. Il suo corpo smaniava per penetrarla, nulla
del suo passato disturbava il suo istinto di accoppiamento.
Xhex si sollevò sulle ginocchia, lo prese il mano e lo tenne diritto. Quando
si sedette, lui sentì una pressione deliziosa lungo i lati del pene, la
compressione elettrica scatenò un orgasmo che gli fece sollevare i fianchi di
scatto. Senza pensare se andava bene, si aggrappò alle cosce di lei...
Quando sentì il metallo rimase impietrito, ma ormai era troppo tardi. Non
potè far altro che stringere le mani con forza, scosso dai fremiti, perdendo più
e più volte la verginità.
Era la cosa più strabiliante che avesse mai provato. Era già venuto
facendosi le seghe. Si era masturbato un migliaio di volte, dopo la
transizione. Ma questo non aveva paragoni. Xhex era indescrivibile.
E questo prima che lei cominciasse a muoversi.
Alla fine di quel primo orgasmo fantasmagorico, Xhex gli diede un minuto
per riprendere fiato, poi cominciò a muovere i fianchi su e giù. John si lasciò
sfuggire un ansito. I muscoli della vagina si contraevano e si rilassavano
intorno al suo uccello, la pressione alternata gli indurì i testicoli, subito pronti
a ricominciare.
Adesso capiva fino in fondo la voglia di spogliarsi di Qhuinn. Era
incredibile, specie quando lasciò che il suo corpo seguisse quello di Xhex, e
cominciarono a muoversi insieme. Il ritmo accelerò fino a diventare frenetico,
ma lui aveva l'esatta percezione di quanto stava accadendo, dai palmi di lei
sul suo petto al peso del suo corpo sopra di sé, dalla frizione del sesso al
modo in cui il fiato entrava e usciva affannoso dalla sua gola.
Venne di nuovo, irrigidendosi da capo a piedi, il nome di Xhex sulle labbra
come nelle sue fantasie su di lei... solo con più trasporto.
E poi finì.
Xhex si sollevò da lui e l'uccello ricadde sul suo ventre. Paragonato al
bozzolo rovente del corpo di lei, il morbido cotone della camicia che aveva
addosso sembrava carta vetrata, e l'aria ghiacciata. Il letto si mosse quando
Xhex si stese accanto a lui; al buio John si voltò verso di lei. Aveva il respiro
corto, ma moriva dalla voglia di baciarla in quella pausa, prima che lo
facessero di nuovo.
Allungò la mano e, quando la posò sul suo collo, sentì che lei si irrigidiva,
ma senza ritrarsi. Dio, che pelle morbida aveva... oh, che morbida. I muscoli
che salivano dalle spalle erano d'acciaio, ma ciò che li copriva era liscio come
la seta.
Lentamente John sollevò il busto dal letto e si sporse verso di lei, facendo
scorrere la mano sulla sua guancia, stringendole il viso con delicatezza,
sfregandole il pollice sulle labbra.
Non voleva rovinare tutto. Aveva fatto quasi tutto lei e l'aveva fatto in
modo spettacolare. Soprattutto, gli aveva fatto dono del sesso mostrandogli
che, malgrado la violenza subita, era ancora un maschio, era ancora in grado
di godere di ciò per cui il suo corpo era nato. Se doveva essere lui a baciarla
per primo, era deciso a non sbagliare.
Chinò la testa...
«No, questo non c'entra», disse Xhex spingendolo via; poi scese dal letto e
andò in bagno.
La porta si chiuse e il suo uccello si rattrappì sulla camicia quando l'acqua
cominciò a scorrere: Xhex si stava lavando via ogni traccia di lui, si stava
liberando di ciò che il suo corpo le aveva dato. Con mani tremanti John si
rimise l'uccello nei jeans, sforzandosi di ignorare la sensazione di umido e
l'odore erotico.
Xhex uscì dal bagno, prese il giubbotto e andò ad aprire la porta. Contro la
luce dei corridoio che inondava la stanza, lei era un'ombra alta e forte.
«Fuori è già chiaro, nel caso non avessi controllato l'ora.» Fece una pausa.
«E apprezzo molto che tu sia stato discreto sulla mia... situazione.»
La porta si chiuse in silenzio dietro di lei.
Allora era quello il vero motivo della scopata. Aveva fatto sesso con lui per
ringraziarlo di avere mantenuto il segreto.
Cristo, come aveva fatto a illudersi che fosse qualcosa di più?
Tutti vestiti, senza neanche un bacio. Ed era praticamente sicuro di essere
stato l'unico a venire: il respiro di lei non era cambiato, Xhex non aveva
gridato, non aveva manifestato nessun sollievo stremato, alla fine. Non che
ne sapesse qualcosa degli orgasmi delle femmine, ma era quello che
succedeva a lui quando eiaculava.
Non era stata una scopata per pietà, ma per riconoscenza.
John si strofinò la faccia. Che stupido era stato. A pensare che significasse
qualcosa.
Tanto, ma proprio tanto stupido.
Tohr si svegliò con lo stomaco dipinto a spray col colore del dolore. Lo
strazio era tale che nel suo profondissimo sonno post- prandiale si era stretto
le braccia intorno alla pancia, raggomitolandosi su se stesso.
Sciogliendosi da quella posizione raccolta e tremante, si chiese se ci fosse
qualcosa che non andava nel sangue...
Il brontolio che si levò dal suo stomaco faceva concorrenza al fracasso dei
camion che svuotano i cassonetti dell'immondizia.
Quel dolore... era fame? Abbassò lo sguardo sul pozzo concavo in mezzo ai
suoi fianchi. Massaggiò quella superficie piatta e dura. Ascoltò un altro
ruggito.
Il suo corpo reclamava cibo, massicce quantità di nutrimento.
Guardò l'orologio a muro. Le dieci del mattino. John non gli aveva portato
l'Ultima Cena.
Si rizzò a sedere senza l'aiuto delle braccia e andò in bagno su gambe
curiosamente stabili. Usò il water, ma non per vomitare, poi si lavò la faccia e
si rese conto che non aveva niente da mettersi.
Infilandosi un accappatoio di spugna uscì dalla sua stanza; era la prima
volta da quando ci era entrato.
Le luci lungo la galleria delle statue gli fecero strizzare gli occhi, neanche
fosse stato illuminato da un riflettore al centro di un palcoscenico, e gli ci
volle un minuto per abituarsi a... tutto.
Lungo i due lati del corridoio le statue di marmo nelle loro varie pose erano
esattamente come se le ricordava - forme virili forti, aggraziate e statiche - e
senza un motivo apparente gli tornò alla mente Darius, che le acquistava una
dopo l'altra, arricchendo a poco a poco la collezione. All'epoca D era in
modalità acquisizione, spediva Fritz alle aste da Sotheby's e Christie's, a New
York, e ogni volta che arrivava una cassa con dentro uno di quei capolavori
imballato con estrema cura, il fratello dava un party per l'occasione.
D aveva un'autentica passione per l'arte.
Tohr si accigliò. Wellsie e il suo figlio mai nato sarebbero sempre stati la sua
prima e più grande perdita. Ma aveva anche altre morti da vendicare. I lesser
gli avevano portato via non solo la famiglia, ma anche il suo migliore amico.
La collera che si accese in fondo alle sue viscere scatenò un'altra smania. Di
guerra.
Con una determinazione sconosciuta e familiare a un tempo, Tohr puntò
verso il maestoso scalone e, giunto davanti alla porta socchiusa dello studio,
si fermò. Sentiva la presenza di Wrath dietro quei battenti, ma non aveva
voglia di interagire con nessuno.
O almeno così gli pareva.
Ma allora perché non aveva chiamato in cucina per ordinare qualcosa da
mangiare?
Tohr sbirciò nella fessura tra i battenti della porta.
Wrath era addormentato alla scrivania, i lunghi capelli neri e lucidi allargati
a ventaglio sulle scartoffie, un braccio piegato sotto la testa a mo' di cuscino.
Nella mano libera stringeva ancora la lente d'ingrandimento che era costretto
a usare se voleva cercare di leggere qualcosa.
Tohr entrò nella stanza. Guardandosi intorno vide la mensola del camino e
gli parve quasi di vedere Zsadist appoggiato contro di essa, il volto sfregiato
con un'espressione seria, gli occhi che scintillavano, neri. Phury si sistemava
sempre vicino a lui, di solito nella chaise longue celeste accanto alla finestra.
V e Butch tendevano a sedersi su quel divano dall'aria fragilina. Rhage
sceglieva postazioni diverse a seconda dell'umore...
Tohr si accigliò, notando quello che c'era accanto alla scrivania diWrath.
L'orrenda poltrona verde avocado tutta logora, con i cuscini di cuoio
spelacchiati... era la sua poltrona. Quella che la sua Wellsie aveva insistito per
buttare via perché era ridotta uno schifo. Quella che lui aveva sistemato
nell'ufficio giù al centro di addestramento.
«L'abbiamo portata qui per convincere John a tornare su in casa.»
Tohr voltò la testa di scatto. Wrath si stava sollevando dalla scrivania, la
voce stanca come la faccia.
Il re parlava lentamente, quasi temesse di spaventare il visitatore. «Dopo...
quello che è successo, John non voleva più lasciare l'ufficio. Voleva dormire
solo in quella poltrona. Un disastro... Si comportava male durante i corsi,
attaccava briga coi compagni. Alla fine mi sono impuntato, ho fatto portare
qui quell'obbrobrio e le cose sono migliorate.» Wrath si voltò verso la
poltrona. «Aveva l'abitudine di stare seduto lì a guardarmi lavorare. Dopo la
sua transizione e gli attentati che abbiamo subito quest'estate, dì notte è fuori
a combattere e di giorno dorme, quindi adesso sta qui molto meno. In un
certo senso mi manca.»
Tohr rabbrividì. Che casino aveva combinato con quel povero ragazzo. Era
stato incapace di fare di meglio, certo, ma John aveva sofferto molto.
E soffriva ancora.
Tohr si vergognò di se stesso al pensiero di come si era svegliato in quel
letto, ogni mattina e ogni pomeriggio, con John che gli portava quel vassoio e
restava lì seduto mentre lui mangiava... poi si tratteneva ancora un po', quasi
sapesse che Tohr, appena rimasto solo, avrebbe vomitato quasi tutto quello
che gli avevano servito.
John aveva dovuto affrontare la morte di Wellsie da solo. Superare la
transizione da solo. Vivere chissà quante prime volte da solo.
Tohr si sedette sul divano di V e Butch. Sembrava sorprendentemente
robusto, più di quanto ricordasse. Con le mani sui cuscini, spinse verso il
basso.
«L'abbiamo fatto rinforzare mentre eri via», spiegò piano Wrath.
Ci fu un lungo silenzio, la domanda che Wrath voleva fare aleggiava
nell'aria, sonora come lo scampanio in una cappella privata.
Tohr si schiarì la gola. L'unico con cui avrebbe potuto parlare di quello che
gli passava per la testa era Darius, ma lui era morto e sepolto. Subito dopo
veniva Wrath, però...
«È stato...» Tohr incrociò le braccia sul petto. «E andata bene. Si è messa
dietro di me.»
Wrath annui lentamente. «Ottima idea.»
«E stata un'idea sua.»
«Selena è in gamba. Gentile.»
«Non so quanto ci vorrà», disse Tohr, non volendo parlare dell'Eletta. «Sì,
insomma, sai, prima che sia pronto a combattere. Dovrò prima allenarmi,
andare al poligono di tiro. Fisicamente... non ho idea se riuscirò a
riprendermi, e fino a che punto.»
«Non preoccuparti, pensa solo a rimetterti in salute.»
Tohr abbassò lo sguardo sulle mani e serrò i pugni. Erano tutte pelle e ossa,
quindi le nocche sporgevano come una mappa in rilievo degli Adirondack,
tutta picchi frastagliati e profonde vallate.
Sarebbe stato un lungo viaggio di ritorno, pensò. E anche una volta
recuperate le forze fisiche, al suo mazzo di carte mentale sarebbero mancati
ancora tutti gli assi. A prescindere da quanto pesava o da quanto bene
combatteva, niente avrebbe cambiato quel dato di fatto.
Bussarono alla porta e lui chiuse gli occhi, pregando che non fosse uno dei
fratelli. Non voleva metterla giù dura per quel suo ritorno alla terra dei vivi.
Evviva. Urrà. Iuhuuu.
«Cosa c'è, Qhuinn?» chiese il re.
«Abbiamo trovato John. Più o meno.»
Tohr spalancò le palpebre e si voltò di scatto, guardando accigliato il
ragazzo sulla soglia. Prima che Wrath potesse parlare chiese, «Era sparito?»
Qhuinn parve sorpreso nel vederlo alzato, ma si riprese in fretta quando
Wrath disse, «Perché non mi hai avvertito che era scomparso?»
«Perché non lo sapevo.» Qhuinn entrò nello studio, seguito dal rosso del
corso di addestramento, Blay. «Ci aveva detto di essere di riposo, e che
voleva dormire un po'. Noi lo abbiamo preso in parola e, prima che mi
stacchiate le palle, sono rimasto per tutto il tempo in camera mia perché ero
convinto che John fosse nella sua. Appena mi sono accorto che non c'era
siamo andati a cercarlo.»
Wrath imprecò sottovoce, poi interruppe bruscamente le scuse di Qhuinn
dicendo, «Naa, non fa niente, figliolo. Non potevi saperlo. Non potevi farci
niente. Dove cazzo è?»
Tohr non sentì la risposta per il rombo nella sua testa. John in giro per
Caldwell da solo? Sparito senza dirlo a nessuno? E se gli era successo
qualcosa?
«Un momento, dov'è?» disse, interrompendo la conversazione.
Qhuinn alzò il cellulare. «Non vuole dirlo. Nel suo SMS dice solo che sta
bene, ovunque si trovi, e che vuole vederci domani sera.»
«Quando torna a casa?» chiese Tohr.
«Credo», Qhuinn si strinse nelle spalle, «che non tornerà.»
Capitolo 36
La madre di Rehvenge passò nel Fado alle undici e undici delmattino.
Era circondata dal figlio, dalla figlia, dalla nipotina addormentata e dal
feroce genero, e assistita dall'amata doggen.
Fu una buona morte. Un'ottima morte. Madalina chiuse gli occhi e un'ora
dopo ansimò due volte esalando un lungo respiro, come se il suo corpo
tirasse un sospiro di sollievo nel vedere l'anima che volava via, libera dalla
sua gabbia corporea. E accadde una cosa strana... Nalla si svegliò proprio in
quel momento e puntò lo sguardo non sulla sua granhmen, ma sopra il letto.
Tese verso l'alto le manine paffute e sorrise contenta, come se qualcuno le
avesse appena accarezzato la guancia.
Rehv fissava quel corpo senza vita. Sua madre aveva sempre creduto di
rinascere nel Fado, le radici della sua fede affondavano nel fertile terreno
della sua formazione di Eletta. Lui sperava fosse vero. Voleva credere che
Madalina continuasse a vivere, da qualche parte.
Era l'unica cosa in grado di alleviare, anche se solo minimamente, il dolore
che gli opprimeva il petto.
La doggen si mise a piangere sommessamente e Bella abbracciò la figlioletta
e Zsadist. Rehv rimase in disparte, seduto da solo ai piedi del letto a guardare
il volto di sua madre che, a poco a poco,perdeva colore.
L'improvviso formicolio alle mani e ai piedi gli rammentò che il lascito di
suo padre, proprio come quello di sua madre, non lo abbandonava mai.
Si alzò e con un inchino prese congedo dagli altri. Nel bagno della stanza in
cui si era sistemato guardò sotto il lavandino e ringraziò la Vergine Scriba di
essere stato tanto previdente da nasconderci un paio di fiale di dopamina.
Accese il lampadario e si tolse la pelliccia di zibellino e la giacca di Gucci. La
luce rossa che pioveva dall'alto lo spaventò a morte: pensava che lo stress del
decesso facesse emergere il suo lato malefico; allora la spense, aprì il
rubinetto della doccia e, prima di continuare, attese di veder salire il vapore.
Ingoiò altre due compresse di penicillina, battendo nervosamente il piede.
Quando si sentì in grado di farlo, arrotolò la manica della camicia
ignorando deliberatamente il suo riflesso allo specchio. Dopo aver riempito la
siringa, si strinse intorno al bicipite la cintura di Louis Vuitton, tirando al
massimo il cuoio nero e tenendolo fermo contro le costole.
Infilò l'ago d'acciaio in una delle vene infette e abbassò lo stantuffo...
«Cosa stai facendo?»
La voce di sua sorella gli fece alzare la testa di scatto. Nello specchio, Bella
fissava l'ago nel suo braccio e le vene livide e rovinate. Il suo primo impulso
fu di gridarle di levarsi dai piedi. Non voleva che vedesse quella scena, e non
solo perché significava mentirle di nuovo, ma perché era una cosa sua
personale.
Invece con calma estrasse la siringa, la tappò e la gettò via. Mentre la doccia
sibilava, tirò giù la manica e si infilò giacca e zibellino.
Poi chiuse il rubinetto.
«Ho il diabete», disse. Merda, a Ehlena aveva detto di avere il Parkinson.
Maledizione.
Be', tanto mica dovevano vedersi, lei e sua sorella.
Bella si portò la mano alla bocca. «Da quando? Stai bene?»
«Sto bene.» Rehv si sforzò di sorridere. «E tu?»
«Un momento, da quanto tempo va avanti questa storia?»
«Mi faccio le iniezioni da un paio d'anni a questa parte.» Quella almeno non
era una bugia. «Vedo regolarmente Havers.» Ding! Ding! Un'altra verità.
«Tiro avanti bene.»
Bella guardò il suo braccio. «È per questo che hai sempre freddo?»
«Cattiva circolazione. Per questo ho bisogno del bastone. Pessimo senso
dell'equilibrio.»
«Ma non avevi detto che era colpa di una ferita?»
«Il diabete mi impedisce di guarire completamente.»
«Ah, ecco.» Bella annuì, mesta. «Avrei preferito saperlo prima.»
Quando lo guardò con quei suoi grandi occhi azzurri, Rehv si odiò per
averle mentito, ma gli bastò pensare al volto sereno di sua madre.Le mise un
braccio intorno alla vita e la condusse fuori dal bagno. «Non è mica una
tragedia. Ho tutto sotto controllo.»
L'aria era più fresca in camera da letto, ma lui lo capì solo perché Bella si
strinse le braccia intorno al corpo premendosi contro di lui.
«Quando pensi che dovremmo fare la cerimonia?» gli chiese.
«Chiamerò la clinica e farò venire qui Havers non appena farà buio affinché
prepari la mamma. Poi dovremo decidere dove seppellirla.»
«Al quartier generale della confraternita. È lì che la voglio.»
«Se Wrath permetterà alla doggen e a me di venire, per me va bene.»
«Ma certo. Z è già al telefono con lui.»
«Non credo che in città siano rimasti in molti della glymera desiderosi di
dirle addio.»
«Prenderò la sua agenda giù da basso e butterò giù un necrologio.»
Che conversazione concreta, pragmatica, a dimostrazione che la morte fa a
tutti gli effetti parte della vita.
Quando Bella si mise a singhiozzare sommessamente, Rehv la strinse al
petto. «Vieni qui, sorellina.»
Così abbracciati, con la testa di sua sorella sul petto, pensò a quante volte
aveva tentato di salvarla dal mondo. La vita, però, aveva fatto comunque il
suo corso.
Dio, quando Bella era piccola, prima della transizione, Rehv era sicurissimo
di poterla proteggere, di potersi prendere cura di lei. Quando aveva fame lui
si assicurava che mangiasse, quando aveva bisogno di vestiti gliene
comprava, quando non riusciva a dormire restava con lei finché non
chiudeva gli occhi. Adesso che era cresciuta, invece, gli sembrava che il suo
repertorio si riducesse a una serie di gesti puramente consolatori. Anche se
forse era così che funzionava. Da piccoli, basta una bella ninna nanna per
placare lo stress della giornata e farci sentire al sicuro.
Adesso, con Bella stretta tra le braccia, avrebbe tanto voluto che esistesse un
toccasana analogo anche per gli adulti.
«Mi mancherà», disse lei. «Non ci assomigliavamo tanto, ma le ho sempre
voluto molto bene.»
«Sei stata la sua grande gioia. Sempre.»
Bella si scostò dal fratello. «Anche tu.»
Lui le infilò una ciocca ribelle dietro l'orecchio. «Vuoi restare a dormire qui
con la tua famiglia?»
Bella annuì. «Dove pensi di sistemarci?»
«Chiedi alla doggen di mahmen.»
«Va bene.» Bella gli strinse forte la mano, cosa che lui non potè sentire, e
lasciò la stanza.
Rimasto da solo, andò al letto e tirò fuori il cellulare. Ehlena non gli aveva
mandato nessun SMS, la notte prima; ripescando il numero della clinica dalla
rubrica, cercò di non preoccuparsi. Forse aveva fatto il turno di giorno. Dio,
sperava che fosse così.
Le probabilità che fosse successo qualcosa di brutto erano scarse. Molto
scarse.
Ma l'avrebbe chiamata subito dopo aver sentito Havers.
«Pronto, clinica», rispose una voce nell'Antico Idioma.
«Sono Rehvenge, figlio di Rempoon. Mia madre è appena morta, ho
bisogno di prendere accordi per preservare il suo corpo.»
La femmina all'altro capo della linea si lasciò sfuggire un'esclamazione
soffocata. Nessuna delle infermiere provava simpatia per lui, ma tutte
adoravano sua madre. Tutti l'adoravano...
O meglio, tutti l'avevano adorata.
Rehv si passò la mano sulla cresta da moicano. «Havers potrebbe venire a
casa mia stasera al tramonto?»
«Sì, assolutamente, e se permette a nome di tutti noi, vorrei dirle che siamo
profondamente addolorati per la morte di sua madre e ci auguriamo che sia
approdata serenamente nel Fado.»
«Grazie.»
«Attenda un attimo.» Quando l'infermiera tornò, disse, «Il dottore verrà
immediatamente dopo il tramonto. Col suo permesso, porterà
un'assistente...»
«Chi?» Non era sicuro di volere Ehlena. Preferiva non metterla a contatto
con un altro cadavere così presto, e il fatto che si trattasse di sua madre
poteva risultare ancora più difficile per lei. «Ehlena?»
L'infermiera esitò. «Ehm, no, non Ehlena.»
Rehv si accigliò, il suo istinto di symphath allertato dal tono della femmina.
«Ehlena ce l'ha fatta ad arrivare, ieri sera?» Un'altra pausa. «C'è riuscita?»
«Spiacente, ma non posso discuter...»
La voce di lui si ridusse a un ringhio. «È arrivata sì o no? È una domanda
semplice. Sì. O no.»
L'infermiera andò in agitazione. «Sì, sì, è arrivata...»
«E poi...?»
«Niente. Lei...»
«Allora qual è il problema?»
«Non c'è nessun problema.» L'esasperazione nella voce dell'infermiera gli
fece capire che simpatiche interazioni come quella erano uno dei motivi per
cui stava così antipatico a tutti, alla clinica.
Si sforzò di addolcire la voce. «È chiaro che c'è un problema, e adesso lei mi
dirà cosa sta succedendo, altrimenti continuerò a chiamare finché qualcuno
non si deciderà a parlarmi. E se nessuno lo farà, mi presenterò lì di persona e
vi farò impazzire uno dopo l'altro finché qualcuno non si deciderà a parlare.»
Seguì una pausa vibrante della serie "quanto sei stronzo". «E va bene.
Ehlena non lavora più qui.»
Rehv trattenne il respiro e, d'impulso, fece scattare la mano verso il
sacchetto di plastica pieno di penicillina che teneva nella tasca interna della
giacca. «Perché?»
«Questo non posso dirglielo, qualunque cosa lei faccia.»
Ci fu un clic quando gli riattaccò il telefono in faccia.
Ehlena era seduta al tavolo malandato della cucina con davanti il
manoscritto di suo padre. L'aveva letto due volte alla sua scrivania, poi aveva
messo a letto suo padre ed era salita di sopra, dove l'aveva riletto di nuovo.
Il titolo era Nella foresta pluviale dellamente della scimmia.
Santissima Vergine Scriba, se prima pensava di compatire suo padre adesso
sentiva di capirlo. Le trecento pagine scritte a mano erano una visita guidata
attraverso la sua malattia mentale, un vivido studio, passo dopo passo, di
quando la patologia si era manifestata e di dove lo aveva portato.
Guardò i fogli di alluminio che coprivano le finestre. Le voci nella mente di
suo padre, le voci che lo torturavano, venivano da ima varietà di fonti, tra cui
le onde radio irradiate dai satelliti orbitanti intorno alla Terra.
Questo Ehlena lo sapeva già.
Ma nel libro suo padre descriveva l'alluminio come una rappresentazione
tangibile della psicosi: sia i fogli d'alluminio sia la schizofrenia tenevano fuori
il mondo reale, entrambi lo isolavano... e quando c'erano lui si sentiva più al
sicuro di quando non c'erano. La verità era che suo padre amava e temeva in
eguale misura la sua malattia.
Molti, moltissimi anni prima, dopo che certi suoi parenti lo avevano
ingannato negli affari e rovinato agli occhi della glymera, suo padre aveva
perso la fiducia nella propria capacità di interpretare le intenzioni e le
motivazioni altrui. Si era fidato delle persone sbagliate e questo... gli era
costato la sua shellan.
Ehlena si era fatta delle idee sbagliate sulla morte di sua madre. Subito
dopo il loro tracrollo finanziario, sua madre aveva cercato aiuto nel laudano e
quel sollievo temporaneo si era trasformato in una stampella quando la vita,
per come l'aveva conosciuta lei, le si era sbriciolata tra le mani... denaro,
posizione sociale, case, averi l'avevano lasciata come belle colombe che si
alzano in volo da un campo per andare in un luogo più sicuro.
Poi anche il fidanzamento di Ehlena si era rotto, il suo fidanzato aveva
preso le distanze prima di dichiarare pubblicamente che intendeva porre fine
al loro rapporto... perché Ehlena lo aveva sedotto attirandolo nel proprio letto
e approfittandosi di lui.
Per sua madre era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Quella che era stata una decisione congiunta tra Ehlena e il suo fidanzato
era stata travisata; Ehlena era stata dipinta come una poco di buono, una
sgualdrina che si era divertita a traviare un poveretto animato solo dalle più
nobili intenzioni. Con quella reputazione agli occhi della glymera, Ehlena non
si sarebbe mai sposata, neanche se la sua famiglia avesse mantenuto la
posizione ormai perduta.
La notte che era scoppiato lo scandalo, sua madre era andata nella sua
stanza e qualche ora dopo l'avevano trovata morta. Ehlena aveva sempre
dato per scontato che la causa del decesso fosse stata una overdose di
laudano, invece no. Secondo il manoscritto si era tagliata i polsi ed era morta
dissanguata.
Suo padre aveva cominciato a sentire delle voci subito dopo aver visto la
sua sposa morta nel loro letto matrimoniale, il pallido corpo incorniciato da
un alone rosso scuro; il sangue aveva inondato le lenzuola di un mare di vita
versata.
Col peggiorare della malattia mentale, suo padre si era ritirato sempre più
nella paranoia, ma in uno strano modo si sentiva più al sicuro così. La vita
vera gli appariva snervante, la gente poteva tradirlo oppure no. Le voci nella
sua testa, tuttavia, erano tutte contro di lui. Con quelle scimmie impazzite,
che saltavano tra i rami della foresta che era la malattia e gli tiravano addosso
bastoni e noccioli di frutta sotto forma di pensieri, lui conosceva i suoi nemici.
Poteva vederli, sentirli e conoscerli per quello che erano, e le armi per
combatterli erano un frigorifero in perfetto ordine, l'alluminio alle finestre,
rituali di parole e i suoi scritti.
Fuori, nel mondo reale, si sentiva impotente e smarrito, in balia degli altri,
senza difese per giudicare cos'era pericoloso e cosa no. La malattia, al
contrario, era dove lui voleva che fosse, perché lui conosceva, per riprendere
le sue parole, i confini della foresta, i sentieri tra i tronchi degli alberi e le
tribolazioni delle scimmie.
Lì la sua bussola funzionava alla grande.
Con sua sorpresa, Ehlena scoprì che per suo padre non era tutta una
sofferenza. Prima di ammalarsi era un avvocato civilista esperto nell'Antica
Legge, un legale famoso per la sua passione per il dibattimento e per gli
avversari di valore. Nella malattia aveva ritrovato, in forma diversa, lo stesso
tipo di conflitto che prediligeva quand'era sano di mente. Le voci nella sua
testa, per dirla con la sua autoironia, erano intelligenti e versate nella
dialettica tanto quanto lui. Le sue crisi violente, per lui, non erano altro che
l'equivalente mentale di un bell'incontro di pugilato e, dato che alla fine ne
usciva sempre vivo, si sentiva sempre vittorioso.
Era anche consapevole che non sarebbe mai uscito dalla foresta. Quello era,
come scriveva nell'ultima riga del libro, il suo ultimo indirizzo prima di
andare nel Fado. E il suo unico rimpianto era che lì c'era posto per un solo
abitante, che il suo soggiorno tra le scimmie significava non potere stare con
lei, sua figlia.
Era rattristato da quella separazione e dal peso che sentiva di essere per lei.
Sapeva di essere difficile da gestire. Era consapevole dei sacrifici di Ehlena
e soffriva per la sua solitudine.
Era proprio quello che da sempre lei voleva sentirgli dire, pensò Ehlena,
tenendo tra le mani le pagine del suo libro. Non aveva importanza che
l'avesse messo per iscritto invece di dirglielo a voce. Anzi, meglio così perché
poteva rileggerlo quanto voleva.
Suo padre sapeva molte più cose di quanto lei pensasse.
Ed era molto più contento di quanto lei avrebbe mai immaginato.
Lisciò col palmo la prima pagina. La calligrafia, in inchiostro blu, perché un
avvocato che si rispetti non scrive mai in nero, era chiara e ordinata come il
suo racconto, elegante e armoniosa come le conclusioni più generali che
aveva tratto e le intuizioni che aveva esposto.
Dio... per quanto tempo gli era stata accanto, eppure soltanto adesso sapeva
dove viveva veramente.
E in fondo tutti erano come lui, no? Ognuno nella propria foresta pluviale,
da solo, indipendentemente dalle persone che aveva intorno.
La salute mentale era solo questione di avere meno scimmie? O magari
altrettante, solo più buone?
La suoneria soffocata di un cellulare le fece alzare la testa di scatto. Allungò
la mano verso il cappotto, tirò fuori dalla tasca il telefonino e rispose.
«Pronto?» Dal silenzio capì subito chi era. «Rehvenge?»
«Ti hanno licenziata.»
Ehlena appoggiò il gomito sul tavolo e si coprì la fronte con la mano. «Sto
bene. Stavo per andare a dormire. E tu?»
«È per via delle pillole che mi hai portato, vero?»
«La cena è stata davvero ottima. Fiocchi di latte e carote a Juli...»
«Smettila», sbraitò lui.
Lei lasciò ricadere il braccio, accigliandosi. «Scusa.»
«Perché l'hai fatto, Ehlena? Perché diavolo...»
«Okay, o cambi tono o questa conversazione finisce qua.»
«Ehlena, tu hai bisogno di quel lavoro.»
«Non dirmi di cosa ho bisogno.»
Lui imprecò. Poi imprecò di nuovo.
«Sai», borbottò lei, «aggiungendo una colonna sonora e qualche raffica di
mitragliatrice ai tuoi improperi verrebbe fuori un film alla Die Hard. Com'è
che l'hai scoperto, comunque?»
«Mia madre è morta.»
Ehlena si lasciò sfuggire un ansito. «Co...? Oh, mio Dio, quando? Cioè, mi
dispiace...»
«Una mezz'ora fa.»
Lei scosse lentamente la testa. «Rehvenge, mi spiace davvero tanto.»
«Ho chiamato la clinica per... prendere accordi.» Sospirò con la stessa
stanchezza che provava lei. «Ad ogni modo... sì. Non mi avevi mandato
l'SMS per dirmi che eri arrivata in clinica sana e salva. Così ho chiesto, e l'ho
saputo.»
«Accidenti, volevo farlo, ma...» Be', era troppo presa a farsi licenziare.
«Ma non è l'unico motivo per cui ti ho chiamato.»
«No?»
«È che... avevo bisogno di sentire la tua voce.»
Ehlena fece un profondo respiro, gli occhi fissi sulla calligrafia di suo padre.
Pensò a tutto quello che aveva appreso, di bello e di brutto, da quelle pagine.
«Buffo», disse, «Stasera vale anche per me.»
«Davvero? Nel senso... sul serio?»
«Assolutamente… sì.»
Capitolo 37
Wrath era di cattivo umore, e lo sapeva perché il rumore del doggen che
stava lustrando con la cera la balaustra dilegno in cima allo scalone gli faceva
venire voglia di dar fuoco a tutta la fottutissirna casa.
Stava pensando a Beth. Il che spiegava perché, seduto alla scrivania, il petto
gli facesse un male cane.
Non che non capisse perchè si era arrabbiata con lui o che non pensasse di
meritare un qualche tipo di punizione, solo non gli andava che Beth dormisse
fuori casa, così come non gli andava di doverle chiederle via SMS il permesso
di chiamarla.
Oltre tutto non dormiva da giorni, cosa che di sicuro contribuiva alla sua
incazzatura.
E probabilmente doveva anche nutrirsi. Ma, come per il sesso, era passato
tanto di quel tempo dall'ultima volta che si era attaccato alla sua vena che a
stento ricordava come si faceva.
Si guardò intorno nello studio, rimpiangendo di non potersi curare da solo
l'impulso irresistibile di gridare e uscire fuori a combattere contro qualcuno:
le uniche due alternative erano andare in palestra o ubriacarsi, ma dalla
prima era appena tornato e la seconda non gli interessava per niente.
Controllò di nuovo il cellulare. Beth non aveva ancora risposto all'SMS, che
le aveva inviato tre ore prima. Pazienza. Probabile che avesse da fare o stesse
dormendo.
Pazienza un corno.
Si alzò in piedi, infilò il RAZR nella tasca posteriore dei calzoni di pelle, e
andò alla porta. Il doggen in corridoio stava mettendo una tonnellata di olio di
gomito nel quotidiano lavoro di lucidatura, e il fresco odore di limone che
saliva dai suoi sforzi era penetrante.
«Mio signore», disse il doggen con un profondo inchino.
«Stai facendo un ottimo lavoro.»
«È un piacere.» Il domestico sorrise, raggiante. «È una gioia servire voi e
tutti quelli che abitano in questa casa.»
Wrath gli diede una pacca sulla spalla, poi scese le scale di corsa. Giunto
nell'atrio col bel pavimento a mosaico svoltò a sinistra, verso la cucina, e fu
lieto di non trovarci nessuno. Aprendo il frigorifero si trovò davanti ogni
sorta di avanzi e alla fine, senza il minimo entusiasmo, tirò fuori un tacchino
mezzo mangiato.
Girandosi verso gli armadietti...
«Ciao.»
Wrath voltò la testa di scatto. «Beth? Cosa ci f... credevo che fossi al Porto
Sicuro.»
«Ero lì, infatti. Ma sono appena tornata.»
Wrath si accigliò. Per metà umana e per metà vampira, Beth non aveva
problemi con la luce del sole, ma lui la stressava da matti ogni volta che si
spostava di giorno. Non che adesso volesse affrontare l'argomento. Beth
sapeva già cosa ne pensava e poi era a casa, e questo era l'importante.
«Mi stavo preparando qualcosa da mangiare», disse lui, anche se il tacchino
posato sul tavolo col ceppo da macellaio era un indizio rivelatore. «Ti va di
farmi compagnia?»
Dio, quanto gli piaceva il suo odore. Rose notturne. Per lui era più familiare
di qualsiasi cera al limone, più intrigante di qualunque profumo.
«Cosa ne dici se invece preparo io qualcosa per tutti e due?» si offrì lei.
«Sembri sul punto di svenire.»
Wrath stava già per dire Naa, sto benone, quando si fermò. Anche la più
piccola mezza verità rischiava di rivangare le questioni in sospeso tra loro... e
il fatto che fosse distrutto dalla stanchezza era la pura verità.
«Sarebbe fantastico. Grazie.»
«Siediti», disse Beth, andandogli vicino.
Lui aveva voglia di abbracciarla.
E lo fece.
Le sue braccia scattarono verso l'alto, la cinsero e la attirarono verso il suo
petto. Appena se ne accorse accennò a lasciarla andare, ma lei rimase dov'era,
stretta contro di lui. Con un brivido, Wrath affondò la faccia nei suoi capelli
profumati e setosi, e la sollevò, plasmando la morbidezza del suo corpo sui
duri contorni dei propri muscoli.
«Mi sei mancata da morire.»
«Anche tu mi sei mancato.»
Quando Beth si abbandonò contro di lui non fu così sciocco da pensare che
quel momento fosse un istantaneo toccasana, ma accettò di buon grado quello
che lei gli dava.
Scostandosi leggermente, spostò gli occhiali in cima alla testa per
permetterle di vedere i suoi occhi inutili. Il viso di Beth gli appariva sfocato
ma bellissimo, anche se l'odore di pioggia tipico delle lacrime non gli
piacque. Le asciugò entrambe le guance con i pollici.
«Posso baciarti?»
Quando lei annuì, le prese il volto tra le mani posando la bocca sulla sua.
Quel contatto delicato era familiare in un modo profondo e struggente, e
sembrava quasi appartenere al passato. Era come se fosse trascorso un secolo
da quando si scambiavano molto più che qualche bacetto frettoloso... e quella
separazione non era dovuta solo a ciò che lui aveva fatto. Era per tutto. La
guerra. I fratelli. La glymera. John e Tohr. Quella casa.
Scuotendo la testa, Wrath disse, «La vita si è messa di traverso nella nostra
vita, e ce la sta rovinando.»
«Hai proprio ragione.» Beth gli accarezzò la guancia. «Sta rovinando anche
la tua salute. Quindi adesso mettiti lì seduto e lasciati nutrire.»
«Dovrebbe essere il contrario, è il maschio a nutrire la femmina.»
«Tu sei il re.» Beth sorrise. «Sei tu che detti le regole. E la tua shellan
gradirebbe servirti.»
«Ti amo.» Wrath la attirò di nuovo a sé e rimase così, stretto alla sua
compagna. «Non devi dirlo per forza anche tu...»
«Ti amo anch'io.»
Adesso fu lui a sciogliersi.
«È ora di mangiare», disse Beth, tirandolo verso il rustico tavolo di quercia
e avvicinandogli una sedia.
Wrath si sedette, poi con una smorfia sollevò il fondoschiena e tirò fuori il
cellulare dalla tasca. Il telefonino scivolò dall'altra parte del tavolo andando a
sbattere contro saliera e pepiera.
«Panino?» suggerì Beth.
«Sarebbe fantastico.»
«Facciamo due, visto che sei tu.»
Wrath si rimise gli occhiali sul naso perché la luce del soffitto gli faceva
venire il mal di testa. Non servì a molto, quindi chiuse gli occhi; pur non
vedendo Beth che si .muoveva per la stanza, i rumori di lei in cucina lo
calmarono come una ninna nanna. La sentì aprire dei cassetti, facendo
sbatacchiare gli utensili all'interno. Poi il frigorifero si aprì con un ansito e ci
fu come uno strascichio, seguito da un rumore di vetro che batteva contro
qualcos'altro di vetro. Un cassetto scivolò verso l'esterno, poi il frusciare della
plastica che avvolgeva il pane di segale, che gli piaceva tanto, quindi un
cespo di lattuga che scrocchiava sotto la lama di un coltello...
«Wrath?»
Il suono sommesso del suo nome gli fece alzare le palpebre e la testa.
«Cos...?»
«Ti sei addormentato», disse la sua shellan accarezzandogli i capelli.
«Mangia, che poi ti porto a letto.»
I panini imbottiti erano proprio come piacevano a lui: strapieni di carne,
non troppa lattuga e pomodori e maionese in abbondanza. Li mangiò tutti e
due; avrebbero dovuto rinvigorirlo, invece la stanchezza che lo stringeva in
una morsa letale si fece sentire ancor di più.
«Dai, andiamo», disse Beth prendendolo per mano.
«No, aspetta», fece lui, alzandosi. «Devo dirti cosa succederà stasera al
tramonto.»
«Okay», fece Beth. Dal suo tono traspariva tensione, come se si stesse
preparando al peggio.
«Siediti. Per favore.»
La sedia uscì da sotto al tavolo con uno stridio e Beth si accomodò
lentamente. «Sono contenta che tu sia sincero con me», mormorò.
«Qualunque cosa sia.»
Wrath le accarezzò le dita, cercando di calmarla, sapendo che quanto stava
per dire l'avrebbe allarmata ancora di più. «Qualcuno... be', più di uno,
probabilmente, ma di uno almeno siamo sicuri, vuole uccidermi.» La mano di
Beth si contrasse nella sua, e lui continuò ad accarezzarla, cercando di
infonderle un po' di calma. «Stasera devo vedere il consiglio della glymera e
mi aspetto... dei problemi. Tutti i fratelli verranno con me, non faremo
stupidaggini, ma non voglio mentire dicendoti che sarà una riunione
qualunque.»
«Questo... qualcuno... ovviamente fa parte del consiglio, giusto? Quindi ha
senso che tu ci vada di persona?»
«Quello che ha dato inizio a tutto non è più un problema.»
«Come sarebbe?»
«Rehvenge l'ha fatto assassinare.»
Le mani di lei si tesero di nuovo. «Gesù...» Beth trasse un profondo respiro.
Poi un altro. «Oh... Dio santo.»
«La domanda che adesso ci poniamo tutti è: chi altri è coinvolto? Questo è
uno dei motivi per cui è importante che mi presenti alla riunione. È anche
una dimostrazione di forza, e questo ha il suo peso. Io non scappo. E neanche
i fratelli.»
Wrath si preparò a sentirsi dire No, non andare, e si chiese cosa avrebbe
fatto allora.
Ma la voce di Beth era calma quando disse, «Capisco. Ma ho una richiesta.»
Lui inarcò le sopracciglia di scatto. «Quale?»
«Voglio che indossi un giubbotto antiproiettile. Non che dubiti dei fratelli...
è solo che mi darebbe un po' più di conforto.»
Wrath batté le palpebre, incredulo. Poi si portò le mani di Beth alle labbra e
le baciò. «Va bene. Per te, posso farlo, assolutamente.»
Beth annuì recisa, e si alzò dalla sedia. «Okay. Okay... bene. Adesso però
vieni, andiamo a Ietto. Sono sfinita quanto te.»
Wrath si alzò in piedi, la strinse a sé e insieme attraversarono l'atrio,
calpestando il mosaico di un melo in fiore.
«Ti amo», disse lui. «Ti amo da morire.»
Beth gli strinse un braccio intorno alla vita, appoggiando la faccia sul suo
petto. L'odore acre e fumoso della paura offuscava la sua naturale fragranza
di rose. Ciononostante annuì dicendo, «Neanche la tua regina scappa, sai.»
«Lo so. Lo so... perfettamente.»
In camera sua, nella casa sicura di sua madre, Rehv si spinse all'indietro
fino a sdraiarsi contro i cuscini. Sistemandosi la pelliccia di zibellino sulle
ginocchia, disse nel cellulare, «Ho un'idea. Cosa ne dici se ricominciamo da
capo questa telefonata?»
La risatina sommessa di Ehlena lo mise stranamente di buonumore. «Okay.
Mi richiami tu oppure...»
«Dimmi una cosa, dove sei?»
«Di sopra, in cucina.»
Il che poteva spiegare la leggera eco. «Puoi andare in camera tua?
Rilassarti?»
«Sarà una lunga chiacchierata?»
«Be', ho cambiato tono, prova un po' a sentire.» Abbassò la voce in stile
dongiovanni. «Ti prego, Ehlena. Vai a letto e portami con te.»
Lei trattenne il respiro, poi rise di nuovo. «Che miglioramento.»
«Lo so, bene... così non potrai dire che non ti do retta. Allora, cosa ne dici di
ricambiare il favore? Vai in camera tua e mettiti comoda. Non mi va di stare
da solo, e ho l'impressione che valga lo stesso anche per te.»
Invece di un È vero, Rehv sentì il rumore gratificante di una sedia che
veniva spinta indietro. Ehlena cominciò a muoversi; i suoi passi leggeri erano
incantevoli, lo scricchiolio delle scale no - perché lo spingeva a chiedersi dove
abitasse esattamente con suo padre. Sperava che fosse una antica dimora con
un pittoresco assito d'altri tempi, non un posto fatiscente.
Udì il cigolio di una porta che si apriva e poi una pausa; era pronto a
scommettere che Ehlena era passata a controllare come stava suo padre.
«Sta dormendo?» chiese Rehv.
I cardini della porta cigolarono di nuovo. «Come hai fatto a capirlo?»
«Perché tu sei buona.»
Ci fu un altro rumore di porta e poi il clic di una serratura che scattava. «Mi
dai un minuto?»
Un minuto? Cristo, le avrebbe dato il mondo intero, se avesse potuto.
«Prenditi tutto il tempo che vuoi.»
Ci fu un suono soffocato, come se lei avesse posato il cellulare su un
piumone o una trapunta. Altre porte che protestavano. Silenzio. Un altro
cigolio e il gorgoglio soffocato di uno sciacquone. Rumore di passi. Molle di
un letto. Un fruscio più vicino e poi...
«Pronto?»
«Comoda?» fece lui, consapevole del suo sorrisone idiota... ma, Dio, il
pensiero che lei fosse dove lui voleva che fosse era fantastico.
«Sì. E tu?»
«Altro che.» D'altronde, con la voce di lei nell'orecchio, avrebbero potuto
torturarlo strappandogli le unghie una a una, ma sarebbe stato comunque
felice come una pasqua.
silenzio che seguì era morbido come lo zibellino che aveva addosso, e
altrettanto caldo.
«Ti va di parlare della tua mamma?» chiese dolcemente lei.
«Sì. Anche se non so cosa dire, a parte che se n'è andata serenamente e
circondata dai suoi cari; è quello che chiunque spera per la propria morte,
non si può chiedere di più. Era giunta la sua ora.»
«Però ti mancherà.» «Sì.»
«Posso fare niente per te?» «Sì.»
«Dimmi.»
«Lascia che mi prenda cura ci te.»
Ehlena rise sommessamente. «Giusto. Senti, ti svelo un segreto: in una
situazione come questa sei tu quello di cui ci si dovrebbe prendere cura.»
«Ma sappiamo tutti e due che sono stato io a farti perdere il lavoro...»
«Aspetta un momento.» Ci fu un altro fruscio, come se Ehlena si fosse
appena rizzata a sedere sul letto. «Sono stata io a scegliere di portarti quelle
pillole; sono un'adulta in grado di prendere la decisione sbagliata. Non devi
sentirti in debito con me perché ho combinato un casino.»
«Non sono per niente d'accordo con te. Ma a parte ciò, parlerò con Havers
quando verrà qui e...» «No, invece. Santo cielo, Rehvenge, tua madre è
appena morta. Non devi preoccuparti per...»
«Quello che potevo fare per lei l'ho già fatto. Lascia che ti aiuti. Posso
parlare con Havers...»
«Non farà nessuna differenza. Non si fida più di me, e non posso dargli
torto.»
«Ma capita disfare degli errori.»
«E a certi non si può rimediare.»
«Non ci credo.» Anche se, in quanto symphath, non era esattamente
un'autorità, in fatto di morale, Al contrario. «Specie quando si parla di te.»
«Io non sono diversa dagli altri.»
«Senti, non costringermi a cambiare di nuovo tono», l'ammonì lui. «Tu hai
fatto qualcosa per me, adesso voglio fare io qualcosa per te. E un semplice
scambio di favori.»
«Ma troverò un altro lavoro, ed è una vita che mi arrangio da sola. Si dà il
caso che sia una delle mie doti principali.»
«Non ne dubito.» Rehv fece una pausa a effetto, giocandosi la carta migliore
che aveva. «Il punto, però, è che non puoi lasciarmi con questo peso sulla
coscienza. Sarei divorato dai sensi di colpa. La tua scelta sbagliata è stata una
conseguenza della mia.»
Ehlena rise piano. «Perché non mi sorprende che tu conosca così bene il mio
punto debole? Lo apprezzo veramente, ma se Havers fa uno strappo alla
regola per me, che razza di messaggio darebbe agli altri? Lui e Catya, la
caposala, hanno già comunicato la notizia al resto del personale. Havers non
può più tornare indietro, e neanch'io vorrei che lo facesse solo perché tu l'hai
costretto.»
Be', accidenti, pensò Rehv. Aveva pensato di manipolare la mente di
Havers, ma questo non bastava a sistemare tutte le altre persone che
lavoravano alla clinica.
«E va bene, allora lascia che ti aiuti finché non riuscirai a cavartela da sola.»
«Grazie, ma...»
Rehvenge trattenne un'imprecazione. «Ho un'idea. Vediamoci stasera a casa
mia, così ne possiamo discutere.»
«Rehv...»
«Ottimo. Devo occuparmi di mia madre appena fa buio e a mezzanotte ho
una riunione. Le tre del mattino ti andrebbe bene? Fantastico... allora ci
vediamo.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi lei ridacchiò, «Riesci sempre a ottenere
quello che vuoi, eh?»
«Quasi sempre.»
«E va bene. Stanotte alle tre.»
«Sono proprio felice di aver cambiato tono. Tu no?»
Risero entrambi e la tensione svanì come per magia dalla linea telefonica.
Nel sentire un altro fruscio, Rehv immaginò che Ehlena si stesse sdraiando
di nuovo, rimettendosi comoda.
«Allora posso raccontarti cosa ha fatto mio padre?» disse lei di punto in
bianco.
«Puoi dirmi quello e poi spiegarmi perché non hai mangiato di più, a cena.
E dopo parleremo dell'ultimo film che hai visto, dei libri che hai letto e di
cosa ne pensi del riscaldamento globale.»
«Davvero, tutta questa roba?»
Dio, quanto gli piaceva la sua risata. «Sì. Siamo in rete, quindi è gratis. Oh,
e voglio sapere qual è il tuo colore preferito.»
«Rehvenge... proprio non ti va di stare da solo, eh?» Le parole furono
pronunciate con dolcezza e quasi soprappensiero, come se le fossero sfuggite
di bocca.
«In questo momento... ho solo voglia di stare con te. So soltanto questo.»
«Neanch'io sarei pronta. Se mio padre venisse a mancare stanotte, non sarei
pronta a lasciarlo andare.»
Lui chiuse gli occhi. «È...» Dovette schiarirsi la gola. «È esattamente quello
che provo. Non sono pronto.»
«Anche tuo padre... non c'è più. Quindi so che è ancora più dura.»
«Be', sì, è morto, anche se non mi manca per niente. Per me c'è sempre stata
solo mia madre. E adesso che se n'è andata... mi sembra di essere appena
tornato a casa solo per scoprire che qualcuno le ha dato fuoco. Voglio dire,
non è che la vedessi ogni sera, e neanche ogni settimana, ma potevo sempre
passare a trovarla, sedermi e annusare il suo Chanel No. 5. Potevo sempre
sentire la sua voce e vederla all'altro capo del tavolo. Questa possibilità... mi
teneva ancorato a qualcosa, e l'ho capito soltanto adesso che l'ho perduta.
Merda... dico cose senza senso.»
«No, hanno molto senso, invece. Per me è lo stesso. Mia madre è morta e
mio padre... è qui ma non c'è veramente. Perciò anch'io mi sento senza una
vera casa. Un po' sbandata, alla deriva.»
Ecco perché le persone si sposano, pensò all'improvviso Rehv. Al diavolo il
sesso e la posizione sociale. Se sono intelligenti, lo fanno per costruire una
casa che non ha muri, con un tetto invisibile e un pavimento su cui nessuno
può camminare... eppure è un riparo che nessuna tempesta può abbattere,
nessun fiammifero può incendiare, che non si degrada col passare degli anni.
Fu allora che capì. Un legame così ti aiuta a superare nottate di merda come
quella.
Bella aveva trovato quel riparo in Zsadist. E forse lui doveva seguire
l'esempio della sua sorellina.
«Be'», fece Ehlena imbarazzata, «posso rispondere alla domanda sul mio
colore preferito, se vuoi. Forse servirà ad alleggerire un po' le cose.»
Rehv si riscosse, tornando al presente. «E quale sarebbe?»
Ehlena si schiarì un po' la gola. «Il mio colore preferito è... l'ametista.»
Rehv sorrise fino a farsi dolere le guance. «Mi sembra una scelta
azzeccatissima. È un colore bellissimo. Un colore perfetto.
Capitolo 38
Al funerale di Chrissy c'erano quindici persone che la conoscevano e una
che non la conosceva... e mentre scrutava il cimitero battuto dal vento, Xhex
ne cercava una diciassettesima nascosta tra gli alberi, le tombe e le lapidi più
grandi.
Non c'era da meravigliarsi che quel cavolo di camposanto si chiamasse Pine
Grove, Boschetto dei Pini. C'erano rami frondosi dappertutto, un
nascondiglio perfetto per chi non voleva farsi vedere. Porca puttana.
Aveva trovato il cimitero sulle Pagine Gialle. I primi due che aveva
chiamato erano al completo, fi terzo aveva posto solo nel Muro dell'Eternità,
come l'aveva chiamato il tale che aveva risposto al telefono, quello riservato
ai cadaveri cremati. Alla fine aveva trovato questo Pine Grove, e aveva
acquistato il rettangolo di terra intorno a cui adesso tutti erano raccolti.
La bara rosa era costata grosso modo cinquemila dollari. Il terreno altri
tremila. Il prete, padre o come cavolo lo chiamavano gli umani, aveva
suggerito che una donazione di un centinaio di dollari sarebbe stata
adeguata.
Nessun problema. Chrissy se lo meritava.
Xhex scrutò di nuovo con attenzione quei pini della malora, nella speranza
di individuare lo stronzo che l'aveva assassinata. Bobby Grady doveva farsi
vivo, per forza. Quasi tutti i violenti che uccidono l'oggetto della loro
ossessione restano emotivamente legati alle loro vittime. Anche se la polizia
lo stava cercando, e lui non poteva non saperlo, l'impulso di vederla mentre
la seppellivano avrebbe vinto sulla logica.
Xhex tornò a concentrarsi sull'officiante. L'umano indossava una tonaca
nera col collarino bianco. In mano, sopra la graziosa bara di Chrissy, teneva
una Bibbia da cui leggeva dei brani con voce bassa e colma di reverenza. Tra
le pagine bordate d'oro, alcuni nastri di raso segnavano le sezioni più
utilizzate; le estremità pendevano dal libro, svolazzando rosse, gialle e
bianche nell'aria gelida. Xhex si chiese quali fossero i suoi passi "preferiti".
Matrimoni. Battesimi... sempre che il termine fosse quello giusto. Funerali.
Pregava per i peccatori? Si chiese Xhex. Se ricordava bene le cose del
cristianesimo, era tenuto a farlo... lui non sapeva che Chrissy era una
prostituta, ma se anche l'avesse saputo avrebbe dovuto ostentare quel tono e
quell'espressione pieni di rispetto.
Il che le procurava un certo conforto, anche se non avrebbe saputo dire
perché.
Da nord soffiava una brezza gelida, e Xhex riprese a perlustrare con lo
sguardo il paesaggio. Chrissy non sarebbe rimasta lì, una volta terminata la
cerimonia. Come tanti altri rituali, quello era solo una cosa di facciata. Con la
terra ghiacciata, Chrissy avrebbe dovuto aspettare fino a primavera dentro
una cella frigorifera all'obitorio. Ma almeno aveva già la sua lapide - in
granito rosa, naturalmente - nel punto in cui sarebbe stata inumata. Xhex
aveva voluto un'iscrizione semplice, solo il nome e le date di nascita e di
morte, ma tutt'intorno c'erano molti bei ghirigori.
Era la prima cerimonia funebre umana a cui assisteva, e non poteva essere
più lontana dalla sua sensibilità; tutto quel tumulare, prima nella cassa da
morto e poi sottoterra. Al solo pensiero di essere sepolta le veniva voglia di
allargarsi il collo del giubbotto. No. Non faceva per lei. Da quel punto di vista
era convintamente symphath.
Una bella pira era l'unico modo di andarsene.
Vicino alla tomba, l'officiante si chinò con una pala d'argento e smosse un
po' di terriccio, poi prese una manciata di terra e sopra la bara pronunciò la
frase di rito, «Cenere alla cenere, polvere alla polvere.»
Quindi lasciò volare via i granelli di terra, che vennero subito catturati dal
vento pungente. Xhex sospirò; quella parte aveva un senso anche per lei.
Nella tradizione dei symphath i morti venivano issati su piattaforme di legno,
sotto le quali veniva poi acceso un fuoco; il fumo si levava e si disperdeva
proprio come la terra, in balia degli elementi. E cosa rimaneva? Cenere, che
restava lì dov'era.
Naturalmente i symphath venivano cremati perché, quando "morivano",
nessuno credeva fino in fondo che fossero proprio morti. A volte lo erano. A
volte facevano solo finta. E conveniva essere sicuri.
Ma in entrambe le tradizioni c'era la stessa elegante menzogna, no? Essere
spazzati via, liberi dal corpo, andati eppure parte del Tutto.
Il prete chiuse la Bibbia e chinò il capo; mentre tutti gli altri seguivano il suo
esempio, Xhex si guardò di nuovo intorno, pregando che quel figlio di
puttana di Grady fosse lì, da qualche parte.
Ma da quello che poteva-vedere e percepire, non si era ancora fatto vivo.
Merda, tutte quelle pietre tombali... piantate sulle colline ondulate rese
brulle dall'inverno. Esteticamente erano tutte diverse - alte e sottili oppure
basse e rasoterra, bianche, grigie, nere, rosa, dorate - ma un progetto centrale
le accomunava: le file dei defunti sistemate come le case in un'area di
sviluppo urbano, inframmezzate da vialetti asfaltati e gruppi di alberi.
Una lapide in particolare continuava ad attirare il suo sguardo. Era la statua
di una donna con una lunga veste, gli occhi rivolti verso l'alto, il volto e la
posa sereni e calmi, come il cielo su cui era concentrata. Il granito in cui era
scolpita era grigio pallido, lo stesso colore del firmamento che incombeva
sopra di lei, e per un attimo fu difficile distinguere la pietra tombale
dall'orizzonte.
Riscuotendosi, Xhex guardò Trez che, incrociando il suo sguardo, scosse la
testa in modo impercettibile. Idem iAm. Neanche loro due avevano visto
Bobby.
Nel frattempo il detective de la Cruz stava fissando lei; Xhex lo sapeva non
perché gli avesse restituito il favore, ma perché ogni volta che posava gli
occhi su di lei sentiva cambiare le emozioni dello sbirro. De la Cruz capiva
come si sentiva in quel momento. Veramente. E una parte di lui la rispettava
per la sua sete di vendetta. Ma era anche determinato.
Quando il sacerdote fece un passo indietro e gli astanti cominciarono a
scambiarsi qualche parola, Xhex capì che il servizio funebre era terminato.
Marie-Terese fu la prima a rompere le righe avvicinandosi al prete per
stringergli la mano; vestita a lutto era spettacolare, il velo di pizzo nero era
degno di una sposa, la croce e i grani del rosario tra le sue dita le conferivano
l'aria devota di una suora.
Chiaramente l'abito, il suo bel volto serio e quello che lei gli disse qualunque cosa fosse - incontrarono l'approvazione del prete, perché l'uomo
si inchinò senza lasciarle la mano. Legati da quel contatto, la griglia emotiva
dell'umano slittò verso l'amore, un amore puro, assoluto e casto.
Ecco perché quella statua spiccava, si rese conto Xhex. Marie-Terese era
esattamente come la femmina nella lunga veste. Strana.
«Bella cerimonia, eh?»
Xhex si voltò a guardare il detective de la Cruz. «Così mi è sembrato. Non
saprei dire, di preciso.»
«Non è cattolica, allora.»
«No.» Xhex rivolse un cenno della mano a Trez e iAm mentre la folla si
disperdeva. I ragazzi avrebbero portato fuori a pranzo tutti quanti prima di
tornare al lavoro, un altro modo per rendere omaggio a Chrissy.
«Grady non è venuto», disse il detective.
«No.»
De la Cruz sorrise.
«Lei parla come arreda, sa?»
«Mi piacciono le cose semplici.»
«"Si limiti ai fatti, signora"? Credevo che quella fosse la mia battuta.» Lo
sbirro lanciò un'occhiata alle schiene delle persone che si avviavano verso le
tre auto parcheggiate insieme nel vialetto. Una dopo l'altra, la Bentley di
Rehv, una Honda monovolume e la Camry vecchia di cinque anni di MarieTerese uscirono dal cimitero.
«Allora, dov'è il suo capo?» mormorò de la Cruz. «Mi aspettavo di vederlo
qui.»
«È un nottambulo.» «Ah.»
«Senta, detective, io adesso levo le tende.»
«Davvero?» Il poliziotto fece un ampio gesto del braccio. «E con che cosa?
O le piace camminare con questo tempaccio?»
«Ho parcheggiato da un'altra parte.»
«Ah, sì? Non pensava di restare nei paraggi? Per vedere se c'era qualche
ritardatario, sa.»
«Perché mai dovrei fare una cosa del genere?»
«Già, perché.»
Lunga, lunghissima pausa, durante la quale Xhex rimase a fissare la statua
che le ricordava Marie-Terese. «Le va di darmi un passaggio fino alla mia
macchina, detective?»
«Sì, certo.»
La berlina priva di contrassegni era funzionale come il guardaroba del
detective, ma come il suo pesante cappotto era calda e, come quello che c'era
sotto i suoi vestiti, era potente - il motore rombava come quello dentro il
cofano di una Corvette.
Partendo in quarta, De la Cruz la guardò. «Dove devo andare?»
«Al club, se non le spiace.»
«E lì che ha lasciato la macchina?»
«Mi hanno dato un passaggio fin qui.» «Ah.»
Mentre de la Cruz guidava lungo la strada tortuosa, Xhex guardava le
lapidi del cimitero e per un istante pensò a tutti corpi da cui si era
allontanata.
Compreso quello di John Matthew.
Aveva fatto del suo meglio per non pensare a quello che avevano fatto e al
modo in cui aveva lasciato quel suo corpo grosso e muscoloso, steso
scompostamente nel suo letto. I suoi occhi, mentre la guardavano andare via,
erano pieni di un'angoscia che lei non poteva permettersi di interiorizzare.
Non perché non gliene fregasse niente, no, tutto il contrario: le importava
troppo.
Ecco perché aveva dovuto andarsene, e perché non poteva permettersi di
restare di nuovo da sola con lui. Aveva già imboccato quella strada, e i
risultati erano stati a dir poco tragici.
«Si sente bene?» chiese de la Cruz.
«Io sto benone, detective. E lei?»
«Bene. Benissimo. Grazie dell'interessamento.»
Il cancello del cimitero si profilò minaccioso poco più avanti, i battenti
spalancati sui due lati del viale d'accesso.
«Mi sa che tornerò qui », disse de la Cruz, frenando prima di immettersi
nella strada di fronte. «Perché credo che Grady alla fine si farà vivo. Dovrà
farlo, prima o poi.»
«Be', non mi vedrà.»
«No?»
«No. Ci conti.» Era troppo brava a nascondersi.
Quando il cellulare emise un bip nel suo orecchio, Ehlena fu costretta ad
allontanarlo dalla testa. «Ma cosa... Oh. La batteria è quasi scarica. Aspetta un
momento.»
La profonda risata di Rehvenge la spinse a interrompere la ricerca del
caricabatterie, per non perdersi neanche un istante di quel rombo.
«Okay, ho infilato la spina», disse, risistemandosi contro i cuscini.
«Dunque, dove eravamo... ah, sì. Allora, sono curiosa, che tipo di uomo
d'affari sei, esattamente?»
«Il tipo che ha successo.»
«Il che spiega il tuo guardaroba.»
Lui rise di nuovo. «No, è il mio buon gusto a spiegare il guardaroba.»
«Allora il successo è quello che ti permette di pagartelo.»
«Be', la mia famiglia è fortunata. Non c'è bisogno di aggiungere altro.»
Ehlena si concentrò di proposito sul piumone per non essere costretta a
ricordare quanto era squallida l'angusta stanza in cui si trovava. Meglio
ancora... spense la lampada posata sulle cassette del latte che aveva
accatastato accanto al letto.
«Che cos'è stato?» chiese Rehv.
«La luce. Io, ehm, l'ho spenta.»
«Oh, cribbio, ti ho tenuta sveglia troppo a lungo.» «No, solo... volevo stare
al buio, tutto qua.»
Rehv abbassò la voce al punto che lei lo sentì a malapena. «Perché?»
Sì, come no, adesso gli avrebbe confessato che era perché non voleva
pensare a dove abitava... «Io... volevo mettermi un po' più comoda.»
«Ehlena.» Il desiderio che trasudava dalla sua voce cambiò il tenore della
conversazione, facendola passare da una innocua chiacchierata, così, tanto
per flirtare - a qualcosa di molto sensuale. In un attimo le parve di tornare nel
letto di Rehv, in quell'attico, nuda, la bocca di lui sulla pelle.
«Ehlena...»
«Cosa», fece lei con voce roca.
«Hai ancora addosso l'uniforme? Quella che ti ho tolto?»
«Sì.» Più che una parola era un fil di fiato, e andò ben oltre la risposta alla
domanda che le aveva rivolto. Sapeva cosa voleva Rehv, e lo voleva anche lei.
«I bottoni sul davanti», mormorò lui. «Ne slacci uno per me?» «Sì.»
Quando ebbe slacciato il primo, lui disse, «Adesso un altro.»
Andarono avanti così finché l'uniforme non fu tutta sbottonata ed Ehlena si
rallegrò di aver spento la luce... non perché altrimenti si sarebbe sentita in
imbarazzo, ma perché così le sembrava che Rehv fosse lì con lei.
Rehvenge gemette, e lei sentì che si leccava le labbra. «Se fossi lì, sai cosa
farei? Farei scorrere la punta delle dita giù, fino ai tuoi seni. Poi traccerei dei
cerchi intorno a uno dei capezzoli, così sarebbe pronto.»
Ehlena fece quello che lui aveva descritto e, quando si toccò, le sfuggì un
ansito. Poi si rese conto... «Pronto per cosa?»
Lui fece una risata lunga e sommessa. «Vuoi sentirmelo dire, eh?» «Sì.»
«Pronto per la mia bocca, Ehlena. Ti ricordi com'è stato? Perché io ricordo
perfettamente che sapore hai. Tieni su il reggiseno e pizzicati per me... come
se ti stessi succhiando attraverso quelle graziose coppe di pizzo.»
Ehlena strinse pollice e indice, intrappolando il capezzolo tra le due dita.
L'effetto non era all'altezza del risucchio caldo e umido delle sue labbra, ma
poteva bastare, specie perché glielo aveva chiesto lui. Ehlena si pizzicò di
nuovo e inarcò la schiena, pronunciando in un gemito il nome di Rehv.
«Oh, Cristo... Ehlena.»
«E.... adesso... cosa...» disse lei, ansimando; tra le cosce sentiva una smania
irresistibile, era bagnata, vogliosa di quanto stavano per fare, qualunque cosa
fosse.
«Voglio essere lì con te» gemette lui.
«Ma tu sei qui con me. E così.»
«Ancora. Pizzicati ancora.» Lei gridò il suo nome, tutta fremente, e Rehv fu
lesto a darle un altro ordine. «Alzati la gonna. Intorno alla vita. Metti giù il
telefono e sbrigati. Sono impaziente.»
Lei lasciò cadere il cellulare sul letto e sollevò la sottana fin sopra le cosce e i
fianchi. Dovette cercare a tastoni il cellulare, poi in fretta lo avvicinò
all'orecchio.
«Pronto?»
«Dio, che bello... ho sentito la stoffa che scivolava sul tuo corpo. Voglio che
cominci dalle cosce. Inizia da lì. Accarezzati dal basso verso l'alto senza
toglierti le calze.»
Il collant funzionò come un conduttore del suo tocco, amplificando la
sensazione di piacere, proprio come la voce di lui.
«Ricorda che sono io a farlo», disse Rehv con voce sensuale, «Ricordatelo.»
«Sì, oh, sì...»
Pregustando ciò che sarebbe seguito Ehlena ansimava, al punto che quasi
non lo sentì mormorare, «Vorrei tanto sentire il tuo odore.»
«Salgo più su?»
«No.» Lei pronunciò il suo nome in segno di protesta; allora Rehv rise come
fanno gli amanti, in modo dolce e sommesso, con un misto di soddisfazione e
di promessa. «Sali lungo l'esterno della coscia fino al fianco, poi gira dietro e
torna giù.»
Ehlena ubbidì e Rehv continuò a guidarla a parole, da una carezza all'altra.
«Mi è piaciuto da morire fare l'amore con te. Non vedo l'ora di farlo di nuovo.
Sai cosa sto facendo?»
«Cosa?»
«Mi sto leccando le labbra. Perché sto pensando a me che, un bacio dopo
l'altro, mi faccio strada sulle tue cosce, e poi faccio scorrere la lingua su e giù,
nel punto in cui muoio dalla voglia di stare.» Lei mugolò di nuovo il suo
nome e venne ricompensata. «Vai là sotto, Ehlena. Sopra le calze. Vai dove ho
voglia di stare.»
Nel farlo, lei sentì tutto il fuoco che avevano generato attraverso il nylon
sottile e, per reazione, si eccitò ancora di più. Adesso era tutta bagnata.
«Toglile», ordinò Rehv. «Le calze. Toglile e tienile in mano.»
Ehlena posò di nuovo il telefono e si strappò via le calze dalle gambe, senza
curarsi di smagliare. Cercò affannosamente il cellulare e, appena fu a portata
d'orecchio, chiese qual era il passo successivo.
«Infila la mano dentro le mutandine. E dimmi cosa trovi.»
Ci fu una pausa. «Oh, Dio.,, sono bagnata.»
Questa volta, quando Rehvenge mugolò, lei si chiese se fosse in erezione:
aveva visto che ne era capace, ma d'altra parte essere impotente non significa
che non può venirti duro. Significa solo che, per un motivo o per un altro,
non riesci a eiaculare.
Dio, quanto avrebbe voluto dargli degli ordini anche lei, ordini che lo
portassero a eiaculare. Ma non sapeva fin dove era il caso di spingersi.
«Accarezzati e pensa che sono io», ringhiò lui. «Quella è la mia mano.»
Lei ubbidì e fu travolta dall'orgasmo; abbandonandosi sul letto, gridò il suo
nome in un'esplosione quanto più possibile silenziosa.
«Levati le mutandine.»
Ricevuto, pensò lei, mentre con gesti bruschi le sfilava dalle cosce
gettandole dio solo sapeva dove.
Si sdraiò di nuovo, ansiosa di rifarlo, quando lui disse, «Riesci a tenere il
cellulare tra la spalla e l'orecchio?»
«Sì.» 'Fanculo; se voleva trasformarla in una contorsionista, lei era pronta
ad accontentarlo.
«Prendi le calze con tutte e due le mani, tirale più che puoi e poi falle
scorrere in mezzo alle gambe, avanti e indietro.»
Lei rise in modo erotico, poi languida disse, «Vuoi che mi masturbi con le
calze, giusto?»
Il respiro di lui quasi le stordì l'orecchio. «Cazzo, sì»,
«Sporcaccione.»
«La tua lingua potrebbe ripulirmi per benino. Cosa ne dici?» «Sì.»
«Mi piace sentire quella parola sulle tue labbra.» Lei rise e lui disse, «Allora,
che cosa stai aspettando, Ehlena? Devi fare buon uso di quelle calze.»
Lei incuneò il cellulare tra il collo e la spalla, trovò la posizione giusta e poi,
sentendosi una sgualdrina e godendone da morire, prese i collant bianchi,
rotolò su un fianco e li infilò in mezzo alle gambe.
«Bello teso», disse lui col fiato corto.
Ehlena ansimò a quel contatto, la striscia di nylon, liscia e tesa, affondò nel
suo sesso in tutti i punti giusti.
«Muoviti contro le calze», disse Rehvenge con soddisfazione. «Fammi
sentire quant'è bello.»
Lei eseguì alla lettera; i collant si bagnarono e si scaldarono quanto la vulva.
Andò avanti così, cavalcando le sensazioni e il fiume di parole di lui, finché
venne, una prima volta e poi ancora e ancora: al buio, a occhi chiusi e con la
voce di Rehv nell'orecchio, era bello quasi quanto farlo con lui.
Alla fine, esausta, stremata, respirando a fatica, ma quanto mai appagata, si
rannicchiò intorno al telefono.
«Sei così bella», disse piano lui.
«Solo perché tu mi fai diventare così.»
«Oh, non sai quanto ti sbagli.» La voce di lui si ridusse a un sussurro.
«Vieni a trovarmi un po' prima, stanotte? Non ce la faccio ad aspettare fino
alle quattro.» «Sì.»
«Bene.»
«Quando?»
«Sarò qui con mia madre e i miei parenti fin verso le dieci. Facciamo a
quell'ora?» «Sì.»
«Dopo ho quella riunione, ma avremo un'ora abbondante tutta per noi.»
«Perfetto.»
Ci fu una lunga pausa ed Ehlena ebbe l'allarmante sensazione che potesse
essere riempita da un Ti amo da parte di entrambi, se ne avessero avuto il
coraggio.
«Dormi bene», disse lui in un sussurro.
«Anche tu, se ci riesci. E, ascolta, se non riesci a dormire chiamami. Io sono
qui.»
«Lo farò. Promesso.»
Ci fu un altro momento di silenzio, come se tutti e due stessero aspettando
che fosse l'altro ad attaccare per primo.
Ehlena rise, anche se il pensiero di lasciarlo andare le faceva male al cuore.
«Okay, conto fino a tre. Uno, due...»
«Aspetta.»
«Cosa?»
Lui non rispose per un tempo che parve infinito. «Non ho voglia di
attaccare il telefono.»
Lei chiuse gli occhi. «Nemmeno io.»
Rehvenge lasciò andare il fiato lentamente, senza fare rumore. «Grazie. Per
essere rimasta con me.»
La parola che le venne in mente non aveva molto senso, e non sapeva bene
perché la disse, ma lo fece:
«Sempre.»
«Se vuoi, puoi chiudere gli occhi e immaginarmi lì vicino a te. Che ti tengo
stretta.»
«Farò proprio così.».
«Bene. Sogni d'oro.» Fu lui a chiudere la telefonata.
Quando Ehlena staccò il cellulare dall'orecchio e premette chiudi, la tastiera
si illuminò di un azzurro vivo. Il telefono era caldo per essere stato tanto a
lungo a contatto con la sua pelle, e lei fece scorrere il pollice sul display
piatto.
Sempre. Per lui voleva esserci sempre.
La tastiera si spense, la luce svanì con una perentorietà che la
gettò nel panico. Ma poteva sempre chiamarlo, no? Sarebbe apparso
patetico e un tantino asfissiante, ma Rehv restava sulla faccia della terra
anche se non era al telefono con lei.
La possibilità di chiamarlo c'era, era reale.
Dio, sua madre era morta quel giorno. E, di tutte le persone della sua vita
con cui avrebbe potuto passare quelle ore, aveva scelto lei.
Tirandosi lenzuola e piumone sulle gambe, Ehlena si raggomitolò intorno al
telefono, lo strinse a sé e si addormentò.
Capitolo 39
Segnando il passo nella squallida casetta che aveva deciso di usare come
laboratorio per la produzione di droga, Lash sedeva ritto su una poltrona che
nella sua vecchia vita avrebbe proibito al suo rottweiler di usare come cesso.
Era una poltrona reclinabile da due soldi, un coso imbottito che purtroppo
era comodo da morire.
Non esattamente il trono che cercava, ma un posto super per parcheggiarci
il deretano.
Al di là del suo laptop aperto, la stanza di quattro metri per quattro era
arredata con scarti di mobilio a prezzi stracciati, divani dai braccioli consunti,
il quadro di uno sbiadito Gesù Cristo appeso sbilenco, macchioline tonde sul
tappeto stinto - piscio di gatto, probabilmente.
Mr D dormiva con la schiena appoggiata alla porta d'ingresso, pistola in
pugno, il cappello da cowboy abbassato sugli occhi, Altri due lesser erano
parcheggiati sotto le porte ad arco della stanza, ciascuno contro uno stipite, le
gambe allungate.
Grady era sul divano, con di fianco una scatola di Domino's Pizza aperta
ma vuota, a parte le macchie di unto e le strisce a raggiera di formaggio sul
cartone bianco. Si era mangiato un'intera Mighty Meaty gigante tutto da solo
e adesso stava leggendo una copia del Caldwell Courier Journal del giorno
prima.
Nel vederlo così rilassato gli venne voglia di fargli un'autopsia da vivo. Il
figlio dell'Omega meritava di suscitare un po' più di ansia nelle sue vittime di
rapimento, e che cazzo.
Lash controllò l'orologio e decise di concedere ai suoi uomini solo un'altra
mezz'ora per ricaricarsi. In giornata avevano in programma altri due incontri
con spacciatori di droga, e quella sera, per la prima volta, i suoi uomini
sarebbero usciti per strada con la merce.
Il che significava che la faccenda del re dei symphath doveva restare in
sospeso fino all'indomani... Lash se ne sarebbe occupato, ma gli interessi
finanziari della Società avevano la priorità su tutto.
Lash spinse lo sguardo in cucina, al di là di uno dei lesser appisolati, dove
era stato aperto un lungo tavolo pieghevole. Sparse sopra il piano laminato
c'erano delle bustine di plastica tipo quelle che si trovano nei centri
commerciali con dentro un paio di orecchini a buon mercato. Alcune
contenevano della polverina bianca, altre dei granellini marroni, altre ancora
delle pasticche. Gli agenti diluenti utilizzati, come il lievito in polvere e il
talco, erano ammonticchiati in soffici mucchietti mentre il cellofan che
avvolgeva le confezioni da chilo era abbandonato sul pavimento.
Era un bottino enorme. Secondo Grady valeva grosso modo 250.000 dollari
e si poteva smerciare, con quattro uomini per strada, nel giro di un paio di
giorni.
A Lash quelle cifre piacevano parecchio; aveva passato le ultime ore a
esaminare il suo modello commerciale. L'accesso a una quantità maggiore di
merce avrebbe posto la questione del rifornimento; non poteva usare per
sempre il sistema spara-e-frega perché prima o poi i bersagli si sarebbero
esauriti. Il problema era in che punto della catena commerciale inserirsi:
c'erano gli importatori stranieri, come i sudamericani, i giapponesi o gli
europei; poi i grossisti, come Rehvenge; poi i grossi spacciatori, come quelli
che Lash stava facendo fuori. Considerata la difficoltà di arrivare ai grossisti,
e il tempo necessario per sviluppare dei contatti con gli importatori, la cosa
più logica era diventare a sua volta un produttore.
La geografia limitava le sue scelte, perché Caldwell aveva una stagione del
raccolto inesistente, ma droghe come l'ecstasy e la me- tamfetamina non
avevano bisogno del bel tempo. E, tanto per cambiare, in Internet si potevano
trovare indicazioni su come costruire e gestire dei laboratori per la
produzione di metamfetamina e di ecstasy. Procurarsi gli ingredienti avrebbe
comportato qualche problema, certo, perché esistevano norme e meccanismi
di controllo per monitorare la vendita dei vari componenti chimici. Ma dalla
sua parte Lash aveva il controllo mentale: essendo gli umani così facilmente
manipolabili, avrebbe trovato il modo di risolvere quel tipo di problemi.
Fissando lo schermo luminoso del portatile, decise che il prossimo grosso
impegno di Mr D sarebbe stato mettere in piedi un paio di quelle strutture
produttive. La Lessening Society possedeva abbastanza beni immobili; una
delle fattorie sarebbe stata perfetta, che cavolo. Il reclutamento del personale
sarebbe stato un problema, ma la questione del reclutamento in generale
andava affrontata in ogni caso.
Mentre Mr D metteva in piedi le strutture, Lash avrebbe fatto piazza pulita
sul mercato. Rehvenge andava eliminato. Anche se la Società trattava solo
ecstasy e metamfetamina, meno erano i piccoli spacciatori di quelle droghe
meglio era, il che significava far fuori il grossista in cima alla catena. Anche
se... trovare il modo in cui arrivare a lui sarebbe stato un bel rompicapo. Allo
Zero- Sum c'erano quei due Mori e quella troia lesbica, oltre a una quantità di
telecamere di sicurezza e sistemi di allarme da fare invidia al Metropolitan
Museum of Art. E Rehv stesso doveva essere un gran figlio di puttana furbo
come una volpe, altrimenti non sarebbe durato tanto a lungo. Il club era
aperto da quanto, cinque anni, tipo?
Un sonoro fruscio di carta lo spinse a sollevare lo sguardo dal Dell. Grady
si era alzato dal divano dove prima era stravaccato e stava appallottolando
rabbiosamente il quotidiano, i pugni serrati come i nodi sulla cima di una
nave, quell'anello senza pietra che gli segava la carne del dito.
«Cosa c'è?» chiese sarcastico Lash. «Hai letto che la pizza fa alzare il
colesterolo o roba del genere?»
Non che fosse un problema: lo stronzo non sarebbe vissuto abbastanza da
preoccuparsi delle sue coronarie.
«No, niente... niente.»
Grady gettò via il giornale e si risedette pesantemente sui cuscini del
divano. Con quella sua faccia insignificante che sbiancava sempre più, si mise
una mano sul cuore, come se quello stesse facendo aerobica dentro la cassa
toracica, e con l'altra si tirò indietro i capelli che, radi com'erano, non avevano
nessun bisogno di essere scostati dalla fronte stempiata.
«Cosa cazzo ti prende?»
Grady scosse la testa, chiuse gli occhi e mosse le labbra come se stesse
parlando tra sé.
Lash abbassò di nuovo gli occhi sullo schermo del computer.
Almeno adesso quell'idiota era turbato. Bene, poteva ritenersi soddisfatto.
Capitolo 40
La sera seguente, Rehv scese lentamente lo scalone ricurvo della casa sicura
della sua famiglia, riaccompagnando Havers al sontuoso portone da cui il
medico della razza era entrato una quarantina di minuti prima. Lo seguivano
anche Bella e l'infermiera che l'aveva assistito. Nessuno parlava; c'era solo un
rumore di passi insolitamente sonoro sul folto tappeto.
Mentre avanzava, Rehv sentiva solo odore di morte. L'aroma penetrante
delle erbe rituali permaneva nelle sue narici, quasi vi avesse trovato riparo
dal freddo; chissà quanto tempo doveva passare prima di non sentirlo più
ogni volta che inspirava.
Veniva voglia di prendere una. sabbiatrice e darci dentro, lassù nelle cavità
nasali.
A dire il vero aveva un bisogno disperato di una boccata d'aria fresca, solo
che non osava accelerare il passo. Tra il bastone e la ringhiera intagliata se la
stava cavando bene, ma dopò aver visto sua madre avvolta nelle bende di
lino, il suo torpore, dal corpo, si era esteso alla testa. Ci mancava solo che
ruzzolasse giù dalle scale fin sul marmo dell'atrio.
Sceso anche l'ultimo gradino, passò il bastone nella mano destra e quasi si
precipitò ad aprire il portone. Il vento gelido che lo investì fu una
benedizione e una maledizione insieme. La sua temperatura corporea
precipitò in caduta libera; Rehv riuscì comunque a fare un bel respiro
ghiacciato che sostituì in parte ciò che lo aveva afflitto con la promessa di una
nevicata imminente.
Schiarendosi la gola, tese la mano al medico della razza. «Hai trattato mia
madre con rispetto incredibile. Ti ringrazio.»
Dietro gli occhiali di tartaruga lo sguardo di Havers mostrava una
commozione autentica e non puramente professionale; strinse la mano a
Rehvenge con sincero cordoglio. «Tua madre era una persona molto speciale.
La razza ha perduto una delle sue luci spirituali.»
Bella si fece avanti per abbracciare il medico e Rehv salutò con un inchino
l'infermiera, intuendo che preferiva evitare ogni contatto fisico con lui.
Quando la coppia uscì dal portone per smaterializzarsi verso la clinica,
Rehv si concesse un istante per guardare il cielo notturno. Sì, la neve stava
per tornare, e non solo la leggera spruzzata della sera prima.
Chissà se sua madre aveva fatto in tempo a vedere il nevischio
se invece si era persa l'ultima possibilità di ammirare quei delicati miracoli
di cristallo che scendevano dolcemente giù dal cielo.
Dio, non c'era un numero infinito di notti per nessuno. Nessuno poteva
godersi lo spettacolo di nevicate infinite.
Sua madre adorava la neve che cadeva. Tutte le volte che nevicava andava
in salotto, accendeva le luci esterne, spegneva quelle interne e si sedeva a
guardare fuori, nella notte. Restava lì finché non smetteva di nevicare. Per
ore.
Che cosa aveva visto, si chiese Rehv. Che cosa aveva visto nella neve che
cadeva? Non glielo aveva mai chiesto.
Cristo, perché le cose devono finire?
Rehv chiuse fuori lo spettacolo invernale e si appoggiò contro
robusti pannelli di legno del portone. Ritta davanti a lui, sotto il
lampadario, sua sorella, apatica e con gli occhi infossati, stringeva tra le
braccia la figlioletta.
Non l'aveva mai messa giù da quando la madre era morta, ma alla piccola
non dispiaceva affatto. Tra le braccia della mamma, Nalla dormiva, la fronte
corrugata per la concentrazione, quasi stesse crescendo talmente in fretta,
anche nel sonno, da non concedersi neanche una pausa.
«Anch'io ti tenevo in braccio così», disse Rehv. «E tu dormivi così.
Profondamente.»
«Davvero?» Bella sorrise, accarezzando la schiena di Nalla.
Quella sera indossava un body bianco e nero con sopra il logo del tour live
degli AC/DC; Rhev non riuscì a trattenere un sorriso. Non lo sorprendeva
affatto che sua sorella avesse preferito un corredino grintoso a tutte le cosine
carine e zuccherose piene di anatroccoli e coniglietti. Che Dio la benedicesse.
Se mai lui avesse avuto dei figli.
Accigliandosi, diede un colpo di freno a quel pensiero.
«Cosa c'è?» chiese sua sorella.
«Niente.» Già, era solo la prima volta in vita sua che pensava di avere una
discendenza.
Forse era la morte di sua madre.
Forse era Ehlena, gli fece notare un'altra parte di lui.
«Vuoi qualcosa da mangiare?» disse. «Prima di tornare a casa con Z?»
Bella guardò in su, verso le scale, da dove arrivava lo scroscio di una
doccia. «Sì, grazie.»
Rehv le mise una mano sulla spalla e insieme si avviarono lungo un
corridoio tappezzato di paesaggi incorniciati, poi attraversarono una sala da
pranzo con le pareti color merlot. La cucina, in contrasto col resto della casa,
era semplice al limite del funzionale, in compenso c'era un bel tavolo e Rehv
parcheggiò sua sorella e la nipotina su una delle sedie coi braccioli e l'alto
schienale.
«Cosa ti va di mangiare?» chiese, aprendo il frigo.
«Hai dei cereali?»
Rehv andò al pensile dove tenevano i cracker e il cibo in scatola, sperando
che... i Frosties, sì. Una grossa scatola di Frosties se ne stava spalla a spalla
con i cracker Keebler Club e i crostini Pepperidge Farm.
Tirando fuori i cereali, voltò la scatola e guardò Tony la Tigre, la mascotte
del prodotto.
Fece scorrere la punta del dito lungo i contorni del personaggio da cartoni
animati, dicendo piano, «Ti piacciono ancora i Frosties?»
«Oh, altro che. Sono i miei preferiti.»
«Bene. Mi fa molto piacere.»
Bella fece una risatina. «Perché?»
«Non... ricordi?» Rehv si interruppe. «Già, perché dovresti?»
«Ricordare cosa?»
«E stato tanto tempo fa. Ti guardavo mentre li mangiavi e... era bello, tutto
qua. Quanto ti piacevano. Mi piaceva che ti piacessero tanto.»
Prese una scodella, un cucchiaio, il latte scremato e portò il tutto a sua
sorella, facendo spazio davanti a lei.
Mentre Bella spostava la piccola sull'altro braccio in modo da liberare la
mano destra per tenere il cucchiaio, Rehv aprì la scatola e il sottile sacchetto
di plastica e cominciò a versare.
«Dimmi quando basta», disse lui.
Il rumore dei fiocchi di cereali che cadevano nella scodella, quel fruscio
sommesso, parlava di vita normale, quotidiana, ed era troppo forte. Come
quei passi sulle scale. Come se il silenzio del cuore palpitante di sua madre
avesse alzato il volume del resto del mondo. Gli venne voglia di tapparsi le
orecchie.
«Basta», disse Bella.
Rehv mise giù la scatola di cereali e prese il cartone del latte Hood,
versando sopra i fiocchi un ruscello bianco. «Un'altra volta, con sentimento.»
«Basta.»
Rehv si sedette, chiuse il cartone del latte e, saggiamente, si trattenne dal
chiederle se voleva passagli Nalla. Per quando fosse scomodo mangiare
tenendola in braccio, Bella non l'avrebbe lasciata ancora per un bel po', e a lui
andava bene così. Più che bene. Vedere come sua sorella traeva conforto dalla
nuova generazione confortava anche lui.
«Mmm», mormorò Bella alla prima cucchiaiata.
Nel silenzio della stanza, Rehv si concesse di tornare indietro nel tempo, in
un'altra cucina, in un'altra epoca, molti anni prima, quando sua sorella era
molto più giovane e lui notevolmente meno corrotto. Rammentò quella
particolare scodella di Frosties che Bella aveva dimenticato, quella che, una
volta finita, voleva riempire di nuovo. Bella aveva dovuto combattere contro
tutto quello che quel bastardo di suo padre le aveva messo in testa sul fatto
che le femmine dovessero restare magre e non chiedere mai il bis. Rehv aveva
esultato in silenzio quando sua sorella aveva attraversato la cucina della loro
vecchia casa per andare a prendere la scatola dei cereali... e, quando si era
servita un'altra porzione, era corso in bagno a versare le sue lacrime di
sangue.
Aveva assassinato il padre di Bella per due motivi: sua madre e Bella.
Una delle soddisfazioni ricavate da quel delitto era stata la timida libertà di
Bella, che l'aveva spinta a mangiare ancora quando aveva fame. L'altra era
sapere che sul viso di sua madre non ci sarebbero più stati lividi.
Chissà cosa avrebbe pensato Bella se avesse saputo quello che lui aveva
fatto. Lo avrebbe odiato? Forse. Non sapeva fino a che punto sua sorella
ricordasse tutti quei maltrattamenti, in particolare quelli subiti dalla loro
mahmen.
«Stai bene?» chiese d'un tratto lei.
Rehv si passò la mano sulla cresta da moicano. «Sì.»
«A volte è difficile capire cosa provi.» Bella abbozzò un sorriso, quasi a
voler addolcire le sue parole per essere certa di non offenderlo. «Non so mai
se stai bene.»
«Sto bene.»
Lei lasciò vagare lo sguardo per la cucina. «Cosa ne farai di questa casa?»
«Penso di tenerla per altri sei mesi, almeno. L'ho comprata da un umano un
anno e mezzo fa e devo tenerla ancora un po' se non voglio rimetterci
economicamente.»
«Sei sempre stato bravo con i soldi.» Bella si chinò per mangiare un'altra
cucchiaiata. «Posso chiederti una cosa?»
«Tutto quello che vuoi.»
«Hai qualcuno?»
«Qualcuno in che senso?»
«Lo sai... una compagna. O magari un compagno.»
«Credi che sia gay?» Rehv scoppiò a ridere e quando Bella diventò tutta
rossa gli venne voglia di abbracciarla forte.
«Be', non c'è problema se lo sei, Rehvenge.» Bella annuì in un modo che lo
fece sentire come se gli avesse dato un colpetto sulla mano per rassicurarlo.
«Voglio dire, non hai mai portato a casa nessuno, mai. E non voglio pensare...
che tu... ehm... Be', sono passata dalla tua stanza per vedere come stavi, oggi,
e ti ho sentito parlare con qualcuno. Non stavo origliando... non stavo... Oh,
accidenti.»
«Non fa niente.» Rehv le fece un gran sorriso; poi si rese conto che non c'era
una risposta semplice" a quella domanda. O almeno alla parte relativa al fatto
che avesse o meno qualcuno.
Ehlena era... che cos'era?
Si accigliò. La risposta che gli venne in mente lo colpì nel profondo. Molto.
E, data la sovrastruttura di bugie su cui si reggeva la sua vita, non era sicuro
che fosse un'idea saggia: la sua montagna di carbone era troppo instabile per
consentire di scavare tanto in profondità.
Bella abbassò lentamente il cucchiaio. «Mio Dio... hai qualcuno, vero?»
Rehv si costrinse a rispondere in modo da ridurre le complicazioni, anche
se era come levare un solo rifiuto da un cumulo di immondizia.
«No. No, non ho nessuno.» Guardò la scodella. «Ne vuoi ancora?»
Lei sorrise. «Sì, grazie.» Mentre Rehv versava, Bella disse, «Sai, la seconda
scodella è sempre la migliore.»
«Sono d'accordissimo con te.»
Bella picchiettò il dorso del cucchiaio sui fiocchi di cereali per immergerli
bene nel latte. «Ti voglio bene, fratellone.»
«Anch'io ti voglio bene, sorellina. Sempre.»
«Penso che mahmen sia nel Fado a vegliare su di noi. Non so se credi in
queste cose, ma lei ci credeva, e dopo la nascita di Nalla ho cominciato a
crederci anch'io.»
Rehv sapeva che avevano rischiato di perdere Bella durante il parto, e si
chiese cosa avesse visto lei in quei momenti, quando la sua anima non era né
di là né di qua. Non si era mai soffermato troppo a riflettere su dove si finiva
da morti, ma era pronto a scommettere che sua sorella aveva ragione. Se c'era
qualcuno in grado di vegliare sui propri cari dal Fado, era la loro adorata,
devotissima madre.
Quel pensiero lo riempiva di conforto e determinazione.
Da lassù, sua madre non avrebbe mai dovuto preoccuparsi per la sua
discendenza. Non per colpa di suo figlio.
«Oh, guarda, nevica», esclamò Bella.
Rehv guardò fuori dalla finestra. Alla luce dei lampioni a gas del viale
d'accesso piccoli puntini bianchi fluttuavano nell'aria.
«A lei sarebbe piaciuto tantissimo», mormorò.
«A mahmen!»
«Ricordi come si metteva seduta a guardare i fiocchi che cadevano?»
«Non li guardava cadere.»
Accigliandosi, Rehv guardò sua sorella. «Ma sì, invece. Per ore, lei...»
Bella scosse la testa. «Le piaceva come appariva il paesaggio dopo la
nevicata.»
«Come fai a saperlo?»
«Una volta gliel'ho chiesto. Sì, insomma, le ho chiesto perché se ne stava lì
seduta tutto quel tempo a guardare fuori.» Bella spostò Nalla tra le braccia e
le accarezzò la peluria sulla testolina.
«Mahmen ha risposto che la neve, coprendo tutto - il terreno, i rami, i tetti le ricordava quand'era dall'Altra Parte, con le Elette, quando andava tutto
bene. Ha detto che... ogni nevicata la riportava indietro nel tempo, a prima
della sua caduta. Non ho mai capito cosa significasse, e lei non ha mai voluto
spiegarmelo.»
Rehv guardò di nuovo fuori dalla finestra. Al ritmo in cui cadevano, i
fiocchi ci avrebbero messo un bel po' a imbiancare il paesaggio.
Nessuna meraviglia che sua madre avesse passato ore a guardare fuori
dalla finestra.
Wrath si svegliò al buio, ma era un buio delizioso, familiare e felice. Aveva
la testa poggiata sul suo cuscino, la schiena sul suo materasso, le coperte
tirate fin sotto il mento e nel naso aveva l'odore della sua shellan.
Aveva dormito serenamente e a lungo; lo capì dal bisogno che aveva di
stiracchiarsi. E il mal di testa era sparito. Sparito... Dio, conviveva con quel
dolore da tanto di quel tempo che solo in sua assenza capì quanto era
peggiorato.
Si sgranchì tutto, tendendo i muscoli delle gambe e delle braccia fino a far
scrocchiare le spalle, e riallineò la spina dorsale con un diffuso senso di
benessere in tutto il corpo.
Rotolando sulla pancia cercò Beth col braccio, glielo fece scivolare intorno
alla vita e si raggomitolò contro la sua schiena, affondandole il viso nei
morbidi capelli sulla nuca. Beth dormiva sempre sul fianco destro e stringerla
così, sbaciucchiandola e facendole un po' di coccole, gli era proprio
congeniale... gli piaceva avvolgerla nel proprio corpo, tanto più grosso del
suo, perché così
aveva la sensazione di essere abbastanza forte da proteggerla.
Tenne l'inguine lontano da lei, però. Il suo uccello era duro e carico di
desideri impellenti, ma lui era già grato di stare sdraiato accanto a lei... e non
voleva certo rovinare quel.momento mettendola a disagio.
«Mmm», fece Beth, accarezzandogli il braccio. «Sei sveglio.»
«Sì.» Eccome.
Ci fu un fruscio di lenzuola quando lei si voltò, muovendosi contro il
braccio di lui fino ad averlo di fronte, «Hai dormito bene?»
«Oh, sì.»
Quando sentì una tiratina ai capelli, capì che Beth stava giocherellando con
le punte arricciate e si compiacque di non averli tagliati. Anche se doveva
raccoglierli in una coda di cavallo quando usciva a combattere e anche se ci
metteva una vita ad asciugarli - tanto che, incredibile ma vero, era costretto a
usare un cavolo di phon come una qualsiasi ragazzina - Beth andava matta
per i suoi capelli lunghi. Più di una volta se li era allargati a ventaglio sopra i
seni nudi...
Okay, meglio pensare ad altro, altrimenti rischiava di saltarle addosso o di
andare fuori di testa.
«Mi piacciono da morire i tuoi capelli, Wrath.» Al buio, la voce pacata di lei
era come il tocco delle sue dita, delicato, devastante.
«Mi piace da morire quando li accarezzi», disse lui, la voce velata
dall'eccitazione, «quando ci infili le mani dentro, tutto quello che ci fai.»
Rimasero Dio solo sa quanto tempo così, sdraiati vicini, uno di fronte
all'altra, con lei che si attorcigliava tra le dita le folte onde di lui.
«Grazie», disse piano Beth, «per avermi detto di stanotte.»
«Avrei preferito darti qualche buona notizia.»
«Mi fa comunque piacere che tu me l'abbia detto, Preferisco saperlo.»
Lui trovò il suo viso a tastoni e, passandole le dita sulle guance e sul naso,
fino alle labbra, la vide con le mani e la conobbe col cuore.
«Wrath...» La mano di lèi si posò sulla sua erezione.
«Oh, cazzo...» I fianchi di lui si sollevarono di scatto e la schiena si irrigidì.
Beth rise sommessamente. «Quando fai l'amore usi un linguaggio che
farebbe invidia a uno scaricatore di porto.»
«Scusa, io...» Gli mancò il respiro quando Beth cominciò ad accarezzarlo
sopra i boxer che non si era levato per rispetto verso di lei. «Caz... cioè,
volevo dire...»
«No, mi piace. Sei tu.»
Beth lo fece rotolare sulla schiena e gli montò sopra... porca miseria. Sapeva
che era andata a letto con una camicia da notte di flanella ma, ovunque fosse
finita, non le copriva le gambe perché il suo dolce sesso infuocato sfregava
proprio sul membro in erezione.
Con un ringhio, Wrath perse la testa. Sollevandosi di colpo la rovesciò sulla
schiena, si sfilò i boxer Calvin Klein, che portava di rado, e affondò dentro di
lei. Quando Beth gridò, graffiandogli la schiena con le unghie, le zanne di lui
si allungarono al massimo, smaniose.
«Ho bisogno di te», mugolò Wrath. «Ho bisogno di questo.»
«Anch'io.»
Non le risparmiò niente della sua potenza, ma d'altronde a lei piaceva farlo
così, a volte, in modo brutale, selvaggio, farsi marchiare con impeto dal corpo
di lui.
Il ruggito di Wrath, quando venne dentro di lei, fece vibrare il dipinto a olio
appeso sopra al letto e tintinnare le boccette di profumo sul cassettone, e lui
continuò a pompare imperterrito, più bestia che amante civilizzato. Ma
quando l'odore dì lei gli invase le narici, capì che Beth lo voleva così
com'era.., ogni volta che raggiungeva l'orgasmo lei veniva insieme a lui, la
vulva si contraeva, stringendolo in una morsa, trattenendolo dentro di sé.
«Prendi la mia vena...» lo implorò Beth, senza fiato.
Soffiando come un felino, lui si avventò sul suo collo, mordendola con foga.
Beth trasalì sotto di lui e, tra i loro due inguini, Wrath sentì crescere un
calore che non aveva niente a che fare con quello che le aveva lasciato dentro.
Nella sua bocca il sangue di lei era il dono della vita, denso sulla lingua e poi
giù in gola; gli riempiva le viscere con un fuoco che lo infiammava
dall'interno.
Mentre beveva, i fianchi ripresero a pompate con vigore, per il piacere di
entrambi. Quando fu sazio leccò i segni del morso, poi la cercò di nuovo,
chinandosi a sollevarle una gamba per poterla penetrare ancora più a fondo.
Dopo essere venuto un'altra volta, l'afferrò per la nuca avvicinandola, fino a
sentire le sue labbra sulla gola.
Senza concedergli il tempo di dar voce alla sua supplica, Beth lo morse;
appena le zanne affilate lo trafissero con una dolcissima fitta di dolore, Wrath
ebbe un orgasmo ancora più violento di tutti gli altri: sapere di avere quello
che lei voleva e di cui aveva bisogno, sapere che lei viveva grazie a quello che
scorreva nelle sue vene, era erotico da impazzire.
Quando la sua shellan fu sazia e gli ebbe leccato le ferite per rimarginarle,
Wrath rotolò sulla schiena tenendola stretta, sperando di...
Ah, sì, Beth cominciò a montarlo alla grande. Lasciandole condurre il gioco,
Wrath cercò i suoi seni e scoprì che aveva ancora addosso la camicia da notte,
allora gliela sfilò dalla testa e la gettò via, chissà dove. Le strinse di nuovo i
seni; erano così grossi e turgidi, tra le sue mani, che non riuscì a trattenersi;
inarcandosi prese in bocca uno dei capezzoli e lo succhiò mentre lei pompava
con forza, finché non divenne troppo difficile mantenere il contatto e Wrath
fu costretto a lasciar ricadere il busto sul letto.
Beth gridò, poi gridò lui, e poi vennero insieme. Dopo, Beth crollò sul letto
e rimasero così, sdraiati fianco a fianco, ansimanti.
«È stato incredibile», disse lei con un filo di voce.
«Proprio incredibile, cazzo.»
Wrath cercò a tentoni, al buio, finché non trovò la mano di lei, e per un po'
rimasero così.
«Ho fame», disse Beth.
«Anch'io.»
«Lascia, vado io a prendere qualcosa per tutti e due.»
«Non andare, non voglio», disse lui tirandola per la mano verso di sé, e
baciandola. «Sei la femmina migliore che un maschio possa mai desiderare.»
«Anch'io ti amo.»
Neanche si fossero messi d'accordo, i loro stomaci protestarono all'unisono.
«Okay, forse è ora di mangiare la pappa.» Risero, e Wrath lasciò andare la
sua shellan. «Ecco, adesso accendo la luce così puoi trovare la camicia da
notte.»
Capì immediatamente che qualcosa non andava perché Beth smise di
ridacchiare, e rimase impietrita.
«Leelàn? Stai bene? Ti ho fatto male?» Oh, Dio... era stato così brutale. «Mi
dispiace...»
Lei lo interruppe con voce strozzata. «La mia luce è già accesa, Wrath. Stavo
leggendo quando ti sei svegliato.»
Capitolo 41
John se la prese comoda nella doccia di Xhex, lavandosi con estrema cura,
non perché fosse sporco, ma perché pensava di poter giocare anche lui a
"mettiamoci una pietra sopra", quello che è successo non è mai successo".
Dopo che Xhex se n'era andata, parecchie ore prima, il suo primo pensiero
era stato terribile. In tutta sincerità, l'unica cosa che avrebbe voluto fare era
uscire in pieno sole e farla finita una volta per tutte con quello scherzo da
prete chiamato vita.
Erano tantissime le cose in cui faceva pena. Non riusciva a parlare; era una
frana in matematica; il suo senso della moda, se lasciato a se stesso, era
anemico; non era particolarmente bravo con le emozioni; di solito perdeva a
gin rummy e sempre a poker, e questi erano soltanto alcuni tra i suoi tanti
punti deboli.
Ma fare schifo sul piano sessuale era il peggiore di tutti.
Sdraiato nel letto di Xhex a riflettere Sui vantaggi della propria autoimmolazione, si era chiesto perché essere un disastro come amante sembrasse
più importante di qualunque altra carenza.
Forse perché l'ultimo capitolo della sua vita amorosa lo aveva portato su un
terreno ancora più accidentato e ostile. Forse perché il fallimento più recente
era ancora freschissimo.
Forse perché era la fatidica goccia che fa traboccare il vaso.
Per come la vedeva lui, aveva fatto sesso due volte, e tutte e due le volte era
stato posseduto, la prima volta con violenza e contro la sua volontà e la
seconda, qualche ora prima, con il suo consenso più pieno e incondizionato.
Ih entrambi i casi le conseguenze erano state catastrofiche. Nel tempo
trascorso nel letto di Xhex aveva tentato di non rivangare più quei traumi.
Con pessimi risultati, naturalmente.
Col calar della sera, tuttavia, gli erano ricresciute le palle perché aveva
capito che si stava lasciando scombussolare dagli altri. Lui non aveva fatto
niente di male, in un caso come nell'altro, dunque perché cavolo stava
pensando di mettere fine alla sua vita quando il problema non era lui?
La risposta non era trasformarsi nell'equivalente vampiresco di una
pastafrolla.
E che cavolo, no. La risposta stava nella decisione di non essere mai più una
vittima.
D'ora in poi, a letto, non si sarebbe più fatto mettere sotto.
John uscì dalla doccia, si asciugò e si piazzò davanti allo specchio
valutando la propria muscolatura e,forza fisica. Si prese in mano il pacco;
stringerlo nel palmo, così grosso e pesante, era una bella sensazione.
No. Basta essere una vittima degli altri. Era ora di crescere, cazzo.
Lasciò cadere l'asciugamano sul piano del lavandino, si vestì in fretta, e in
qualche modo, mentre si agganciava le pistole e prendeva il cellulare, si sentì
più alto.
Non voleva più essere il solito cazzone debole e piagnucoloso.
L'SMS che inviò a Qhuinn e Blay fu molto esplicito: ci vediamo @ ZS. Voglio
sbronzarmi e mi aspetto lo stesso da voi 2.
Dopo aver premuto invia, controllò il registro delle chiamate. Un sacco di
gente aveva provato a contattarlo, soprattutto Blay e Qhuinn, che a quanto
pareva lo avevano chiamato ogni paio d'ore. C'era anche uno sconosciuto che
gli aveva telefonato tre volte.
Risultato: due messaggi nella casella vocale che ascoltò senza particolare
curiosità, aspettandosi che lo sconosciuto fosse un umano che aveva sbagliato
numero.
Non era così.
La voce di Tohrment era bassa e tesa: «Ehi, John, sono io, Tohr. Ascolta... io,
ehm, non so se ascolterai questo messaggio, ma se lo senti puoi chiamarmi?
Sono in pensiero per te. Sono in pensiero per te e voglio dirti che mi dispiace.
Per un bel pezzo sono stato fuori di testa, lo so, ma adesso ho deciso di
tornare. Sono andato... sono andato alla Tomba. Ecco dov'ero. Dovevo
tornare lì a vedere... Merda, non lo so neanch'io... dovevo vedere dove tutto è
cominciato prima di riuscire a riscuotermi e a tornare alla realtà. E poi mi...
ehm... mi sono nutrito, ieri sera. Per la prima volta da...» La voce si incrinò,
poi si sentì un grosso sospiro, «... da quando è morta Wellsie. Non credevo di
farcela a superare questa cosa, ma invece ce l'ho fatta. Mi ci vorrà un po'
per...»
A quel punto il messaggio s'interruppe e la voce automatizzata gli chiese se
voleva salvare o cancellare. John premette il tasto per passare al messaggio
successivo.
Di nuovo Tohr: «Ehi, scusa, sono stato tagliato. Volevo solo dirti che mi
dispiace di averti piantato in asso. Non è stato giusto nei tuoi confronti.
Anche tu hai sofferto per la morte di Wellsie, e io non sono rimasto lì ad
aiutarti, e questo non me lo perdonerò mai. Ti ho abbandonato quando avevi
bisogno di me. E... mi dispiace davvero tanto. Ho smesso di scappare, però.
Non vado più da nessuna parte. Penso... sì, insomma, sono qui e qui devo
restare, ecco. Cazzo, dico cose senza senso. Senti, per favore chiamami e
dimmi che stai bene. Ciao.»
Ci fu un bip e poi la voce automatizzata che diceva, «Salvare o cancellare?»
John staccò il cellulare dall'orecchio e lo guardò; ebbe un attimo di
esitazione perché il bambino che ancora era in lui invocava disperatamente
suo padre.
L'SMS di Qhuinn che comparve sul display lo riscosse da quel momento di
immaturità.
John premette cancella per eliminare il secondo messaggio vocale di Tohr e,
quando gli venne chiesto se voleva tornare al messaggio precedente, disse di
sì e cancellò anche quello.
L'SMS di Qhuinn diceva solo: C saremo.
Ottimo, pensò John. Prese il giubbotto di pelle e uscì,
Essendo disoccupata e con un mucchio di conti da pagare, Ehlena non
aveva nessun motivo di essere di buonumore.
Eppure, quando si smaterializzò per andare al Commodore, era felice.
Aveva dei problemi? Sì, assolutamente: se non trovava un lavoro alla svelta,
lei e suo padre rischiavano di non avere più un tetto sopra la testa. Ma per
superare quel primo momento di difficoltà aveva fatto domanda per un posto
come domestica presso una famiglia di vampiri e stava pensando di integrare
con qualche lavoretto a tempo perso nel mondo umano. Trascrivere le
registrazioni audio dei medici era un'idea, l'unico problema era che lei non
aveva un'identità umana che valesse la tessera plastificata su cui era
stampata, e ottenerla costava dei bei soldi. Comunque Lusie era pagata fino
alla fine della settimana e suo padre era felice che sua figlia avesse gradito la
sua "storia", come la chiamava lui.
E poi c'era Rehv.
Non sapeva come sarebbe finita, tra loro, ma una concreta possibilità di
riuscita c'era, e il senso di speranza e ottimismo che ne derivava la rincuorava
in ogni aspetto della sua vita, compreso quello relativo alla perdita del
lavoro.
Riprendendo forma sulla terrazza dell'attico giusto, sorrise ai fiocchi di
neve che turbinavano nel vento; chissà come mai,
quando li vedevi cadere, il freddo non sembrava più così freddo.
Voltandosi, vide una sagoma imponente al di là della vetrata. Rehvenge la
stava aspettando con ansia, non stava più nella pelle per quell'incontro,
proprio come lei; a quel pensiero fece un sorriso talmente ampio che i denti
davanti avvertirono il freddo.
Prima che potesse avvicinarsi, la vetrata davanti a lui si aprì e Rehvenge
colmò in due falcate la distanza che li separava; il vento gelido s'insinuò sotto
la pelliccia di zibellino gonfiandola intorno al suo corpo. I suoi occhi color
ametista brillavano eccitati, il suo passo trasudava potenza, l'aura che lo
circondava era innegabilmente virile.
Ehlena ebbe un tuffo al cuore quando le si fermò davanti. Nel chiarore della
città sotto di loro, il suo volto era duro e amorevole a un tempo; col rischio di
congelarsi fino al midollo, Rehvenge si aprì la pelliccia, invitandola a
condividere il calore del suo corpo.
Ehlena si premette contro di lui circondandolo con le braccia, stringendolo
forte, respirando a fondo il suo odore.
Lui le avvicinò la bocca all'orecchio. «Mi sei mancata.»
Lei chiuse gli occhi, pensando che quelle tre paroline erano un po' come
dire Ti amo. « Anche tu.»
Rehv ridacchiò compiaciuto e lei sentì sia il suono della risata sia il rombo
nel suo petto. Poi lui l'abbracciò ancora più forte. «Sai, quando ti stringo così,
contro di me, non sento più freddo.»
«Ne sono felice.»
«Anch'io.» Rehv si voltò insieme a lei per ammirare la terrazza imbiancata
dalla neve, i grattacieli del centro e i due ponti con le file di lucine gialle e
rosse dei veicoli. «Non mi sono mai goduto questo panorama così da vicino.
Prima di te... lo vedevo solo da dietro la vetrata.»
Avvolta nel caldo bozzolo protettivo del suo corpo e della pelliccia, Ehlena
provò un senso di trionfo al pensiero che insieme avevano vinto il gelo.
Con la testa poggiata sul cuore di Rehv disse, «È magnifico.» «Già.»
«Eppure... non so, solo tu mi sembri reale.»
Rehvenge si scostò leggermente e, con una delle sue lunghe dita, le alzò il
mento. Ehlena sorrise e, notando che le zanne di lui si erano allungate, subito
si eccitò.
«Stavo pensando esattamente la stessa cosa», disse lui. «In questo momento
non vedo altro che te.»
Chinò la testa e la baciò, e poi la baciò ancora e ancora, mentre i fiocchi di
neve danzavano tutt'intorno, come se loro due fossero una forza centrifuga,
un universo a sé stante che ruotava lentamente.
Ehlena gli fece scivolare le braccia intorno al collo e chiuse gli occhi,
lasciandosi trasportare insieme a lui dall'emozione.
Così però non vide - e Rehvenge non avvertì - la presenza che si era
materializzata in cima al tetto dell'attico...
E che li fissava torva con due occhi rosso vivo, lo stesso colore del sangue
appena versato.
Capitolo 42
« Stai fermo, per favore, se riesci,.. okay, bene così.»
La dottoressa Jane passò a esaminare l'occhio sinistro di Wrath
trafiggendolo fino in fondo ai cervello con la luce della torcia a stilo, o almeno
questa fu la sua sensazione. Con quella lancia luminosa che scavava dentro di
lui, dovette lottare contro l'impulso di tirare indietro la testa.
«Ti dà proprio fastidio, eh?», mormorò Jane spegnendo la torcia.
«Sì.» Wrath si stropicciò gli occhi e si rimise gli occhiali; vedeva solo un
paio di lucidi cerchi neri.
«Ma questo è normale», intervenne Beth. «Non ha mai sopportato la luce.»
Mentre la sua voce aleggiava nell'aria, Wrath le strinse la mano con forza
nel tentativo di rassicurarla... se funzionava, per estensione si sarebbe
rassicurato anche lui.
Quando si dice rovinare l'atmosfera. Una volta appurato che gli occhi di
Wrath si erano presi una piccola vacanza fuori programma, Beth aveva
chiamato Jane, la quale si era detta prontissima a rientrare subito a casa dal
nuovo spazio adibito ad ambulatorio. Wrath però aveva insistito per andare
da lei. Non voleva che Beth ricevesse qualche brutta notizia nella loro camera
matrimoniale, tanto più che quello, per lui, era un luogo sacro. A parte Fritz,
che entrava per fare le pulizie, nessuno era il benvenuto nella loro camera da
letto. Nemmeno i fratelli.
E poi la dottoressa Jane avrebbe voluto fare degli esami. I medici voglio
sempre fare degli esami.
Convincere Beth aveva richiesto del tempo, ma poi Wrath aveva inforcato
gli occhiali e, con un braccio intorno alle spalle della sua shellan, era uscito
insieme a lei dai loro appartamenti scendendo la scala privata fino alla
balconata del primo piano. Lungo la strada era inciampato un paio di volte
negli angoli delle passatoie e sui gradini; quel percorso accidentato era stato
una rivelazione. Non si era mai reso conto prima di quanto si fosse affidato
alla sua vista, per quanto debole.
Porca... santissima Vergine Scriba. E se era diventato cieco del tutto e in
modo permanente?
No, non voleva neanche pensarci. Nel modo più assoluto.
Per fortuna, a metà del tunnel che portava al centro di addestramento
aveva sentito alcune dolorose fitte alla testa e all'improvviso la luce che
pioveva dal soffitto era penetrata oltre gli occhiali da sole. O meglio, i suoi
occhi l'avevano percepita. Wrath si era fermato battendo le palpebre, si era
strappato via gli occhiali ma poi, appena alzati gli occhi sui pannelli
fluorescenti, se li era dovuti rimettere.
Non tutto era perduto, allora.
Ritta di fronte a lui, Jane incrociò le braccia sul petto facendo arricciare i
baveri del camice bianco. Era solidissima, la forma spettrale tangibile quanto
la sua o quella di Beth; guardandola riflettere sul caso, gli parve quasi di
sentire gli ingranaggi del cervello che giravano freneticamente.
«In sostanza le tue pupille non rispondono allo stimolo luminoso, ma è
perché sono quasi contratte, tanto per cominciare... Accidenti, vorrei tanto
averti sottoposto a un esame oculistico di riferimento. Hai detto che la cecità
si è manifestata all'improvviso?»
«Sono andato a letto e quando mi sono svegliato non vedevo più niente.
Non so di preciso quando è successo.»
«Era cambiato qualcosa?»
«A parte il fatto che non avevo più mal di testa?»
«Di recente ne hai sofferto spesso?»
«Sì. È lo stress.»
Jane si accigliò. O almeno questa la percezione di Wrath. Per lui il viso della
dottoressa era una macchia pallida e sfocata dai tratti indistinti, con una corta
zazzera bionda.
«Devi fare una TAC alla clinica di Havers.»
«Perché?»
«Per verificare un paio di cose. Dunque, vediamo se ho capito bene, ti sei
svegliato e la vista era sparita...»
«Perché vuoi farmi fare la TAC?»
«Voglio vedere se c'è qualcosa di anormale nel tuo cervello.»
Beth gli strinse forte la mano, quasi tentasse di tranquillizzarlo, ma il panico
lo rese villano. «In che senso? Per l'amor del cielo, Jane, parla, cosa potrebbe
esserci?» «Un tumore.» Wrath e Beth trattennero il respiro; allora Jane si
affrettò ad aggiungere, «I vampiri non si ammalano di cancro. Ma si sono
verificati casi di tumori benigni e questo potrebbe spiegare le emicranie.
Adesso dimmi bene di nuovo, ti sei svegliato e... non ci vedevi più. Ti era
successo qualcosa di insolito prima di addormentarti? O magari dopo?»
«Io...» Cazzo. Merda. «Mi sono svegliato e mi sono nutrito.»
«Quanto tempo era passato dall'ultima volta?»
Fu Beth a rispondere. «Più o meno tre mesi.»
«È un bel po'», mormorò la dottoressa.
«Allora pensi che possa essere per questo?» chiese Wrath. «Non mi sono
nutrito abbastanza e ho perso la vista, ma quando ho bevuto da Beth mi è
tornata e...»
«Credo che tu debba fare una TAC.»
Era una richiesta più che ragionevole, niente da dire. Quindi, quando la
sentì aprire il cellulare e digitare sui tasti, Wrath tenne la bocca chiusa, anche
se si sentiva morire.
«Sento quando Havers può fissarti l'esame.»
In un battibaleno, poco ma sicuro. Wrath e il medico della razza avevano
avuto i loro screzi, ai tempi di Marissa, ma sul piano professionale Havers era
sempre stato disponibile, all'occorrenza.
Jane cominciò a parlare e Wrath la interruppe subito. «Non dire a Havers
per che cos'è. E gli esiti guardali tu e soltanto tu. Intesi?»
Ci mancava solo che circolassero dubbi sulla sua idoneità a governare.
«Digli che è per me», intervenne Beth.
Jane annuì, mentendo con grande disinvoltura; mentre la dottoressa
prendeva accordi, Wrath attirò Beth contro il suo fianco.
Nessuno dei due parlò. Cosa potevano dire? Erano tutti e due spaventati a
morte... la vista di Wrath faceva pena ma, per quanto debole, gli serviva.
Senza di essa cosa diavolo avrebbe fatto?
«Devo andare a quella riunione del consiglio, a mezzanotte», disse piano
Wrath. Beth si irrigidì e lui scosse la testa. «Politicamente parlando devo
andare, cascasse il mondo. La situazione è troppo instabile, al momento; non
posso non presentarmi o tentare di rinviarla a un'altra sera. Devo partire da
una posizione di forza.»
«E se perdi la vista nel bel mezzo della riunione?» sibilò lei.
«Farò finta di niente finché non potrò andare via.»
«Wrath...»
La dottoressa Jane chiuse il telefonino. «Havers può vederti subito.»
«Quanto ci vorrà?»
«Un'ora, più o meno.»
«Bene. A mezzanotte devo andare in un posto.»
«Perché prima non vediamo cosa emerge dalla TAC...»
«Io devo...»
L'autorevolezza con cui Jane lo interruppe gli fece capire che in quello
scambio lui era un semplice paziente, e non il re. «Devo è un termine relativo.
Vediamo come va la TAC e poi potrai decidere quanti devo ti puoi
permettere.»
Ehlena avrebbe potuto stare sulla terrazza con Rehvenge per vent'anni, ma
lui le bisbigliò all'orecchio che aveva preparato qualcosa da mangiare e stare
seduta di fronte a lui al lume di candela suonava altrettanto meraviglioso.
Dopo un ultimo, lungo bacio entrarono in casa insieme; stretta contro
Rehvenge, col suo braccio intorno alla vita, Ehlena gli teneva un mano sulla
schiena, in mezzo alle scapole. Nell'attico faceva molto caldo, quindi si tolse il
cappotto e lo appoggiò su uno dei bassi divani di cuoio nero.
«Pensavo di mangiare in cucina», disse Rehvenge.
Addio lume di candela, ma cosa importava? Finché stava con lui, era
abbastanza radiosa da illuminare tutto l'attico.
Rehvenge la prese per mano e la attirò attraverso la sala da pranzo e poi
oltre una porta a vento. La cucina, in granito nero e acciaio inox, era molto
chic e alla moda; a un'estremità del piano di lavoro, un angolo con un paio di
sgabelli era apparecchiato per due. C'era una candela bianca accesa, la
fiamma pigra svettava in cima al piedestallo di cera sempre più corto.
«Oh, che buon odorino», esclamò Ehlena appollaiandosi su uno degli
sgabelli «Cucina italiana. Non avevi detto di saper cucinare soltanto una
cosa?»
«Già, per preparare questa cenetta ho dovuto sgobbare di brutto.»
Rehvenge si voltò verso il forno e, con gesto plateale, tirò fuori una teglia
con...
Ehlena scoppiò a ridere. «Pizza in scatola.»
«Solo il meglio, per te.»
«DiGiorno?»
«Naturale. E ho abbondato con la farcitura. Ho pensato che potevi togliere
quello che non ti piace.» Con un paio di pinze d'argento sterling trasferì i
tranci di pizza sui piatti e poi posò la teglia sui fornelli. «Ho anche del vino
rosso.»
Le si avvicinò con la bottiglia e lei non riuscì a fare altro che guardarlo e
sorridere.
349
«Sai», disse Rehvenge versandole il vino. «Mi piace come mi guardi.»
Lei si coprì la faccia con le mani. «Non riesco a trattenermi, è più forte di
me.»
«Non provarci nemmeno. Mi fai sentire un supereroe.»
«Non ti sembra di essere già abbastanza dotato?» Ehlena cercò di
controllarsi, ma non riusciva a smettere di ridacchiare; Rehv si riempì il
bicchiere, posò la bottiglia e si sedette vicino a lei.
«Vogliamo cominciare?» disse, impugnando coltello e forchetta.
«Oh, mio Dio, meno male che non sono la sola.»
«A fare cosa?»
«A mangiare la pizza con coltello e forchetta. Le altre infermiere al lavoro
me la menano in continuaz...» Lasciò la frase in sospeso, «Be', comunque sia,
sono contenta che ci sia qualcun altro come me.»
Un rumore di pasta croccante che si frantumava sotto le lame dei coltelli
segnò l'inizio della loro cena.
Rehvenge attese che Ehlena mangiasse il primo boccone prima di dire,
«Lascia che ti aiuti intanto che cerchi lavoro.»
Aveva calcolato alla perfezione il momento giusto per farlo perché lei non
parlava mai a bocca piena, quindi ebbe il tutto il tempo di continuare.
«Permettimi di mantenere te e tuo padre finché non troverai un altro lavoro
che ti permetta di guadagnare quanto prendevi alla clinica.» Lei fece per
scuotere la testa, ma lui alzò una mano. «Aspetta, pensaci un attimo. Se io
non mi fossi comportato da stupido, tu non avresti fatto quello che hai fatto e
per cui ti hanno licenziata. Quindi adesso devo rimediare, mi sembra il
minimo; se la cosa può aiutarti, guardala dal punto di vista legale. Per
l'Antica Legge sono in debito con te, e io ci tengo a rispettare la legge.»
Ehlena si pulì la bocca. «È solo che mi sembra così... strano.»
«Perché per una volta qualcuno ti aiuta invece del contrario?»
Be', che cavolo, sì. «Non voglio approfittare di te.»
«Ma mi sono offerto io e, credimi, posso permettermelo.»
Verissimo, pensò Ehlena, guardando la sua pelliccia, le posate d'argento
massiccio con cui stava mangiando, il piatto di porcellana e...
«A tavola sei un perfetto gentiluomo», mormorò senza un motivo
apparente.
Rehvenge si fermò per un attimo. «Merito di mia madre.»
Ehlena gli posò una mano sulla spalla enorme, «Posso dire di nuovo che mi
dispiace?»
Lui si pulì la bocca col tovagliolo. «Puoi fare di meglio.»
«Cosa?»
«Lascia che mi prenda cura di te. Così potrai cercare con calma qualcosa che
ti piace, invece di buttarti sul primo lavoro disponibile pur di pagare le
bollette.» Alzando gli occhi al soffitto, Rehv si strinse il petto, come sul punto
di una crisi isterica. «Non sai quanto ciò allevierebbe la mia sofferenza. Tu e
tu soltanto hai il potere di salvarmi.»
Ehlena fece una risatina, ma non riuscì a fingere neanche una parvenza di
allegria. Sotto sotto sentiva che Rehv stava soffrendo; il dolore si manifestava
nelle ombre scure sotto gli occhi e nella piega contratta della mascella.
Chiaramente si stava sforzando di apparire normale a suo beneficio e, pur
apprezzandolo, non sapeva come farlo smettere senza mettergli troppa
pressione.
In realtà erano ancora due estranei, no? Malgrado tutto il tempo che
avevano passato insieme negli ultimi due giorni, quanto ne sapeva veramente
di lui? O della sua famiglia? Quando stava con lui o quando erano al telefono
le sembrava di sapere tutto quello che le serviva ma, realisticamente, cosa
avevano in comune?
Accigliandosi, Rehvenge lasciò cadere le braccia e tagliò un altro pezzo di
pizza. «Non farlo.»
«Come, scusa?»
«Non allontanarti. Ovunque tu sia con la testa, è il posto sbagliato, per te e
per me.» Bevve un sorso di vino. «Non sarò così scortese da leggerti nel
pensiero, ma sento quello che provi. Sei distante. Non è questo che cerco.
Non quando si tratta di te.» I suoi occhi di ametista la trafissero. «Puoi fidarti
quando dico che voglio prendermi cura di te, Ehlena. Non dubitarne mai.»
Lei lo guardò e gli credette. Al cento per cento. Senza riserve. Senza il
minimo dubbio. «Sì. Mi fido di te.»
Vide un'ombra sul suo viso, ma lui fu lesto a nasconderla. «Bene. Adesso
finisci la tua cena e renditi conto che accettare il mio aiuto è la cosa più
giusta.»
Ehlena riprese a mangiare e, lentamente, finì la pizza. Quand'ebbe
terminato, posò le posate d'argento sul bordo destro del piatto, si pulì la
bocca e bevve un sorso di vino.
«Okay.» Lo guardò. «Accetto il tuo aiuto.»
Nel vedere il gran sorriso che lo illuminò perché l'aveva avuta vinta, Ehlena
frenò subito la sua soddisfazione. «Ma ci sono delle condizioni.»
Rehvenge rise. «Vuoi mettere delle restrizioni a un regalo?»
«Non è un regalo.» Lei lo guardò, serissima. «È solo finché non trovo un
lavoro qualsiasi, non il lavoro dei miei sogni. E voglio restituirti tutto.»
Lui perse un po' della sua euforia. «Non voglio i tuoi soldi.»
«Potrei dire lo stesso dei tuoi», ribatté lei, piegando il tovagliolo. «Lo so che
i quattrini non ti mancano, ma soltanto così sono disposta ad accettare.»
Lui si accigliò. «Niente interessi, però. Non accetterò un solo centesimo di
interessi.»
«Affare fatto.» Ehlena tese la mano e attese.
Rhev imprecò. E imprecò di nuovo. «Non voglio che me li restituisci.»
«Cavoli tuoi.»
Dopo una serie di smorfie per trattenere qualche parolaccia, Rehv le strinse
la mano, suggellando il loro patto. «Sei tosta negli affari, lo sai?», disse.
«Ma mi rispetti per questo, giusto?»
«Be', sì. E mi fa venire voglia di spogliarti nuda.» «Oh...»
Ehlena arrossì da capo a piedi mentre lui scivolava giù dallo sgabello e,
torreggiando sopra di lei, le prendeva il viso tra le mani. «Mi permetti di
portarti a letto?»
Visto come brillavano quei suoi occhi viola era pronta a concedersi anche lì,
sul pavimento della cucina. Bastava che lui glielo chiedesse. «Sì.»
Un ringhio gli salì dal petto mentre la baciava. «Indovina?»
«Cosa?» fece lei in un sussurro.
«Risposta esatta.»
Rehvenge la tirò giù dallo sgabello con un tenero bacetto. Con l'aiuto del
bastone la guidò verso l'altro capo dell'attico, attraverso stanze che non vide e
oltre una vista scintillante di luci che lei non perse tempo ad ammirare. In
realtà Ehlena non capiva più niente, pervasa com'era dalla smania irresistibile
per ciò che lui stava per farle.
Smania e... senso di colpa. Cosa poteva offrirgli in cambio? Eccola lì che di
nuovo sbavava per fare sesso con lui, mentre lui non avrebbe trovato nessun
appagamento. Anche se le aveva detto che ne ricavava qualcosa, lei si sentiva
come...
«A cosa stai pensando?» chiese Rehv quando giunsero in camera da letto.
Lei lo guardò. «Ho voglia di fare l'amore con te ma... non so. Mi sembra di
usarti o...»
«Non è così. Fidati, so bene cosa significa essere usati e quello che succede
tra noi, qui, è tutta un'altra cosa.» Poi, anticipando la domanda che stava per
fargli, aggiunse, «No, non posso spiegarti perché ho bisogno... Accidenti, ho
bisogno che questi momenti con te siano semplici. Solo tu e io. Sono stufo del
resto del mondo, Ehlena, stufo marcio.»
C'entrava quell'altra femmina, pensò Ehlena. Ma se lui voleva tenerla fuori,
a lei andava bene così.
«Voglio solo che questa cosa tra noi due vada nel modo giusto», disse
Ehlena. «Voglio che anche tu senta qualcosa.»
«Ma è così. A volte non ci credo neanch'io, ma è così, assolutamente.»
Rehv chiuse la porta alle loro spalle, appoggiò il bastone al muro e si tolse
lo zibellino. Il completo a doppio petto sotto la pelliccia era l'ennesimo
capolavoro sartoriale: un gessato dal taglio squisito, questa volta di un grigio
tortora a righine nere. La camicia era nera, con i primi due bottoni slacciati.
Seta, pensò Ehlena. Doveva essere di seta. Nessun altro tessuto aveva
quella luminosità.
«Sei bellissima», disse lui, guardandola, «così, ferma in piena luce.»
Lei si guardò, facendo scorrere lo sguardo sui pantaloni neri di Gap e sul
dolcevita lavorato a maglia vecchio di due anni. «Devi essere cieco.»
«Perché?» chiese lui, andandole vicino.
«Be', mi sento scema a dirlo.» Ehlena si lisciò i calzoni da grande
magazzino. «Ma mi piacerebbe avere dei vestiti più belli. Añora sì che sarei
bella.»
Rehvenge rimase in silenzio per qualche istante.
Poi le fece prendere un colpo inginocchiandosi davanti a lei.
Quando la guardò in faccia aveva un sorriso sottile sulle labbra.
«Proprio non capisci, Ehlena?» Con delicatezza le accarezzò il polpaccio e le
sollevò il piede, posandolo sulla propria coscia. Poi, slacciando le stringhe
della misera ballerina di tela Keds, mormorò, «Qualunque cosa indossi... per
me sarai sempre una regina.»
Mentre Rehv le sfilava la scarpa senza smettere di guardarla, Ehlena scrutò
con attenzione il suo bel volto virile, da quei suoi occhi spettacolari alla
mascella squadrata agli zigomi aristocratici.
Si stava innamorando di lui.
E, come sempre accade con i viaggi nel mondo dei sogni, non poteva farci
niente. Il dado era tratto.
Rehvenge chinò il capo. «Sono già felice che tu voglia stare con me.»
Che parole pacate e umili, in totale contrasto con l'incredibile potenza delle
spalle.
«Come avrei potuto fare altrimenti?»
Lui scosse la testa, lentamente. «Ehlena...»
Disse il suo nome in modo quasi brusco, come se dietro di esso ci fossero
molte più parole, parole che non riusciva a pronunciare. Ehlena non capiva,
ma in compenso sapeva cosa voleva fare.
Liberò il piede dalla sua stretta, si mise in ginocchio a sua volta e lo
abbracciò. Lo tenne stretto mentre Rehvenge si abbandonava contro di lei,
facendogli scorrere una mano sulla nuca, fino alla morbida cresta da
moicano.
Quanto sembrava fragile così, tra le sue braccia; Ehlena si rese conto che se
qualcuno avesse cercato di fargli del male, anche se lui era perfettamente in
grado di badare a se stesso, sarebbe stata pronta a commettere un omicidio.
Per proteggerlo era disposta a uccidere.
Era una certezza solidissima, come le ossa sotto la sua pelle: persino i più
forti, a volte, hanno bisogno di protezione.
Capitolo 43
Rehv era il tipo che ci tiene a fare le cose per bene, che fosse infilare le pizze
nel forno e cuocerle a puntino, versare il vino... o far godere la sua Ehlena
fino a trasformarla in una raggiante femmina nuda, priva di forze e appagata.
«Non sento più le dita dei piedi», mormorò lei mentre Rehv, con la testa tra
le sue cosce, risaliva verso l'alto, un bacio dopo l'altro.
«È un male?»
«No. Neanche un po'.»
Quando si fermò a leccarle un seno, lei si contorse e lui la sentì muovere
contro di sé. Ormai abituato a sensazioni che squarciavano la sua nebbia di
torpore, assaporava l'eco del calore e della frizione, non più preoccupato che
il suo lato negativo potesse sfuggire alla gabbia di dopamina in cui lo teneva
prigioniero. Quello che sentiva non era intenso come ciò che provava quando
non era sotto l'effetto dei farmaci, ma bastava innegabilmente a eccitarlo.
Faticava a crederci, ma in più di un'occasione credette di poter raggiungere
l'orgasmo. Tra il sapore di lei mentre le leccava la vulva, e il modo in cui
dimenava i fianchi contro il materasso, quasi perse il controllo.
Ma era meglio tenere a bada il suo uccello. Seriamente, come poteva
funzionare? Non sono impotente, miracolo dei miracoli, perché tu hai risvegliato
l'istinto che mi impone di marchiarti, così il vampiro che è in me prevale sul
symphath. Evviva! Naturalmente questo significa che devi vedertela col mio uncino,
e col buco in cui il pezzo di carne che mi pende tra le gambe è penetrato regolarmente
negli ultimi venticinque anni. Ma coraggio, dai, in fondo è una figata, no?
Già, proprio non vedeva l'ora di cacciare Ehlena in quella situazione.
Eeeeeeeeeeeh sì.
E poi a lui bastava quello. Farla godere, soddisfarla sul piano sessuale, gli
bastava...
«Rehv...?»
Alzò gli occhi dal suo seno. Dato il tono sensuale della sua voce e la voluttà
nel suo sguardo, era pronto ad accondiscendere a qualunque richiesta.
«Sì?» disse leccandole un capezzolo.
«Apri la bocca.»
Rehv si accigliò, ma ubbidì, chiedendosi perché...
Ehlena si protese a toccare uno dei canini allungati al massimo. «Hai detto
che ti piace farmi godere, e si vede. Questi sono così lunghi... e affilati.... e
bianchi...»
Sfregò le cosce come se quello che aveva appena detto la mandasse su di
giri e Rehv capì dove voleva arrivare, «Sì, ma...»
«Mi farebbe piacere se li usassi su di me. Adesso.»
«Ehlena...»
Quella luce speciale cominciò a spegnersi sul suo viso. «Hai qualcosa contro
il mio sangue?»
«Dio, no.»
«Allora perché non vuoi berlo?» Ehlena si rizzò a sedere coprendosi i seni
con un cuscino, i capelli biondo tiziano le ricaddero sul viso, nascondendolo.
«Ah, giusto. Ti sei già nutrito da lei?»
«Cristo, no.» Avrebbe preferito succhiare il sangue di un lesser. Che cavolo,
avrebbe preferito bere dalla carcassa in decomposizione di un cervo sul ciglio
dell'autostrada piuttosto che attaccarsi alla vena della principessa.
«Non bevi il suo sangue?»
Lui la guardò dritto negli occhi e scosse la testa. «No. E non lo farò mai.»
Con un sospiro, Ehlena si tirò indietro i capelli. «Scusa. Non so se ho il
diritto di farti certe domande.»
«Sì che ce l'hai.» Rehv le prese la mano. «Assolutamente. Non è che... non
puoi chiedere...»
Mentre le parole faticavano ad arrivare, i suoi due mondi cozzarono l'uno
contro l'altro seminando ogni sorta di calcinacci tutt'intorno a lui. Certo che
poteva chiedere... solo che lui non poteva risponderle.
O invece poteva?
«E te che voglio», disse semplicemente, limitandosi al po' di verità che
poteva rivelare. «Sei l'unica dentro cui voglio stare.» Scosse la testa,
rendendosi conto di quello che aveva detto. «No, cioè, volevo dire con, l'unica
con cui voglio stare. Senti, vuoi sapere se voglio bere il tuo sangue? Sì che
voglio, cazzo. Ma...»
«Allora non c'è ma che tenga.»
Col cavolo. Rehv temeva di montarla, se si fosse attaccato alla sua vena. Il
suo uccello era già pronto, e ne stavano solo parlando.
«A me basta questo, Ehlena. Mi basta farti godere.»
Lei si accigliò. «Allora devi avere qualche problema con il mio retroterra.»
«Come, scusa?»
«Credi che il mio sangue sia debole? Perché, per quel che vale, posso dirti
che la mia famiglia è di antica origine aristocratica. Mio padre e io abbiamo
avuto dei rovesci di fortuna, ma per generazioni, e per gran parte della sua
vita, siamo stati membri della glymera.» Rehv fece una smorfia e lei scese dal
letto, coprendosi col cuscino. «Non so esattamente da chi discenda la tua
famiglia, ma quello che scorre nelle mie vene è accettabile, te l'assicuro.»
«Ehlena, non è questo il punto.»
«Ne sei sicuro?» Ehlena andò nell'angolo dove le aveva tolto i vestiti.
Mutandine e reggiseno furono i primi che si infilò, poi raccolse i calzoni neri.
Rehv non riusciva a capire perché soddisfare il suo bisogno di sangue fosse
tanto importante per lei... cosa mai poteva ricavarne? Ma forse era quella la
differenza tra loro. Ehlena non era abituata ad approfittare della gente,
quindi i suoi ragionamenti non si basavano su quanto poteva ricavare dalle
cose. Lui, invece, anche quando la faceva godere, in cambio otteneva qualcosa
di tangibile: guardarla contorcersi sotto la sua bocca lo faceva sentire forte e
potente, un vero maschio, non un mostro asessuato e sociopatico.
Ehlena non era come lui. Ecco perché l'amava.
Oh... Cristo. Lui la...
Sì.
Forte di quella consapevolezza, Rehv si alzò dal letto, andò da lei e le prese
la mano mentre finiva di allacciarsi i calzoni. Elhena si fermò e lo guardò.
«Non sei tu», disse lui. «Devi credermi.»
La attirò a sé.
«Allora dimostramelo», disse piano lei.
Rehv si scostò e rimase a lungo a fissarla in volto. In bocca sentiva le zanne
che pulsavano; sapeva solo questo. E sentiva la fame alla bocca dello stomaco,
divorante, incontenibile.
«Ehlena...»
«Dimostramelo.»
Non poteva dire di no. Non aveva la forza di respingerla. Era sbagliato
sotto molti punti di vista, ma Ehlena era tutto ciò che lui voleva e desiderava,
tutto ciò di cui aveva bisogno.
Con delicatezza le scostò i capelli dalla gola. «Farò piano.»
«Non ce n'è bisogno.»
«Lo farò comunque.»
Le prese il viso tra le mani e le piegò la testa di lato, esponendo la fragile
vena azzurra che le scendeva verso il cuore. Preparandosi al morso, Ehlena
sentì il polso accelerare; Rehv notò che il cuore pompava più veloce, facendo
pulsare la vena.
«Non mi sento degno del tuo sangue», disse, facendo scorrere l'indice su e
giù sul suo collo. «Le tue origini non c'entrano niente...»
Ehlena gli accarezzò il viso. «Rehvenge, cosa c'è? Aiutami a capire cosa sta
succedendo. Mi sento... quando sto con te mi sento più vicina a te che a mio
padre, addirittura. Ma ci sono dei buchi enormi, e so che dentro c'è qualcosa.
Parlami.»
Era il momento giusto per confessarle tutto, pensò Rehv.
E fu tentato di farlo. Che sollievo sarebbe stato smettere di mentire. Ma non
c'era nulla di più egoista. Conoscendo i suoi segreti, anche Ehlena avrebbe
violato la legge... in alternativa poteva spedire il suo amante nella colonia. E
se sceglieva questa seconda possibilità, lui avrebbe tradito il giuramento fatto
a sua madre perché la sua copertura sarebbe saltata completamente.
Era la persona sbagliata per lei. Era la persona più sbagliata, e lo sapeva.
Pensò di lasciarla andare.
Pensò di abbassare le mani, farsi da parte e lasciare che lei finisse di vestirsi.
Era un abile persuasore. Poteva convincerla che non bere il suo sangue non
fosse poi così importante...
Ma la sua bocca si aprì. Si aprì per lasciare uscire un sibilo nella sottile
barriera d'aria che separava le sue zanne da quella vena vitale e palpitante.
D'un tratto Ehlena ansimò e i muscoli che le salivano dalle spalle si
contrassero, come se lui avesse aumentato la stretta sul suo viso. Oh, ma, un
momento, era proprio così. Era completamente intorpidito, del tutto privo di
sensazioni, ma i farmaci non c'entravano. Ogni muscolo del suo corpo si era
irrigidito.
«Ho bisogno di te», gemette.
Le affondò le zanne nel collo e lei gridò, la spina dorsale quasi piegata a
metà mentre lui la ingabbiava con la sua forza. Cazzo, era perfetta. Aveva lo
stesso sapore del vino, un vino forte, corposo, e lui la bevve avidamente, a
grandi sorsate.
E la spostò verso il letto.
Ehlena non aveva nessuna possibilità di resistergli. E neanche lui.
Scatenata dal sangue, la sua natura di vampiro travolse tutto. Il bisogno del
maschio di marchiare la femmina oggetto del desiderio, di delimitare il suo
territorio sessuale, di dominare, ebbe il sopravvento e lo indusse a strapparle
via i calzoni, alzarle una gamba e posizionare l'uccello sulla soglia del suo
sesso...
E a spingersi dentro di lei.
Ehlena lanciò un altro urlo lamentoso quando la penetrò. Era
incredibilmente stretta; temendo di farle male, Rehvenge si immobilizzò di
colpo per permettere al suo corpo di accoglierlo.
«Stai bene?» le chiese, la voce così gutturale che non sapeva se lei riuscisse a
capirlo.
«Non... fermarti...» Ehlena gli cinse la vita con le gambe, per permettergli di
affondare ancora di più.
Lui emise un ringhio che riecheggiò in tutta la stanza... prima di attaccarsi
di nuovo alla sua gola.
Pur nella furia del momento, però, Rehv fu attento a non farle male... non
come con la principessa. Scivolò dentro e fuori con delicatezza, assicurandosi
che Ehlena riuscisse a prenderlo dentro di sé, adattandosi alle dimensioni del
suo membro. Con la sua ricattatrice il suo intento era procurare dolore. Con
Ehlena, invece, si sarebbe castrato con un coltello arrugginito piuttosto di
farla soffrire.
Mentre Rehv beveva a sazietà, Ehlena si muoveva all'unisono con lui,
questo era il guaio: ben presto lui fu sopraffatto dalla frizione selvaggia dei
loro corpi, i fianchi che prima si muovevano con delicatezza adesso
pompavano con vigore... finché dovette staccarsi dalla vena per non rischiare
di lacerarle il collo. Dopo un paio di leccate ai segni del morso, le affondò la
testa tra i capelli dandoci dentro senza pietà.
Ehlena raggiunse l'orgasmo; nel sentire la vulva contrarsi intorno al pene,
Rehv fu lì lì per venire... cosa che non poteva permettersi. Prima che l'uncino
si agganciasse uscì da lei, eiaculando sopra la vagina e il basso ventre.
Alla fine crollò sopra di lei, e passarono parecchi minuti prima che riuscisse
a parlare.
«Ah... merda... scusa, devo essere pesante.»
Ehlena gli fece scorrere la mani sulla schiena. «Sei meraviglioso, per la
verità.»
«Io... sono venuto.»
«Sì.» Il suo tono tradiva il sorriso che doveva avere sulle labbra. «Altro
che.»
«Non ero sicuro di.., riuscirci, capisci. Ecco perché mi sono sfilato... non mi
aspettavo di... farcela.»
Bugiardo. Bugiardo schifoso.
La felicità nella voce di lei lo fece stare male. «Be', sono contenta che tu ce
l'abbia fatta. E se succederà di nuovo sarà fantastico. Se invece non succederà,
andrà bene lo stesso. Niente ansia da prestazione.»
Rehv chiuse gli occhi col petto gonfio di dolore. All'ultimo momento si era
tirato indietro per non farle scoprire il suo uncino... e perché venire dentro di
lei sarebbe stato un tradimento, per tutte le cose che Ehlena ignorava di lui.
Mentre lei, sospirando, gli strofinava il naso sul petto, si sentì un lurido
bastardo schifoso.
Capitolo 44
La TAC non fu niente di che. Wrath si sdraiò su una lastra gelida e rimase
immobile mentre un'apparecchiatura medica bianca, mormorando e
tossicchiando cortesemente, girava intorno alla sua testa.
La cosa terribile fu aspettare i risultati.
Durante la TAC, dall'altra parte del vetro divisorio c'era solo la dottoressa
Jane, che, per quel che poteva vedere lui, passò tutto il tempo a fissare
accigliata il monitor del computer. E continuava a fissarlo anche adesso che
l'esame era finito. Nel frattempo Beth era entrata e si era messa al fianco di
Wrath, nella saletta piastrellata.
Dio solo sapeva cosa aveva trovato Jane.
«Non ho paura di finire sotto i ferri», disse Wrath alla sua shellan. «Purché
sia quella donna a tenerli in mano.»
«Sarebbe in grado di eseguire in intervento chirurgico al cervello?»
Bella domanda. «Non saprei.»
Soprappensiero, Wrath giocherellava con il Rubino Saturnino di Beth,
girando e rigirando la grossa pietra.
«Fammi un favore», bisbigliò a un certo punto.
Beth aumentò la stretta sulla sua mano. «Tutto quello che vuoi. Cosa ti
serve?»
«Canticchia la sigla di Jeopardy.»
Ci fu una pausa. Poi Beth scoppiò a ridere e gli diede una manata sulla
spalla. «Wrath...»
«Anzi, no, levati i vestiti e canticchiala mentre dimeni i fianchi.» La sua
shellan si chinò a dargli un bacio sulla fronte e lui la guardò attraverso gli
occhiali avvolgenti. «Credi che scherzi? Dai, abbiamo bisogno di distrarci
tutti e due. Prometto che ti darò una lauta mancia.»
«Ma se non porti mai dietro i soldi.»
Lui tirò fuori la lingua e se la passò sul labbro superiore. «Pensavo di
pagarti in natura.»
«Sei vergognoso.» Beth gli sorrise. «Ma mi piace.»
Guardandola, Wrath venne assalito dal terrore. Cosa sarebbe stata la sua
vita se fosse diventato completamente cieco? Non vedere mai più i lunghi
capelli scuri o il sorriso radioso della sua shellan era...
«Okay», disse Jane, entrando, «Ecco quello che posso dire.»
Wrath cercò di non urlare mentre la spettrale dottoressa si infilava le mani
nelle tasche del camice bianco con l'aria di raccogliere le idee.
«Non vedo tracce di un tumore o di una emorragia, ma ci sono anomalie in
vari lobi. E la prima volta che esamino la TAC al cervello di un vampiro,
quindi non ho idea di cosa possa strutturalmente rientrare nella "normalità".
So che non vuoi farla vedere a nessun altro, ma io non sono in grado di
esprimere un parere e vorrei sottoporla a Havers. Prima che tu dica di no, ti
ricordo che Havers ha giurato di tutelare la tua privacy. Non può rivelare…»
«Fallo venire», disse Wrath.
«Non ci vorrà molto.» La dottoressa Jane toccò la spalla di Wrath e poi
quella di Beth. «È qui fuori. Gli ho chiesto di aspettare nel caso ci fosse un
problema con le apparecchiature.»
Wrath guardò Jane attraversare la saletta di monitoraggio e uscire in
corridoio. Un attimo dopo rientrò col medico alto e magro. Da dietro il vetro
Havers si inchinò a Wrath e poi a Beth, quindi si avvicinò ai monitor.
I due medici assunsero una posa identica: piegati all'altezza della vita, mani
in tasca, sopracciglia aggrottate.
«Glielo insegneranno alla scuola di Medicina?» scherzò Beth.
«Buffo, stavo pensando la stessa cosa.»
tempo passava. L'attesa si fece snervante. Dall'altra parte del vetro i due
medici parlottavano, indicando lo schermo con le penne. Alla fine entrambi si
raddrizzarono, annuendo.
Insieme entrarono nella saletta.
«La TAC è normale», disse Havers.
Wrath espirò talmente forte da emettere un sibilo. Normale. Normale
andava bene.
Havers poi gli rivolse una serie di domande, alle quali Wrath rispose
piuttosto distrattamente.
«Con tutto il rispetto per il tuo medico personale», disse Havers con un
inchino a Jane, «vorrei prelevarti un campione di sangue per analizzarlo e
procedere a una rapida visita medica.»
«Penso che sia un'ottima idea», intervenne la dottoressa. «Un secondo
parere è sempre consigliabile quando le cose non sono chiare.»
«Visitami pure», disse Wrath, dando un bacetto veloce alla mano di Beth
prima di lasciarla andare.
«Mio signore, mi faresti la cortesia di togliere gli occhiali?»
Havers procedette a un rapido esame del bulbo oculare con la torcia a stilo,
poi si spostò di lato per un controllo alle orecchie, seguito da un controllo del
cuore. Entrò un'infermiera con l'occórrente per il prelievo del sangue, ma fu
Jane a infilargli l'ago nella vena.
Alla fine Havers si infilò di nuovo le mani in tasca, ostentando un altro dei
quei cipigli dottorali. «Sembra tutto normale. Be', normale per te. Le pupille
non rispondono agli stimoli, ma potrebbe essere un semplice meccanismo
protettivo a causa delle tue retine fotofobiche.»
«Allora qual è la conclusione?» chiese Wrath.
Jane si strinse nelle spalle. «Tieni un diario dei tuoi mal di testa. Se dovessi
perdere di nuovo la vista, torniamo subito qui. Forse una TAC nel momento
in cui si manifesta la cecità ci aiuterà a focalizzare il problema.»
«Comunicherò al tuo medico l'esito delle analisi del sangue», disse Havers,
inchinandosi a Jane.
«D'accordo.» Wrath guardò la sua shellan, pronto ad andare via, ma Beth
era concentrata sui due medici.
«Non sembrate molto soddisfatti», disse.
Jane parlò lentamente e con cautela, quasi stesse scegliendo le parole con
precisione. «Ogni disfunzione che non siamo in grado di spiegare mi rende
nervosa. Non dico che sia una situazione grave, ma non sono convinta che
siamo fuori pericolo solo perché la TAC è a posto.»
Wrath scivolò giù dal lettino e prese dalle mani di Beth il giubbotto di cuoio
nero. Era fantastico infilarselo e abbandonare il ruolo di paziente a cui lo
avevano costretto i suoi stramaledetti occhi.
«Non voglio prenderla sottogamba», disse ai due camici bianchi. «Ma non
smetterò di lavorare.»
Subito si levò un coro di "devi riposarti per un paio di giorni" che lui ignorò
uscendo dalla sala visita. Mentre insieme a Beth si allontanava a grandi passi
lungo il corridoio, fu attanagliato da uno strano senso di urgenza.
Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di dover agire in fretta,
perché non gli restava molto tempo.
John se la prese comoda prima di andare allo ZeroSum. Dopo aver lasciato
l'appartamento di Xhex si diresse con tutta calma verso laDecima Strada e,
sotto la neve, camminò fino alla tavola calda Tex/Mex. Una volta dentro,
scelse un tavolo vicino all'uscita di emergenza e, indicando le immagini sul
menù plastificato, ordinò due piatti di costolette, un contorno di purè e uno
di cavolfiori.
La cameriera che prese l'ordinazione aveva una minigonna così corta da
rientrare nella categoria "biancheria intima", e sembrava pronta a servirgli
molto più che una semplice cena. John lo prese seriamente in considerazione.
Era bionda, non molto truccata e con due belle gambe, ma puzzava di
barbecue e non gli piacque il modo in cui gli parlava: molto lentamente,
neanche fosse un ritardato.
John pagò in contanti, lasciò una generosa mancia e se la filò prima che
quella tentasse di rifilargli il suo numero. Fuori, al freddo, prese la strada più
lunga, giù per la Trade, cioè in pratica si infilò in ogni vicolo lungo il tragitto.
Niente lesser. E neanche umani intenti a fare brutte cose.
Alla fine entrò nello ZeroSum. Nel varcare le porte in vetro e acciaio,
trovandosi di fronte una barriera di luci, musica e gente losca tutta in tiro, la
sua facciata da duro si incrinò leggermente. Di sicuro c'era anche Xhex...
Già, be', e allora? Era così cacasotto da non riuscire a stare nello stesso
locale in cui c'era lei?
No, non più. Tirò fuori le palle e si diresse con passo deciso verso il cordone
di velluto, oltre gli sguardi dei buttafuori e fin dentro la sala VIP. In fondo, al
tavolo della confraternita, Qhuinn e Blay erano seduti come due quarterback
costretti in panchina mentre in campo la loro squadra arrancava:
tamburellavano ansiosi sul tavolo con le dita, giocherellando con i
tovagliolini che avevano accompagnato le bottiglie di Corona.
Appena lo videro arrivare si bloccarono, come se qualcuno avesse premuto
il fermo immagine dei loro DVD.
«Ehilà», fece Qhuinn.
John si sedette vicino all'amico e a gesti ripetè, Ehilà.
«Come va?» chiese Qhuinn, mentre la cameriera si avvicinava con
tempismo perfetto. «Altre tre Corona...»
John lo interruppe, Io voglio qualcosa di diverso. Dille... che voglio un Jack
Daniel's con ghiaccio.
Qhuinn inarcò le sopracciglia di scatto, ma passò l'ordinazione e guardò la
donna trotterellare verso il bar. «Roba forte, eh?»
John si strinse nelle spalle e adocchiò una bionda due séparé più in là. Non
appena si accorse di essere guardata, lei cominciò a pavoneggiarsi, gettando
indietro i capelli folti e lucenti e spingendo il petto in fuori, fin quasi a far
esplodere il corpetto ridottissimo.
Quella non puzzava di costolette, c'era da scommetterci.
«Ehm... John, cosa cavolo ti prende?» gli chiese Qhuinn.
In che senso, fece John senza staccare gli occhi dalla donna.
«Stai guardando quella pollastra neanche volessi arrotolarla come un taco
per versarci sopra la tua salsa piccante.»
Blay tossicchiò. «Proprio non ci sai fare con le parole, sai?»
«Dico solo quello che vedo.»
La cameriera portò il Jack DaniePs e le birre e John ingollò il suo whisky
tutto d'un fiato, gettando indietro la testa a bocca spalancata per farlo
atterrare dritto nello stomaco.
«È una di quelle sere?» mormorò Qhuinn. «Di quelle che poi finisci al
gabinetto?»
Puoi dirlo forte, confermò a gesti John. Ma non per vomitare.
«Allora perché dovresti... Ah.» Qhuinn aveva la faccia di uno a cui hanno
appena ficcato un palo nel sedere.
Già, ah, pensò John perlustrando con gli occhi la zona VIP nel caso si
presentasse una candidata migliore.
Al tavolo di fianco c'era un terzetto di uomini d'affari, tutti e tre in
compagnia di una donna, e tutti e tre pronti, all'apparenza, a farsi
immortalare per Vanity Fair. Di fronte, invece, c'era la solita confezione da sei
di fighetti che, da come si stropicciavano il naso e andavano e venivano dai
bagni, pippavano coca a tutto spiano. Al bancone del bar c'erano un paio di
yuppies in carriera con le seconde mogli su di giri e un altro gruppetto di
cocainomani che studiavano le ragazze a pagamento.
John era ancora in modalità perlustrazione quando Rehvenge in persona
entrò a grandi passi nella sala VIP. Appena tutti lo videro un brivido di paura
percorse il locale: anche se non tutti sapevano che era il proprietario del club,
in giro non si vedevano molti colossi alti due metri con bastone rosso,
pelliccia di zibellino nera e corta cresta da moicano.
In più, anche nella penombra, si capiva che aveva gli occhi viola.
Come al solito era affiancato da due pezzi di marcantonio grossi quanto lui
e con l'aria di mangiare pallottole a colazione. Xhex però non c'era, ma
andava bene così. Nessun problema.
«Da grande voglio essere come lui», disse Qhuinn in tono strascicato.
«Però non tagliarti i capelli», disse Blay. «Sono troppo bel... cioè, voglio
dire, il taglio alla moicana va curato molto.»
Blay buttò giù d'un fiato la sua birra e Qhuinn spostò un attimo gli occhi di
due colori diversi sul volto del suo migliore amico prima di distogliere in
fretta lo sguardo.
Dopo aver fatto segno alla cameriera di portare un altro Jack Daniel's, John
si voltò sulla sedia e, attraverso la finta cascata ornamentale, guardò l'altra
parte del club, quella aperta alla clientela comune. Sulla pista da ballo c'era
una infinità di donne in cerca proprio di quello che lui voleva dargli. Bastava
andare lì e scegliere tra le volontarie disponibili.
Piano grandioso; peccato che, chissà perché, gli venne in mente The Maury
Show. Voleva davvero rischiare di mettere incinta un'umana a casaccio? In
teoria era possibile calcolare quando una era nel suo periodo di ovulazione,
ma lui cosa cazzo ne sapeva di queste cose femminili?
Accigliandosi si girò dall'altra parte, afferrò il whisky arrivato fresco fresco
e si concentrò sulle prostitute.
Professioniste. Che conoscevano il genere di gioco erotico in cui lui stava
cercando di entrare. Molto meglio.
Si concentrò su una mora con una faccia da Maria Vergine. Marie-Terese,
gli pareva si chiamasse così. Era la capa delle ragazze, ma era anche sulla
piazza: al momento stava adescando un tizio in completo a tre pezzi che
sembrava parecchio interessato alla sua mercanzia.
Vieni con me, disse a Qhuinn.
«Dove... Okay, ricevuto.» Qhuinn scolò la sua birra e scivolò fuori dal
separé. «Prima o poi torniamo, Blay.»
«Già... Divertitevi.»
John fece strada verso la brunetta che, sorpresa nel vederli arrivare, sgranò
gli occhi azzurri e, con una qualche torrida scusa, si allontanò dal potenziale
cliente.
«Vi serve qualcosa?» chiese, senza nessun sottinteso allusivo. Era cordiale,
però, perché sapeva che John e i suoi amici erano ospiti speciali del
Reverendo. Anche se naturalmente non sapeva perché.
Chiedile quanto vuole, disse John rivolto a Qhuinn. Ver tutti e due.
Qhuinn si schiarì la gola. «Il mio amico vuole sapere quanto viene.»
Marie-Terese si accigliò. «Dipende da chi volete. Le ragazze hanno...» John
indicò proprio lei. «Me?»
John annuì.
La brunetta socchiuse gli occhi azzurri arricciando le labbra; John si figurò
quella bocca su di sé e il suo uccello gradì molto l'immagine, esibendosi in
una istantanea quanto entusiastica erezione. Eh sì, la morettina aveva una
bocca proprio bel..,
«No», fece lei. «Non potete avere me.»
Qhuinn parlò prima che John avesse il tempo di muovere le mani. «Perché?
I nostri soldi sono buoni come quelli di chiunque altro.»
«Io posso scegliere con chi andare. Forse qualcuna delle altre ragazze la
pensa diversamente. Potete chiedere a loro.»
John era pronto a scommettere che quel rifiuto c'entrava con Xhex. C'erano
stati un mucchio di contatti visivi tra lui e la responsabile della sicurezza del
club, e di sicuro Marie-Terese voleva evitare di essere messa in mezzo.
O almeno quella fu la spiegazione che si diede; sempre meglio che pensare
che neanche una prostituta sopportasse l'idea di fare sesso con lui.
Okay, bene, disse a gesti. Chi suggerisci?
Dopo che Qhuinn ebbe tradotto, Marie-Terese disse, «Ti suggerisco di
tornare al tuo Jack Daniel's e di lasciar stare le ragazze.»
Non esiste proprio, voglio una professionista.
Qhuinn tradusse e Marie-Terese si accigliò ancora di più. «Sarò sincera.
Questa cosa mi puzza tanto di vaffanculo. Come se volessi lanciare un
messaggio. Se vuoi scopare vai a cercarti una puttanella sulla pista da ballo o
in uno di questi séparé. Non farlo con una che lavora con lei, okay?»
Ecco, proprio come pensava. Il problema era Xhex.
Il vecchio John di un tempo avrebbe fatto come suggeriva Marie-Terese.
'Fanculo; il vecchio John non avrebbe mai fatto quella conversazione, tanto
per cominciare. Ma le cose erano cambiate.
Grazie, ma credo che chiederemo a una delle tue colleghe. Stammi bene.
John si voltò mentre Qhuinn traduceva, ma Marie-Terese lo afferrò per un
braccio. «E va bene. Se vuoi fare lo stronzo vai a parlare con Gina, laggiù in
fondo, è quella vestita di rosso.»
John si inchinò leggermente, poi accettò il suggerimento avvicinandosi a
una donna dai capelli neri con un vestito di vinile di un rosso così brillante
che poteva passare per una luce stroboscopica.
A differenza di Marie-Terese, Gina accettò prima ancora che Qhuinn glielo
chiedesse. «Cinquecento», disse con un sorrisone. «Ciascuno. Siete insieme,
giusto?»
John annuì, un filo sconcertato da tanta facilità. D'altronde era per questo
che pagavano. Sesso facile.
«Andiamo nel retro?» Infilandosi in mezzo tra lui e Qhuinn, Gina li prese
entrambi a braccetto e. li condusse oltre Blay, assorto nella contemplazione
della sua birra.
Mentre percorrevano il corridoio che portava ai bagni privati, John ebbe la
sensazione di avere la febbre: bollente e dissociato da quello che aveva
intorno, avanzava con passo malfermo, sorretto solo dal braccio sottile della
prostituta che stava per sbattersi a pagamento.
Se lei lo avesse lasciato andare, era sicuro che, senza alcun dubbio, sarebbe
finito alla deriva.
Capitolo 45
Xhex salì i gradini ed entrò nel settore VIP; all'inizio non era sicura di
quello che stava vedendo. A quanto pareva John e Qhuinn stavano andando
nel retro con Gina. A meno che, naturalmente, non ci fossero due ragazzi
identici a loro, uno con un tatuaggio nell'Antico Idioma sulla nuca e l'altro
con due spalle larghe come quelle di Rehv.
Ma quella era decisamente Gina, col suo vestito "rosso non significa stop".
Dall'auricolare uscì la voce di Trez. «Rehv è qui e ti stiamo aspettando.»
Già, be', avrebbero aspettato ancora un po'.
Xhex si voltò e tornò verso il cordone di velluto... almeno finché non si vide
tagliare la strada da un tizio con una imitazione di un vestito Prada.
«Ehi, baby, dove vai così di fretta?»
Mossa azzardata. Quell'inutile pezzo di idiota strafatto di coca aveva scelto
di abbordare la femmina sbagliata.
«Levati dai piedi prima che ti levi di mezzo io.»
«Cosa c'è?» fece quello, accennando a palparle il culo, «Non te la senti di
fartela con un vero uomo... Ahio.»
Xhex bloccò subito il suo tentativo di palpeggiamento, stringendogli le
nocche in una morsa e torcendogli la mano fino a piegargli il braccio a 180
gradi. «Okay», disse poi. «Un'ora e venti minuti fa hai comprato settecento
dollari di coca. Te ne sei già sniffato un bel po' nei cessi, ma scommetto che ne
hai ancora addosso abbastanza da giustificare un arresto per possesso di
droga. Per cui levati dalle palle, e se provi ancora a toccarmi ti spezzo tutte le
dita di questa mano e poi passo all'altra.»
Detto ciò, lo lasciò andare con uno spintone, mandandolo a sbattere contro i
suoi compari.
Xhex riprese a camminare, lasciando l'area VIP e oltrepassando a grandi
passi la pista da ballo. Sotto le scale che portavano al mezzanino si diresse
fino a una porta con la scritta RISERVATO ALLA SICUREZZA e digitò un
codice. Il corridoio dall'altra parte la condusse, superato lo spogliatoio del
suo staff, alla sua destinazione, l'ufficio della sicurezza. Dopo aver digitato un
altro codice, entrò nella stanzetta sei per sei dove tutti i dispositivi di
monitoraggio scaricavano dati nei computer.
Tutto, all'interno della proprietà, eccetto l'ufficio di Rehv e la tana dove
Rally preparava la roba, che erano su un altro sistema, veniva registrato lì in
formato digitale, e una serie di schermi grigio-azzurri mostrava immagini da
ogni angolo del club.
«Ehi, Chuck», disse al ragazzo dietro la scrivania. «Ti spiace lasciarmi un
minuto da sola?»
«Nessun problema. Dovevo comunque prendermi una pausa per andare in
bagno.»
Xhex si mise al suo posto, sprofondando nella sedia Kirk, come la
chiamavano i ragazzi. «Non ci metto molto.»
«Neanch'io, capo. Vuole qualcosa da bere?»
«Sto bene così, grazie.»
Chuck annuì uscendo e Xhex si concentrò sui monitor che mostravano i
gabinetti in fondo al settore VIP... Oh... Dio.
Il trio si era chiuso dentro quello spazio angusto, con Gina in mezzo, John
che si apriva un varco verso i suoi seni a furia di baci e Qhuinn che, ritto
dietro la donna, le faceva scivolare le mani sul ventre e sull'inguine.
Schiacciata in mezzo ai due ragazzi, Gina aveva l'aria di una che se la
spassava un mondo, non di una che sta lavorando.
Maledizione.
Meno male che era Gina. Xhex non aveva un rapporto particolare con lei
perché la donna era appena stata assunta, perciò era un po' come se John si
fosse fatto una pollastra rimorchiata sulla pista da ballo.
Appoggiandosi allo schienale, Xhex si costrinse a passare in rassegna gli
altri monitor. Il muro era tappezzato di gente: immagini sfarfallanti di clienti
che bevevano, tiravano strisce di coca, facevano sesso, ballavano,
chiacchieravano, fissavano un punto in lontananza le riempirono gli occhi.
Bene, pensò. Bene. John aveva perso le sue illusioni romantiche e si stava
rivolgendo altrove. Bene...
«Xhex, dove sei?» Era la voce di Trez all'auricolare.
Xhex alzò il braccio di scatto e parlò nell'orologio. «Dammi un minuto,
cazzo!»
Il Moro reagì con estrema calma, come al solito. «Tutto okay?»
«Io... Senti, scusa. Sto venendo.»
Già, e anche Gina. Cristo.
Xhex si alzò dalla sedia Kirk, riportando gli occhi sullo schermo che aveva
ignorato di proposito.
Le cose avevano fatto progressi. In fretta.
John stava dimenando i fianchi.
Proprio mentre Xhex stava per andarsene con una smorfia, lui alzò gli occhi
verso la telecamera di sicurezza. Difficile dire se sapeva che la telecamera era
lì o se l'aveva guardata per caso.
Merda. Aveva la faccia cupa, la mascella contratta, lo sguardo spento,
senz'anima, e la cosa la rattristò.
Xhex cercò di non vedere quel cambiamento per quello che era, ma non ci
riuscì. Era stata lei a fargli questo. Forse non era l'unica ragione per cui John
era diventato di pietra, ma gli aveva dato una bella mano.
John distolse lo sguardo.
Xhex si voltò.
Chuck infilò la testa nella stanza. «Ti serve più tempo?»
«No, grazie. Ho visto abbastanza.»
Con una pacca sulla spalla al suo dipendente, uscì e svoltò a destra. In
fondo al corridoio c'era una porta nera rinforzata. Digitando l'ennesimo
codice imboccò il corridoio che portava all'ufficio di Rehv e, quando varcò la
soglia, i tre maschi intorno alla scrivania la guardarono cauti.
Xhex andò a piazzarsi contro la parete nera di fronte a loro. «Be'?»
Rehv si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia
impellicciate sul petto. «Ti stai preparando ad andare in calore?»
Mentre Rehvenge parlava, Trez e iAm fecero entrambi il gesto delle Ombre
per scongiurare un disastro.
«Dio, no. Perché me lo chiedi?»
«Perché, senza offesa, ma sei tesa da matti.»
«Non è vero.» Vedendo che i tre maschi si scambiavano degli sguardi
eloquenti sbraitò, «Piantatela.»
Ah, fantastico, adesso i tre facevano di tutto per non guardarsi.
«Possiamo levarci il pensiero e fare questa benedetta riunione?», disse
Xhex, cercando di moderare i toni.
Rehv, che aveva le braccia conserte, le sciolse e si piegò in avanti. «Sì. Tra
poco devo andare alla riunione del consiglio.»
«Vuoi che ti accompagniamo?» chiese Trez.
«Basta che non ci sia in ballo niente di grosso per dopo mezzanotte.»
Xhex scosse la testa. «L'ultimo scambio in programma per questa settimana
era alle nove ed è filato liscio. Anche se direi che il nostro compratore era
parecchio nervoso, e questo prima che alla radio della polizia dicessero che
un altro spacciatore è stato trovato morto.»
«Quindi, dei sei principali subappaltatori che acquistano la roba da noi ne
restano solo due? Cribbio, è proprio una guerra per il territorio.»
«E chiunque sia il responsabile, probabilmente sta cercando di risalire nella
catena alimentare.»
Trez prese la parola. «Ecco perché iAm e io pensiamo che dovresti portarti
sempre dietro qualcuno finché non finisce questa mattanza.»
Rehv parve infastidito, ma non disse di no. «Sappiamo qualcosa su chi ha
seminato tutti quei cadaveri?»
«Be', che cavolo», disse Trez. «Tutti credono che sei stato tu.»
«Assurdo. Perché dovrei fare la pelle ai miei compratori?»
Adesso fu Rehv a ricevere un'occhiata perplessa dai presenti. «Oh,
andiamo», esclamò. «Non sono poi così cattivo. Be', okay, lo sono, ma solo se
qualcuno cerca di fregarmi. E poi, scusate, ma quei quattro che sono morti?
Erano onesti uomini d'affari, ottimi clienti. Non davano mai problemi.»
«Hai parlato coi tuoi fornitori?» chiese Trez.
«Sì. Li ho avvisati di tenersi pronti. E ho confermato che mi aspettavo di
movimentare la stessa quantità di merce. Quelli che abbiamo perduto
verranno rimpiazzati alla svelta perché gli spacciatori sono come le erbacce.
Ricrescono sempre.»
Discussero un po' del mercato e dei prezzi, poi Rehv disse, «Prima che ci
manchi il tempo, ditemi del club. Novità?»
Be', bella domanda, pensò Xhex. E la risposta è? "Ding ding ding": John
Matthew. In ginocchio davanti a Gina.
«Xhex, stai ringhiando?»
«No.» Xhex si sforzò di fare mente locale e fece una rapida panoramica
degli incidenti verificatisi quella sera. Trez fece rapporto sulla Maschera di
Ferro, di cui era stato nominato responsabile, e infine iAm parlò delle finanze
e del Sal's Restaurant, un'altra delle proprietà di Rehv. Nel complesso era
tutto come al solito... considerato che stavano violando il tipo di leggi umane
che, se ti beccavano, finivi dritto in galera.
Xhex però aveva ancora la testa da un'altra parte, e quando giunse il
momento di andare fu la prima a farlo, mentre di solito indugiava.
Uscì dall'ufficio proprio al momento giusto...
per beccarsi una ginocchiata nello stomaco.
Proprio allora, infatti, in fondo al corridoio dei bagni privati comparve
Qhuinn, le labbra gonfie e rosse e i capelli arruffati, preceduto dall'odore di
sesso, orgasmo e porcherie eseguite con maestria.
Xhex si fermò di colpo, anche se era una pessima idea.
Gina comparve per seconda, con l'aria di una che ha bisogno di bere
qualcosa. Tipo un Gatorade. Camminava tutta molle, non con la solita
andatura da adescamento clienti, ma perché quei due se l'erano lavorata per
benino, e il sorriso languido sulle sue labbra era decisamente troppo intimo e
sincero per i gusti di Xhex.
John fu l'ultimo a uscire, a testa alta, lo sguardo limpido, le spalle diritte.
Era stato magnifico. Xhex era pronta a scommettere... che era stato
magnifico.
Lui voltò la testa e incrociò i suoi occhi. Lo sguardo timido, il rossore,
l'adulazione servile e maldestra: tutto sparito. Le rivolse un reciso cenno del
capo e distolse lo sguardo, composto, tranquillo. .. e pronto a ricominciare a
fare sesso, a giudicare da come adocchiò subito un'altra delle prostitute.
Un dolore insolito e fastidioso si accese nel petto di Xhex, sconvolgendo il
battito regolare del suo cuore. Nell'impulso di salvare John dal caos
sperimentato con il suo ultimo amante, aveva rovinato qualcosa;
nell'allontanarlo lo aveva privato di qualcosa di prezioso.
La sua innocenza era svanita.
Xhex avvicinò l'orologio alla bocca. «Ho bisogno di prendere una boccata
d'aria.»
Trez manifestò subito un'approvazione senza riserve. «Ottima idea.»
«Torno prima che andiate alla riunione del consiglio.»
Al rientro dalla tana di suo padre, Lash si concesse solo una decina di
minuti per tornare completamente allá vita prima di salire sulla Mercedes e
guidare fino alla squallida casetta dove avevano confezionato la droga. Era
un miracolo se, spompato com'era, non andava a sbattere contro qualcosa,
pensò, e infatti per un pelo non lo fece. Mentre si stropicciava gli occhi
cercando di digitare un numero al cellulare, non frenò abbastanza in fretta a
uno stop e, solo grazie al fatto che i camion spargisale della città di Caldwell
erano già passati qualche ora prima, i suoi pneumatici riuscirono a far presa
sull'asfalto.
Mise giù il telefono e si concentrò sulla guida. Forse era meglio non parlare
comunque con Mr D, dato che era ancora nella nebbia paterna, come la
chiamava lui.
Merda, il riscaldamento lo intontiva ancora di più.
Abbassò i finestrini, spense l'aria calda che investiva il sedile anteriore della
berlina e, quando arrivò a destinazione, era molto più vigile. Parcheggiò sul
retro in modo che la Mercedes fosse nascosta dalla veranda e dal garage ed
entrò dalla porta della cucina.
«Dove sei?» gridò. «Che novità ci sono?»
Silenzio.
Infilò la testa nel garage e, quando vide solo la Lexus, pensò che Mr D,
Grady e gli altri due fossero sulla via del ritorno dopo aver fatto fuori
quell'altro spacciatore. Il che significava che aveva il tempo di mangiare un
boccone. Mentre andava al frigo che veniva rifornito solo per lui, chiamò il
cellulare del piccolo texano. Uno squillo. Due squilli.
Strava tirando fuori un sandwich al tacchino comprato in un reparto
gastronomia e controllando la data di scadenza, quando sentì scattare la
casella vocale di D.
Si raddrizzò e guardò il cellulare. Non trovava mai la casella vocale. Mai.
Forse c'era stato un ritardo e adesso erano nel bel mezzo dell'incontro.
Lash mangiò e attese, aspettandosi di essere subito richiamato. Quando ciò
non accadde andò in salotto e accese il portatile, entrando nel software GPS
in grado di localizzare sulla mappa di Caldwell ogni telefonino della
Lessening Society. Avviò la ricerca per quello di Mr D e scoprì...
Che stava viaggiando a velocità sostenuta in direzione est. E che gli altri
due ¡esser erano con lui.
Ma allora perché non rispondeva a quel cazzo di telefono?
Insospettito, Lash chiamò di nuovo e, intanto che il cellulare squillava a
vuoto, fece il giro di quella topaia. In casa non c'era niente fuori posto, per
quel che poteva vedere. Il salotto era intatto e le due camere da letto, oltre a
quella padronale, avevano le finestre ben chiuse e le tapparelle abbassate.
Stava chiamando il texano per la terza volta quando imboccò il corridoio
verso il lato della casa affacciato sulla strada...
Si fermò di botto e voltò la testa verso l'unica porta che non aveva ancora
aperto... da cui filtrava una brezza gelida.
Non aveva bisogno di aprirla per sapere cos'era successo, ma lo fece
comunque. La finestra era in frantumi e c'erano delle scie nere... gomma, non
sangue di lesser, intorno al davanzale.
Una rapida occhiata fuori dalla finestra rotta ed ecco nel sottile strato di
neve delle orme che si dirigevano verso la strada. La fuga doveva essersi
svolta in un baleno. C'erano un mucchio di auto lì intomo, in quel quartiere
tranquillo, e rubarne una collegando i fili era un giochetto da ragazzi per un
qualunque delinquente degno di tal nome.
Grady aveva tagliato la corda.
Era stata una mossa a sorpresa. Non era il diamante più scintillante della
catena, ma la polizia gli stava dando la caccia. Perché rischiare di ritrovarsi
alle calcagna un altro gruppo di figli di puttana?
Lash tornò in salotto e, accigliandosi, guardò il divano dove Grady aveva
lasciato la scatola tutta unta della pizza di Domino's e... il Caldwell Courier
Journal che stava leggendo.
E che era aperto ai necrologi.
Pensando alle nocche sbucciate di Grady, Lash andò a raccogliere il
giornale...
Sulle pagine fiutò qualcosa. Old Spice. Ah, allora Mr D un briciolo di
cervello ce l'aveva e anche lui ci aveva dato un'occhiata...
Lash diede una scorsa all'elenco dei deceduti. Un sacco di umani tra i
settanta e gli ottant'anni. Uno sui sessanta. Due sui cinquanta. Nessuno dei
quali faceva Grady di cognome o di secondo nome. Tre forestieri con famiglia
lì a Caldwell...
E poi eccola lì: Christianne Andrews, ventiquattro anni. La causa della
morte non veniva indicata, ma era deceduta la domenica prima e il servizio
funebre era stato celebrato quel giorno stesso al cimitero di Pine Grove. La
chiave del mistero? Invece dei fiori, pregasi inviare donazioni al Fondo per le
vittime di violenza domestica del Dipartimento di Polizia di Caldwell.
Lash si fiondò verso il laptop e controllò il tracciato GPS. La Focus di Mr D
stava schizzando verso... Be', chi l'avrebbe mai detto? Il cimitero di Pine
Grove, dove la un tempo incantevole Christianne avrebbe riposato in eterno
tra le braccia degli angeli.
Adesso la storia di Grady era chiara: lo stronzo mena regolarmente la sua
ragazza finché una sera esagera con le violente manifestazioni d'affetto. Lei
schiatta, la polizia trova il cadavere e comincia a guardarsi intorno in cerca
del fidanzato spacciatore che sfoga le sue frustrazioni professionali sulla
poveretta. Non c'era da stupirsi che gli sbirri gli dessero la caccia.
E l'amore vince su tutto... persino sul buon senso dei criminali.
Lash uscì e si smaterializzò verso il cimitero, pronto a fare una bella
sorpresina non solo a quell'idiota di umano, ma anche a quegli stupidi lesser
del cazzo, che avrebbero dovuto sorvegliarlo meglio.
Si materializzò a una decina di metri da un'auto parcheggiata...
ritrovandosi quasi faccia a faccia col tizio che ci stava dentro. Nascondendosi
in fretta dietro la statua di una donna con una lunga tunica, Lash controllò
cosa succedeva nella berlina: dentro c'era un umano, a giudicare dall'odore.
Un umano con un ettolitro di caffè.
Uno sbirro sotto copertura. In speranzosa attesa che quel figlio di buona
donna di Grady facesse esattamente ciò che stava per fare, ovvero rendere
omaggio alla ragazza che aveva ammazzato.
Già, be', allora potevano aspettarlo in due.
Lash tirò fuori il cellulare coprendo il display luminoso col palmo. L'SMS
che inviò era un avvertimento, e sperava di tutto cuore che Mr D lo ricevesse
in tempo. Con la polizia sul posto, preferiva affrontare Grady da solo.
Poi avrebbe strapazzato per bene chi aveva perso d'occhio l'umano,
dandogli il tempo di scappare.
Capitolo 46
Ai piedi del sontuoso scalone, Wrath finì di prepararsi per la riunione con
la glymera infilandosi un giubbotto in Kevlar. «È leggero.»
«Il peso non sempre rende un miglior servizio», spiegò V accendendosi una
sigaretta rollata a mano e chiudendo di scatto l'accendino d'oro.
«Sei sicuro?»
«Quando si tratta di giubbotti antiproiettile, sì.» Vishous soffiò fuori il fumo
che, prima di fluttuare verso l'alto soffitto riccamente decorato, per un attimo
gli offuscò il viso. «Ma se ti fa sentire meglio possiamo agganciarti al petto la
porta di un garage. O magari un'automobile.»
Passi pesanti riecheggiarono alle loro spalle per tutto il magnifico atrio
variopinto; Rhage e Zsadist scesero insieme, una coppia di killer fatti e finiti
con i pugnali della confraternita infilati col manico all'ingiù nei foderi sul
petto. Appena si fermarono davanti a Wrath, nel vestibolo si udì uno
scampanellio e Fritz arrivò trafelato per far entrare Phury, che si era
smaterializzato giù dagli Adirondack, insieme a Butch, che invece aveva solo
attraversato il cortile.
Guardando i suoi fratelli, Wrath si sentì pervadere come da una scarica
elettrica. Anche se due di essi ancora non gli parlavano, sentì il sangue
guerriero che li accomunava tutti e assaporò il bisogno collettivo di
combattere il nemico, fosse esso un ¡esser o un membro della loro stessa
razza.
Un rumore sommesso sulle scale gli fece voltare la testa.
Tohr stava scendendo con cautela dal primo piano, quasi temesse che i
muscoli delle cosce non reggessero il suo peso. Da quel che Wrath poteva
vedere il fratello aveva un paio di pantaloni mimetici stretti su fianchi sottili
come quelli di un ragazzino e un pesante dolcevita nero che gli pendeva
addosso. Non aveva pugnali, ma un paio di pistole appese alla cintura di
cuoio che, un po' fortunosamente, gli teneva su i calzoni.
Al suo fianco Lassiter, che per una volta non faceva il saccente, non
guardava neanche dove stava andando: per qualche motivo fissava la scena
affrescata sul soffitto, coi guerrieri che combattevano tra le nuvole.
Tutti guardarono Tohr ma lui non si fermò e non guardò in faccia nessuno;
tirò dritto fino al pavimento a mosaico. Poi, sempre senza fermarsi, passò
davanti ai fratelli, arrivò alla porta che si apriva sulla notte e attese.
L'unica eco di ciò che era stato un tempo si ritrovava nel profilo deciso della
mascella. Per quanto lo riguardava, lui sarebbe uscito, punto e basta.
Sì, col cavolo.
Wrath gli andò vicino e sottovoce disse, «Mi dispiace, Tohr...»
«Non c'è nessun motivo di dispiacersi. Andiamo.»
«No.»
Gli altri fratelli strusciavano i piedi, manifestando così il loro disagio;
odiavano quel momento quanto Wrath.
«Non sei abbastanza in forze.» Wrath voleva posargli una mano sulla
spalla, ma sapeva che Tohr se la sarebbe scrollata di dosso risentito, tale era la
tensione che contraeva il suo fragile fisico. «Aspetta di essere pronto. Questa
guerra... questa maledetta guerra durerà ancora parecchio.»
La pendola nello studio al piano di sopra cominciò a battere le ore, un
suono ritmico che, filtrando dall'ufficio di Wrath, superava la balaustra
dorata fino a cadere nelle orecchie degli astanti. Erano le undici e mezzo. Era
ora di avviarsi se volevano passare al setaccio il luogo della riunione prima
che arrivassero quelli della glymera.
Imprecando tra sé, Wrath si voltò a guardare i cinque guerrieri vestiti di
nero radunati come un'unica entità. I loro corpi trasudavano potenza, le armi
non erano solo quelle infilate nei foderi e nelle fondine, ma erano anche le
mani, i piedi, le braccia, le gambe e i cervelli. La loro resistenza mentale era
nel loro sangue; l'addestramento e la forza bruta nella loro carne.
Per combattere servivano entrambe. La forza di volontà, da sola, non
bastava.
«Tu resti qui», ordinò Wrath. «Punto e basta.»
Poi con un'imprecazione si fece strada attraverso il vestibolo. Lasciare lì
Tohr sembrava ingiusto, ma non c'era altra scelta. Il fratello era un pericolo
per se stesso, tanto era malridotto, e inoltre costituiva una brutta distrazione
per gli altri: se lo avessero portato con loro, ognuno dei fratelli avrebbe
pensato alla sua incolumità e l'intero gruppo si sarebbe deconcentrato. Non
era esattamente quello che serviva a una riunione dove qualcuno poteva
tentare di assassinare il re... per, tipo, la seconda volta nel giro di una
settimana.
Il portone della grande casa si chiuse con un tonfo sordo in faccia a Tohr;
Wrath e i fratelli rimasero fermi per qualche istante nelle furiose raffiche di
vento che sferzavano la facciata del quartier generale, spazzavano il cortile e
s'insinuavano tra le auto parcheggiate.
«Maledizione», bofonchiò Rhage mentre si concentravano sull'orizzonte in
lontananza.
Dopo qualche istante Vishous voltò la testa verso Wrath, il profilo stagliato
contro il cielo grigio. «Dobbiamo...»
In quel mentre risuonò uno sparo e la sigaretta tra le labbra di V saltò via. O
forse, semplicemente, evaporò.
«Ma cosa cavolo...» esclamò V, trasalendo.
Si voltarono tutti di scatto, pronti a impugnare le armi, anche se era
impossibile che i loro nemici fossero in prossimità della grande fortezza di
pietra.
Ritto sulla soglia della magione, Tohr li fissava serafico, i piedi ben piantati
per terra, le mani strette intorno al calcio della pistola con cui aveva fatto
fuoco.
V si scagliò in avanti, ma Butch lo trattenne per il torace, impedendogli di
atterrare Tohr.
Questo però non gli impedì di gridare, «Ma cosa cazzo ti salta in mente!»
Tohr abbassò la canna della pistola. «Forse non sono ancora pronto per un
corpo a corpo, ma sono il miglior tiratore tra tutti voi.»
«Tu sei matto da legare», sibilò V. «Ecco cosa sei.»
«Pensi davvero che ti ficcherei una pallottola in testa?» La voce di Tohr era
pacata. «Ho già perso l'amore della mia vita, non ci tengo a veder morire
anche uno dei miei fratelli. Come ho detto, tra tutti sono il migliore con una
pistola in pugno, e non è una dote da sottovalutare in una serata come
questa.» Tohr rimise nella fondina la SIG. «E prima che ricominci a
stramaledirmi, ti spiego perché ti ho fatto volare via la sigaretta: sempre
meglio che staccarti quell'orrendo pizzetto, dovendo darvi una dimostrazione
della mia ottima mira. Non che non mi solletichi l'idea di rasarti il mento.»
Ci fu una lunga pausa.
Poi Wrath scoppiò in una fragorosa risata. Il che era pazzesco,
naturalmente, ma l'idea di non dover più abbandonare Tohr come un cane
che non ha il permesso di seguire il resto della famiglia era un tale sollievo
che non potè proprio farne a meno.
Rhage fu il primo a imitarlo, gettando indietro la testa; le luci della casa si
riflettevano sui suoi capelli biondissimi e sui denti superbianchi, facendoli
brillare. Ridendo, si portò la grossa mano sul cuore, forse nel timore che
scoppiasse.
Poi fu la volta di Butch, che cominciò a ridere a crepapelle allentando la
presa sul torace del suo migliore amico. Phury sorrise per un secondo, poi le
sue grosse spalle cominciarono a essere scosse dalle risate... cosa che contagiò
anche Z, tanto che la sua faccia sfregiata si allargò in un sorrisone.
Tohr non sorrideva, ma nella soddisfazione con cui si appoggiò all'indietro
sui talloni c'era un barlume di com'era un tempo. Tohr era sempre stato un
tipo serio, più interessato ad assicurarsi che tutti fossero sereni e rilassati
piuttosto che a raccontare barzellette e a spararle grosse. Il che non
significava che non sapesse scherzare con i più burloni tra i fratelli.
Ecco perché, come capo della confraternita, era stato perfetto: testa sul collo
e un gran cuore, la giusta accoppiata per un compito tanto delicato.
Nel bel mezzo di quella risata liberatoria, Rhage guardò Wrath. Senza dire
una parola, i due si abbracciarono e quando si staccarono il re gli diede
l'equivalente virile delle sue scuse, ovvero una vigorosa pacca sulle spalle.
Poi si voltò verso Z, e Z annuì reciso. Che era il suo modo sintetico per dire
Okay, sei stato una testa di cazzo, ma avevi i tuoi buoni motivi e adesso siamo a posto
cosi.
Difficile dire chi fu a cominciare, ma a un certo punto qualcuno mise le
braccia sulle spalle di qualcun altro e poi un altro fece lo stesso, tanto che alla
fine si ritrovarono abbracciati come i giocatori di football americano quando
si consultano sulle tattiche da seguire. Il cerchio che formavano nel vento
gelido era irregolare, composto da elementi diversi per altezza, ampiezza del
petto e lunghezza delle braccia. Ma insieme formavano una cosa sola.
Fianco a fianco con i fratelli, Wrath vide come rarissimo e speciale ciò che
un tempo aveva dato per scontato: la confraternita di nuovo unita.
«Ehi, vi spiace condividere anche con me tutto questo idillio virile?»
La voce di Lassiter li spinse ad alzare la testa. L'angelo, ritto sui gradini
della grande casa, rischiarava la notte con la sua bella luce calda.
«Posso picchiarlo?» chiese V.
«Dopo», rispose Wrath, sciogliendo l'abbraccio. «E molte, moltissime
volte.»
«Non è esattamente quello che avevo in mente», borbottò l'angelo mentre,
uno dopo l'altro, i fratelli si smaterializzavano verso la riunione, e Butch
saliva in macchina per raggiungerli.
Xhex riprese forma in mezzo a un gruppo di pini, a un centinaio di metri
dalla tomba di Chrissy. Scelse quel posto non perché si aspettasse di vedere
Grady davanti alla lapide a frignare nella manica del giubbotto con l'aquila,
ma perché voleva sentirsi ancora peggio di quanto già si sentiva... e non le
veniva in mente un posto migliore di quello in cui sarebbe finita quella
povera ragazza in primavera.
Con sua immensa sorpresa, però, scoprì di non essere sola. Per due motivi.
La berlina parcheggiata appena dietro la curva, con un'ottima visuale sulla
tomba, era chiaramente di de la Cruz o di uno dei suoi scagnozzi. Ma c'era
anche qualcun altro.
Una forza malefica, in realtà.
Il suo istinto symphath le suggeriva di fare molta attenzione. Per quel che
poteva capire, quella "cosa" era un lesser con una potentissima miscela al
protossido di azoto nel suo motore malvagio; in un subitaneo moto di
autodifesa, Xhex si isolò confondendosi col paesaggio...
Guarda, guarda... un altro imprevisto.
Da nord vide avvicinarsi un gruppetto di uomini, due piuttosto alti e uno
molto più basso. Erano tutti vestiti di nero e avevano la pelle e i capelli
chiarissimi, come i norvegesi.
Fantastico. A meno che in città ci fosse un'altra banda di delinquenti alla
"Perché io valgo", con un debole per le tinture della L'Oréal, quei tre biondini
erano lesser.
La polizia di Caldwell, la Lessening Society e qualcosa di ancora peggio,
tutti appostati intorno alla tomba di Chrissy? Quante probabilità c'erano che
fosse una pura coincidenza?
Xhex rimase in attesa, guardando i non morti che si sparpagliavano in cerca
di alberi dietro cui nascondersi.
C'era un'unica spiegazione: Grady si era messo con i lesser. Nessuna
sorpresa, considerato che quelli reclutavano criminali, specie se violenti.
Xhex lasciò scorrere i minuti valutando la situazione, in paziente attesa
dell'esplosione di violenza che appariva inevitabile, dato un film con quel
tipo di cast. L'aspettavano al club, ma stavolta avrebbero proprio dovuto fare
a meno di lei perché non aveva la minima intenzione di andarsene.
Grady doveva essere in arrivo.Passò ancora un po' di tempo, e molte altre
raffiche gelide e moltissime altre nuvole blu scuro e grigio chiaro fluttuarono
davanti alla faccia della luna.
E poi, così, di punto in bianco, i lesser se ne andarono.
Anche la presenza malvagia si smaterializzò.
Forse avevano gettato la spugna, anche se sembrava improbabile. Per quel
che ne sapeva lei, i lesser erano parecchie cose, ma non certo affetti dalla
sindrome da deficit dell'attenzione. Per cui o era successo qualcosa di più
importante oppure avevano cambiato...
Sentì un fruscio dall'altra parte del prato.
Si voltò a guadare da sopra la spalla e vide Grady.
Piegato in due contro il freddo, le braccia infilate dentro un parka nero
troppo grande per lui, avanzava a fatica sul sottile strato di neve guardandosi
intorno con attenzione, scrutando le tombe in cerca della più recente. Se
continuava così ben presto avrebbe trovato quella di Chrissy.
Naturalmente questo significava anche che avrebbe visto lo sbirro nell'auto
civetta. O che lo sbirro avrebbe visto lui.
Okay. Era il momento di entrare in azione.
Ammesso che i lesser non facessero dietrofront, poteva sistemare lei il
poliziotto.
Non si sarebbe lasciata scappare quell'opportunità. Eh, no, cazzo, proprio
per niente.Spense il cellulare, pronta a mettersi al lavoro.
Capitolo 47
«Maledizione, dobbiamo andare», disse Rehv da dietro la scrivania.
Chiudendo l'ennesima chiamata a vuoto a Xhex, scagliò lontano il cellulare
nuovo neanche fosse un rottame inservibile, cosa che chiaramente stava
diventando una brutta abitudine. «Non so dove cavolo sia Xhex, ma noi
dobbiamo andare.»
«Tornerà.» Trez si infilò il trench di pelle nero e andò alla porta, «Meglio
che ne stia fuori, visto il suo umore. Vado a dire al supervisore dei turni di
contattarmi per qualunque problema, poi vado a prendere la Bendey.»
Mentre Trez usciva, iAm controllò con efficienza letale le due H&K nelle
fondine ascellari, gli occhi neri calmi, le mani ferme. Poi, soddisfatto, prese
un trench di pelle grigio ferro e se lo infilò.
Il fatto che i due fratelli avessero trench simili non era affatto strano. iAm e
Trez amavano le stesse cose. Sempre. Pur non essendo gemelli per nascita, si
vestivano in modo simile, portavano sempre le stesse armi e, coerentemente,
condividevano gli stessi pensieri, valori e principi.
In una cosa erano diversi, però. Quando iAm era di guardia alla porta se ne
stava in silenzio e immobile come un dobermann. La sua indole taciturna,
tuttavia, non gli impediva di essere micidiale quanto suo fratello; i suoi occhi
dicevano tutto anche se la bocca era sigillata ermeticamente: ad iAm non
sfuggiva mai nulla.
Compresi, evidentemente, gli antibiotici che Rehv tirò fuori dalla tasca e
inghiottì. Così come la siringa sterilizzata che fece la sua comparsa subito
dopo.
«Bene», commentò il Moro mentre Rehv si tirava giù la manica arrotolata e
si infilava la giacca del completo.
«Bene cosa?»
iAm si limitò a guardare l'altro capo dell'ufficio, per la serie "non fare lo
gnorri sai benissimo di cosa sto parlando".
Lo faceva spessissimo. Una sola occhiata valeva un intero discorso.
«Mah», bofonchiò Rehv. «Non esaltarti troppo, non vuol dire che ho voltato
pagina.»
Forse stava curando l'infezione al braccio, ma la sua vita era ancora un
letamaio.
«Sei sicuro?»
Rehv alzò gli occhi al cielo e si alzò in piedi, infilando un sacchetto di
M&M's nella tasca della pelliccia. «Fidati.»
Con una faccia della serie "ah davvero", iAm spostò gli occhi sulla pelliccia.
«Si scioglie in bocca, non in mano.»
«Oh, chiudi il becco. Senti, le pillole vanno prese a stomaco pieno. Hai
sottomano un panino di segale al prosciutto e formaggio, per caso? Io no.»
«Avvisami per tempo, la prossima volta, così ti preparo un piatto di
linguine con la salsa di Sai.»
Rehv si avviò fuori all'ufficio. «Ti spiace non essere tanto premuroso? Mi fa
sentire di merda.»
«E un problema tuo, non mio.»
Mentre lasciavano l'ufficio, iAm parlò nell'orologio e, senza perdere tempo,
Rehv uscì dal club e salì sulla Bendey. Subito dopo iAm sparì spostandosi
come un'ombra sull'asfalto, scompigliando le pagine di una rivista, facendo
rotolare una lattina abbandonata, sollevando la neve fresca.
Sarebbe giunto per primo al luogo della riunione e lo avrebbe aperto
mentre Trez ci arrivava in macchina.
Rehv aveva scelto quel luogo d'incontro per due motivi. Prima di tutto lui
era il leahdyre, quindi il consiglio doveva riunirsi dove decideva lui, e lui
sapeva che tutti si sarebbero vergognati del posto, giudicandolo non
all'altezza. Il che era sempre un piacere. E secondariamente era una proprietà
che aveva acquisito di recente, per cui giocava in casa.
Il che era sempre una necessità imprescindibile.
Salvatore's Restaurant, ristorante italiano famoso per la salsa di Sai, era una
istituzione, a Caldie, essendo in attività da oltre cinquantanni. Quando il
nipote del proprietario originale, Sai III, come lo chiamavano tutti, aveva
sviluppato un tremendo vizio per il gioco d'azzardo accumulando 120.000
dollari di debiti con gli allibratori di Rehv, si era imposto un caso di do ut
des: il nipote aveva ceduto l'impresa a Rehv, il quale in cambio non gli aveva
spaccato le corna.
In altre parole, la terza generazione non aveva gomiti e ginocchia sfasciati al
punto da richiedere un trapianto.
Ah, e insieme al ristorante era arrivata la ricetta segreta della salsa di Sai...
condizione specificamente aggiunta da iAm: durante il minuto e mezzo di
trattative l'Ombra aveva preso la parola dicendo: Niente salsa, niente affare. E
aveva preteso un assaggio per assicurarsi che la ricetta fosse quella giusta.
Da quel momento il Moro aveva gestito il ristorante e, incredibile ma vero,
ci stava anche guadagnando. D'altronde capita, quando non butti al vento
ogni centesimo di profitto in scommesse assurde sulle partite di football. La
clientela era in aumento, la qualità della cucina era tornata ai fasti di un
tempo e il locale si stava seriamente rifacendo il look sotto forma di tavoli,
sedie, tovaglie, tappeti e lampadari nuovi.
Tutto era tornato esattamente come alle origini.
Con la tradizione non si scherza, come diceva iAm.
L'unico cambiamento non si vedeva: una fitta rete d'acciaio rivestiva ogni
centimetro quadrato delle pareti e del soffitto, e tutte le porte, tranne una,
erano state rinforzate in acciaio.
Nessuno poteva smaterializzarsi per entrare o per uscire, a meno che la
direzione non lo sapesse, e approvasse.
Il padrone era Rehv, ma il ristorante era la creatura di iAm, e il Moro aveva
tutte le ragioni per essere orgoglioso degli sforzi compiuti. Persino i cumpà
italiani della vecchia scuola apprezzavano i suoi piatti.
Quindici minuti dopo la Bentley si fermò sotto il portone del grande
edificio commerciale a un piano in mattoni rossi. Le luci, comprese quelle
dell'insegna, erano tutte spente, anche se il parcheggio vuoto era illuminato
da antiquati lampioni a gas con la loro luce arancione.
Trez attese nell'ombra col motore accesso e le portiere dell'auto blindata
chiuse, chiaramente comunicando con suo fratello alla maniera delle Ombre.
Un istante dopo annuì e spense il motore.
«Tutto a posto.» Scese e girò intorno alla Bentley, aprendo la portiera
posteriore, mentre Rehv, afferrato il bastone, faceva scivolare sul sedile di
cuoio il corpo intorpidito. Insieme attraversarono il parcheggio e
spalancarono il pesante portone nero, col Moro che, estratta la pistola, la
teneva vicino alla coscia.
Entrare da Sal's era come entrare nel Mar Rosso. Letteralmente.
Frank Sinatra li accolse con la sua Wives and Lovers che usciva dagli
altoparlanti incassati nel soffitto di velluto rosso. Sotto i piedi la moquette
rossa, appena sostituita, splendeva con la stessa lucentezza e tonalità di
colore del sangue umano fresco. Tutt'in- torno, le pareti rosse erano costellate
di un motivo nero a foglie di acanto e l'illuminazione era quella tipica dei
cinema, ovvero rivolta per lo più verso il pavimento. Nei normali orari di
lavoro il banco della direttrice di sala e il guardaroba erano presidiati da
splendide donne brune vestite in pantaloncini e collant rossi e neri, e tutti i
camerieri sfoggiavano un'uniforme nera con cravatta rossa.
Su un lato campeggiava una fila di telefoni pubblici degli anni Cinquanta e
due distributori di sigarette dell'era Kojak e, come al solito, c'era un buon
odore di origano, aglio e ottimo cibo. Si percepiva anche un persistente aroma
di sigarette e sigari... anche se per legge in locali come quello era vietato
fumare, la direzione permetteva di farlo nella sala sul retro, dove c'erano i
tavoli riservati e si giocava a poker.
In mezzo a tutto quel rosso, Rehv era sempre nervosetto, ma finché nelle
due sale da pranzo vedeva i tavoli con le loro tovaglie bianche e le comode
poltroncine di cuoio scomparire in lontananza, com'era giusto che fosse, era
tutto a posto.
«La confraternita è già arrivata», annunciò Trez mentre avanzavano verso
la suite privata dove si doveva svolgere la riunione.
Quando entrarono nella stanza, nessuno tra i vampiri presenti parlava o
rideva, e nessuno si schiarì la gola. I fratelli erano allineati spalla contro spalla
davanti a Wrath, posizionato davanti all'unica porta non rinforzata in
acciaio... in modo da potersi smaterializzare in un batter d'occhio in caso di
necessità.
«'Sera», disse Rehv, sistemandosi a un capo del tavolo lungo e sottile
intorno a cui erano state sistemate venti sedie.
Ci fu un coro di saluti frettolosi, ma il muro compatto di guerrieri in posa
da difensori era concentrato esclusivamente sulla porta.
Eh già, se ti azzardavi a far del male al loro capo, Wrath, potevi dire addio
al tuo futuro seduta stante.
Guarda guarda, evidentemente si erano portati anche una mascotte. Sulla
sinistra, un tizio scintillante che ricordava la statuetta degli Oscar se ne stava
ritto nei suoi anfibi; i capelli biondi e neri gli conferivano un'aria da fanatico
metallaro degli anni Ottanta in cerca di una band di supporto. Lassiter,
l'angelo caduto, non sembrava meno feroce dei fratelli, però. Forse per via dei
piercing. O per quegli occhi tutti bianchi. Cazzo, quel tipo aveva un'aria
tutt'altro chè raccomandabile.
Interessante. Visto il cipiglio con cui fissava la porta insieme agli altri,
Wrath era chiaramente sulla sua lista delle specie protette.
Dal retro spuntò iAm, una pistola in una mano e un vassoio di cappuccini
nell'altra.
Parecchi fratelli accettarono le consumazioni, anche se tutte quelle tazzine
sarebbero finite sotto i tacchi dei loro stivali, in caso di combattimento.
«Grazie, amico.» Anche Rehv prese un cappuccino. «Cannoli?»
«Adesso arrivano.»
Le istruzioni per la riunione erano state illustrate chiaramente! in anticipo.
I membri del consiglio dovevano passare dall'ingresso anteriore del
ristorante. Se qualcuno provava anche solo a toccare la maniglia di un'altra
porta correva il rischio di finire impallinato. iAm li avrebbe fatti accomodare
all'interno e poi scortati fino alla1 sala della riunione. Al momento di uscire
sarebbero passati di nuovo dall'ingresso sul davanti, dove, grazie a
un'adeguata copertura, avrebbero potuto smaterializzarsi senza problemi.
Ufficialmente tante misure di sicurezza erano dovute alla "preoccupazione
per i lesser" manifestata da Rehv. La verità era che tutto era volto a proteggere
Wrath.
iAm tornò con i cannoli.
I cannoli vennero mangiati.
Vennero serviti altri cappuccini.
Frank cantò Fly Me to the Moon. Poi quella canzone sul bar che stava per
chiudere e lui che aveva bisogno di un altro bicchierino prima di mettersi
sulla strada di casa.
E quella sulle tre monete nella fontana. E sul fatto che lui si era preso una
cotta per una.
Vicino a Wrath, Rhage cambiò posizione spostando il peso massiccio
sull'altro piede e facendo crepitare il cuoio del giubbotto. Di fianco a lui, il re
si sgranchì le spalle, facendone scrocchiare una. Butch fece schioccare le
nocche. V si accese una sigaretta. Phury e Z si guardarono.
Rehv lanciò un'occhiata a Trez e iAm, fermi sulla soglia. Poi tornò a
guardare Wrath. «Sorpresa, sorpresa.»
Con l'aiuto del bastone si alzò e fece un giro della stanza; il suo lato
symphath rispettava la tattica offensiva di quella inaspettata defezione da
parte degli altri membri del consiglio. Non pensava che avessero le palle...
Dalla porta anteriore del ristorante giunse un bing-bong.
Rehv voltò la testa e sentì il sommesso scatto metallico delle sicure che
venivano tolte nelle pistole in mano ai fratelli.
Lash si avvicinò a una Honda Civic parcheggiata nell'ombra di fronte al
cancello chiuso del cimitero Pine Grove. Appoggiò la mano sul cofano e sentì
che era caldo; non doveva fare il giro fino al lato del guidatore per sapere che
il finestrino era sfondato. Quella era la macchina che Grady aveva usato per
andare sulla tomba della sua defunta ex.
Sentendo rumore di passi in avvicinamento sull'asfalto, impugnò la pistola
nella tasca interna.
Mr D si avvicinò, calcandosi il cappello da cowboy sulla fronte. «Perché ci
ha ordinato di venire via...»
Con tutta calma, Lash puntò la pistola contro la testa del ¡esser. «Dimmi
perché non dovrei fare subito un buco in quel tuo cervello del cazzo.»
I non morti che affiancavano Mr D si fecero indietro. Molto indietro.
«Perché ho scoperto che era sparito», rispose Mr D nel suo tipico accento
texano. «Ecco perché. Questi due non avevano la più pallida idea di quello
che stava combinando.»
«Il responsabile eri tu. E te lo sei perso.»
Gli occhi slavati di Mr D erano fermi. «Stavo contando tutti i suoi soldi.
Vuole che lo faccia qualcun altro? Non credo proprio.»
Non aveva tutti i torti, cazzo. Lash abbassò la pistola e guardò gli altri due
lesser. A differenza di Mr D, che era immobile come una statua, loro non
riuscivano a stare fermi. Il che bastò a chiarirgli chi si era lasciato scappare il
prigioniero.
«Quanti soldi abbiamo incassato?» chiese Lash, sempre guardandoli in
cagnesco.
«Parecchi. Sono là nella Escort.»
«Be', chi l'avrebbe mai detto, il mio umore sta già migliorando», mormorò
Lash, mettendo via la pistola. «Quanto al motivo per cui vi ho richiamati,
Grady sta per finire in galera con i miei complimenti. Voglio che diventi un
paio di volte la ragazza di qualche carcerato e che si goda la vita dietro le
sbarre, prima di ucciderlo.»
«Ma i...»
«Abbiamo i contatti per gli altri due spacciatori e possiamo vendere la
merce per conto nostro. Non abbiamo bisogno di lui.»
Nel sentire una macchina che si avvicinava al cancello dall'interno del
cimitero, voltarono tutti la testa verso destra. Era l'auto civetta parcheggiata
dietro l'angolo, liei pressi di quella tomba nuova. Quando si fermò, dal tubo
di scappamento uscirono tante nuvolette di fumo, neanche il motore stesse
scoreggiando. Uno zoticone moro scese, sganciò la catena, ce la mise tutta per
strappare via metà dei cartelli con scritto VIETATO ENTRARE, poi risalì su
quella carretta, uscì dal cancello, scese di nuovo e lo richiuse.
In macchina con lui non c'era nessuno.
Svoltò a sinistra e gli stop rossi sbiadirono in lontananza.
Lash si voltò verso la Civic, l'unico altro mezzo con cui Grady poteva
andare da qualche parte.
Cosa cazzo era successo? Lo sbirro doveva averlo visto per forza perché
Grady stava andando dritto verso l'auto civ...
Lash si irrigidì, poi ruotò su un anfibio facendo scricchiolare sotto la
robusta suola il sale sparso sulla strada.
Nel cimitero c'era qualcun altro. Qualcuno che aveva appena scelto di
rivelarsi.
Qualcuno che sembrava esattamente come quel symphath su al nord.
Ecco perché lo sbirro se n'era andato. Era stato mentalmente condizionato a
farlo.
«Tornate a casa con i soldi», ordinò a Mr D. «Ci vediamo lì.»
«Signorsì. Subito.»
Lash quasi non sentì la risposta. Era troppo preso a chiedersi cosa diavolo
stava succedendo intorno alla tomba di quella ragazza morta precocemente.
Capitolo 48
Xhex era lieta che la mente umana fosse malleabile come argilla: il cervello
di José de la Cruz non ci mise molto a registrare l'ordine che lei gli aveva
dato; appena ciò accadde, lo sbirro infilò il caffè ormai freddo nel portabicchiere e mise in moto l'auto civetta.
Poco più in là, tra gli alberi, Grady fermò di colpo la sua marcia da zombie,
scioccatissimo, non essendosi accorto della berlina del detective. Xhex non si
preoccupò che potesse perdere la calma. Intorno a lui l'aria era impregnata di
disperazione, rimpianto e di uno straziante senso di perdita e quella griglia
ben presto lo avrebbe attirato verso la lapide appena posata più ancora di
qualunque pensiero lei potesse piantargli nel lobo frontale.
Xhex attese e attese... e, come previsto, appena de la Cruz se ne fu andato,
gli anfibi ripresero la loro marcia portando Grady proprio dove voleva lei.
Giunto davanti alla lapide di granito, gli uscì di bocca un singhiozzo
strozzato, il primo di una lunga serie. Col fiato che si condensava in
nuvolette, scoppiò a piangere come una donnicciola, accovacciandosi nel
punto in cui la donna che aveva ammazzato avrebbe passato il secolo
seguente a decomporsi.
Se amava tanto Chrissy perché non ci aveva pensato, prima di farla fuori?
Xhex uscì fuori da dietro una quercia e abbandonò il suo mascheramento,
rivelandosi al paesaggio. Avvicinandosi all'assassino di Chrissy, allungò la
mano dietro la schiena, sfoderando il coltello d'acciaio inossidabile infilato
contro la spina dorsale. L'arma era lunga come il suo avambraccio.
«Ciao, Grady», disse.
Grady si voltò con un sobbalzo, neanche gli avessero ficcato un candelotto
di dinamite nel culo e lui sperasse di spegnere lo stoppino nella neve.
Xhex tenne il coltello dietro la coscia. «Come stai?»
«Cosa...» Grady cercò con gli occhi le mani di Xhex. Quando ne vide solo
una arretrò come un granchio, aiutandosi con le mani e trascinando il sedere
per terra.
Xhex lo seguì, mantenendosi a un buon metro di distanza. Da come
continuava a guardarsi alle spalle, Grady era pronto a voltarsi e scappare e lei
se ne sarebbe stata buona buona finché lui...
Tombola.
Grady si lanciò verso sinistra, ma lei gli fu subito addosso, agguantandolo
per il polso al culmine della sua parabola e lasciando che lo slancio lo
portasse proprio contro la sua stretta. Grady finì a faccia in giù nella neve, col
braccio piegato dietro la schiena, completamente in balia di Xhex, ovvero di
una creatura spietata per natura. Con mossa fulminea, lei gli diede una
coltellata a uno dei tricipiti, lacerando la morbida imbottitura del parka e il
sottile, vulnerabile strato di pelle.
Questo serviva solo a distrarlo, e funzionò. Ululando di dolore, Grady si
coprì la ferita.
Cosa che le diede tutto il tempo di afferrarlo per lo stivale sinistro e
torcergli il piede finché lui non si preoccupò più di quello che aveva al
braccio. Con un urlo Grady, cercò di alleviare la pressione voltandosi, ma
Xhex gli piantò un ginocchio contro le reni bloccandolo mentre gli spezzava
la caviglia, torcendola fino a sentire lo schiocco dell'osso. Poi con un altro
fendente paralizzò anche l'altra metà del suo corpo, recidendogli i tendini
della coscia.
Cosa che interruppe il lamento a metà.
Annientato dal dolore, Grady rimase senza fiato e ammutolì... finché Xhex
cominciò a tirarlo verso la tomba. Lo stronzo, però, si divincolava nello stesso
modo in cui piangeva, era più rumore che altro. Una volta che lo ebbe
trascinato dove voleva, Xhex gli tagliò i tendini dell'altro braccio così da
impedirgli di allontanarle le mani. Poi lo rovesciò sulla schiena per fargli
godere una bella vista del paradiso e gli sollevò il parka.
Cominciò a slacciargli la cintura mostrandogli il coltello.
Gli uomini erano buffi. Per quanto fossero sconvolti, se avvicinavi qualcosa
di lungo, affilato e lucente al loro cervello primario, ecco che davano in
escandescenze.
«No!»
«Oh, sì, invece», fece Xhex avvicinandogli la lama alla faccia. «Altro che.»
Grady lottò strenuamente malgrado le ferite, e lei si fermò per godersi lo
spettacolo.
«Quando me ne andrò sarai morto», disse mentre lui cercava di difendersi,
invano. «Ma prima noi due passeremo qualche altro bel momento insieme.
Non molti, bada bene, devo tornare al lavoro. Per fortuna sono veloce.»
Gli appoggiò l'anfibio sullo sterno per immobilizzarlo, gli sbottonò la patta
e gli tirò giù le mutande sulle cosce. «Quanto ci hai messo a ucciderla, Grady?
Quanto?»
In preda al panico, lui mugolava agitandosi scompostamente, mentre il
sangue macchiava di rosso la neve candida.
«Quanto, figlio di puttana?» Xhex tagliò l'elastico dei boxer Emporio
Armani. «Quanto ha sofferto, Chrissy?»
Un istante dopo, Grady lanciò un urlo così acuto che non sembrava
neanche umano; assomigliava più al grido assordante di una cornacchia.
Xhex si fermò a guardare la statua della donna in tunica che aveva fissato a
lungo durante il servizio funebre per Chrissy. Per un attimo il volto di pietra
parve aver cambiato posizione, la bella femmina non guardava più in alto,
verso Dio, ma dritto verso Xhex.
Ma era impossibile, no?
Ritto dietro il muro dei fratelli, Wrath colse in lontananza il rumore della
porta del ristorante che si apriva e si chiudeva, isolando il sommesso ruotare
dei cardini tra i vari scooby-dooby-doo di sinatra. Ciò che stavano aspettando
- qualunque cosa fosse - si era appena fatto vivo e il corpo, i sensi, il cuore del
re rallentarono come quando, in prossimità di una curva pericolosa, ci si
prepara a superarla pigiando sull'acceleratore.
Mise a fuoco meglio la vista; la stanza rossa, il tavolo bianco e le nuche dei
fratelli divennero leggermente più nitidi quando iAm ricomparve sulla soglia
ad arco.
Con lui c'era un vampiro estremamente elegante.
Okay, quel tizio aveva stampato in fronte glymera. I capelli biondi ondulati
con la riga di lato gli davano un'aria alla Grande Gatsby, il viso era così
perfettamente proporzionato e armonioso da risultare decisamente bello, il
cappotto di lana nero era cucito su misura per il suo fisico snello e in mano
stringeva una sottile ventiquattrore.
Wrath non l'aveva mai visto prima, ma sembrava giovane per la situazione
in cui si era appena ficcato. Molto giovane.
Nient'altro che un agnello sacrificale molto costoso che aveva stile da
vendere.
Rehvenge gli si avvicinò di soppiatto; il symphath stringeva il bastone come
se meditasse di sguainare lo spadino nascosto dentro di esso se mai Gatsby si
fosse azzardato anche solo a fare un respiro più profondo, «Farai meglio a
parlare. Subito.»
Wrath fece un passo avanti aprendosi un varco tra Rhage e Z, i quali non
accolsero con piacere quel cambiamento. Un reciso gesto della mano li
scoraggiò dal tentare di rimettersi davanti a lui.
«Come ti chiami, figliolo?» L'ultima cosa di cui avevano bisogno era un
cadavere, e con Rehv non si poteva mai essere sicuri di niente.
L'agnello-Gatsby si inchinò cupo, poi si raddrizzò. Quando parlò, la sua
voce suonò sorprendentemente profonda e sicura, considerato il numero di
pistole automatiche puntate contro il suo petto. «Sono Saxton, figlio di
Tyhm.»
«Ho già visto il tuo nome. Prepari i rapporti sulle linee di discendenza.»
«Esatto.»
E così il consiglio faceva ricorso alle ultime ruote del carro, neanche al figlio
di uno dei suoi membri.
«Chi ti ha mandato, Saxton?»
«Il luogotenente di un uomo motto.»
Wrath non aveva idea di come la glymera avesse reagito alla morte di
Montrag e non gliene importava niente. Gli importava solo che Ü messaggio
fosse arrivato forte e chiaro a chiunque altro fosse implicato nel complotto.
«Perché non ci dici quello che devi dire?»
Il vampiro posò la valigetta sul tavolo e fece scattare la serratura dorata.
Subito Rehv sguainò lo spadino rosso puntandolo alla gola pallida del
giovane. Impietrito, Saxton si guardò intorno senza muovere la testa.
«Ti consiglio di muoverti lentamente, figliolo», mormorò Wrath. «Questa
stanza è piena di ragazzi dal grilletto facile, e stasera il bersaglio preferito di
tutti sei tu.»
La voce stranamente profonda e sicura parlò in tono misurato. «Ecco perché
gli ho detto che dovevamo farlo.»
«Fare che cosa?» La domanda veniva da Rhage, la solita testa calda...
incurante della spada di Rehv, Hollywood era pronto a balzare addosso a
Gatsby, indipendentemente dal fatto che da quelle pieghe di cuoio saltasse
fuori o meno una qualche arma.
Saxton lanciò un'occhiata a Rhage, poi riportò lo sguardo su Wrath. «Il
giorno dopo l'assassinio premeditato di Montrag...»
«Interessante scelta di parole», disse sarcastico Wrath, chiedendosi quanto
sapesse quel ragazzo.
«Dev'essere stato per forza un assassinio premeditato. Quando ti
ammazzano e basta, di solito non ti cavano gli occhi.»
Rehv sorrise, svelando la coppia di pugnali che aveva in bocca. «Dipende
dall'assassino.»
«Vai avanti», lo incoraggiò Wrath. «E, Rhev, rilassati con quel tuo spadino,
se non ti spiace.»
Il symphath arretrò leggermente, ma non rinfoderò l'arma e Sax- ton lo
guardò, prima di continuare. «La notte in cui Montrag è stato assassinato, il
mio capo ha ricevuto questo.» Saxton aprì la ventiquattrore e tirò fuori una
grossa busta marrone, «Il mittente era Montrag.»
Posò la busta a faccia in giù sul tavolo per mostrare che il sigillo di cera non
era stato rotto, poi fece un passo indietro.
"Wrath guardò la busta. «V, ti spiace pensarci tu?»
avanzò e prese la busta con la mano guantata. Si udì un sommesso rumore
di carta strappata, poi un impercettibile fruscio quando scivolarono fuori dei
fogli.
Silenzio.
rimise dentro i documenti, si infilò la busta nella cintola dei calzoni, contro
le reni, e guardò Gatsby. «Dobbiamo credere che non hai letto il contenuto
della busta?»
«Io non l'ho fatto, e neanche il mio capo. Nessun altro l'ha fatto da quando
la catena di custodia è arrivata a noi due.»
«La catena di custodia? Sei un avvocato, non un semplice assistente?»
«Sto facendo il tirocinio per diventare procuratore legale.»
si sporse in avanti scoprendo le zanne. «Sei sicuro di non aver letto questi
documenti, vero?»
Saxton fissò il fratello come se fosse momentaneamente affascinato dai
tatuaggi sulla sua tempia. Un istante dopo scosse la testa e parlò con quella
sua voce pacata. «Non mi interessa far parte di una lista di persone rinvenute
morte e senza occhi sul tappeto di casa loro. E lo stesso vale per il mio capo.
La busta è stata sigillata da Montrag. Qualunque cosa ci abbia infilato dentro,
non è stata letta da nessuno da quando ci ha fatto gocciolare sopra la
ceralacca bollente.»
«Come fai a sapere che è stato Montrag a preparare la busta?»
«Sulla busta c'è la sua calligrafia. Lo so perché ho visto molti suoi appunti
su svariati documenti. Inoltre ci è stata recapitata dal suo doggen personale, su
richiesta di Montrag.»
Mentre Saxton parlava, Wrath lesse con attenzione le sue emozioni,
inspirando a fondo. Nessuna traccia di inganno. La sua coscienza era pulita.
Il ragazzo era attratto da V ma, a parte ciò, non c'era niente. Neanche paura.
Era guardingo, ma calmo.
«Se stai mentendo», disse piano V, «lo scopriremo e verremo a cercarti.»
«Non avevo dubbi.»
«Senti senti, l'avvocato ha un cervello.» Vishous tomo in fila con gli altri
fratelli, rimettendo il palmo sul calcio della pistola.
Wrath era curioso di scoprire cosa conteneva la busta, ma si; disse che,
qualunque cosa fosse, non era il caso di leggerla in presenza di estranei.
«Allora, Saxton, dove sono il tuo capo e i suoi amici?»
«Nessuno di loro verrà.» Saxton guardò le sedie vuote. «Sono tutti
terrorizzati. Dopo quello che è successo a Montrag si sono! barricati in casa e
intendono starci.»
Bene, pensò Wrath. Con la glymera che faceva mostra del suo talento per la
vigliaccheria, aveva una cosa di meno di cui preoccuparsi.
"
«Grazie di essere venuto, figliolo.»
Saxton interpretò il congedo per quello che era; richiuse la valigetta
inchinandosi di nuovo e si voltò per andare via.
«Figliolo?»
Saxton si fermò, voltandosi completamente. «Mio signore?»
«Hai faticato a convincere il tuo capo, vero?» Un silenzio discreto fu la
risposta. «Allora dai dei buoni consigli e io ti credo... per quel che ne sai, né
tu né il tuo datore di lavoro avete sbirciato nella busta e visto quello che
contiene. Accetta un piccolo consiglio, però, a buon intenditor poche parole.
Io mi sceglierei un altro lavoro, se fossi in te. È prevedibile che, a breve, le
cose si mettano male, e la disperazione tira fuori il peggio anche dalle
persone migliori. Già una volta ti hanno mandato nella tana del lupo e lo
faranno di nuovo.»
Saxton sorrise. «Se mai avrà bisogno di un legale di fiducia me lo faccia
sapere. Dopo tutta la pratica che ho fatto quest'estate su fedecommessi, fondi
fiduciari, proprietà fondiarie e linee di discendenza, mi piacerebbe
diversificare le mie competenze.»
Un altro inchino e il giovane uscì, scortato da iAm, a testa alta e con passo
sicuro.
«Che cosa c'è nella busta, V?» chiese piano Wrath.
«Niente di buono, mio signore. Niente di buono.»
Mentre la vista gli si appannava tornando alla sua normale, sfocata inutilità,
l'ultima cosa che Wrath vide con una certa chiarezza furono gli occhi di
ghiaccio di V puntati su Rehvenge.
Capitolo 49
Mentre l'auto civetta della polizia lasciava il comotero di Pine Grove, Lash
si concentrò completamente sulla presenza del symphath appena
manifestatosi dentro i cancelli.
«Andate via subito», ordinò ai suoi uomini.
Smaterializzandosi, tornò verso la tomba della ragazza morta nell'angolo in
fondo a...
L'urlo che squarciò il silenzio ricordava vagamente gli acuti operistici: un
soprano aveva perso il controllo sulla voce, che adesso volava stridula,
passando dal canto allo strillo. Nel riprendere forma, Lash si rammaricò di
essersi perso per un pelo lo spettacolo... perché di sicuro valeva la pena
vederlo.
Steso sulla schiena con i calzoni calati, Grady sanguinava in vari punti,
specie da un taglio fresco all'esofago. Era vivo come una mosca sul davanzale
di una finestra rovente, braccia e gambe, piegate in modo innaturale, ormai si
muovevano lentamente.
Il suo assassino, accovacciato, si stava raddrizzando: era quella troia lesbica
dello ZeroSum. A differenza della mosca moribonda, ignara di tutto salvo che
della propria dipartita, lei capì subito quando Lash comparve sulla scena. Si
voltò di scatto in posizione di combattimento, il volto concentrato, il coltello
gocciolante saldo nelle sue mani, le cosce pronte a proiettare in avanti il corpo
muscoloso.
Era sexy da morire. Specie quando si accigliò, riconoscendolo.
«Credevo fossi morto», disse. «E credevo fossi un vampiro.»
Lui sorrise. «Sorpresa! Anche tu però ti sei tenuta un segreto, mi pare.»
«No, non mi sei mai piaciuto e non ho cambiato idea.»Lash scosse la testa e,
ostentatamente, fece scorrere lo sguardo sul suo corpo. «Stai benissimo, sai,
tutta vestita di cuoio.» «Tu invece staresti meglio tutto ingessato.»
Lash rise. «Facile sparare una battuta così.»
«Ancora più facile spararti, fai due conti.»
Lash sorrise e, con l'ausilio di qualche vivida immagine, tradusse
l'attrazione che provava per lei in una vistosa erezione, sapendo che Xhex
l'avrebbe percepita: se la figurò in ginocchio davanti a sé, col suo uccello in
bocca, le teneva ferma la testa con le mani mentre pompava avanti e indietro
fino a farla vomitare.
Xhex alzò gli occhi al cielo. «Pornografia da quattro soldi.»
«No. Sesso in prospettiva.»
«Spiacente, ina non mi piacciono i tipi alla Justin Timberlake. O le pornostar
alla Ron Jeremy.»
«Staremo a vedere.» Lash annuì in direzione dell'umano, che adesso si
contorceva di meno, come se al freddo si stesse congelando. «Temo che tu sia
in debito con me.»
«Se è una pugnalata che ti devo, contaci.»
«Quello», e così dicendo Lash indicò Grady, «era mio.»
«Dovresti migliorare i tuoi standard. Quello», gli fece eco Xhex
scimmiottandolo, «è un pezzo di merda.»
«La merda è un ottimo fertilizzante.»
«Allora lascia che ti sparga sotto un roseto, e poi sentiamo cosa mi dici.»
Grady emise un gemito ed entrambi lo guardarono. Il bastardo stava
tirando gli ultimi, la faccia dello stesso colore del terreno ghiacciato sotto la
testa, il sangue che sgorgava dalle ferite sempre più lento.
All'improvviso Lash si accorse di quello che Xhex gli aveva ficcato in bocca
e la guardò. «Cribbio... potrei seriamente perdere la testa per una come te.
Una divoratrice di peccati.»
Xhex fece scorrere la lama sul bordo della lapide e il sangue di Grady si
trasferì dal metallo alla pietra come un marchio di vendetta. «Hai le palle,
lesser, visto quello che gli ho fatto. O non ti interessa conservare i tuoi
gioielli?»
«Io sono diverso.»
«Ce l'hai più piccolo di lui? Cristo, che delusione. Ora, se vuoi scusarmi,
devo andare.» Alzò il coltello e, salutandolo con la mano, sparì.
Lash rimase a fissare l'aria nel punto in cui prima c'era Xhex, finché Grady
gorgogliò debolmente, come lo scarico della vasca da bagno quando ingoia le
ultime gocce d'acqua.
«L'hai vista?» disse Lash rivolto all'idiota. «Che femmina. Ho proprio
intenzione di farmela.»
Grady esalò l'ultimo respiro dal buco che aveva in gola perché non aveva
altra scelta, visto che la bocca era impegnata a farsi un pompino.
Con le mani sui fianchi, Lash rimase a guardare il corpo che si raffreddava
a poco a poco.
Xhex... doveva fare in modo che le loro strade si incrociassero di nuovo.
Sperava anche che informasse la confraternita di averlo visto: un nemico
spiazzato è meglio di uno tranquillo. Sapeva che i fratelli si sarebbero chiesti
come diavolo aveva fatto, l'Omega, a trasformare un vampiro in un lesser, ma
quella era solo una piccola parte della storia.
Il meglio doveva ancora venire.
Allontanandosi senza fretta nella notte gelida, si risistemò il pacco nei
calzoni e decise che doveva farsi una scopata. Era proprio in vena.
Mentre iAm chiudeva a chiave la porta d'ingresso del ristorante, Rehvenge
sguainò la spada rossa e guardò Vishous. Il fratello lo fissava torvo.
«Allora, cosa c'era dentro la busta?» chiese Rehv. «Te.»
«Montrag vuol far credere che sono responsabile del complotto per
eliminare Wrath?» Non che avesse importanza. Facendo ammazzare quel
figlio di puttana, Rehv aveva già dimostrato da che parte stava.
Vishous scosse lentamente la testa, poi lanciò un'occhiata ad iAm quando
questi si affiancò a suo fratello.
«Non ho segreti per loro», disse brusco Rehv.
«Be', allora ecco qua, divoratore di peccati.» V gettò la busta sul tavolo. «A
quanto pare Montrag sapeva cosa sei. Il che, senza dubbio, spiega perché si
era rivolto a te per tentare di uccidere Wrath. Nessuno crederebbe che non sia
stata un'idea tua e tua soltanto, se si venisse a sapere cosa sei veramente.»
Rehv si accigliò e tirò fuori dalla busta quello che sembrava un affidavit su
come era stato ucciso il suo patrigno. Ma che cazzo... Il padre di Montrag era
entrato in casa, dopo l'assassinio, Rehv questo lo sapeva già. Ma poi quel
bastardo aveva convinto Yhell- ren di sua madre non solo a parlare, ma
addirittura a testimoniare. E, alla fine, non si era servito di
quell'informazione.
Rehv tornò con la mente a un paio di giorni prima, all'appuntamento nello
studio di Montrag... e a quando Montrag gli aveva detto di sapere che tipo di
persona era.
Altro che se lo sapeva, e il traffico di droga non c'entrava niente.
Rehv rimise il documento nella busta. Merda, se saltava fuori la verità
addio promessa fatta a sua madre.
«Allora, cosa c'è lì dentro, esattamente?» chiese uno dei fratelli.
Rehv si infilò la busta nella pelliccia. «Un affidavit firmato dal mio patrigno
appena prima di morire in cui rivela che sono un symphath. È un originale, a
giudicare dalla firma fatta col sangue in calce. Ma quanto volete scommettere
che Montrag ne ha fatte altre copie?»
«Magari è un falso», mormorò "Wrath.
Improbabile, pensò Rehv. Troppi dettagli di quanto era accaduto quella
notte erano esatti.
In un lampo tornò al passato, alla notte in cui aveva commesso l'omicidio.
Avevano dovuto portare sua madre alla clinica di Havers perché aveva avuto
uno dei suoi tanti "incidenti". Quando era apparso chiaro che l'avrebbero
trattenuta in osservazione per un giorno interno, Bella era rimasta insieme a
lei e Rehv aveva preso la sua decisione.
Era tornato a casa, aveva radunato i doggen negli alloggi della servitù e
aveva affrontato il dolore collettivo di tutti coloro che servivano la sua
famiglia. Ricordava perfettamente di averli guardati negli occhi uno a uno.
Molti erano arrivati in quella casa al seguito del suo patrigno, ma erano
rimasti per sua madre. E guardavano a lui per fermare quello che si
trascinava ormai da troppo tempo.
Rehv aveva detto a tutti loro di lasciare la villa per un'ora.
Non c'erano state obiezioni e ognuno, uscendo, lo aveva abbracciato forte.
Tutti quanti sapevano quello che meditava di fare, e lo condividevano.
Rehv aveva atteso che anche l'ultimo doggen fosse uscito, poi era andato
nello studio del patrigno e lo aveva trovato chino sulla scrivania a esaminare
certi documenti. Nel suo furore aveva sistemato quel figlio di puttana alla
vecchia maniera, restituendogli colpo su colpo, infliggendogli lo stesso dolore
che lui aveva inflitto a sua madre, prima di spedirlo al creatore.
Quando aveva sentito suonare il campanello della porta d'ingresso, aveva
dato per scontato che fossero i domestici che lo avvertivano, in modo da
poter poi sostenere in maniera credibile di non aver visto l'assassino all'opera.
In un ultimo gesto di spregio, aveva sferrato un pugno alla testa del suo
patrigno, talmente forte da disallineare la spina dorsale di quel bastardo
picchiatore.
Poi, in fretta, aveva scavalcato il corpo, aveva aperto il portone di casa con
la forza del pensiero ed era uscito dalla portafinestra sul retro. Fare in modo
che i doggen "trovassero" il cadavere al loro ritorno era perfetto, perché la loro
sottospecie era docile per natura e non sarebbe mai stata accusata di quell'atto
di violenza. Inoltre, ormai, il suo lato symphath si era scatenato e lui aveva
bisogno di riacquistare il controllo su se stesso.
Il che, a quei tempi, non contemplava la dopamina. Rehv aveva dovuto
ricorrere al dolore per domare il divoratore di peccati che era in lui.
L'ordine sembrava ristabilito... finché alla clinica non aveva appreso che il
padre di Montrag aveva trovato il cadavere. Alla fine, comunque, non era
successo niente. Stando a quello che aveva dichiarato all'epoca, Rehm era
entrato in casa, si era trovato davanti la scena del delitto e aveva chiamato
Havers. Quando il medico era arrivato, i domestici erano già rientrati e per
giustificare la loro assenza avevano detto che, essendo il solstizio d'estate,
erano fuori per i preparativi delle cerimonie che avrebbero avuto luogo
quella settimana.
Il padre di Montrag se l'era giocata bene, e così anche il figlio. Ogni
turbamento emotivo che Rehv aveva potuto notare in quei due, sia allora sia
durante l'incontro di pochi giorni prima, era ragionevolmente attribuibile alla
morte del suo patrigno e al progettato regicidio.
Dio, adesso era chiarissimo cosa aveva in mente Montrag quando aveva
chiesto a Rehv di organizzare l'uccisione di Wrath. Dopo il fattaccio era
pronto a tirare fuori l'affidavit che denunciava Rehv sia come assassino che
come symphatb; in questo modo, quando Rehv fosse stato deportato, lui
stesso avrebbe assunto il controllo non solo del consiglio, ma dell'intera
razza.
Geniale.
Peccato che non fosse andata secondo i suoi piani. Veniva da piangere, eh?
«Sì, ci sono sicuramente degli altri affidavit», mormorò Rehv. «Nessuno
spedirebbe mai l'unica copia in suo possesso.»
«Forse è il caso di fare una visitina a quella casa», disse Wrath. «Se gli eredi
e gli aventi causa di Montrag mettono le mani su un documento del genere,
tutti quanti avremo dei problemi, non so se mi spiego»
«Montrag è morto senza discendenza; però sì, da qualche parte dev'esserci
qualche suo consanguineo. E io farò in modo che non scopra questo
documento», disse Rehv.
Mai e poi mai avrebbe infranto il giuramento fatto a sua madre.
Cascasse il mondo.
Capitolo 50
Facendo la spesa al supermercato Hannaford aperto venti- quattr'ore su
ventiquattro dove andava sempre, Ehlena avrebbe dovuto essere più su di
morale. Le cose non potevano andare meglio di così con Rehv. Prima di
andare alla riunione si era fatto una doccia veloce e le aveva permesso di
scegliergli i vestiti da mettere e, addirittura, di annodargli la cravatta. Poi
l'aveva stretta tra le braccia ed erano rimasti a lungo così, cuore a cuore.
Alla fine Ehlena lo aveva accompagnato fuori e aveva aspettato con lui
l'ascensore, il cui arrivo era stato annunciato da uno scampanellio e dal
fruscio delle porte che si aprivano; Rehv le aveva tenute aperte per baciarla
una, due volte. E poi anche una terza volta. Infine aveva fatto un passo
indietro e, con le porte che si chiudevano, aveva alzato il cellulare,
indicandolo e poi indicando lei.
Sapere che le avrebbe telefonato aveva reso molto più facile la separazione.
E le piaceva l'idea che il completo nero, la camicia immacolata e la cravatta
rosso sangue che Rehv aveva indosso fossero quelli che aveva scelto per lui.
Perciò sì, avrebbe dovuto essere più felice.Specialmente perché la sua
stretta finanziaria si era leggermente allentata grazie al prestito emesso dalla
First Rehvenge Bank & Trust Company.
Invece era nervosa da morire.
Si fermò nella corsia dei succhi di frutta, davanti alle file ordinate della
marca Ocean Spray - succhi al mirtillo in tutte le combinazioni possibili e
immaginabili - e si guardò alle spalle. Altri succhi di frutta sulla sinistra e,
sulla destra, file e file di barrette ai cereali e biscotti. Più in là c'erano le casse,
quasi tutte chiuse, e ancora più in là le vetrine oscurate del supermercato.
Qualcuno la stava seguendo.
Sin da quando era rientrata nell'attico di Rehv per rivestirsi e si era
smaterializzata dal terrazzo, dopo aver chiuso a chiave.
Mise nel carrello quattro bottiglie di CranRas, poi puntò verso la corsia dei
cereali e quella con la carta igienica e gli asciugamani di carta. Nel reparto
gastronomia prese un pollo arrosto che più che cotto sembrava imbalsamato,
ma a quel punto aveva solo bisogno di proteine che le risparmiassero la fatica
di mettersi ai fornelli. Poi scelse delle bistecche per suo padre. Latte. Burro.
Uova.
L'unico svantaggio di fare la spesa dopo mezzanotte era che tutte le casse
salvatempo, in cui ci si poteva arrangiare da soli, erano chiuse, quindi le toccò
aspettare dietro un tizio col carrello pieno di piatti pronti surgelati HungryMan. Mentre la cassiera passava allo scanner gli hamburger, Ehlena guardò
fuori dalla vetrata anteriore chiedendosi se per caso stava impazzendo.
«Sa come si cucinano questi?» le chiese il tizio alzando una delle confezioni
sottili.
Evidentemente aveva equivocato lo sguardo fisso di Ehlena pensando che
c'entrasse con lui, e cercava qualcuno che gli scaldasse la carne, in senso
letterale: l'umano la scrutava con occhi lascivi e l'unica cosa a cui lei riuscì a
pensare fu quello che Rehvenge gli avrebbe fatto.
Il che la fece sorridere. «Legga le istruzioni sulla scatola.»
«Potrebbe leggermele lei.»
Ehlena mantenne un tono piatto e annoiato. «Spiacente, ma non credo che il
mio fidanzato gradirebbe.»
L'umano si strinse nelle spalle un tantino abbattuto, e allungò il surgelato
alla ragazza che stava dietro il registratore di cassa.
Dieci minuti dopo Ehlena, spingendo il carrello fuori dalle porte
automatiche, venne accolta da un freddo cane che la spinse a stringersi nel
parka. Per fortuna il taxi che aveva preso fino al supermercato era ancora lì, e
lei ne fu sollevata.
«Le serve aiuto?» chiese il taxista abbassando il finestrino.
«No, grazie.» Ehlena si guardò intorno mentre sistemava i sacchetti di
plastica sul sedile di dietro, chiedendosi cosa avrebbe fatto il taxista se un
lesser fosse balzato fuori da dietro un camion accanendosi contro di loro.
Si sedette accanto alla spesa e, quando il taxista partì, perlustrò con lo
sguardo l'esterno del supermercato e la mezza dozzina di auto parcheggiate il
più vicino possibile all'entrata. Mr Hungry-Man si stava allontanando
rumorosamente sul suo furgone, la lucina interna gli illuminava la faccia
mentre si accendeva una sigaretta.
Niente. Nessuno.
Mettendosi comoda, Ehlena decise che era fuori di testa. Nessuno la stava
spiando. Nessuno le stava dando la caccia...
Sopraffatta da una paura improvvisa, si portò la mano alla gola. Oh, Dio...
forse aveva la stessa malattia di suo padre? Forse quell'attacco di paranoia era
il primo di una lunga serie? Forse...
«Tutto bene, lì dietro?» chiese il taxista guardandola nello specchietto
retrovisore. «Sta tremando o cosa?»
«È il freddo.»
«Adesso le accendo il riscaldamento.»
Investita in pieno viso da una folata d'aria calda, Ehlena guardò fuori dal
lunotto posteriore. Nessuna macchina in vista. E i ¡esser non potevano
smaterializzarsi, perciò... era schizofrenica?
Cristo, quasi quasi preferiva essere seguita da un non morto.
Fece fermare il taxista il più vicino possibile al retro di casa sua e aggiunse
alla mancia un piccolo extra per essere stato così gentile.
«Aspetto qui finché non la vedo entrare», disse lui.
«Grazie.» E diceva sul serio, cribbio.
Con due sacchetti di plastica per mano si avviò in fretta alla porta, ma poi
dovette posare il carico perché come una scema non aveva tirato fuori le
chiavi, presa com'era dalle sue fissazioni paranoiche. Aveva appena infilato la
mano nella borsetta per il solito numero del "rovista e impreca", quando il
taxi ripartì.
Ehlena alzò gli occhi giusto in tempo per vedere le luci posteriori che
svoltavano l'angolo. Ma che cav...
«Salve.»
Ehlena rimase impietrita. La presenza era proprio dietro di lei. E lei sapeva
perfettamente chi era.
Quando si voltò vide una femmina alta coi capelli neri, un lungo vestito
ricco di panneggi e due occhi splendenti. Eh, sì... quella era la dolce...
«... metà di Rehvenge», terminò la femmina. «Sono la sua dolce metà, sì. E
mi spiace che il suo taxista sia dovuto ripartire così in fretta.»
Istintivamente Ehlena coprì i propri pensieri con l'immagine di un
espositore che aveva visto al supermercato Hannaford: una pila alta un metro
e mezzo e larga un metro di Pringles nei loro tubi rossi.
La femmina si accigliò, sconcertata da quanto aveva trovato nella corteccia
cerebrale che stava cercando di violare, ma poi sorrise. «Non abbia paura,
non le farò niente. Pensavo solo di raccontarle qualcosina del tipo che si è
scopata giù nel suo attico.»
No, pensare agli snack non bastava, altro che storie. Per mantenere la
calma, Ehlena aveva bisogno di tutta la sua esperienza professionale. Il caso
era assimilabile a un incidente grave: si trovava davanti una barella con sopra
un vampiro tutto insanguinato e doveva mettere da parte ogni paura ed
emozione per gestire la situazione al meglio.
«Ha sentito cosa ho detto?» chiese la femmina con voce strascicata; parlava
in un modo che Ehlena non aveva mai sentito, allungando le "s" fino a
trasformarle in sibili. «Vi ho guardato dalle vetrate, fino al momento in cui lui
si è sfilato di scatto. Vuole sapere perché l'ha fatto?»
Ehlena tenne la bocca chiusa e cominciò a pensare a come arrivare allo
spray al pepe che teneva in borsetta. Per qualche motivo, però, era convinta
che non sarebbe servito a niente...
Cristo santo, ma erano... scorpioni vivi quelli appesi ai lobi delle sue
orecchie?
«Lui non è come lei.» La femmina sorrise con malvagia soddisfazione. «E
non solo perché è un grosso trafficante di droga. Non è neanche un vampiro.»
Quando Ehlena aggrottò la fronte, la femmina rise. «Non lo sapeva?»
Evidentemente le Pringles e la sua esperienza professionale avevano i loro
limiti. «Non le credo.»
«Lo ZeroSum. In centro. Lui è il proprietario. Lo conosce? Non credo, non
mi sembra tipo da frequentare certi club... che poi, senza dubbio, è il motivo
per cui gli piace scoparsi una come lei. Lasci che le dica cosa vende. Umane.
Droghe di tutti i tipi. E sa perché? Perché lui è come me, non come lei.» La
femmina si protese verso di lei, e i suoi occhi scintillarono. «E sa cosa sono,
io?»
Una lurida troia, pensò Ehlena.
«Sono una symphath, ragazzina. Ecco cosa siamo, io e lui. E lui è mio.»
Ehlena cominciò a chiedersi se sarebbe morta quella notte, lì, sulla veranda
posteriore di casa sua, con quattro sacchetti della spesa ai suoi piedi. Non
perché quella bugiarda fosse davvero una symphath, ma perché chiunque
abbastanza folle da suggerire una cosa simile era capacissimo di uccidere.
La femmina continuò, con voce stridula. «Vuole conoscerlo per davvero?
Vada a trovarlo in quel club. Si faccia dire la verità e si renda conto di quello
che ha accolto dentro al suo corpo, piccolina. E si ricordi una cosa: lui è mio,
sessualmente, emotivamente eccetera, è tutto mio.»
Un dito a tre nocche sfiorò la guancia di Ehlena, poi, di punto in bianco, la
femmina sparì.
Ehlena tremava talmente tanto che per un attimo si trasformò in un blocco
di pietra, i muscoli, scossi fin nel profondo, le impedivano di muoversi. Fu il
freddo a salvarla. Una folata gelida spazzò il marciapiede spingendola in
avanti e, prima di inciampare nella spesa, lei si riscosse.
La chiave di casa, quando finalmente la trovò, fece lo stesso scherzetto di
quella con cui aveva tentato di avviare l'ambulanza. Scivolava... scivolava,.,
scivolava...
Finalmente.
Aprì la porta e quasi gettò dentro i sacchetti prima di barricarsi in casa
sbattendo la porta e sbarrandola con tutto quello che poteva, compresi i
chiavistelli e la catenella di sicurezza.
Con le ginocchia che tremavano andò a sedersi al tavolo della cucina.
Quando suo padre chiese gridando cosa fosse tutto quel chiasso, rispose che
era il vento, sperando che non salisse di sopra a vedere come stava.
Nel silenzio che seguì non avvertì alcuna presenza fuori di casa, ma il
pensiero che una così sapesse di lei e di Rehv, e sapesse dove abitava... Oh,
Dio, quella pazza era rimasta a guardarli.
Balzò in piedi e andò ad aprire il rubinetto del lavandino per coprire il
rumore, nel caso le fosse venuto da vomitare. Nella speranza di placare lo
stomaco, giunse le mani e bevve qualche sorsata d'acqua fresca prima di
sciacquarsi la faccia.
Questo la aiutò a schiarirsi un po' le idee.
Le affermazioni di quella femmina erano assurde, fuori dalla realtà... a
giudicare dalla strana luce nei suoi occhi doveva avere un'ossessione e agiva
per interesse personale.
Rehv non era nessuna di quelle cose. Trafficante di droga. Symphath.
Pappone. Ma andiamo.
Mica si può prendere sul serio una ex fidanzata dedita allo stalking,
neanche quando ti dice il colore preferito del suo ex. Specie dato che Rehv
aveva tenuto a precisare che loro due non stavano insieme, e aveva chiarito
sin dall'inizio che quella tizia portava solo guai. Non c'era da sorprendersi
che non avesse voluto scendere in particolari. Nessuno vorrebbe mai
ammettere con una persona con cui c'è del tenero di avere nel proprio passato
una specie di psicotica pronta a bollire in pentola adorabili coniglietti pur di
non farsi mollare, tipo quella pazza di Attrazione fatale.
E così adesso cosa poteva fare? Be', ovvio. Doveva dirlo a Rehv. Non in modo
esagitato e melodrammatico, ma più tipo, Ecco cosa è successo, devi renderti conto
che questa persona è gravemente disturbata.
Il piano le parve accettabile.
Finché non provò a tirare fuori il cellulare dalla borsa e si accorse che stava
ancora tremando. La sua reazione mentale poteva essere logica, la sua
razionalizzazione impeccabile, ma l'adrenalina continuava a scorrere a fiumi
nelle sue vene, indifferente a tutto il buon senso che lei cercava di inculcarsi
con tante belle parole.
Cos'è che stava facendo? Ah.,, giusto. Rehvenge. Doveva chiamare
Rehvenge.
Digitando il suo numero cominciò a rilassarsi leggermente. Insieme
avrebbero risolto le cose.
Rimase un attimo spiazzata quando sentì la segreteria telefonica, ma poi
ricordò che Rehvenge doveva andare a quella riunione. Stava per riattaccare,
ma non era tipo da menare il can per l'aria e non c'era motivo di aspettare.
«Ehi, Rehv, ho appena ricevuto una visita da quella... femmina. Ha detto un
mucchio di assurdità su di te. E solo che... be', ho pensato fosse meglio
dirtelo. A essere sincera, quella fa proprio paura. Ad ogni modo, non è che
puoi chiamarmi, così ne parliamo? Ci terrei molto. Ciao.»
Riattaccò e rimase a fissare il telefono, pregando che Rehv la richiamasse
alla svelta.
Wrath aveva fatto una promessa a Beth e la mantenne. Anche se la cosa lo
faceva stare male.
Quando coi fratelli finalmente lasciò Sal's, andò dritto a casa insieme al suo
esercito di guardie del corpo. Era nervoso, smanioso di menare le mani,
carico e incazzato, ma aveva promesso alla sua shellan che, dopo quel piccolo
episodio di cecità, non sarebbe uscito a combattere, e non lo fece.
La fiducia è una cosa che si costruisce poco a poco e, considerata la
voragine che aveva scavato nelle fondamenta del suo rapporto con Beth,
avrebbe dovuto faticare parecchio per risalire al livello del suolo.
E poi, se non poteva combattere, c'era un'altra cosa che poteva fare per
sfogarsi.
Appena i fratelli entrarono nell'atrio con un gran frastuono di stivali, Beth si
precipitò fuori dalla sala del biliardo come se non avesse aspettato altro. Con
un balzo si gettò tra le braccia di Wrath, e fu molto piacevole.
Dopo un abbraccio veloce, si scostò leggermente e lo scrutò da capo a piedi.
«Stai bene? Cosa è successo? Chi è venuto? Come...»
I fratelli cominciarono a parlare tutti insieme, ma non della riunione saltata.
Parlavano delle zone in cui andare a caccia nelle tre ore rimaste prima
dell'alba.
«Andiamo nello studio», disse Wrath sovrastando tutto quel baccano. «Non
riesco a sentire neanche i miei pensieri.»
Salendo le scale con Beth gridò, «Grazie per avermi protetto ancora una
volta.»
I fratelli si interruppero e si voltarono a guardarlo. Dopo un istante di
silenzio, formarono un semicerchio ai piedi dello scalone e ognuno strinse a
pugno la mano con cui usava impugnare le armi. Poi, con un sonoro grido di
guerra, si piegarono sul ginocchio destro battendo con forza le nocche sul
pavimento a mosaico. Il rumore, a metà tra un tuono, un rullo di tamburi e
l'esplosione di una bomba, riecheggiò in ogni angolo della casa, riempiendo
tutte le stanze.
Wrath rimase a fissare i suoi fratelli, le teste chine, le robuste schiene curve,
le poderose braccia piantate a terra. Ciascuno di loro era andato a quella
riunione pronto a beccarsi una pallottola per lui, e sarebbe sempre stato così.
Dietro la figura emaciata di Tohr, Lassiter, l'angelo caduto, se ne stava
fermo a schiena dritta, ma non intendeva minimamente fare dello spirito su
quella riaffermazione di fedeltà. Al contrario, aveva ricominciato a fissare
quel maledetto soffitto. Wrath alzò gli occhi sul dipinto dei guerrieri stagliati
contro il cielo azzurro, ma non riuscì a distinguere granché delle figure che
gli avevano descritto.
Riscuotendosi, disse nell'Antico Idioma, «Nessun re potrebbe desiderare alleati
più forti, amici più grandi o guerrieri più valorosi di quelli che vedo raccolti qui,
davanti a me, fratelli miei, sangue del mio sangue.»
I guerrieri si raddrizzarono con un rombo fragoroso e Wrath li salutò uno a
uno con un cenno del capo. Non riuscì ad aggiungere altro a causa di un
improvviso nodo in gola, ma loro parevano soddisfatti. Lo fissavano con
rispetto, gratitudine e determinazione, e lui accettò quegli enormi doni con
solenne riconoscenza e fermezza. Quello era l'antico patto tra il re e i suoi
sudditi; l'impegno, da entrambe le parti, era preso col cuore e realizzato
grazie a una mente acuta e un fisico robusto.
«Dio, quanto vi voglio bene, ragazzi», esclamò Beth.
Dopo un fragoroso coro di risate, Hollywood disse, «Vuoi che conficchiamo
di nuovo i pugnali nel pavimento in tuo onore? I pugni sono per i re, ma alla
regina toccano i pugnali.»
«Non vorrei che scheggiaste questo magnifico pavimento. Grazie lo stesso.»
«Dì una sola parola e non ne resterà che polvere.»
Beth rise. «Calma, calma, così mi fate commuovere.»
I Fratelli le si avvicinarono per baciare il Rubino Saturnino che portava al
dito e la regina contraccambiò quell'omaggio accarezzando delicatamente i
capelli di ognuno. Lo fece con tutti tranne che con Zsadist, a cui rivolse un
tenero sorriso.
«Scusateci, ragazzi», disse Wrath. «Adesso ci serve un po' di intimità, non
so se mi spiego.»
La battuta suscitò un fremito di approvazione maschile, che Beth accolse
con grande aplomb... e con un certo rossore.
Wrath salì le scale insieme alla sua shellan con la sensazione che le cose
stessero tornando alla normalità. Sì, okay, c'erano trameomicide, drammi
politici e lesser ovunque, ma quella era ordinaria amministrazione. E al
momento godeva dell'appoggio incondizionato dei suoi fratelli, aveva la sua
adorata compagna sottobraccio e, per quanto era in suo potere, i doggen e tutti
coloro a cui teneva di più erano al sicuro.
Beth gli poggiò la testa sul petto e la mano sulla vita. «Sono proprio
contenta che stiate tutti bene.»
«Buffo, stavo pensando la stessa cosa.»
Wrath la fece accomodare nello studio e chiuse le porte, il calore del fuoco
nel camino era benefico e invitante. Beth avanzò verso la scrivania
disseminata di carte e lui seguì coti gli occhi il movimento dei suoi fianchi.
Con uno scatto del polso chiuse a chiave la porta.
Mentre le si avvicinava, Beth cercò di mettere ordine nei documenti.
«Allora, cosa è sue...»
Wrath premette l'inguine contro il suo fondoschiena sussurrando, «Ho
bisogno di stare dentro di te.»
Beth abbandonò la testa all'indietro, sulla sua spalla, ansimando. «Oh, Dio...
sì...»
Con un gemito lui fece scivolare una mano sul seno della sua shellan,
lasciandola senza fiato, poi strusciò l'uccello contro di lei. «Non voglio
perdere tempo in preliminari.»
«Neanch'io.»
«Sdraiati sulla scrivania.»
Guardarla inarcare la schiena gli strappò quasi un'imprecazione, quando
poi lei allargò le gambe gli sfuggì un caaaaazzo.
Tanto per restare in tema.
Wrath spense la lampada sulla scrivania in modo da lasciare solo la
danzante luce dórata del focolare a illuminarli, e con gesti bruschi fece
scorrere le mani sui suoi fianchi, pregustando ciò che stava per accadere.
Sistemato dietro di lei, fece scorrere le zanne giù per la sua spina dorsale
spingendola a spostare il peso su una gamba sola, così da poterle levare la
scarpa col tacco a spillo e sfilare i pantaloni. Era troppo impaziente per farlo
anche dall'altra parte, specie quando guardò in su e vide gli slip neri
deliziosamente sobri.
Okay. Cambiamento di programma.
La penetrazione doveva aspettare.
Almeno quella tradizionale.
Si liberò delle armi con cautela e rapidità, assicurandosi che le pistole
avessero la sicura e i pugnali fossero ben chiusi nel fodero. Se la porta non
fosse stata chiusa a chiave le avrebbe messe nell'armadietto a combinazione,
anche se era eccitatissimo. Con Nalla in giro per casa, nessuno voleva correre
il rischio che la piccola di Z e Bella potesse prendere in mano un'arma
qualsiasi. Mai.
Una volta disarmato si tolse gli occhiali e li buttò sulla scrivania, poi da
dietro fece scorrere le mani sulle cosce vellutate della sua compagna, gliele
spalancò e, inarcandosi verso l'alto, si infilò in mezzo alle gambe, alzando la
bocca verso il cotone che copriva il nido in cui molto presto sarebbe
affondato.
Con la bocca premuta contro di lei, sentì il suo fuoco attraverso il tessuto; il
suo odore lo faceva impazzire; nei calzoni di pelle l'uccello tirava a tal punto
che ebbe il dubbio di essere appena venuto. Sfregare il naso e poi leccarla
attraverso le mutandine non gli bastava... quindi prese il cotone tra i denti e
lo sfregò contro la vulva, ben sapendo di massaggiare con la cucitura laterale
il punto esatto in cui moriva dalla voglia di succhiarla.
Si udì un rumore quando Beth riposizionò i palmi sulla scrivania e un
fruscio quando le carte volarono sul pavimento.
«Wrath...»
«Cosa», mormorò lui contro il suo sesso, lavorandosela con il naso. «Non ti
piace?»
«Sta' zitto e non fermarti...»
La lingua di lui si insinuò sotto le mutandine, facendola ammutolire di
colpo... e costringendolo a rallentare. Beth era così liscia, bagnata, morbida e
vogliosa che Wrath si trattenne a stento dal rovesciarla sul tappeto per poi
pompare come un forsennato dentro di lei.
Ma così si sarebbero persi il divertimento dell'attesa.
Spostando il cotone di lato con la mano, baciò la sua carne rosea, poi si
spinse oltre. Lei era più che pronta, lo capì dal nettare che sorbì mentre la
leccava adagio.
Ma ancora non bastava, e tenere sposate le mutandine lo distraeva.
Con la zanna le lacerò al centro, lasciando le due metà a penzolare dai
fianchi, poi con le mani l'afferrò per il sedere e strinse forte, smettendola di
perdere tempo e dandosi da fare sul serio per farla impazzire. Sapeva
perfettamente cosa le piaceva di più: lasciarsi succhiare, leccare e penetrare
con la lingua.
Chiuse gli occhi e assaporò tutto quanto, l'odore, il sapore e la sensazione
della sua pelle fremente contro di sé mentre raggiungeva il culmine del
piacere. Dietro la patta dei calzoni l'uccello reclamava a gran voce un po' di
attenzione, la frizione dei bottoni non era neanche lontanamente sufficiente a
soddisfare la sua smania, ma tanto peggio per lui. Per un po' doveva darsi
una calmata perché quello che stava facendo era troppo bello per
interromperlo così presto.
Quando a Beth cedettero le ginocchia, la fece sdraiare sul pavimento
sollevandole una gamba, senza perdere il ritmo mentre le alzava la felpa fino
al collo infilandole la mano sotto al reggiseno.
Lei venne di nuovo, tenendosi a una gamba della scrivania e puntando il
piede libero sul tappeto. Le manovre di Wrath spinsero entrambi sempre più
in là, sotto la postazione da cui lui adempiva ai suoi doveri regali, finché fu
costretto ad appiattirsi per far passare le spalle.
Alla fine Beth uscì con la testa dall'altra parte e si aggrappò alla fragile
seggiolina in cui Wrath era solito sedersi, trascinandola via con sé.
Mentre Beth gridava un'altra volta il suo nome, Wrath strisciò sopra di lei
scoccando un'occhiataccia a quella stupida poltroncina da casa di bambola.
«Mi serve qualcosa di più solido su cui sedermi.»
Fu l'ultima cosa coerente che disse. Trovò l'ingresso nel corpo di lei con una
facilità che la diceva lunga su tutta la pratica che avevano accumulato nel
tempo e... Oh, sì, era sempre bello come la prima volta. Stringendola tra le
braccia la cavalcò con furore e lei fu pronta ad assecondarlo quando la
tempesta scatenatasi nel suo corpo si addensò nei testicoli fino a farli dolere.
Insieme, lui e la sua shellan si muovevano all'unisono, dando e ricevendo,
sempre più veloci, finché lui venne e non si fermò, venne di nuovo e
continuò, finché sentì qualcosa sulla faccia.
In balia della sua natura animale, Wrath ringhiò, cercando di allontanarla
con le zanne.
Erano le tende.
A furia di pompare era uscito da sotto la scrivania scivolando oltre la sedia,
fino al muro.
Beth scoppiò a ridere e lo stesso fece anche lui, poi si abbracciarono.
Rotolando su un fianco, Wrath la tenne stretta al petto e le abbassò il
dolcevita e la felpa per non farle prendere freddo.
«Allora, cos'è successo alla riunione?» chiese a un certo punto lei.
«Non si è presentato nessuno del consiglio.» Wrath esitò, incerto se dirle di
Rehv.
«Neanche Rehv?»
«Lui c'era, ma gli altri non sono venuti. Evidentemente il consiglio ha paura
di me, il che non è un male.» All'improvviso le prese le mani. «Ascolta, ehm,
Beth...»
«Sì?» dalla sua voce trapelava la tensione.
«La sincerità innanzi tutto, giusto?»
«Giusto.»
«Qualcosa è successo, in effetti. Riguarda Rehvenge... la sua vita... ma non
mi sembra giusto scendere nei dettagli perché sono affari suoi. Non miei.»
Beth tirò un sospiro. «Se non riguarda te o la confraternita...»
«Ci riguarda solo nel senso che ci mette in una posizione difficile.» E anche
Beth sarebbe venuta a trovarsi in difficoltà, se l'avesse messa a parte del
segreto di Rehv. Proteggere l'identità di un symphath era solo una metà del
problema, in realtà. L'ultima volta che Wrath aveva sondato il terreno con
Bella, aveva verificato che lei era all'oscuro della vera natura di suo fratello.
Perciò Beth avrebbe dovuto mantenere il segreto anche con la sua amica.
La sua shellan si accigliò. «Se chiedessi in che senso, di preciso, costituisce
un problema per voi ragazzi, avrei il diritto di saperlo, giusto?»
Wrath annuì e attese.
Beth gli passò la mano sulla guancia. «E tu me lo diresti, vero?»
«Sì.» Non gli garbava l'idea, ma l'avrebbe fatto. Senza esitare.
«Okay... non te lo chiederò», disse Beth sollevandosi leggermente per
baciarlo. «E sono contenta che tu mi abbia dato la possibilità di scegliere.»
«Vedi, sono addomesticabile.» Le prese il viso tra le mani e premette la
bocca contro la sua un paio di volte, sentendo il sorriso che le illuminava le
labbra.
«Cosa ne dici di mangiare qualcosa?» suggerì Beth.
«Oh, quanto ti amo.»
«Ci penso io.»
«Sarà meglio che ti pulisca, prima.» Wrath si levò la camicia nera e con cura
gliela passò sulle cosce, fino all'inguine.
«Questo non è pulire, è molto di più», disse lei con voce sensuale, sentendo
che le sfregava la mano tra le cosce.
Wrath fece per montarla di nuovo. «Avresti il coraggio di biasimarmi?
Mmm...»
Beth lo trattenne con una risata. «Cibo. Poi ancora sesso.»
Lui le mordicchiò la bocca, pensando che mangiare era una cosa
decisamente sopravvalutata. Quando però sentì protestare il pancino di Beth,
si preoccupò subito di nutrirla, l'istinto di proteggerla e provvedere a suoi
bisogni prevalse su quello sessuale.
Posando il grosso palmo sul ventre piatto di lei disse, «Vado a prendert...»
«No, voglio servirti io», protestò Beth, accarezzandogli di nuovo il viso. «Tu
resta qui. Faccio in un attimo.»
Beth si alzò in piedi e lui rotolò sulla schiena, infilandosi nei calzoni
l'uccello spremuto come un limone, ma tutt'altro che moscio.
Beth si chinò a raccogliere i jeans, regalandogli una vista mozzafiato e
spingendolo a chiedersi se ce l'avrebbe fatta ad aspettare altri cinque minuti
prima di possederla di nuovo.
«Sai di cosa avrei voglia?» mormorò lei infilandosi i calzoni.
«Di fare ancora un po' della buona vecchia samba orizzontale col tuo
hellren, anche se ci hai appena fatto l'amore?»
Dio, quanto gli piaceva farla ridere.
«Be', sì», fece lei, «ma parlando di cibo... avrei voglia di un bello stufato
fatto in casa.»
«È già pronto?» Ti prego, fa' che sia...
«È avanzata un po' di carne di manzo da... Ma che faccia fai!»
«Preferirei che stessi un po' meno in cucina e un po' più sul mio...» Okay,
meglio non terminare la frase.
Beth però capì al volo cosa intendeva. «Hmm, mi sbrigo al volo.»
«Se mantieni la promessa, leelan, ti offro un dessert da far girare la testa.»
Beth attraversò la stanza sculettando ostentatamente, in un balletto erotico
che lo lasciò mugolante di desiderio; sulla soglia si fermò un attimo per
voltarsi a guardarlo, illuminata dalla luce del corridoio.
E, chi l'avrebbe mai detto, la vista annebbiata di Wrath gli fece il più bel
regalo d'addio: nella penombra vide i lunghi capelli scuri di Beth sciolti sulle
spalle, il suo volto arrossato e il corpo alto e snello con tutte le sue curve.
«Come sei bella», mormorò.
Beth gli sorrise radiosa, l'odore della sua gioia e della sua felicità si
intensificò finché Wrath sentì solo la fragranza di rose notturne, che era
unicamente sua.
Portandosi la punta delle dita alla bocca che lui aveva divorato, Beth gli
mandò un bacio tenerissimo. «Torno subito.»
«Ti aspetto.» Altro che aspettare, era così arrapato che non vedeva l'ora di
lanciarsi in un altro round sotto la scrivania.
Dopo che Beth fu uscita, Wrath rimase sdraiato qualche altro istante; grazie
al suo udito acutissimo la sentì scendere lo scalone. Poi si tirò su da terra,
rimise a posto quella stupida poltroncina e si sedette dietro la scrivania.
Allungò la mano verso gli occhiali avvolgenti per risparmiare ai suoi occhi il
fioco chiarore del focolare e abbandonò la testa all'indietro...
Qualcuno bussò alla porta, facendogli pulsare le tempie per la frustrazione.
Cribbio, non poteva concedersi neanche due secondi di pace... dall'aroma di
tabacco turco capì chi era.
«Entra, V.»
Quando il fratello entrò, il profumo di tabacco si mescolò al sottile fumo di
legna che permeava la stanza.
«Abbiamo un problema», esordì Vishous.
Wrath chiuse gli occhi massaggiandosi la radice del naso; sperava con tutto
il cuore che il mal di testa non gli facesse compagnia per tutta la notte,
scambiando il suo cervello per un albergo, «Sentiamo.»
«Qualcuno ci ha mandato una e-mail su Rehvenge. Ci dà ventiquattr'ore di
tempo per consegnarlo alla colonia dei symphath, altrimenti farà saltare la sua
copertura svelando la sua vera identità alla glymera e precisando che tu e tutti
quanti noi sapevamo la verità e non abbiamo fatto niente.»
Wrath aprì gli occhi di scatto. «Ma che cazzo....?»
«Sto già cercando di identificare l'indirizzo e-mail. Scorrazzando un po' per
la rete dovrei riuscire ad accedere all'account e scoprire di chi si tratta.»
«Merda... meno male che nessun altro aveva letto quel documento,..» Wrath
deglutì sonoramente, la pressione alla testa gli dava la nausea. «Ascolta,
contatta Rehv e informalo della e-mail. Senti cosa dice. La glymera si è
sparpagliata per il Paese e ha paura, ma se viene a conoscenza di quella roba
non avremo altra scelta, saremo costretti a prendere provvedimenti...
altrimenti potrebbero scoppiarci tra le mani i disordini non solo
dell'aristocrazia, ma anche dei civili.»
«Ricevuto. Ti faccio sapere.»
«Sbrigati.»
«Ehi, ma tu stai bene?»
«Sì. Vai a chiamare Rehv. Maledizione.»
La porta si chiuse di nuovo e Wrath si lasciò sfuggire un gemito. La calda
luce del camino peggiorava il dolore lancinante die tempie, ma non gli
andava di spegnere il fuoco: voleva evitare il buio totale, soprattutto dopo la
sorpresina di quel pomeriggio, quando sui suoi occhi era scesa per sempre la
notte.
Abbassò le palpebre cercando di estraniarsi dal dolore. Un po' di riposo.
Ecco cosa gli serviva.
Solo un po' di riposo.
Capitolo 51
Di ritorno allo ZeroSum, Xhex andò alla porta posteriore del settore VIP e
tenne le mani in tasca. Essendo per metà vampira non lasciava impronte
digitali, ma le mani insanguinate sono mani insanguinate.
E aveva tracce di Grady anche sui pantaloni.
Ecco perché, anche in tempi moderni, il club aveva una caldaia vecchio stile
nel seminterrato.
Senza farsi vedere da nessuno si infilò nell'ufficio di Rehv, puntando dritto
verso la camera da letto in fondo. Per fortuna aveva comunque un sacco di
tempo per pulirsi e cambiarsi, perché la polizia ci avrebbe messo parecchio
prima di trovare Grady. L'ordine che aveva dato a de la Cruz era di stare alla
larga per tutta la notte... anche se, con uno come lui, era possibile che la
coscienza riuscisse a prevalere sul pensiero che gli aveva inculcato nel
cervello. In ogni caso le restavano un paio d'ore minimo.
Nell'appartamento di Rehv chiuse la porta a chiave e andò dritta alla
doccia. Aprì l'acqua calda, si tolse le armi e buttò tutti i vestiti e gli anfibi
dentro uno scivolo che finiva direttamente nella caldaia.
Al diavolo le lavatrici. Quello era il tipo di cesto per la biancheria sporca
che serviva alla gente come lei.
Portò con sé sotto la doccia il lungo coltello e lavò se stessa e la lama con
uguale cura. Non si era tolta i cilici; il sapone bruciava nei punti in cui le
bande chiodate affondavano nelle cosce; Xhex attese che il dolore si placasse
prima di sganciarle, una dopo l'altra...
Lo strazio fu così grande da intorpidirle le gambe, schizzando poi su nel
petto, dove le fece palpitare il cuore. Con un sospiro , tremante, Xhex si
accasciò contro la parete di marmo, sapendo che rischiava seriamente di
svenire.
In qualche modo riuscì a non perdere conoscenza.
Alla vista di tutto quel rosso che si allargava intorno allo scarico sotto i suoi
piedi, ripensò al cadavere di Chrissy. Nella sala mortuaria di quell'ospedale
umano, il sangue della donna era nero e marrone sotto la pelle grigiastra
coperta di lividi. Quello di Grady era rosso come il vino, ma nel giro di un
paio d'ore il bastardo sarebbe stato come la ragazza che aveva massacrato di
botte... morto sopra un tavolo d'acciaio inox, con ciò che un tempo gli
scorreva nelle vene solido come cemento.
Aveva fatto un buon lavoro, si complimentò con se stessa.
Poi scoppiò in lacrime, per niente e per tutto, provando un moto di
disprezzo per quel pianto.
Vergognandosi della propria debolezza, si coprì il volto con le mani,
malgrado fosse sola.
Una volta qualcuno aveva tentato di vendicare la sua morte.
Solo che lei non era morta... l'aveva solo sperato, mentre il suo corpo veniva
torturato con ogni sorta di "strumenti". E per il suo vendicatore tutta la
sceneggiata cavalleresca da eroe sul bianco destriero non aveva funzionato.
Muhrder era impazzito. Era convinto di salvare una vampira e invece:
sorpresa! In realtà stava rischiando la vita per riportare a casa una symphath.
Oops. Forse Xhex aveva dimenticato di confessare quel piccolo particolare
al suo amante.
Quanto rimpiangeva di non avergli detto la verità. Lui aveva il diritto di
sapere cos'era lei veramente e forse, sapendolo, avrebbe ancora fatto parte
della confraternita. Magari sposato con una dolce compagna. Di sicuro non
avrebbe perso la ragione sparendo chissà dove.
La vendetta era una faccenda pericolosa. Nel caso di Chrissy era andata
bene, tutto era filato liscio, ma a volte la persona che cerchi di onorare non
vale lo sforzo.
Come nel suo caso, per esempio, e il prezzo non era stato solo la sanità
mentale di Muhrder. Rehv stava ancora pagando per gli errori commessi da
lei.
Pensò a John Matthew, pentendosi amaramente di esserselo scopato.
Muhrder per lei era stato una cosa di nessuna importanza, ma John Matthew?
A giudicare dalla fitta che sentiva al centro del petto ogni volta che pensava a
lui, aveva il sospetto che fosse molto di più... ecco perché stava tentando di
scacciare dalla mente ciò che era accaduto tra loro nel suo appartamento al
seminterrato.
Il problema era il modo in cui John Matthew si era comportato con lei. La
tenerezza che le aveva mostrato minacciava di farla crollare; era stato
estremamente dolce, gentile e rispettoso... affettuoso... anche se conosceva la
sua vera identità. Era stata costretta a respingerlo con durezza perché, se lui
non la piantava, lei correva il rischio di premere le labbra sulle sue,
smarrendosi completamente.
Per lei John Matthew era il pozzo dell'anima, come lo chiamavano i
symphath, ovvero, per dirla come i vampiri, il suo pyrocant. La sua debolezza
di fondo.
E lei era debolissima quando c'era di mezzo lui.
Sopraffatta dalla sofferenza lo rivide in quel monitor di sicurezza, con le
mani addosso a Gina. Come i cilici che aveva addosso, l'immagine le procurò
un dolore straziante e non poté fare a meno di pensare che si meritava il
tormento che avrebbe provato nel vederlo affogare in un sesso vuoto e
senz'anima.
Chiuse il rubinetto, raccolse i cilici e il coltello dal marmo scivoloso del
pavimento, poi uscì dalla doccia, buttando tutto quell'armamentario
metallico in un lavandino a sgocciolare.
Cominciò a sfregarsi con uno dei supersciccosi asciugamani neri di Rehv;
com'era morbido, avrebbe preferito che fosse di...
«Carta vetrata, giusto?» concluse Rehv dalla soglia.
Xhex si fermò con l'asciugamano sulla schiena e guardò nello specchio,
Rehv era appoggiato contro lo stipite della porta; sembrava un grosso orso,
con quella pelliccia di zibellino addosso, ma la cresta da moicano e i
penetranti occhi viola attestavano il suo lato guerriero a dispetto di tutti i suoi
vestiti da fighetto.
«Com'è andata la serata?» chiese Xhex, appoggiando un piede sul piano di
marmo dei lavandini e passandosi l'asciugamano di spugna giù fino alla
caviglia.
«Potrei farti la stessa domanda. Cosa cazzo ti sta succedendo?»
«Niente.» Xhex alzò l'altra gamba. «Allora, com'è andata la riunione?»
Rehv continuò a guardarla negli occhi, non per rispetto del fatto che fosse
nuda come un verme, ma perché sinceramente, nuda o vestita, per lui non
faceva differenza. Sarebbe stato lo stesso se Trez o iAm gli avessero mostrato
il culo: da molto tempo ormai aveva smesso di essere una femmina, ai suoi
occhi, anche se si nutrivano a vicenda.
Forse era questo che le piaceva di John Matthew. John l'aveva guardata,
toccata e trattata come una femmina. Come una cosa preziosa.
Non perché era forte come lui, ma perché era una persona rara e speciale...
Cristo. Dio ci scampi dagli estrogeni. E comunque, ormai era acqua passata.
«Allora, la riunione?» lo incalzò.
«Non vuoi rispondere? Vabbe', fa' un po' come ti pare. Quanto alla
riunione, i membri del consiglio non si sono fatti vedere. In compenso è
saltata fuori questa.» Rehv tirò fuori dalla tasca interna una busta piatta e
lunga e la buttò sul piano di marmo. «Puoi leggerla più tardi. Inutile dire che
il mio segreto era risaputo da parecchio tempo. Il mio patrigno ha spifferato
tutto sulla via del Fado; è stato un miracolo che quella roba non sia venuta
fuori prima.»
«Figlio di puttana.»
«E un affidavit, a proposito, mica qualche frase a casaccio scarabocchiata
dietro un tovagliolo.» Rehv scosse la testa. «Devo riuscire a entrare in casa di
Montrag. Per vedere se ne esistono altre copie.»
«Posso farlo io.»
Gli occhi color ametista di Rehv si strinsero. «Senza offesa, ma preferisco
declinare l'offerta. Non mi sembri in gran forma.»
«Solo perché è da un po' che non mi vedi svestita. Lascia che mi rivesta e
vedrai se non sono tosta.»
Rehv guardò le ferite slabbrate sulle sue cosce. «Difficile credere che mi hai
strapazzato per il braccio, visto come ti sei conciata le gambe.»
Xhex si coprì con l'asciugamano. «Oggi vado a casa di Montrag.»
«Perché ti sei fatta la doccia?»
«Perché ero tutta insanguinata.»
Il sorriso che allargò le labbra di Rehv, svelando le zanne, parlava di
violenza. «Hai trovato Grady.» «Già.»
«Beeeeeeeene.»
«Tra non molto potremmo ricevere una visita dalla polizia.»
«Non vedo l'ora.»
Xhex agitò cilici e coltello, finendo di farli sgocciolare, poi passò davanti a
Rehv per entrare nella sezione sei per sei della cabina armadio riservata a lei.
Tirò fuori un paio di calzoni di pelle puliti e una maglietta nera lanciandosi
un'occhiata alle spalle.
«Ti spiace lasciarmi un po' di privacy?»
«Ti rimetti quei maledetti cosi?»
«E tu cosa mi dici della tua scorta di dopamina?»
Rehv ridacchiò avviandosi alla porta. «Penso io a perquisire la casa di
Montrag. Ultimamente hai fatto già abbastanza lavoro sporco per altri.»
«Posso occuparmene io.»
«Non significa che dovresti.» Rehv infilò la mano in tasca e tirò fuori il
cellulare. «Cazzo, ho dimenticato di riaccenderlo.»
Quando il display si illuminò Rehv lo guardò e le sue emozioni...
vacillarono.
Le sue emozioni letteralmente vacillarono.
Forse perché era senza cilici e il suo lato symphath non tardò a farsi sentire,
ma Xhex non potè fare a meno di concentrarsi intensamente su Rehv,
incuriosita dalla debolezza che manifestava.
Ciò che la colpì, tuttavia, non fu tanto la sua griglia emotiva... quanto il
fatto che il suo odore fosse cambiato.
«Hai bevuto il sangue di un'altra», disse.
Rehv rimase impietrito, tradendosi con l'immobilità del suo corpo
massiccio.
«Non provare a mentire», mormorò Xhex. «Lo sento dall'odore.»
Rehv si strinse nelle spalle e lei si preparò a sentirgli dire che non era niente
di eccezionale. In effetti lui aprì la bocca, ostentando la solita espressione
annoiata che assumeva per tenere la gente a distanza.
Solo che non disse una parola. Sembrava incapace di tirar fuori una sparata
qualsiasi.
«Accipicchia», esclamò Xhex, scuotendo la tèsta. «E una cosa seria, allora.»
Rehv non riuscì a fare di meglio che ignorare la domanda. «Quando sei
pronta ci vediamo con Trez e iAm per fare il punto della situazione prima
della chiusura.»
Ciò detto, Rehv girò sui tacchi e tornò in ufficio.
Buffo, pensò tra sé Xhex prendendo una delle fasce di acciaio e
apprestandosi ad agganciarla intorno alla coscia, non si sarebbe mai aspettata
di vederlo così. Mai e poi mai.
Veniva da chiedersi chi era la femmina in questione. E fino a che punto lo
conosceva.
Rehv andò a sedersi alla scrivania con in mano il telefonino. Eh- lena aveva
chiamato lasciando un messaggio, ma invece di perdere tempo ad ascoltarlo
cercò il suo numero e...
La chiamata che ricevette in quel mentre era l'unica che poteva impedirgli
di finire quello che stava per fare. Rehv rispose dicendo, «Con quale fratello
parlo?»
«Vishous.»
«Cosa c'è, amico.»
«Niente di buono.»
Nel sentire il tono piatto di V, Rehv pensò a qualche incidente stradale. Di
quelli brutti, per cui occorre liberare i cadaveri dalle lamiere con le cesoie
idrauliche. «Dimmi.»
Il fratello parlò, parlò e parlò. L'e-mail. La copertura saltata. La
deportazione.
A quel punto doveva esserci stato un lungo silenzio, perché Rehv si sentì
chiamare. «Ehi, ci sei? Rehvenge? Ehi, amico?»
«Sì, sono qui.» Più o meno. Era leggermente distratto dal rombo sordo nella
sua testa, come se l'edificio in cui si trovava gli stesse crollando addosso.
«Hai sentito quello che ti ho chiesto?»
«Ehm... no.» Il rombo adesso era assordante; stavano bombardando il club,
ne era certo, i muri si stavano sbriciolando e il tetto stava venendo giù.
«Ho cercato di tracciare la e-mail e sono quasi convinto che venga da un
indirizzo IP su al nord, vicino alla colonia se non proprio dentro di essa. Non
credo proprio che venga da un vampiro. Conosci qualcuno lassù che possa
tentare di far saltare la tua copertura?»
Allora la principessa si era stufata dei giochetti da ricattatrice. «No,»
Adesso fu il turno di V di stare zitto. «Sei sicuro?» «Sì.»
La principessa aveva deciso di farlo tornare a casa. E se lui non ci andava,
di certo avrebbe inviato una e-mail a qualcuno della glymera, coinvolgendo
Wrath e la confraternita oltre a rivelare il segreto di Rehv. Questo, insieme
all'affidavit saltato fuori quella sera...
La vita come la conosceva lui era finita.
Ma non c'era nessun bisogno di farlo sapere alla confraternita.
«Rehv?»
«E solo un effetto collaterale del documento di Montrag», disse Rehv con
voce atona. «Non preoccuparti.»
«Cosa diavolo è successo?»
La voce brusca di Xhex, dalla soglia della camera da letto, lo aiutò a
ritrovare la concentrazione. Rhev si voltò a guardarla. Il fisico forte e i
penetranti occhi grigi di Xhex gli erano familiari come il suo stesso riflesso, e
lo stesso valeva per lei... così le bastò guardarlo in faccia per capire cosa stava
succedendo.
Le sue guance lentamente persero ogni colore. «Che cosa ha fatto? Che cosa
ti ha fatto quella troia?»
«Devo andare, V. Grazie della telefonata.»
«Rehvenge?» lo interruppe il fratello. «Senti, amico, magari posso riprovare
a rintracciare...»
«Tutto tempo sprecato. Lassù nessuno lo sa. Fidati.»
Rehv chiuse la telefonata e, prima che Xhex potesse interloquire, richiamò il
messaggio di Ehlena dalla casella vocale. Anche se già sapeva cosa aveva
lasciato detto. Sapeva esattamente...
«Ehi, Rehv, ho appena ricevuto una visita da quella... femmina. Ha detto un
mucchio di assurdità su di te. È solo che... be', ho pensato fosse meglio
dirtelo. A essere sincera, quella fa proprio paura. Ad ogni modo, non è che
puoi chiamarmi, così ne parliamo? Ci terrei molto. Ciao.»
Rehv cancellò il messaggio, premette chiudi e posò il cellulare LG sulla
scrivania, allineandolo col tampone di carta assorbente di cuoio nero in modo
che fosse perfettamente verticale.
Xhex gli andò vicino e proprio allora qualcuno bussò vigorosamente alla
porta ed entrò. «Dacci un minuto, Trez», la sentì dire Rehv. «Porta con te
Rally e non fare entrare nessuno.»
«Cosa è sue...»
«Subito. Per favore.»
Rehvenge fissava il telefono, solo vagamente consapevole di uno scalpiccio
di piedi e dello scatto della porta che si chiudeva.
«L'hai sentito?» chiese piano.
«Sentito che cosa?» chiese Xhex inginocchiandosi vicino alla sua sedia.
«Quel rumore.»
«Rehv, che cosa ha fatto?»
Lui la guardò negli occhi e vide sua madre sul letto di morte. Buffo,
entrambe avevano lo stesso sguardo implorante. Ed entrambe erano persone'
che lui voleva proteggere. Anche Ehlena era sulla stessa lista. Così come sua
sorella. E così pure Wrath e i fratelli.
Rehvenge si piegò in avanti e prese per il mento la sua vice. «Roba della
confraternita, tutto qua, e sono proprio stanco.»
«Col cavolo, e col cavolo che sei stanco.»
«Posso chiederti una cosa?»
«Cosa?»
«Se ti chiedessi di occuparti di una femmina per me, lo faresti?»
«Sì, cazzo, sì. Cristo, è da più di vent'anni che voglio ammazzare quella
troia.»
Rehv lasciò ricadere la mano, poi tese il palmo. «Sul tuo onore, giuralo.»
Xhex glielo strinse come avrebbe fatto un maschio, a mo' di promessa
solenne. «Hai la mia parola. Qualsiasi cosa.»
«Grazie. Ascolta, Xhex, adesso io vado a dormire un po'...»
«Però prima devi dirmi cosa succede.»
«Chiudi tu?»
Lei si accovacciò sui talloni. «Cosa. Cazzo. Sta. Succedendo.»
«Era solo Vishous con un altro piccolo intoppo.»
«Merda, Wrath ha qualche altro problema con la glymera!»
«Finché esisterà una glymera, ne avrà.»
Xhex si accigliò. «Perché stai pensando a una spiaggia, e per di più degli
anni Ottanta?»
«Perché i medaglioni da portare sul petto stanno per tornare in voga. Me lo
sento. E piantala di provare a insinuarti nel mio cervello.»
Ci fu un lungo silenzio. «Darò la colpa di tutto alla dipartita della tua
mamma.»
«Ottima idea.» Rehv puntò il bastone sul pavimento. «Adesso vado a fare
una dormitina. Non chiudo occhio da, tipo, due giorni di fila.»
«Va bene. Ma la prossima volta vedi di bloccarmi con qualcosa di meno
terrificante di Deney Terrio alle Bahamas.»
Una volta rimasto solo, Rehv si guardò intorno. Quell'ufficio ne aveva viste
di tutti i colori: un mucchio di soldi che passavano di mano, un mucchio di
droga che faceva altrettanto, un mucchio di furbacchioni che speravano di
fregarlo ridotti in fin di vita.
Attraverso la porta aperta della camera da letto guardò l'appartamento in
cui aveva trascorso un buon numero di notti. Vedeva a stento la doccia.
Quando ancora riusciva a tollerare il veleno della principessa, quando
poteva andare da lei, fare quello che doveva fare ed essere ancora abbastanza
in forze da riportare a casa le chiappe, si era sempre lavato in quel bagno.
Non aveva voluto contaminare la dimora di famiglia con quello che aveva
sulla pelle, e aveva dovuto darci dentro con sapone, acqua calda e olio di
gomito prima di poter tornare a casa da sua madre e sua sorella. Il buffo era
che, ogni volta che rincasava, sua madre invariabilmente gli chiedeva se era
stato in palestra perché «aveva un bel colorito sano.»
Gli sembrava di non essere mai abbastanza pulito, ma d'altronde i misfatti
più orrendi non sono come lo sporco... non si possono lavare via.
Abbandonò la testa all'indietro e mentalmente attraversò lo Ze- roSum: la
stanza in cui Rally preparava la droga, il settore VIP, la finta cascata
ornamentale, la pista da ballo aperta a tutti e i bar. Conosceva ogni
centimetro del club e tutto ciò che succedeva tra le sue mura, da quello che
facevano le sue ragazze, ginocchioni o supine, a come gli allibratori
cambiavano le quotazioni, al numero di clienti in overdose che Xhex aveva
dovuto gestire.
Quanti traffici loschi.
Pensò a Ehlena, che aveva perso il lavoro per portargli gli antibiotici che lui,
da quel grandissimo testa di cazzo che era, non era voluto passare a prendere
da Havers. Quella sì che era una buona azione. E lo sapeva non solo per
quello che aveva imparato frequentando la famiglia di sua madre, ma perché
sapeva com'era Ehlena. Lei era intrinsecamente buona e, di conseguenza,
faceva cose buone.
Quello che lui aveva fatto lì non era e non sarebbe mai stato buono, perché
lui era così.
Pensò al club. I luoghi della nostra vita, come i vestiti che indossiamo, l'auto
che guidiamo, gli amici e i soci che abbiamo, sono un prodotto del modo in
cui viviamo. E lui viveva in modo equivoco, violento e squallido. E sarebbe
morto nello stesso modo. Meritava la fine che stava per fare.
Però prima avrebbe sistemato le cose. Per una volta in vita sua avrebbe
fatto tutto nel modo giusto e per le ragioni più giuste. E l'avrebbe fatto per la
ristretta cerchia di persone che... amava.
Capitolo 52
All'altro capo della città, nella sala del biliardo della grande casa della
confraternita, Tohr si era seduto in modo da vedere la porta del vestibolo.
Nella mano destra aveva un orologio nero Timex Indiglo nuovo di zecca, che
stava regolando con l'ora e alla data esatta, e nella sinistra un alto bicchiere di
frappé di gelato al caffè. Aveva quasi finito con l'orologio mentre era solo a
un quarto del frappé.
Il suo stomaco non reggeva più molto bene le vagonate di cibo che aveva
ingurgitato, ma non gliene fregava un tubo. Doveva mettere su peso alla
svelta, perciò la sua pancia doveva solo darsi una svegliata.
Con un bip finale l'orologio segnalò che era a posto e Tohr se lo mise al
polso, fissando il luminoso 4:57 a.m. comparso sul quadrante.
Guardò di nuovo la porta del vestibolo. Al diavolo orologio e cibarie.
Quello che stava facendo, in realtà, era aspettare che John attraversasse quel
maledetto vestibolo insieme a Qhuinn e Blay.
Voleva che il suo bambino tornasse a casa sano e salvo. Anche se John non
era più un bambino, e non lo era più da quando lo aveva piantato in asso, un
anno prima.
«Sai, non capisco proprio perché non guardi questo programma.»
La voce di Lassiter lo spinse a prendere il bicchiere con la cannuccia e
succhiare un altro po' di frappé per non dirgli di nuovo di chiudere il becco.
L'angelo adorava la TV, ma soffriva di un grave disturbo da deficit
dell'attenzione: cambiava canale in continuazione, Dio solo sapeva cosa stava
guardando adesso.
«Voglio dire, lei sì che è una donna che sa stare al mondo. È in gamba, e i
vestiti sono uno sballo. È un programma proprio bello.»
Tohr si voltò a guardare. Stravaccato sul divano col telecomando in mano,
l'angelo aveva la testa appoggiata su un cuscino ricamato ad ago da Marissa.
E davanti a lui, sullo schermo, c'era...
Tohr quasi si strangolò col frappé. «Ma cosa cavolo guardi? Quella è Mary
Tyler Moore, testa di cazzo.»
«E così che si chiama?»
«Sì. E, senza offesa, non dovresti esaltarti tanto per quella roba.»
«Perché?»
«È solo a un pelo dai film sdolcinati che danno su Lifetime. Manca solo che
ti pitturi le unghie dei piedi.»
«Fa niente. A me piace.»
L'angelo non parve cogliere la differenza tra il Mary Tyler Moore show e gli
incontri di arti marziali miste. Se uno dei fratelli l'avesse visto guardare
quella roba l'avrebbe preso a calci in culo.
«Ehi, Rhage», gridò Tohr in direzione della sala da pranzo. «Vieni a vedere
cosa sta guardando alla tele questa lampada al neon.»
Hollywood entrò con un piatto stracolmo di purè di patate e roast beef. In
generale non credeva nei benefici delle verdure, le considerava "uno spreco
di spazio calorico", quindi i fagiolini verdi serviti col Primo Pasto erano
vistosamente assenti dal suo spuntino riscaldato.
«Cos'è che sta guardando... Oh, ehi! Mary Tyler Moore. Mi piace un
casino.» Rhage si accomodò su una delle poltrone imbottite vicino all'angelo.
«Ha sempre dei vestiti fantastici.»
Lassiter scoccò a Tohr un'occhiata della serie "vedi te l'avevo detto io". «E
Rhoda è sexy da morire.»
I due si batterono le nocche. «D'accordissìmo.»
Tohr tornò al suo frappé. «Siete tutti e due una vergogna per il sesso
maschile.»
«E perché? Perché non abbiamo una passione per Godzilla?» ribatté Rhage.
«Almeno io posso girare in pubblico a testa alta. Voi due, invece, dovreste
guardare quello schifo chiusi dentro un ripostiglio.»
«Io non sento il bisogno di nascondere le mie inclinazioni», disse Rhage
inarcando le sopracciglia, accavallando le gambe e sollevando il mignolo
dalla forchetta. «Sono quello che sono.»
«Non tentarmi, ti prego», bofonchiò Tohr attaccandosi di nuovo alla
cannuccia per nascondere un sorriso divertito.
Ci fu un lungo silenzio e Tohr si voltò a guardare, pronto a riprendere a...
Rhage e Lassiter lo stavano fissando con cauta approvazione,
«Oh, per l'amor del cielo, non guardatemi così.»
Rhage fu il primo a riscuotersi. «È più forte di me. Sei così sexy con quei
calzoni che ti pendono addosso. Devo correre a prenderne un paio anch'io,
perché niente è più erotico che coprirsi le vergogne con un paio di pantaloni
che sembrano due sacchi dell'immondizia cuciti insieme.»
Lassiter annuì. «Assolutamente ributtanti. Li voglio anch'io, prendi nota.»
«Dove si trova quell'orrore, da Home Depot?» insistette Rhage piegando la
testa di lato. «Nel reparto smaltimento rifiuti?»
Prima che Tohr potesse ribattere, Lassiter disse, «Cribbio, spero solo che il
mio deretano faccia la sua porca figura, quanto il tuo. Ti sei allenato? O è solo
un caso di mancanza di culo?»
Tohr non potè fare a meno di ridere. «In questo momento, per la verità, mi
sento assediato dai "culi".»
«Il che spiegherebbe perché non hai problemi ad andare in giro senza.»
«Ora che ci penso», lo incalzò Rhage, «Tu e Mary Tyler Moore avete la
stessa corporatura di. Mi sorprende che non l'apprezzi un po' di più.»
Tohr succhiò ostentatamente un'altra sorsata di frappé. «Potrei quasi
mettere su qualche chilo per il solo piacere di stenderti, dopo questa battuta.»
Il sorriso di Rhage rimase al suo posto, ma i suoi occhi si fecero gravi. «Non
vedo l'ora. Credimi, non vedo l'ora.»
Tohr tornò a concentrarsi sulla porta del vestibolo, chiudendosi in se stesso
e dando un taglio al cazzeggio, che tutt'a un tratto gli pareva fuori luogo.
Lassiter e Rhage, però, non seguirono il suo esempio. Quei due
chiacchieroni infernali non la finivano più di commentare tutto quello che
passava in TV, quello che stava mangiando Rhage, i piercing dell'angelo e...
Tohr si sarebbe spostato se solo avesse potuto tenere d'occhio il portone da
un qualsiasi altro...
Il sistema di sicurezza emise un bip quando la porta più esterna del quartier
generale si aprì. Ci fu una pausa e poi un altro bip, seguito da una specie di
gong.
Mentre Fritz accorreva a quel richiamo, Tohr raddrizzò la schiena, cosa
patetica, visto il suo stato fisico. Il busto eretto non poteva migliorare come
per magia il fatto che pesasse poco più della sedia su cui era parcheggiato il
suo fondoschiena inesistente.
Qhuinn fu il primo a entrare, tutto vestito di nero, coi piercing metallici
all'orecchio sinistro e al labbro inferiore che mandavano bagliori luminosi.
Poi fu la volta di Blaylock, in perfetta tenuta da Mister Preppy-Perbenino, coi
suoi calzoni sportivi e il maglione di cachemire a collo alto. I due si avviarono
verso le scale con espressioni diverse quanto il loro abbigliamento. Qhuinn
doveva aver passato una serata fantastica, a giudicare dal ghigno della serie
"mi sono fatto una scopata pazzesca". Blay, al contrario, con la bocca piegata
all'ingiù e gli occhi fissi sul mosaico del pavimento, sembrava reduce dal
dentista.
Forse John non sarebbe tornato. Ma dove sarebbe andato a vivere...
Quando lo vide entrare nell'atrio, Tohr non riuscì a trattenersi: si alzò in
piedi, malfermo sulle gambe, appoggiandosi all'alto schienale della sedia.
La faccia di John era totalmente inespressiva. Aveva i capelli spettinati, ma
non per il vento, e dei graffi sul collo, di quelli attribuibili alle unghie di una
femmina. L'odore che aveva addosso era un misto di Jack Daniel's, profumi
vari e sesso.
Sembrava invecchiato di cent'anni rispetto a quando, seduto al capezzale di
Tohr, solo qualche sera prima, era in posa da Pensatore. Quello non era un
bambino. Quello era un adulto a tutti gli effetti che sfogava la propria
frustrazione nel modo ben collaudato dalla maggioranza dei ragazzi.
Tohr si accasciò sulla sedia aspettandosi di essere ignorato; invece, giunto
davanti al primo scalino, John vi posò l'anfibio e voltò la testa, come se
sapesse che qualcuno lo stava guardando. Quando incontrò lo sguardo di
Tohr non cambiò espressione. Alzò la mano in modo poco convinto e tirò
dritto.
«Ero preoccupato. Temevo che non tornassi a casa», disse Tohr ad alta voce.
Qhuinn e Blay si fermarono. Rhage e Lassiter ammutolirono. Le voci di
Mary e Rhoda riempirono il silenzio.
Senza quasi rallentare, John mosse le mani per dire, Questa non è casa mia. E’
un alloggio. E mi serve un posto dove stare.
Non attese una reazione e da come teneva le spalle si capiva che non gli
interessava. Tohr avrebbe potuto ripetergli fino alla nausea che tutti, in quella
casa, gli volevano bene, ma non sarebbe servito a niente.
Quando tutti e tre sparirono su per le scale, Tohr terminò il suo frappé,
portò in cucina il bicchiere e lo mise nella lavastoviglie senza che nessun
doggen gli chiedesse se desiderava altro da mangiare o da bere. Beth
mescolava uno stufato con l'aria di volergliene rifilare una scodella per
levarselo di torno.
Il tragitto fino al primo piano fu lungo e faticoso, ma non perché si sentisse
debole fisicamente. Aveva incasinato John tagliandolo fuori dalla sua vita, e
adesso raccoglieva quello che aveva seminato. Maledizione...
Lo schianto e il grido che uscirono dalla porta chiusa dello studio facevano
pensare a un'aggressione e il corpo di Tohr, per quanto fragile, reagì in modo
istintivo spalancando la porta con una spallata.
Accovacciato dietro la scrivania, Wrath teneva le braccia tese davanti a sé;
computer, telefono e carte erano disseminati per la stanza come se li avesse
spinti via, la sedia era rovesciata. Con in mano gli occhiali avvolgenti che non
lo abbandonavano mai, il re teneva gli occhi fissi davanti a sé.
«Mio signore...»
«Le luci sono accese?» chiese Wrath col respiro affannoso. «Sono accese
quelle luci del cazzo?»
Tohr si precipitò ad afferrarlo per le braccia. «Fuori in corridoio sì. E c'è il
fuoco nel camino. Cosa...»
Il possente corpo di Wrath fu scosso da tremiti così violenti che Tohr
dovette sorreggerlo. Il che richiedeva più muscoli di quelli che aveva. Cazzo,
se non chiamava subito aiuto sarebbero caduti per terra tutti e due. Lanciò un
fischio alto e prolungato, poi tornò a concentrarsi sull'impresa di non perdere
la presa sul suo re.
Rhage e Lassiter furono i primi ad accorrere, facendo irruzione nello studio.
«Cosa cavolo...»
«Accendete le luci», gridò di nuovo Wrath. «Qualcuno accenda quelle luci
della malora!»
Seduto di fronte al piano di lavoro in granito della cucina vuota della casa
di arenaria, Lash era molto più di buonumore. Non che avesse dimenticato
che i fratelli se n'erano andati con le casse di armi e i vasi dei lesser o che
l'appartamento di Hunterbred era compromesso o che Grady era scappato o
che su al nord c'era un symphath che lo aspettava e che di sicuro stava dando i
numeri perché Lash non aveva ancora assassinato il suo bersaglio.
Solo che i soldi distraggono. E una montagna di soldi distrae parecchio.
Guardò Mr D che si avvicinava con un altro sacchetto di Hannaford da cui
uscirono altre mazzette di banconote, ciascuna legata con un rozzo elastico
marrone. Quando il lesser ebbe finito di rovesciarle, il granito del bancone
quasi non si vedeva più.
Un bei modo per aiutarlo a calmarsi, pensò Lash, alzando gli occhi quando
Mr D ebbe finito di portare dentro i sacchetti.
«Quanto, in totale?»
«Settantaduemilasettecentoquaranta. Li ho legati in mazzette da cento
dollari.»
Lash prese una delle mazzette legate con l'elastico. Quelli non erano i
contanti puliti e stirati che escono dalle banche, erano soldi sporchi e
stropicciati usciti dalle tasche di jeans, da portafogli semivuoti e da cappotti
macchiati. Sentiva quasi l'odore della disperazione che saliva da quelle
banconote.
«Quanta roba ci resta?»
«Abbastanza per altre due notti come questa, ma non di più. E restano
ancora due trafficanti e basta. A parte quello grosso.»
«Non preoccuparti per Rehvenge. A lui ci penso io. Per intanto non
uccidere gli altri piccoli spacciatori... portali in un centro di persuasione. Ci
servono i loro contatti. Voglio sapere dove e come fanno i loro acquisti.» Era
molto probabile che trattassero con Rehvenge, naturalmente, ma forse c'era
qualcun altro. Un umano più malleabile. «Stamattina per prima cosa prendi
una cassetta di sicurezza e mettici dentro tutti questi soldi. Questo è il
capitale di avviamento della nostra impresa e non dobbiamo perderlo.»
«Signorsì.»
«Chi ha venduto la roba insieme a te?»
«Mr N e Mr I.»
Fantastico. Gli imbecilli che si erano fatti scappare Grady. In compenso,
però, si erano dati da fare per strada con la droga, e Grady era andato
incontrò a una fine creativa e crudele. In più Lash aveva visto in azione Xhex.
Così, non tutto era perduto.
Aveva una gran voglia di fare una visitina allo ZeroSum.
Quanto a N e I, ucciderli era il minimo, ma per il momento quei due
coglioni gli servivano per strada a fare soldi. «Appena fa buio voglio quei
due per strada a spacciare.»
«Pensavo che volesse...»
«Prima di tutto tu non devi pensare, e secondariamente ci servono ancora
un bel po' di questi.» Così dicendo ributtò nel mucchio le banconote che
aveva in mano. «Ho dei progetti che costano soldi.»
«Signorsì.»
Con un improvviso ripensamento, Lash si sporse in avanti a raccogliere la
mazzetta che aveva buttato nel mucchio. Era difficile separarsene, anche se
tutta quella grana era sua e, in qualche modo, tutt'a un tratto la guerra
sembrava meno interessante.
Si chinò a raccogliere uno dei sacchetti di carta e lo riempì. «Sai quella
Lexus.»
«Signorsì.»
«Trattala bene.» Si infilò la mano in tasca e gettò a Mr D le chiavi dell'auto.
«È la tua nuova macchina. Se vuoi essere il mio uomo per le strade di Caldie
devi avere l'aria di uno che sa il fatto suo.» «Signorsì!»
Lash alzò gli occhi al cielo; ci voleva così poco per motivare gli stupidi.
«Non fare casini mentre sono via, okay?» «Dove sta andando?»
«A Manhattan. Mi trovi sul cellulare. Ci vediamo.»
Capitolo 53
Era l'alba di un giorno gelido e le nuvole screziavano il cielo di un azzurro
lattiginoso quando José de la Cruz varcò al volante dell'auto i cancelli del
cimitero di Pine Grove, zigzagando intorno a file e file di lapidi. I vialetti
angusti e serpeggianti gli ricordavano Life, il Gioco della Vita, quel vecchio
gioco di società a cui lui e suo fratello giocavano da piccoli. Ogni giocatore
aveva un'automobilina con sei buchi e partiva rappresentando se stesso con
un piolo. Il gioco consisteva nel muoversi lungo una pista, raccogliendo via
via altri pioli che rappresentavano una moglie e dei figli. L'obiettivo era
acquisire persone, denaro e opportunità, tappare i buchi nella propria auto
colmando i vuoti con cui si era partiti.
De la Cruz si guardò intorno pensando che nel gioco chiamato Vita Vera
finivi per riempire tu stesso un buco nella terra. Non proprio il genere di cosa
che vuoi far sapere fin da subito ai tuoi figli.
Giunto davanti alla tomba di Chrissy, parcheggiò la macchina nello stesso
punto in cui si era fermato grosso modo fino all'una di notte. Più avanti
c'erano tre auto della polizia, quattro agenti in parka e il nastro giallo usato
per delimitare la scena del crimine che girava intorno alle lapidi formando
una specie di scatola chiusa.
Scendendo si portò dietro il caffè anche se ormai, nella migliore delle
ipotesi, era tiepido; mentre avanzava, attraverso il cerchio delle gambe dei
suoi colleghi, vide la suola di un paio di anfibi.
Uno dei poliziotti si voltò a guardare da sopra la spalla, e dalla sua faccia de
la Cruz capì in che stato era ridotto il cadavere: se gli avesse offerto uno di
quei sacchetti per chi soffre di mal d'aria, il collega lo avrebbe riempito tutto.
«Ehilà... detective.»
«Charlie, come andiamo?»
«Sto... bene.»
Sì, come no. «Si vede.»
Gli altri agenti si voltarono a salutarlo con un cenno del capo, ognuno con
la stessa espressione della serie "oddio mi viene da vomitare".
Il fotografo della scena del crimine, al contrario, era una donna nota per
avercela a morte con gli uomini. Quando si chinò per cominciare a scattare
aveva sulle sue labbra il sorrisetto dì una che si stesse godendo lo spettacolo.
E meditasse magari di infilarsi nel portafoglio una delle istantanee.
Grady aveva fatto una fine atroce. Aveva morso la polvere. E non solo
quella.
«Chi l'ha trovato?» chiese de la Cruz, accucciandosi per esaminare il
cadavere. Tagli netti. Tanti. Quello era un lavoro da professionisti.
«Il custode del cimitero», rispose uno degli sbirri. «Un'oretta fa.»
«Dov'è adesso?» De la Cruz si alzò in piedi e si fece da parte per permettere
alla fallofoba di fare il suo lavoro. «Dopo voglio cariargli.»
«E nel capanno a bere un caffè. Ne aveva bisogno. Tremava come una
foglia.»
«Be', posso capirlo. Qui per la maggior parte i cadaveri sono sotto le pietre
tombali, non sopra.»
Tutti e quattro gli agenti lo guardarono come a dire, Già, e neanche in queste
condizioni.
«Io ho finito col corpo», annunciò la fotografa tappando l'obiettivo. «E ho
già fotografato le tracce nella neve.»
De la Cruz girò intorno alla scena con cautela per non contaminare le
impronte, i cartellini numerati con cui erano state contrassegnate e il percorso
che avevano tracciato. Quello che era accaduto era chiaro. Grady aveva
provato a scappare da chi lo aveva braccato - chiunque fosse - e non ci era
riuscito. A giudicare dalle scie di sangue era stato ferito, probabilmente al
solo fine di essere immobilizzato, e poi spostato vicino alla tomba di Chrissy,
dove era stato smembrato e ucciso.
De la Cruz tornò nel punto in cui era il cadavere e lanciò uno sguardo alla
lapide, notando una scia marrone che correva da cima a fondo, sul davanti.
Sangue rappreso. Era pronto a scommettere che era stato messo lì apposta, e
quando era ancora fresco; in parte era gocciolato dentro le lettere scolpite del
nome: CHRISTIANNE ANDREWS.
«Questo l'hai fotografato?» chiese.
La fotografa lo guardò torva. Poi tolse il coperchio all'obiettivo, scattò e
rimise il coperchio.
«Grazie», disse lui. «Se ci serve altro ti chiamiamo.» O se troviamo qualcun
altro fatto a pezzi in questo modo.
Lei guardò di nuovo Grady. «Con piacere.»
Ovviamente, pensò de la Cruz, bevendo una sorsata con una smorfia.
Fredda. Cattiva. Vecchia. E non solo la fotografa. Cribbio, il caffè della
stazione di polizia era il peggiore in assoluto; se non fosse stato su una scena
del crimine avrebbe buttato via quella brodaglia accartocciando il bicchiere di
polistirolo.
Si guardò intorno. Alberi dietro cui nascondersi. Niente luci a parte quelle
della strada. Cancelli chiusi a chiave di sera.
Se solo si fosse fermato un po' più a lungo... avrebbe potuto bloccare
l'assassino prima che castrasse Grady per poi ficcargli in bocca il suo ultimo
pasto, godendosi presumibilmente lo spettacolo della sua morte.
«Maledizione.»
Una station wagon grigia con lo stemma della contea sulla portiera del
conducente si avvicinò e si fermò, ne scese un tizio con una piccola borsa nera
che si avvicinò di buon passo. «Scusate il ritardo.»
«Nessun problema, Roberts.» De la Cruz salutò il medico legale battendo il
palmo contro il suo. «Appena puoi, ci farebbe comodo sapere a che ora è
morto.»
«Sicuro, ma sarà solo una stima approssimativa. Con un margine di quattro
ore, grosso modo.»
«Qualunque cosa tu possa dirci sarà di grande aiuto.»
Mentre il medico si accovacciava sui talloni mettendosi al lavoro, de la Cruz
si guardò di nuovo intorno, poi andò a esaminare le impronte di scarpe. Ce
n'erano di tre tipi diversi, uno dei quali corrispondeva di sicuro a quelle di
Grady. I tecnici della Scientifica, che dovevano arrivare da un momento
all'altro, avrebbero fatto un calco delle altre due per poi esaminarle con cura.
Un paio di queste impronte ignote era più piccolo dell'altro.
E lui era pronto a scommettere la casa, la macchina e i risparmi messi da
parte per mandare all'università tutte e due le sue figlie che appartenevano a
una donna.
Nello studio della grande casa della confraternita, Wrath, seduto dritto
nella sua poltroncina, stringeva in una morsa entrambi i braccioli. Nella
stanza con lui c'era Beth, e dal suo odore Wrath capì che era spaventata a
morte. C'erano anche altre persone. Che parlavano. Camminavano avanti e
indietro.
Lui non vedeva niente, solo buio pesto.
«Havers è in arrivo», annunciò Tohr dalla porta. Come il tasto del
telecomando che serve ad azzerare il volume, la sua voce fece calare il
silenzio, mettendo a tacere ogni altra voce e rumore nella stanza. «Adesso al
telefono con lui c'è Jane. Invece di aspettare che Fritz vada a prenderlo, lo
porteranno qui su un'ambulanza con i vetri oscurati così farà più in fretta.»
Wrath aveva insistito per aspettare un paio d'ore prima di chiamare Jane,
sperando che gli tornasse la vista. Lo sperava tuttora.
Più che sperare, pregava, in effetti.
Beth era stata molto forte; ritta al suo fianco, gli teneva la mano mentre lui
lottava contro la tenebra. Qualche minuto prima, però, si era scusata ed era
uscita. Quando era tornata, Wrath aveva fiutato l'odore delie lacrime, anche
se sicuramente lei se l'era asciugate.
Per questo si era deciso a chiamare i camici bianchi.
«Tra quanto arriverà?» chiese brusco.
«Una ventina di minuti.»
Nel silenzio che regnava sovrano, Wrath sapeva di essere attorniato dagli
altri fratelli. Sentì Rhage scartare l'ennesimo Tootsie Pop e V accendere un
fiammifero e soffiare fuori uno nuvola di tabacco turco. Butch masticava una
gomma producendo dei piccoli schiocchi a raffica, come se i suoi molari
fossero scarpe da tip tap su un pavimento di legno. C'era Z con in braccio
Nalla; dall'angolo più lontano dello studio veniva il buon odore dolciastro
della neonata e ogni tanto un gridolino di piacere. Anche Phury era lì con
loro, aveva deciso di trattenersi per tutto il giorno e si era piazzato vicino al
suo gemello e alla nipotina.
Wrath sapeva che erano tutti lì... eppure era solo. Completamente solo,
risucchiato dal proprio corpo, prigioniero della cecità.
Premette con forza le mani sui braccioli della sedia per non gridare. Voleva
essere forte per la sua shellan, per i suoi fratelli e per la sua razza. Voleva
buttar lì un paio di barzellette, liquidare con una risata quell'incidente come
un interludio che presto sarebbe passato, mostrare di avere ancora le palle.
Si schiarì la gola. Ma invece di una cosa tipo, Un uomo entra in un bar con un
pappagallo sulla spalla... quello che gli uscì di bocca fu, «E quello che hai
visto?»
Le parole suonarono gutturali e tutti capirono a chi erano rivolte.
La risposta di V fu quasi impercettibile. «Non so di cosa stai parlando.»
«Cazzate.» Wrath era immerso nell'oscurità, circondato dai suoi fratelli, ma
nessuno era in grado di raggiungerlo. Come nella visione di Vishous. «C-AZ-Z-A-T-E.»
«Sei sicuro di volerne parlare proprio adesso?» fece V.
«È come nella tua visione?» Wrath lasciò andare la sedia e picchiò il pugno
sulla scrivania. «È come in quella visione della malora?» «Sì.»
«Sta arrivando il dottore», disse in fretta Beth, accarezzandogli una spalla.
«Jane e Havers ne discuteranno. Troveranno una spiegazione. Vedrai.»
Wrath si voltò verso il punto da cui proveniva la voce di Beth. Tese la
mano, ma fu lei a trovare il suo palmo.
Era quello il futuro che lo attendeva? si chiese Wrath. Farsi accompagnare
da lei quando doveva andare da qualche parte? Appoggiarsi a lei come uno
storpio del cazzo?
Cerca di stare calmo. Cerca di stare calmo. Cerca di...
Ripetè quelle quattro parole come un mantra, finché gli parve che la voglia
di esplodere fosse passata.
E tuttavia la minaccia di una detonazione imminente tornò non appena
sentì Jane e Havers entrare nella stanza. Capì che erano loro perché di nuovo
tutti gli altri interruppero di colpo quello che stavano facendo: fumare,
masticare la cicca, scartare lecca-lecca.
Tranne respirare. Per il resto c'era un silenzio di tomba.
Poi la voce del medico. «Mio signore, posso esaminare i tuoi occhi?» «Sì.»
Ci fu un fruscio di vestiti... Havers si stava sicuramente levando il cappotto.
Poi un leggero tonfo, come di un peso che vaniva appoggiato sulla scrivania.
Metallo contro metallo... la serratura di una borsa da medico che scattava.
Infine la voce ben modulata di Havers. «Col tuo permesso, adesso ti tocco la
faccia.»
Wrath annuì, poi trasalì a quel contatto delicato e per un attimo si aggrappò
alla speranza, nel sentire lo scatto di una torcia a stilo. Per abitudine si
contrasse, preparandosi a vedere la luce, indipendentemente dalla retina che
Havers aveva deciso di illuminare per prima. Dio, da che si ricordava la luce
gli aveva sempre dato fastidio agli occhi. Col passare degli anni...
«Puoi procedere con la visita, dottore?»
«Ho... mio signore, ho finito.» Ci fu un clic; presumibilmente Havers che
spegneva la torcia. «Almeno questa parte della visita.»
Silenzio. Poi la mano di Beth che stringeva più forte la sua. «E adesso?»
chiese Wrath. «Cosa puoi fare, adesso?» Altro silenzio, che in qualche modo
rese ancora più tenebrosa l'oscurità.
Giusto. Non c'erano molte alternative. Chissà perché se ne stupiva.
Vishous... non sbagliava mai.
Capitolo 54
Al calar della sera, Ehlena schiacciò le pillole di suo padre nel fondo della
tazza e, quando furono polverizzate a sufficienza, andò al frigorifero, prese il
CranRas e lo versò. Per una volta fu grata dell'ordine imposto da suo padre
perché aveva la testa da tutt'altra parte.
Nel suo stato attuale era fortunata a sapere in che Stato si trovava. Quello di
New York, giusto?
Controllò l'orologio. Non mancava molto. Lusie sarebbe arrivata tra una
ventina di minuti, e così l'auto di Rehv.
L'auto di Rehv. Non lui.
Più o meno un'ora dopo che gli aveva lasciato il messaggio sulla sua ex, si
era fatto vivo. Ma non con una telefonata. Rehv aveva chiamato direttamente
la casella vocale lasciando un messaggio registrato.
La sua voce era bassa e seria. «Ehlena, mi dispiace che tu sia stata
avvicinata in quel modo e farò in modo che non accada mai più. Mi
piacerebbe vederti al tramonto, se sei libera. Ti faccio venire a prendere dalla
mia auto alle nove, se per te va bene.» Pausa. «Mi dispiace tanto.»
Ehlena conosceva il messaggio a memoria perché l'aveva ascoltato almeno
un centinaio di volte. Suonava così diverso. Come se Rehv parlasse in un'altra
lingua.
Naturalmente non aveva dormito per tutto il giorno; alla fine aveva pensato
lo si potesse interpretare in due modi: o era orripilato per il solo fatto che lei
avesse avuto a che fare con quella femmina, oppure la riunione a cui era
andato era stata un disastro.
Forse era un misto delle due cose.
Si rifiutava di credere che quella pazza con gli occhi spiritati avesse una
qualche credibilità. Che diamine, le ricordava troppo suo padre quando
aveva uno dei suoi attacchi: maniacale, ossessiva in un mondo tutto suo.
Aveva voluto farla soffrire e aveva calibrato le sue parole di conseguenza.
Sarebbe stato bello parlare con Rehv, però. Sentirsi rassicurare le avrebbe
fatto bene, ma almeno ormai non doveva più aspettare per vederlo.
Dopo essersi assicurata che la cucina fosse esattamente come l'aveva trovata
quando era salita di sopra, scese le scale del seminterrato e andò nella stanza
di suo padre.
Lo trovò a letto con gli occhi chiusi, immobile. «Papà?» Lui non si mosse.
«Papà?»
Quasi gettò la tazza sul tavolo rovesciando CranRas dappertutto. «Papà!»
Suo padre aprì gli occhi e sbadigliò. «Figliola cara, come stai?»
«Ti senti bene?» Ehlena lo scrutò con attenzione, anche se era quasi
completamente coperto dal piumone di velluto. Era pallido e aveva i capelli
tutti per aria, ma sembrava respirare senza difficoltà. «C'è qualcosa che...»
«L’Antico Idioma suona meglio all'orecchio, non trovi?»
Ehlena si interruppe. «Perdonami. Volevo solo... Stai bene?»
«Ma certo. Sono rimasto alzato quasi tutto il giorno a riflettere su un altro
progetto, ecco perché ho oziato a letto più del solito. Credo proprio che lascerò vagare
sulla pagina le voci nella mia testa. Credo che trarrei beneficio nel dar loro uno sfogo
diverso da me stesso.»
Ehlena permise alle ginocchia di piegarsi e si sedette in modo sgraziato sul
letto. «Il tuo succo, papà. Ti va di berlo, adesso?»
«Ah, benissimo. La cameriera è molto premurosa a prepararlo.»
«Sì, è molto premurosa.» Ehlena gli allungò le medicine e lo guardò bere, col
cuore che finalmente rallentava.
Ultimamente la vita era stata una lunga serie di BANG!, POW! e CRACK
come in un fumetto di Batman, con lei che sbatteva per tutta la pagina come
la pallina di un flipper, fino ad avere il capogiro. Ci sarebbe voluto del tempo
prima che ogni sciocchezza la smettesse di trasformarsi, nella sua mente, in
una tragedia irreparabile.
Quando suo padre ebbe finito di bere gli diede un bacio sulla guancia, gli
disse che sarebbe uscita per un po' e riportò la tazza al pianterreno. Allorché
Lusie bussò, una decina di minuti dopo, quasi tutto il cervello di Ehlena era
tornato al suo posto. Avrebbe visto Rehv, si sarebbe goduta la sua compagnia
e poi, una volta rincasata, avrebbe ricominciato a cercarsi un nuovo lavoro.
Sarebbe andato tutto bene.
Aprì la porta raddrizzando le spalle con aria risoluta. «Come stai?»
«Bene.» Lusie si lanciò un'occhiata alle spalle. «Sapevi che c'è una Bentley
parcheggiata davanti a casa tua?»
Ehlena inarcò le sopracciglia, sporgendosi fuori dalla porta. In effetti
davanti alla sua squallida casetta in affitto c'era una Bentley nuova di zecca,
spettacolare e superscintillante, fuori posto come un diamante al dito di una
barbona.
La portiera del lato guidatore si aprì e da dietro il volante scese un tizio
dalla pelle scura incredibilmente bello. «Ehlena?»
«Ehm... sì.»
«Sono venuto a prenderti. Mi chiamo Trez.»
«Io... mi serve un minuto,»
«Fai pure con comodo.» Il suo sorriso mise in mostra un paio di zanne e lei
ne fu rassicurata. Non le piaceva avere intorno degli umani. Non si fidava di
loro.
Tornò dentro e si infilò il cappotto. «Lusie... puoi continuare a venire?
Dovrei riuscire a pagarti.»
«Ma certo, Farei qualsiasi cosa per tuo padre.» Lusie arrossì. «Cioè, per voi
due. Significa che hai trovato un altro lavoro?»
«Ho un po' più soldi del previsto e non mi va di lasciarlo qui da solo.»
«Be', mi prenderò cura di lui.»
Ehlena sorrise, sopraffatta dall'impulso di abbracciarla. «Come sempre.
Senti, per stasera... non so ancora quanto starò fuo...»
«Fai con comodo. Io e lui staremo benone.»
D'impulso, Ehlena la strinse in un rapido abbraccio. «Grazie. Grazie
infinite.»
Afferrò la borsetta e andò alla porta prima di rendersi ridicola; appena uscì
al freddo l'autista fece il giro della Bentley per aiutarla a salire. Col suo trench
di pelle nero sembrava più un sicario che uno chauffeur, ma, quando le
sorrise di nuovo, nei suoi occhi scuri si accese un lampo verde
straordinariamente brillante.
«Non preoccuparti. Ti porto a destinazione sana e salva.»
Lei gli credette sulla parola. «Dove andiamo?»
«In centro. Lui ti sta aspettando.»
Ehlena provò un certo imbarazzo nel vedersi aprire la portiera, anche se
sapeva che da parte di Trez era solo un gesto di cortesia tra pari, senza la
minima traccia di servilismo. Era disabituata a essere trattata con riguardo da
un maschio di valore, tutto qua.
Dio, che buon odore quella Bentley.
Mentre Trez faceva il giro e si sedeva al volante, Ehlena accarezzò il cuoio
finissimo del sedile; non ricordava di aver mai toccato nulla di tanto
lussuoso.
Quando la macchina uscì adagio dal vicolo per immettersi nella strada
principale, Ehlena sentì appena le buche che di solito, in taxi, la
costringevano ad aggrapparsi alla maniglia della portiera. Guida senza
scosse. Auto costosa.
Dov'erano diretti?
Mentre una tiepida brezzolina si diffondeva sul sedile posteriore, il
messaggio che Rehv aveva lasciato nella casella vocale le risuonava nella testa
come un disco rotto. Un dubbio baluginò nella sua mente, come gli stop delle
auto davanti a loro che si accendevano e si spegnevano, incrinando il
rassicurante ritornello della serie "va tutto bene".
Poi andò ancora peggio. Non conosceva benissimo il centro di Caldwell e,
quando attraversarono la zona dei grattacieli di lusso, si tese tutta. Era lì che
aveva incontrato Rehv, al Commodore.
Forse voleva portarla fuori a ballare.
Già, perché di solito si decide di andare a ballare senza avvertire la propria
compagna di mettersi un abito adatto...
Più avanzavano lungo Trade Street più Ehlena accarezzava il sedile vicino a
sé, anche se non per il piacere di toccarlo. I quartieri divennero via via più
squallidi, i ristoranti di un certo livello e gli uffici del Caldwell Courier
Journal lasciarono il posto a saloni per tatuaggi e a bar che, a vederli,
dovevano essere pieni di ubriachi piagnucolosi appollaiati sugli sgabelli e di
luride ciotole di noccioline americane sul bancone. Poi fu la volta dei club
vistosi e volgari, in cui lei non si sognava di andare perché detestava il
frastuono, le luci e la gente che li frequentava.
Quando avvistò l'insegna néro su nero dello ZeroSum, capì che si sarebbero
fermati lì davanti e il cuore le precipitò in fondo allo stomaco.
Stranamente, ebbe la stessa sensazione di quando aveva visto Stephan
all'obitorio: Non può essere. Impossibile. Non doveva andare così.
La Bentley non accostò davanti al club, però, e per un attimo nel suo petto
rinacque la speranza.
Ma certo. S'infilarono nel vicolo in fondo, fermandosi davanti a un ingresso
privato.
«Lui è il proprietario del club», disse Ehlena con voce spenta. «Vero?»
Trez non rispose, ma non ce n'era bisogno. Quando girò intorno alla
Bentley e le aprì la portiera, lei rimase seduta rigida sul sedile di dietro, gli
occhi fissi sull'edificio di mattoni, Notò di sfuggita lo sporco che colava giù
dal tetto, lungo i muri laterali, e saliva da terra. Un posto lercio. Sudicio.
Ripensò a quando, ai piedi del Commodore, aveva alzato gli occhi su tutto
quel vetro e acciaio cromato scintillante di pulito. Quella era la facciata che
Rehv aveva scelto di mostrarle.
Questa qui, invece, piena di sporcizia, era ciò che era stato costretto a
mostrarle.
«Ti sta aspettando», disse gentile Trez.
La porta laterale del club si spalancò e comparve un altro tipo dalla
carnagione scura. L'ambiente alle sue spalle era tutto immerso nella
penombra, ma Ehlena sentì il martellare dei bassi.
Doveva proprio vedere tutto questo? si chiese.
Be', doveva dire a Rehv che era tutto finito, questo di sicuro, ammesso che
quel disastro andasse nella direzione che sembrava. Poi però le venne in
mente una cosa: se era tutto vero aveva un problema ben più grosso. Aveva
fatto sesso... con un symphath.
Aveva permesso , a un symphath di nutrirsi del suo sangue.
Scosse la testa. «Non me la sento. Mi riporti a ca...»
In quel mentre comparve una femmina, dura e tosta come un maschio, e
non solo nell'aspetto esteriore. Aveva due occhi di ghiaccio e decisamente
calcolatori.
Si avvicinò e infilò la testa dentro l'auto. «Qui dentro non ti succederà
niente di male. Lo giuro.»
Bella roba, pensò Ehlena, il male lei lo sentiva già. Aveva delle fitte al petto
come quando si ha un attacco cardiaco.
«Lui ti sta aspettando», disse la femmina.
Ciò che spinse Ehlena a scendere dall'auto fu la sua spina dorsale, e non
solo perché si raddrizzò. Lei non era il tipo che scappa, questa era la verità. In
tutta la sua vita non era mai scappata di fronte alle difficoltà, e non avrebbe
cominciato proprio adesso.
Varcò la soglia del club e subito capì senz'ombra di dubbio che si trovava in
un posto in cui non avrebbe mai scelto di stare. Era tutto buio, la musica le
martellava le orecchie come una raffica di pugni e l'odore di pelle
surriscaldata le faceva venire voglia di tapparsi il naso.
La femmina fece strada e i due Mori affiancarono Ehlena, aprendosi un
varco coi loro corpi mastodontici attraverso una giungla umana con cui lei
non desiderava minimamente mischiarsi. Cameriere in uniformi nere attillate
servivano infinite variazioni alcoliche, donne seminude si strusciavano contro
uomini in completi eleganti e tutti quelli accanto a cui passava avevano gli
occhi rivolti altrove, come se quello che avevano ordinato o la persona che
avevano di fronte non potesse soddisfarli.
Ehlena venne scortata verso una porta nera rinforzata e, dopo che Trez ebbe
parlato nell'orologio, l'uscio si aprì e lui si fece da parte... come aspettandosi
di vederla entrare senza esitazioni, neanche fosse il salotto di qualcuno.
Già... no, proprio per niente.
Nell'oscurità oltre la soglia, Ehlena vide solo un soffitto nero, pareti nere e
un lucido pavimento nero.
Poi però Rehvenge entrò nel suo campo visivo. Era esattamente come lo
conosceva, un vampiro grande e grosso in pelliccia di zibellino, con una
cresta da moicano, due occhi color ametista e un bastone da passeggio rosso.
E, tuttavia, era un emerito sconosciuto.
Rehvenge guardò la femmina che amava, e sul suo volto pallido e teso vide
esattamente ciò che aveva voluto ispirarle.
Disgusto.
«Non vuoi entrare?» disse; doveva portare a termine il lavoro che aveva
iniziato.
Ehlena guardò Xhex. «Lei è della sicurezza, giusto?» Xhex si accigliò, ma
annuì. «Allora venga dentro con me. Non voglio stare da sola con lui.»
Quelle parole furono per lui come una coltellata alla gola, ma non lasciò
trapelare alcuna reazione quando Xhex entrò nella stanza, seguita da Ehlena.
La porta si chiuse, la musica si affievolì e il silenzio divenne assordante
come un grido.
Ehlena guardò la scrivania di Rehv, su cui lui aveva deliberatamente
lasciato venticinquemila dollari in contanti e un panetto di cocaina avvolto
nel cellofan.
«Mi avevi detto di essere un uomo d'affari», disse. «Immagino sia colpa mia
aver dato per scontato che fossero affari legali.»
Lui non riusciva a fare altro che fissarla... gli mancava la voce, il fiato corto
non era in grado di veicolare le parole. L'unica cosa che poteva fare,
vedendola così, rigida e furiosa davanti a sé, era memorizzarla, dal modo in
cui aveva raccolto i capelli di un biondo ramato agli occhi color nocciola, dal
semplice cappotto nero al modo in cui teneva le mani in tasca, come se non
volesse toccare niente.
Non voleva ricordarla così, ma dato che quella era l'ultima volta che la
vedeva non poteva fare a meno di mettere a fuoco ogni dettaglio.
Ehlena spostò gli occhi dalla droga ai soldi, al viso di lui. «Allora è vero?
Tutto quello che ha detto la tua ragazza?»
«E la mia sorellastra. E, sì, è tutto vero.»
La femmina che amava fece un passo indietro, allontanandosi da lui, e per
la paura tirò fuori una mano dalla tasca portandola alla gola. Rehv sapeva
perfettamente cosa stava pensando: lui che succhiava il suo sangue, loro due
nudi nel suo attico. Ehlena stava rielaborando i ricordi, venendo a patti col
fatto che al suo collo si era attaccato non un vampiro.
Ma un symphath.
«Perché mi hai fatto venire qui?» disse lei. «Avresti potuto dirmelo
semplicemente al telefono... no, non fa niente. Adesso vado a casa. Non
cercarmi mai più.»
«Come vuoi», disse lui con voce strozzata, inchinandosi leggermente.
Lei si voltò e andò a fermarsi davanti alla porta. «Qualcuno per favore può
farmi uscire?»
Dopo che Xhex ebbe aperto la via verso la libertà, Ehlena quasi scappò via
da lui.
Quando la porta si chiuse, Rehv fece scattare la serratura con la forza del
pensiero e rimase immobile dove lo aveva lasciato lei.
Rovinato. Era completamente rovinato. E non perché stava per consegnare
se stesso e il proprio corpo a una sociopatica sadica che si sarebbe goduta
ogni minuto delle torture inflittegli.
Quando vide tutto rosso capì che non era il suo lato malvagio a venire a
galla. Impossibile. Nelle ultime dodici ore si era sparato in vena una quantità
di dopamina sufficiente a far schiattare un cavallo, perché altrimenti temeva
di non riuscire a lasciare andare Ehlena. Aveva dovuto ingabbiare un'ultima
volta il suo lato malvagio... per poter fare la cosa giusta, per la giusta ragione.
Perciò no, quel rosso non era il preludio della visione piatta e del ritorno
della sensibilità in tutto il corpo.
Rehvenge tirò fuori dalla giacca del completo uno dei fazzoletti che sua
madre aveva stirato e si premette sotto gli occhi il quadrato di stoffa piegato
con cura. Le lacrime rosso sangue che stava versando non erano solo per
Ehlena e per se stesso, no, in ballo c'era molto di più. Bella aveva perso sua
madre da non più di quarantott'ore.
Ed entro la fine della nottata avrebbe perso anche suo fratello.
Fece un respiro lungo e profondo, talmente profondo che sentì male alle
costole. Poi mise via il fazzoletto e si accinse a seppellire la sua vita.
Una cosa era certa: la principessa l'avrebbe pagata cara. Non per quello che
gli aveva fatto e che ancora gli avrebbe fatto. Al diavolo, quello aveva ben
poca importanza.
No. Aveva osato avvicinare la sua femmina. Per questo l'avrebbe
massacrata, anche se al solo pensiero si sentiva morire.
Capitolo 55
« Sei soddisfatta adesso? Di averlo scaricato così?». Ehlena si fermò davanti
all'uscita laterale del club, voltandosi a guardare da sopra la spalla la tizia
della sicurezza.
«Visto che non sono assolutamente affari suoi, non risponderò alla sua
domanda.»
«Per tua informazione, lui si è cacciato in una situazione di merda per me,
per sua madre e per sua sorella. E tu ti credi troppo superiore per lui?
Complimenti. Da dove cavolo arrivi, per essere tanto perfetta?»
Ehlena si rivoltò contro quella femmina, anche se era tutt'atro che un
confronto alla pari, visto il fisico della sua avversaria. «Io non gli ho mai
mentito... le basta questo? E non è neanche perfetto, è normale.»
«Lui fa quello che deve per sopravvivere. Il che è assolutamente normale
anche per i symphath, oltre che per quelli come te. Solo perché hai avuto una
vita facile...»
«Lei non mi conosce», sbottò Ehlena andandole sotto a muso duro.
«E non ci tengo neanche.»
«Figurati io.» Iltroia rimase sottinteso.
«Sì, okay, basta», fece Trez, separandole. «Vediamo di darci una bella
calmata, okay? Adesso ti accompagno a casa», disse rivolto a Ehlena, «E tu»,
riprese indicando quell'altra, «vai a vedere se lui sta bene.»
«Sta' attenta a te», sibilò l'addetta alla sicurezza guardando in cagnesco
Ehlena.
«E perché? Pensi di presentarti alla mia porta? Sai cosa me ne frega... a
confronto di quella pazza che ho visto ieri sera tu sei una Barbie.»
Trez e la femmina restarono di sasso.
«Chi si è presentato alla tua porta?» chiese la tipa della sicurezza.
Ehlena guardò Trez. «Posso andare a casa, adesso?»
«Chi era?» la incalzò lui.
«Una bambola kabuki con problemi relazionali.»
«Devi traslocare», dissero i due all'unisono.
«Suggerimento grandioso. Grazie.» Ehlena li spinse via e andò alla porta.
Quando provò ad aprirla, naturalmente, la trovò chiusa a chiave, perciò poté
solo aspettare un'altra volta che la facessero uscire. Già, be', 'fanculo.
Mordendosi il labbro inferiore afferrò la maniglia e cominciò a tirare, pronta a
scardinarla pur di scappare.
Per fortuna Trez si avvicinò, liberandola come un uccellino in gabbia, e lei
volò fuori dal club nell'aria gelida, lontana dal caldo, dal chiasso, dalla eàlea
di gente e dalla disperazione che la soffocava.
O forse il senso di soffocamento veniva dal suo cuore spezzato.
Che importanza aveva?
Attese di nuovo, stavolta davanti alla portiera della Bentley. L'ideale
sarebbe stato poter fare a meno della macchina per tornare a casa, ma le ci
sarebbe voluto un secolo prima di riuscire a ritrovare anche solo metà della
calma necessaria per respirare normalmente, figurarsi poi per
smaterializzarsi.
Durante il viaggio di ritorno non fece caso a niente, le strade per cui
passarono, i semafori a cui si fermarono, le altre macchine intorno a loro. Se
ne stava seduta sul sedile posteriore della Bentley, praticamente priva di
conoscenza, il viso voltato verso il finestrino, gli occhi ciechi.
Un symphath. Che andava a letto con la sua sorellastra. Pappone. Trafficante
di droga. Anche assassino, senz'ombra di dubbio...
Via via che si allontanavano dal centro faceva sempre più fatica a respirare.
Il peggio era che non riusciva a dimenticare l'immagine di Rehvenge
inginocchiato davanti a lei con in mano le sue Keds da quattro soldi, gli occhi
color ametista dolci e gentili e la voce più bella della musica di un violino.
Non lo capisci, Ehlena? Qualunque cosa indossi... per me sarai sempre una
regina.
Quello sarebbe stato uno dei due fantasmi di Rehvenge. Se lo sarebbe
ricordato in ginocchio, ai suoi piedi, paragonandolo a colui che aveva visto in
quel club, pochi minuti prima, la sua verità ormai rivelata.
Aveva voluto credere a una favola. E l'aveva fatto. Ma come il povero,
giovane Stephan, l'illusione era morta e la sua decomposizione era
orripilante: un cadavere gelido e massacrato che lei avrebbe avvolto in
razionalizzazioni e rielaborazioni odorose non di erbe, ma di lacrime.
Chiuse gli occhi e si appoggiò contro lo schienale morbido come burro.
Alla fine l'auto rallentò e si fermò, e lei allungò la mano verso la maniglia
della portiera. Trez l'anticipò, aprendola.
«Posso dire una cosa?» mormorò.
«Certo.» Tanto non lo avrebbe ascoltato, qualunque cosa fosse. La nebbia
che l'avvolgeva era troppo fitta, il suo mondo ormai simile a quello che suo
padre cercava di creare: limitato unicamente a ciò che sentiva più vicino... il
dolore.
«Non l'ha fatto senza un motivo.»
Ehlena guardò Trez. Era così franco, così sincero. «Certo che no. Voleva
farmi credere alle sue bugie e adesso la sua copertura è saltata. Non c'era più
niente dietro cui nascondersi.»
«Non intendevo questo.»
«Mi avrebbe detto la verità, se non lo avessero smascherato?» Silenzio.
«Ecco la risposta.»
«Tu non conosci tutta la storia.»
«Dice? Forse invece è lei che ha bisogno di credere che ci sia sotto chissà che
cosa. Non trova?»
Ehlena sì voltò ed entrò da una porta che poteva aprire e chiudere a chiave
da sola. Accasciandosi contro lo stipite guardò tutte le cose che la
circondavano, così squallide e familiari, e le venne voglia di piangere.
Non sapeva come sarebbe riuscita a superarla, questa. Proprio non lo
sapeva.
Appena la Bentley fu partita, Xhex si fiondò nell'ufficio di Rehv. Bussò una
volta senza ricevere risposta; allora digitò il codice d'accesso e aprì la porta.
Rehv, dietro la scrivania, batteva sulla tastiera di un computer portatile.
Accanto a lui c'era il cellulare nuovo, una busta di plastica con delle grosse
pillole bianchicce e una confezione di M&M's.
«Sapevi che la principessa è andata a trovarla?» chiese Xhex. Quando Rehv
non rispose, imprecò. «Perché non me l'hai detto?»
Rehv continuò a battere sui tasti, il ticchettio sommesso come una tranquilla
chiacchierata in biblioteca. «Perché era irrilevante.»
«Col cavolo. L'ho quasi picchiata per...»
Due terrificanti occhi viola si alzarono dallo schermo. «Non ti azzardare a
toccare Ehlena. Mai. »
«Falla finita, Rehv, ti ha trattato da schifo. Credi che sia stato divertente
stare a guardare?»
Lui le puntò l'indice contro. «Non sono affari tuoi. E non azzardarti mai e
poi mai a toccarla. Intesi?»
Gli occhi color ametista lampeggiarono in segno di avvertimento, neanche
gli avessero ficcato una torcia elettrica su per il culo e l'avessero accesa. Be',
okay, pensò Xhex... evidentemente stava guardando giù dal bordo di una
scogliera e se fosse avanzata ancora un po' avrebbe fatto un bel tuffo senza
paracadute. «Sarebbe stato carino sapere in anticipo che volevi farti scaricare,
voglio dire solo questo.»
Rehv ricominciò a battere sulla tastiera del computer. v «Allora era quella la
telefonata di ieri sera», lo incalzò Xhex. «È stato allora che hai scoperto che la
tua ragazza aveva ricevuto la visita di quella troia.» «Già.»
«Avresti dovuto dirmelo.»
Non ebbe il tempo di strappargli una risposta; uno squittio nell'auricolare
precedette la voce di uno dei buttafuori: «C'è qui il detective de la Cruz che
vuole vederti.»
Xhex alzò il polso e parlò nel transistor. «Portalo nel mio ufficio. Arrivo
subito. E fai uscire le ragazze dall'area VIP.»
«La polizia?» bofonchiò Rehv continuando a battere sui tasti. «Sì.»
«Sono contento che hai fatto fuori Grady. Non sopporto chi picchia la
propria moglie.»
«C'è niente che possa fare per te?» chiese rigida Xhex, sentendosi tagliata
fuori. Voleva aiutarlo, consolarlo, prendersi cura di lui, ma voleva farlo alle
sue condizioni: non certo preparandogli un bel bagno con tante bollicine e
una cioccolata bollente; 'fan- culo, no, lei voleva ammazzare la principessa.
Rehv alzò di nuovo gli occhi. «Come ti ho detto ieri sera, ti chiederò di
occuparti di una persona.»
Xhex dovette nascondere tutta la sua delusione. Se Rehv aveva in mente di
chiederle di assassinare la principessa non aveva motivo di trascinare lì la sua
ragazza, fare tutta ima sceneggiata per rivelarle quello su cui le aveva mentito
e lasciarsi buttare nel bidone della spazzatura neanche fosse un pezzo di
carne avariata.
Merda, doveva essere la sua ragazza, Ehlena. Rehv le avrebbe chiesto di
assicurarsi che non le succedesse niente e, conoscendolo, probabilmente
avrebbe anche cercato di aiutarla finanziariamente: a vederla, vestita in modo
così semplice, senza gioielli e con quell'aria tutt'altro che stupida, non
sembrava piena di soldi.
Bel divertimento. Convincerla ad accettare dei quattrini da uno che odiava
sarebbe stato un vero spasso.
«Tutto quello che vuoi», disse Xhex rigida, uscendo.
Facendosi strada nel locale, si augurò che nessuno l'accarezzasse
contropelo, specie vista la presenza di uno sbirro.
Quando finalmente giunse davanti al suo ufficio, tenne a freno la
frustrazione e aprì la porta, stampandosi un sorriso fasullo sulla faccia. «'Sera,
detective.»
De la Cruz si voltò. In mano aveva una piantina d'edera non più grande del
suo palmo. «Le ho portato un regalo.»
«Gliel'ho detto, non ci so fare con le cose vive.»
Lui posò il vasetto sulla scrivania. «Si può sempre cominciare piano piano,
chissà.»
Xhex si sedette guardando quella piantina delicata, sopraffatta da un senso
di panico. «Non credo...»
«Prima di dire che non posso regalarle niente perché sono un pubblico
ufficiale», de la Cruz tirò fuori di tasca uno scontrino, «non è costata neanche
tre dollari, meno di un caffè da Starbucks.»
Posò la strisciolina di carta accanto al vasetto di plastica verde scuro.
Xhex si schiarì la gola. « Be', per quanto apprezzi il suo interesse per il mio
arredamento...»
«I suoi gusti in fatto di mobili non c'entrano niente.» De la Cruz sorrise e si
sedette. «Sa perché sono qui?»
«Ha trovato l'uomo che ha assassinato Chrissy Andrews?»
«Già, proprio così. E, se mi perdona l'espressione, era di fronte alla lapide
della ragazza con l'uccello tagliato e ficcato in bocca.»
«Ahia. Che male.»
«Le spiace dirmi dove si trovava ieri sera? O prima preferisce chiamare il
suo avvocato?»
«Perché? Me ne serve uno? Non ho niente da nascondere. Sono stata qui
tutta la sera. Chieda a uno qualunque dei buttafuori.»
«Tutta la sera.» «Già.»
«Ho .trovato delle impronte di scarpe sulla scena del delitto. Piuttosto
piccole, probabilmente anfibi.» Guardò per terra. «Tipo quelli che porta lei.»
«Sono stata su quella tomba, naturalmente. Sono in lutto per un'amica.»
Alzò bene le suole per fargliele vedere, ben sapendo che gli anfibi erano di
una marca e di un modello diversi da quelli che portava la sera prima. Di un
numero diverso, anche, tin quarantino abbondante invece di un quaranta, per
via dell'imbottitura.
«Hmm.» Dopo la sua ispezione, de la Cruz si appoggiò all'in- dietro e unì la
punta delle dita, i gomiti appoggiati sui braccioli in acciaio inossidabile della
sedia. «Posso essere franco con lei?»
«Certo.»
«Io penso che sia stata lei a ucciderlo.»
«Davvero?»
«Sì. È stato un crimine violento; i particolari suggeriscono che è stato
commesso con un intento vendicativo. Vede, il coroner è
convinto, come me, che la vittima fosse viva quando è stata... diciamo,
torturata. E non è stato un lavoro raffazzonato. Grady è stato menomato in
modo professionale, come se l'assassino fosse addestrato a uccidere.»
«Questo è un quartiere tosto, e Chrissy aveva parecchi amici tosti. Potrebbe
essere stato uno qualunque di loro.»
«Al funerale c'erano soprattutto donne.»
«E lei non crede che una femmina sia capace di una cosa simile? Piuttosto
sessista, detective.»
«Oh, lo so che le donne possono uccidere. Si fidi. E... lei sembra proprio il
tipo di femmina capace di farlo.»
«Sta tracciando il mio profilo? Solo perché mi vesto di pelle nera e mi
occupo della sicurezza in un locale notturno?»
«No. Ero con lei quando ha identificato il cadavere di Chrissy. Ho visto
come l'ha guardata, per questo penso che sia stata lei. Lei ha il movente della
vendetta e aveva l'opportunità, perché chiunque avrebbe potuto sgattaiolare
fuori di qui per un'ora, sistemare la faccenda e tornare.» De la Cruz si alzò e
andò alla porta, fermandosi con la mano sulla maniglia. «Le consiglio di
cercarsi un buon avvocato. Ne avrà bisogno.»
«È fuori strada, detective.»
Lui scosse lentamente la testa. «Io non credo. Vede, quasi tutte le persone
con cui parlo, quando c'è di mezzo un cadavere, la prima cosa che mi dicono,
che sia vero o meno, è che non sono stati loro. Lei non ha detto niente di
neanche lontanamente simile.»
«Forse non sento il bisogno di difendermi.»
«Forse non prova nessun rimorso perché Grady era una testa di cazzo che
ha massacrato di botte una ragazza, e quel crimine non le va giù proprio
come non va giù a nessuno di noi.» De la Cruz aveva gli occhi tristi e stanchi
quando girò la maniglia. «Perché non ha lasciato che fossimo noi a beccarlo?
Lo avemmo arrestato. Sbattuto in galera. Avrebbe dovuto lasciar fare a noi.»
«Grazie della piantina, detective.»
Lui annuì, come se avessero appena fissato le regole del gioco e trovato un
accordo sul campo su cui disputare la partita. «Si trovi quell'avvocato. Alla
svelta.»
Quando la porta si chiuse, Xhex si appoggiò all'indietro sulla sedia e
guardò l'edera. Che bel verde, pensò. Le piaceva anche la forma delle foglie,
quella simmetria appuntita era gradevole alla vista, e le venature sottili
formavano un motivo grazioso.
Alla fine avrebbe fatto morire quella povera piantina innocente, sicuro
come l'oro.
Quando bussarono alla porta alzò gli occhi. «Avanti.»
Entrò Marie-Terese, profumata di Euphoria di Calvin Klein e
con addosso un paio di blue jeans comodi e una camicia bianca.
Evidentemente non aveva ancora attaccato a lavorare. «Ho appena finito il
colloquio con due ragazze.»
«Ti sono piaciute?»
«Una nasconde qualcosa, non so bene cosa. L'altra è okay, anche se si è
rifatta le tette, ma l'intervento è riuscito male.»
«Dobbiamo mandarla dal dottor Malik?»
«Credo di sì. E carina, può sfilare un bel po' di centoni ai clienti. Vuoi
parlarci?»
«Adesso no, però sì. Domani séra, magari?»
«La faccio venire qui, basta che mi dici l'ora...»
«Posso chiederti una cosa?»
Marie-Terese annuì senza esitare. «Tutto quello che vuoi.»
Nel silenzio che seguì, Xhex fu lì lì per tirar fuori la scopata di John e Gina
nel bagno. Ma cosa c'era da sapere? Era stata solo una transazione d'affari del
tutto comune, lì al club.
«Sono stata io a mandarlo da Gina», disse piano Marie-Terese.
Xhex alzò gli occhi di scatto. «Chi?»
«John Matthew. L'ho mandato io da lei. Ho pensato che sarebbe stato più
semplice.»
Xhex giocherellava coi Caldwell Courier Journal sulla scrivania. «Non
capisco di cosa stai parlando.»
Marie-Terese fece ima faccia della serie "sì come no", ma ebbe il buon gusto
di lasciar cadere l'argomento. «A che ora, domani sera?»
«Per cosa?»
«Per vedere la nuova ragazza.»
Ah, giusto. «Diciamo alle dieci.»
«Aggiudicato.» Marie-Terese si voltò.
«Ehi, mi faresti un favore?» Quando la donna si voltò, Xhex le allungò la
piantina di edera. «Ti spiace portare a casa questa? E, tipo, non so... cerca di
non farla morire.»
Marie-Terese lanciò un'occhiata all'edera, si strinse nelle spalle e tornò
indietro a prenderla. «A me piacciono le piante.»
«Vuol dire che questa fortunella ha appena vinto alla lotteria. Perché a me
invece no.»
Capitolo 56
Rehvenge digitò CTRL-S sulla tastiera del portatile, allungandosi
afi'indietro per recuperare i fogli che la stampante sputava fuori uno a uno.
Quando l'apparecchio emise un ultimo ronzio e un sospiro finale, Rehv si
mise davanti il fascio di fogli, separò debitamente le pagine, siglò ciascuna di
esse con le sue iniziali nell'angolo in alto a destra e infine firmò col suo nome
tre volte. Stessa firma, stesse lettere, stesso corsivo illeggibile.
Non chiamò Xhex a fare da testimone. E neanche Trez.
Fu iAm a presenziare. Il Moro firmò dove doveva firmare col nome che
aveva assunto per scopi umani al fine di validare il testamento e il
trasferimento dei beni mobili e immobili. Fatto ciò, procedette a firmare col
suo vero nome una missiva nell'Antico Idioma, oltre a un certificato
genealogico.
Alla fine Rehv mise tutto in una valigetta nera Louis Vuitton in pelle Epi e
la diede ad iAm. «Voglio che la porti fuori di qui nel giro di mezz'ora. Anche
a costo di metterla ko. Assicurati che ci sia anche tuo fratello e che tutto il
personale sia andato via.»
iAm non disse nulla. Tirò fuori il coltello che portava infilato nella cintura,
dietro la schiena, se lo passò sul palmo e tese la mano, lasciando gocciolare il
sangue denso e azzurro sulla tastiera del laptop. Era tranquillo, proprio come
lo voleva Rehv, assolutamente calmo e impassibile.
Motivo per cui, già da tempo, era stato il prescelto per le cose più toste.
Alzandosi per stringere la mano tesa di iAm, Rehv deglutì a fatica. Dopo
aver siglato il giuramento di sangue con una stretta di mano, si concessero un
abbraccio vigoroso, virile.
«Ho avuto modo di conoscerti bene. Ti ho voluto bene come carne della mia carne.
Ti renderò onore in eterno», disse piano iAm nell'Antico Idioma.
«Prenditi cura di lei, okay? Per un po' darà i numeri.»
«Trez e io faremo quello che va fatto.»
«Lei non ha nessuna colpa. Non è responsabile dell'inizio né della fine di
tutta questa storia. Xhex deve convincersene.»
«Lo so.»
Si separarono e Rehv faticò a lasciar andare la spalla del suo vecchio amico,
soprattutto perché quello era l'unico addio che si sarebbe concesso: Xhex e
Trez si sarebbero ribellati a quello che stava per fare, avrebbero cercato di
contrattare altre soluzioni, lottando con le unghie e con i denti per un esito
diverso. iAm era più fatalista. Più realista, anche, perché non c'era altra
soluzione.
«Vai», disse Rehv con voce strozzata.
iAm si mise la mano insanguinata sul cuore, poi, con un profondo inchino,
uscì senza guardarsi indietro.
Rehv si tirò su il polsino per controllare l'orologio; gli tremavano le mani. Il
club stava chiudendo proprio adesso, alle quattro di mattina; gli addetti alle
pulizie arrivavano alle cinque in punto. Il che significava che, dopo che tutti
se n'erano andati, gli restava una mezz'oretta.
Prese il telefonino e andò in camera da letto, facendo un numero che
chiamava spesso.
Chiuse la porta e la voce di sua sorella gli giunse calda sulla linea. «Ehilà,
fratellone.»
«Ehilà.» Rehv si mise a sedere sul letto, non sapendo cosa dire.
In sottofondo, Nalla piagnucolava lamentosa e Rehv rimase come
paralizzato. Gli sembrava di vederle insieme, quelle due, la piccola contro la
spalla di sua sorella, un fragile fagottino di futuro avvolto in una morbida
coperta impreziosita da un nastro di raso.
Per i mortali l'unico infinito possibile sono i figli, giusto?
Lui non ne avrebbe mai avuti.
«Rehvenge? Ci sei? Stai bene?»
«Sì. Ho chiamato solo perché... volevo dirti...» Addio. «Che ti voglio bene.»
«Sei molto gentile. E dura, vero? Senza mahmen.»
«Già. E vero.» Strinse le palpebre con forza e, neanche a farlo apposta, Nalla
cominciò a piangere sul serio, con uno strillo che si insinuò gorgheggiando
dentro il telefono.
«Scusa per il mio piccolo stereo portatile», scherzò Bella. «Non dorme se
non cammino in continuazione e ho i piedi che cominciano a cedere.»
«Senti... ricordi quella ninna nanna che ti cantavo sempre? Quando eri
piccolina?»
«Oh, mio Dio, quella sulle quattro stagioni? Sì! Erano anni che non ci
pensavo... Me la cantavi quando non riuscivo a dormire. Anche quand'ero un
po' più grande.»
Sì, proprio quella, pensò Rehv. Quella ricavata direttamente dagli Antichi
Miti sulle quattro stagioni dell'anno e della vita, quella che aveva aiutato lui e
sua sorella a superare un sacco di giornate insonni, lui a cantare e lei a
riposare.
«Com'è che faceva?» disse Bella. «Non riesco...»
Rehv cominciò a cantare, incerto all'inizio, le parole incespicavano,
affiorando con difficoltà dalla memoria arrugginita, la melodia tutt'altro che
intonata perché la sua voce era sempre stata troppo profonda per la tonalità
in cui era stata scritta la nenia.
«Oh... sì, fa proprio così», sussurrò Bella. «Ecco, ti metto in vivavoce...»
Ci fu un bip seguito da una eco, poi, sentendolo cantare, Nalla a poco a
poco smise di piangere, le fiamme spente da una pioggerella sottile di parole
antiche.
Il manto verde chiaro della primavera... il velo sfolgorante dell'estate...
l'abito freddo dell'autunno.... la coltre gelida dell'inverno... Stagioni non solo
della Terra, ma di ogni essere vivente, la vetta verso cui tendere e la vittoria
del coronamento, seguiti dalla caduta dalla sommità e dalla morbida luce
bianca del Fado, l'approdo eterno.
Rehv cantò per due volte tutta la ninna nanna, e il secondo viaggio tra le
parole fu il migliore. Lì si fermò, per non rischiare che il terzo tentativo non
fosse all'altezza.
La voce di Bella era rotta dalle lacrime. «Ci sei riuscito. L'hai fatta
addormentare.»
«Potresti cantargliela anche tu, se vuoi.»
«Lo farò. Assolutamente. Grazie di avermela ricordata. Non so perché non
ci ho pensato prima.»
«Forse alla fine ti sarebbe tornata in mente.»
«Grazie, Rehv.»
«Dormi bene, sorellina.»
«Chiacchieriamo domani, okay? Ti sento un po' sfasato.»
«Ti voglio bene.»
«Oh... anch'io ti voglio bene. Ti chiamo domani.»
Ci fu una pausa. «Riguardati. Abbi cura di te, della tua piccola e del tuo
hellren.»
«Lo farò, fratello carissimo. Ciao.»
Rehv riagganciò e rimase seduto col cellulare in mano. Per non far spegnere
il display premeva i tasti ogni due minuti.
Stava male al pensiero di non poter chiamare Ehlena, non poterle mandare
un SMS, non poterla raggiungere in nessun modo. Ma lei era dove doveva
essere: era meglio se lo odiava piuttosto che piangere la sua morte.
Alle quattro e mezzo ricevette l'SMS che aspettava da iAm. Due parole
soltanto.
Via libera.
Rehv si alzò dal letto. La dopamina si stava esaurendo, ma in corpo ne
aveva ancora abbastanza; senza bastone barcollò, rischiando di perdere
l'equilibrio. Appena gli parve di essere abbastanza stabile, si tolse zibellino,
giacca e armi, lasciando sul letto le pistole che solitamente teneva nella
fondina ascellare.
Era ora di andare, ora di usare il sistema che aveva installato dopo aver
acquistato l'edificio in mattoni del club, ristrutturandolo da cima a fondo.
L'intero stabile era tappezzato di microfoni, e il Dolby non c'entrava: erano
microspie.
Tornato in ufficio, si sedette alla scrivania e aprì con la chiave l'ultimo
cassetto in basso a destra. Dentro c'era una scatola nera non più grande di un
telecomando del televisore; a parte lui, solo iAm sapeva cos'era e a cosa
serviva. iAm era anche l'unico a sapere delle ossa nascoste sotto il letto, ossa
di un umano grosso modo della taglia di Rehv. D'altronde era stato proprio
iAm a procurarle.
Rehv prese il telecomando e si alzò in piedi, guardandosi intorno un'ultima
volta. Pile ordinate di carte sulla scrivania. Soldi nella cassaforte. Droga nella
stanza di Rally.
Uscì dall'ufficio. Il club era bene illuminato, adesso, dopo l'orario di
chiusura; la sala VIP era coperta dei resti della nottata, come una puttana
troppo sbattuta: c'erano impronte di piedi sul lucido pavimento nero, cerchi
bagnati sui tavoli, tovagliolini appallottolati e abbandonati qui e là nei séparé.
Le cameriere pulivano dopo ogni cliente, ma al buio ci vedevi fino a un certo
punto, se eri un umano.
Dall'altra parte della sala, ora che la cascata ornamentale era spenta, si
vedeva chiaramente il settore aperto a tutti... che non aveva un aspetto
migliore. La pista da ballo era tutta segnata da sfregi e strisciate, c'erano
bastoncini per mescolare i cocktail e carte di lecca-lecca dappertutto, persino
un paio di mutandine dimenticate in un angolo. Sul soffitto si vedeva il
reticolo del sistema di illuminazione laser con le sue travi, i cavi e i faretti e,
senza la musica, le enormi casse acustiche erano in letargo come tanti orsi
bruni in una grotta.
In quello stato il club sembrava Il Mago di Oz smascherato: tutta la magia
che vi si rinnovava, sera dopo sera, tutta l'euforia e l'eccitazione, in realtà
erano solo una miscela di elettronica, alcol e sostanze chimiche, un'illusione
per le persone che varcavano l'ingresso, una fantasia che consentiva loro di
essere quello che non erano nella vita di tutti i giorni. Magari sognavano di
essere potenti perché si sentivano deboli, sexy perché si sentivano orrendi,
oppure chic e ricchi quando non lo erano affatto, o anche giovani quando si
avvicinavano pericolosamente alla mezza età. Magari volevano dimenticare il
dolore di una relazione fallita o vendicarsi per essere stati piantati o fìngere
di non essere a caccia di un compagno quando in realtà lo cercavano
disperatamente.
Uscivano per "divertirsi", certo, ma sotto tutto quel luccichio esteriore c'era
solo tenebra e squallore, Rehv ne era più che sicuro.
Così com'era adesso, il club era la metafora perfetta della sua vita. Il Mago
era lui, che troppo a lungo aveva ingannato le persone più care
confondendosi con la gente normale attraverso un misto di droga, menzogne
e sotterfugi.
Quel tempo era passato.
Rehv fece un ultimo giro del locale prima di uscire dalla porta principale.
L'insegna nero su nero dello ZeroSum era spenta, a indicare che erano chiusi
per la notte. O meglio, chiusi per sempre.
Rehv guardò a destra e a sinistra. Per strada non c'era nessuno, niente auto
o pedoni in vista.
Andò a controllare il vicolo davanti all'ingresso laterale del settore VIP, poi
in fretta attraversò la strada per controllare l'altro vicolo. Niente senzatetto.
Niente nottambuli.
Ritto nel vento gelido, Rehv si concesse un momento per "sentire" gli edifici
intorno al club, in cerca di griglie emotive che indicassero la presenza di
umani. Niente. Era proprio vero: via libera.
Pronto ad agire, attraversò la strada e camminò per due isolati, poi si fermò,
fece scivolare verso il basso il coperchio del telecomando e digitò un codice a
otto cifre.
Dieci... nove... otto...
Avrebbero trovato le ossa incenerite e, per un attimo, si chiese di chi
fossero. iAm non l'aveva detto, e lui non glielo aveva chiesto.
Sette... sei... cinque...
Bella sarebbe stata bene. Aveva Zsadist e Nalla, i fratelli e le loro shellan.
Sarebbe stato tremendo, per lei, ma alla fine si sarebbe ripresa, e comunque
era sempre meglio questo che scoprire una verità che l'avrebbe distrutta: non
doveva mai venire a sapere che sua madre era stata violentata e che suo
fratello era un symphath, un divoratore di peccati.
Quattro...
Xhex sarebbe stata alla larga dalla colonia. Ci avrebbe pensato iAm a farle
rispettare la promessa solenne della sera prima, con cui aveva giurato di
prendersi cura di qualcuno: la lettera che Rehv aveva scritto nell'Antico
Idioma, e per cui aveva chiamato a testimone iAin, era la richiesta che Xhex
.si prendesse cura di se stessa. Le aveva teso un tranello, sì. Doveva aver
pensato che le avrebbe chiesto di uccidere la principessa, o magari di vegliare
su Ehlena. Ma lui era un symphath, no? E Xhex aveva commesso l'errore di
dargli la sua parola senza sapere che tipo di impegno si stava assumendo.
Tre...
Rehv fece scorrere lo sguardo sul tetto del club, immaginando come
sarebbero state le macerie, non solo del locale, ma di quello che stava per
lasciarsi dietro nella vita di tanta gente, andando su al nord.
Due...
Il cuore gli faceva un male del diavolo; perché era in lutto per Ehlena.
Anche se tecnicamente era lui quello che stava morendo.
Uno...
L'esplosione sotto la pista da ballo principale ne innescò altre due, una sotto
il bar della sala VIP e una sulla balconata del mezzanino. Con un boato
tremendo e uno scossone che lo fece tremare fino alle fondamenta, l'edificio
crollò in una nuvola di mattoni e cemento.
Rehvenge barcollò all'indietro andando a sbattere contro la vetrina di un
salone per tatuaggi. Dopo aver ripreso fiato guardò la sottile foschia di
polvere che lentamente si depositava a terra, come neve.
Roma era caduta. E tuttavia era difficile andarsene.
La prima sirena risuonò non più di cinque minuti dopo e lui attese che le
luci rosse lampeggianti risalissero Trade Street a tutta velocità.
Appena le vide chiuse gli occhi, si calmò... e si smaterializzò verso nord.
Verso la colonia.
Capitolo 57
« Ehlena?» La voce di Lusie risuonò giù dalle scale. «Io vado.»
Ehlena si riscosse e guardò l'ora nell'angolo in basso dello schermo del
portatile. Erano le quattro e mezzo? Di già? Dio, le sembrava... be', non
sapeva più se erano ore o giorni che se ne stava seduta alla sua scrivania di
fortuna. Il sito di annunci on line del Caldwell Courier Journal era rimasto
aperto per tutto il tempo, ma lei non aveva fatto altro che tracciare cerchi con
l'indice sul tappetino del mouse.
«Arrivo subito.» Si alzò in piedi stiracchiandosi e si avviò verso le scale.
«Grazie di aver pulito dopo che papà ha cenato.»
In cima alle scale fece capolino Lusie. «Figurati. Ascolta, c'è qui qualcuno
che desidera vederti.»
«Chi?» fece Ehlena mentre nel petto il cuore faceva una capriola all'indietro.
«Uno, non so. L'ho fatto entrare.»
«Oh, Dio», esclamò sottovoce Ehlena. Almeno papà ha mangiato e adesso
dorme sonni tranquilli, pensò, correndo su dal seminterrato. Ci mancava solo
che la presenza di un estraneo in casa lo scombussolasse.
Entrò in cucina, pronta a dire a Rehv, a Trez o a chiunque altro di andare
a...
Un vampiro biondo dall'aria straricca la aspettava vicino al misero tavolo
della cucina, con in mano una valigetta nera. Accanto a lui, Lusie si stava
infilando il cappotto di lana e stava prendendo la cartella patchwork, pronta
per tornare a casa.
«Desidera?» chiese Ehlena, accigliandosi.
Il biondo abbozzò un inchino, portandosi il palmo al petto con fare galante,
e quando parlò la sua voce suonò insolitamente bassa; era la voce tipica di chi
ha studiato. «Sto cercando Alyne, figlio di Uys. Lei è sua figlia?» «Sì.»
«Posso vederlo?»
«Sta riposando. Di cosa si tratta, e lei chi è?»
Il vampiro guardò Lusie, poi infilò la mano nella tasca interna della giacca e
tirò fuori un documento d'identità nell'Antico Idioma. «Sono Saxton, figlio di
Tyhm, un legale assunto dai familiari di Montrag, figlio di Rehm. Di recente
Montrag è passato nel Fado senza eredi diretti e, in base alle mie ricerche
genealogiche, suo padre risulta essere il parente più prossimo e quindi il suo
unico beneficiario.»
Ehlena inarcò le sopracciglia, esterrefatta. «Come, scusi?» Quando Saxton
ripetè ciò che aveva appena detto, lei ancora parve non capire. «Io... ehm...
cosa?»
Mentre l'avvocato faceva un altro tentativo di veicolare il messaggio, il
cervello di Ehlena vagolava nel buio, affannandosi a comprendere. Rehm era
decisamente un nome che le suonava familiare. L'aveva visto tra i documenti
commerciali di suo padre... e anche nel suo manoscritto. Tutt'altro che una
brava persona, anzi. Aveva anche un vago ricordo del figlio, ma niente di
preciso, solo una reminiscenza di quando faceva ancora parte della dorata
cerchia delle debuttanti della glymera.
«Mi scusi», mormorò, «ma questa è una sorpresa.»
«Capisco. Posso parlare con suo padre?»
«Lui non... riceve visite, in verità. Non sta bene. Sono io la sua tutrice
legale.» Si schiarì la gola. «In base all'Antica Legge ho dovuto farlo dichiarare
incapace di intendere e di volere a causa dei suoi... problemi psichici.»
Saxton, figlio di Thym, si inchinò leggermente. «Mi dispiace. Posso
chiederle di mostrarmi dei documenti che attestino la vostra linea di
discendenza? E la dichiarazione di incapacità di intendere e di volere?»
«Ho tutto giù di sotto», poi, rivolta a Lusie, aggiunse, «Tu dovrai andare,
immagino.»
Lusie guardò Saxton e parve giungere alla stessa conclusione cui era giunta
Ehlena. Quel tizio sembrava assolutamente normale e con quel vestito, quel
cappotto e quella valigetta in mano aveva stampata in faccia la parola
avvocato. E il suo documento d'identità era in regola.
«Posso restare, se preferisci», si offrì Lusie.
«No, non c'è bisogno, e poi è quasi l'alba.»
«Va bene, allora.»
Dopo aver accompagnato fuori Lusie, Ehlena tornò dall'avvocato. «Mi scusi
un secondo.»
«Faccia con comodo.»
«Gradisce... ehm, qualcosa da bere? Un caffè?» sperava che dicesse di no,
visto che il meglio che poteva offrirgli era un banale tazzone, mentre lui
sembrava più il genere di persona abituata alle tazze da tè in porcellana di
Limoges.
«Sto bene così, la ringrazio.» Il suo sorriso era sincero e per nulla lascivo.
D'altra parte il suo ideale femminile coincideva sicuramente col tipo di
aristocratica che lei avrebbe potuto essere se le sue finanze fosse state diverse.
E non solo le finanze...
«Torno subito. Prego, si accomodi.» Quantunque, quei suoi pantaloni stirati
con tanta cura rischiavano di ribellarsi se solo avesse provato a poggiare il
fondoschiena su una di quelle orrende seggioline.
Di sotto, in camera sua, Ehlena tirò fuori da sotto il letto una cassettina di
metallo. Portandola al piano di sopra si sentiva come stordita, frastornata
dalle sciagure che le erano piombate addosso come aeroplani in fiamme che
precipitano dal cielo. Cristo, dopo tutto quello che era successo, un avvocato
che si presentava alla sua porta in cerca di eredi perduti sembrava un fatto
quasi... banale. Mah! Meglio non alimentare false speranze, in ogni caso. Per
come andavano le cose, quella "occasione d'oro" di sicuro sarebbe finita dove
ultimamente finiva tutto il resto.
Dritta giù nel cesso.
Giunta in cucina posò la cassetta sul tavolo. «Tengo tutto qui dentro.»
Si sedette e Saxton fece altrettanto, posando la valigetta sul pavimento tutto
rovinato e puntando gli occhi grigi sulla cassetta. Ehlena formò la
combinazione, aprì il pesante coperchio ed estrasse una busta commerciale
color panna e tre rotoli di pergamena, da ognuno dei quali penzolavano
lunghi nastri di raso.
«Questa è la dichiarazione di incapacità», disse aprendo la busta e tirando
fuori un documento.
Saxton diede una scorsa alla missiva, annuendo; allora Ehlena srotolò il
certificato di suo padre, col suo bell'albero genealogico che qualcuno aveva
disegnato con eleganti tratti d'inchiostro nero. In fondo, sopra i nastri gialli,
blu cobalto e rosso scuro, spiccava un sigillo di ceralacca nera su cui era
impresso lo stemma del padre del padre di suo padre.
Saxton prese la valigetta, la aprì e ne estrasse un paio di occhiali da
gioielliere, con cui esaminò ogni centimetro della pergamena.
«Questa è autentica», sentenziò. «Le altre?»
«Eccole. Quella di mia madre e la mia.» Ehlena le srotolò entrambe e il
legale procedette alla medesima ispezione.
Quand'ebbe terminato, si appoggiò allo schienale della sedia e si tolse gli
occhiali. «Posso esaminare un'altra volta i documenti che certificano
l'incapacità di intendere e di' volere di suo padre?»
Ehlena glieli passò e lui lesse, aggrottando le sopracciglia perfettamente
arcuate. «Se non sono troppo indiscreto, posso chiederle qual è l'esatta
condizione di suo padre, dal punto di vista medico?»
«Soffre di schizofrenia. E molto malato e necessita di cure costanti, giorno e
notte.»
Saxton lasciò vagare lentamente lo sguardo per tutta la cucina, notando la
macchia sul pavimento, l'alluminio alle finestre e i vecchi elettrodomestici
ormai allo stremo. «Lei lavora?»
Ehlena si irrigidì. «Non vedo cosa c'entri.»
«Scusi. Ha perfettamente ragione. E solo che...» Aprì di nuovo la valigetta e
tirò fuori un documento rilegato di una cinquantina di pagine e un foglio
elettronico. «Una volta certificato che lei e suo padre siete i parenti più
prossimi di Montrag, e sulla base delle pergamene che mi ha appena
mostrato sono pronto a farlo, i soldi non saranno più una sua
preoccupazione.»
Ciò detto, voltò verso di lei il documento e il foglio elettronico in formato
protocollo e tirò fuori dalla tasca interna una penna d'oro. «Adesso il suo
valore al netto è ragguardevole.»
Con la punta della penna, Saxton indicò la cifra finale nell'angolo in basso a
destra del foglio.
Ehlena guardò. Batté le palpebre.
Poi si chinò completamente sopra il tavolo, fino ad avere gli occhi a non più
di tre centimetri dalla punta della penna, dal foglio e da... quella cifra.
«E... Di quanti zeri stiamo parlando?» sussurrò.
«Sette a sinistra della virgola decimale.»
«E la prima cifra è un tre?»
«Sì. C'è anche una proprietà immobiliare. Nel Connecticut. Può trasferirsi lì
quando vuole, dopo che avrò completato le certificazioni; provvederò a
redigerle domani in giornata e le passerò immediatamente al re per la sua
approvazione.» Saxton si appoggiò allo schienale della sedia. «Legalmente, il
denaro, la proprietà immobiliare e gli effetti personali del defunto, comprese
le opere d'arte, gli oggetti d'antiquariato e le automobili-, apparterranno a suo
padre fino al suo trapasso nel Fado. Ma in base al documento che la dichiara
sua tutrice legale, sarà lei la responsabile di tutto, nell'interesse di suo padre.
Suppongo che nel suo testamento l'abbia dichiarata sua erede, giusto?»
«Ehm... mi scusi, qual era la domanda?»
Saxton sorrise cortese. «Suo padre ha fatto testamento? Lei vi è
menzionata?»
«No... no, non ce l'ha. Non possediamo più niente.»
«Lei ha altri parenti?»
«No. Solo sola. Be', a parte mio padre, da quando mahmen è morta.»
«Vuole che provveda a preparare un testamento in suo favore, in nome e
per conto di suo padre? Se suo padre muore intestato, andrà tutto a lei in
ogni caso, ma un documento ufficiale faciliterà le cose al suo legale, chiunque
egli sia, perché non dovrà ottenere la firma del re sul trasferimento dei beni.»
«Sarebbe... Un momento, lei si fa pagare caro, vero? Non credo che
possiamo...»
«Se lo può permettere.» Saxton picchiettò di nuovo la penna sul foglio
elettronico. «Si fidi.»
Nelle lunghe ore buie dopo la perdita della vista, Wrath ruzzolò giù dalle
scale... davanti a tutti i commensali radunati in sala da pranzo per l'Ultimo
Pasto. Il capitombolo, degno di una scivolata su una buccia di banana, lo fece
volare a gambe all'aria sul mosaico dell'atrio.
Poteva fare una figuraccia peggiore solo sporcandosi tutto di sangue.
Oh, ma... un momento. Portandosi la mano ai capelli per tirarseli indietro,
sentì qualcosa di bagnato e capì subito che non si trattava della sua acquolina.
«Wrath!»
«Fratello...»
«Ma cosa cavolo...»
«Oh porca...»
Tra tutti, Beth fu la prima a raggiungerlo, prendendolo per le spalle mentre
un rivolo di sangue caldo gli colava giù dal naso.
Altre mani lo toccarono nel buio, le mani dei suoi fratelli, le mani delle
shellan che abitavano in casa, tutte mani premurose, preoccupate,
compassionevoli.
In un moto di rabbia, Wrath le spinse via tutte cercando di rimettersi in
piedi. Senza nessuna possibilità di orientarsi, però, finì con un piede
sull'ultimo gradino... il che lo sbilanciò di nuovo. Aggrappandosi al
corrimano, in qualche modo riuscì a non cadere e arretrò goffamente, senza
sapere se stava andando verso la porta d'ingresso, la sala del biliardo, la
biblioteca o la sala da pranzo. Era completamente smarrito in uno spazio che
conosceva come le sue tasche.
«Sto bene», sbraitò. «Sto benissimo.»
Tutti ammutolirono, la sua voce tonante non era per nulla indebolita dalla
cecità, la sua autorità regale restava inattaccabile, anche se lui non vedeva più
un accidente...
Andò a sbattere con la schiena contro un muro facendo tremare
un'applique di cristallo sopra la sua testa, il delicato tintinnio riecheggiò in
modo esagerato in quel silenzio di tomba.
Dannazione. Non poteva andare avanti così, sbattendo dappertutto peggio
che su un autoscontro e cadendo a ogni piè sospinto. Già, ma, mica poteva
farci niente.
Da quando le sue luci si erano spente aveva aspettato che gli occhi
ricominciassero a funzionare. Col passare del tempo, però, in assenza di
risposte concrete da parte di Havers e di fronte alla perplessità di Jane, quella
che in cuor suo sapeva essere la verità cominciò a farsi strada nella sua testa:
la tenebra in cui era piombato era la nuova terra su cui doveva camminare.
O cadere, nella fattispecie.
Mentre sopra la sua testa l'applique smetteva di vibrare, ogni parte del
corpo invece urlava disperatamente... Wrath si augurò che nessuno,
nemmeno Beth, si azzardasse a toccarlo, parlargli o dirgli che tutto si sarebbe
sistemato.
Niente si sarebbe mai più sistemato. Lui non avrebbe riacquistato la vista,
qualunque cosa tentassero i medici; poteva nutrirsi, riposarsi e prendersi cura
di se stesso quanto voleva, ma sarebbe rimasto cieco. Ben prima che V gli
accennasse della sua visione, Wrath sapeva che quel momento sarebbe
arrivato: la sua vista era peggiorata nei secoli, diventando sempre meno
acuta. E i mal di testa di cui soffriva da anni, negli ultimi dodici mesi si erano
fatti ancora più feroci.
Sapeva che sarebbe finita così. Lo sapeva da sempre e l'aveva sempre
ignorato, ma adesso era un dato di fatto.
«Wrath.» Fu Mary, la shellan di Rhage, a rompere il silenzio, con voce
pacata, tranquilla e per nulla frustrata o nervosa. Il contrasto col caos che gli
agitava la mente lo fece voltare verso quel suono, anche se non riuscì a dirle
niente perché aveva perso la voce. «Wrath, allunga la mano sinistra. Troverai
lo stipite della porta della biblioteca. Spostati e fai quattro passi indietro
dentro la stanza. Io ti guiderò parlando e Beth verrà con me.»
Quelle parole, così pacate e ragionevoli, erano come una mappa attraverso
una giungla irta di spine; Wrath seguì le indicazioni con tutta la disperazione
di un viaggiatore che ha smarrito la strada. Allungò la mano e... sì, ecco la
modanatura irregolare intorno alla porta. Strascicando i piedi si spostò di
lato, usò entrambe le mani per oltrepassare gli stipiti, poi fece quattro passi
indietro.
Sentì un sommesso rumore di passi. Di due persone. Poi le porte della
biblioteca che si chiudevano.
Capì dov'erano le due femmine dal flebile soffio del loro respiro e per
fortuna nessuna delle due gli andò troppo vicino.
«Wrath, penso che dovremo fare qualche piccolo cambiamento.» Era la
voce di Mary e veniva da destra. «Temporaneamente, nel caso la tua vista
tardi a tornare.»
Bel modo di confezionare una brutta notizia, pensò lui.
«Del tipo?» bofonchiò.
Fu Beth a rispondere; evidentemente le due femmine ne avevano già
discusso. «Un bastone per aiutarti a non perdete l'equilibrio, e del personale
extra che ti assista nel tuo studio, così potrai ricominciare a lavorare.»
«E magari anche qualche altro tipo di aiuto», aggiunse Mary.
Digerì quelle parole col cuore che gli rombava nelle orecchie, cercando per
quanto possibile di ignorarlo. Già, facile a dirsi. Quando si ritrovò madido di
sudore - un sudore freddo che si raccoglieva sul labbro superiore e sotto le
ascelle - non sapeva se attribuirlo alla paura o allo sforzo di non crollare
davanti a Mary e Beth.
Probabilmente a tutte e due le cose. Perdere la vista era brutto, ma ciò che
più lo faceva impazzire era il senso di claustrofobia. Senza punti di
riferimento visivi era intrappolato nello spazio ristretto sotto allo strato di
epidermide, prigioniero del suo stesso corpo, senza via d'uscita.», e lui
andava in crisi in situazioni del genere. Gli ricordavano troppo da vicino
quando si era nascosto sotto il pavimento, da piccolo... chiuso a chiave in uno
spazio angusto a guardare i lesser che trucidavano i suoi genitori...
A quel ricordo straziante gli cedettero le ginocchia; perse l'equilibrio e
barcollò di lato, sul punto di cadere. Fu Beth a sorreggerlo e a spostarlo con
delicatezza in modo da farlo crollare sul divano.
Cercando di respirare, Wrath le strinse forte la mano e quel contatto fu
l'unica cosa che gli impedì di scoppiare in singhiozzi come uno smidollato.
Il mondo era sparito... Il mondo era sparito... il mondo era...
«Wrath», disse Mary, «ricominciare a lavorare ti aiuterà molto, e nel
frattempo noi possiamo facilitarti le cose. Esistono soluzioni che possono
rendere le cose più sicure e grazie alle quali puoi riabituarti al...»
Mary parlava ma lui non la sentiva. Riusciva solo a pensare che non
avrebbe più potuto combattere, mai più. Non avrebbe più potuto muoversi
senza problemi per casa, mai più. Non avrebbe più potuto avere un'idea,
seppur vaga, di quello che aveva nel piatto, o di chi c'era al suo tavolo, o di
com'era vestita Beth. Non sarebbe più stato capace di farsi la barba, di trovare
i vestiti nell'armadio, di vedere dov'era lo shampoo o il sapone. Come
avrebbe fatto ad allenarsi? Non sarebbe stato in grado di trovare i pesi che
voleva, di avviare il tapis roulant o... merda, di allacciarsi le scarpette da
corsa...
«Mi sembra di essere morto», disse con voce strozzata. «Se è così che dovrà
essere in futuro... è come se la persona che ero... fosse morta.»
La voce di Mary veniva da un punto proprio di fronte a lui. «Wrath, ho
visto persone superare esattamente quello contro cui ti stai scontrando tu. I
miei pazienti autistici e i loro genitori hanno dovuto imparare a guardare le
cose in un modo nuovo. Ma per loro non era finita. Non c’era la morte, solo
un tipo di vita diverso.»
Mentre Mary parlava, Beth gli accarezzava l'interno del braccio, facendo
scorrere la mano su e giù sul tatuaggio raffigurante la stirpe reale. Quella
carezza lo fece pensare ai tanti vampiri, maschi e femmine, che lo avevano
preceduto, il loro coraggio messo a dura prova da continue sfide interne ed
esterne.
Si accigliò, improvvisamente imbarazzato dalla propria debolezza. Se suo
padre e sua madre fossero stati ancora vivi si sarebbe vergognato di
comportarsi così. E neanche Beth... la sua amata, la sua compagna, la sua
shellan, la sua regina avrebbe dovuto vederlo così.
Wrath, figlio di Wrath, non avrebbe dovuto piegarsi sotto il fardello che gli
era toccato in sorte. Avrebbe dovuto caricarselo sulle spalle. Questo facevano
i membri della confraternita. Questo faceva un re. Questo faceva un vampiro
di valore. Avrebbe dovuto farsi coraggio sotto quel peso, sollevarsi al di
sopra del dolore e della paura, mostrarsi forte non solo per le persone che
amava, ma per se stesso.
Invece ruzzolava giù dalle scale come un ubriaco.
Si schiarì la gola. Poi dovette schiarirsela un'altra volta. «Devo... devo
andare a parlare con una persona.»
«Okay», disse Beth. «Possiamo portartela qui, chiunque si...»
«No, ci vado da solo. Scusate.» Si alzò e fece un passo avanti... finendo
dritto contro il tavolino. Soffocando un'imprecazione si massaggiò lo stinco e
disse, «Vi spiace lasciarmi solo? Per favore.»
«Posso...» la voce di Beth si incrinò. «Posso pulirti la faccia?»
Distrattamente, lui si passò la mano sulla guancia e sentì qualcosa di
bagnato. Sangue. Sanguinava ancora. «Non fa niente. Sto bene.»
Ci fu un sommesso strusciare di piedi mentre le due femmine andavano
alla porta, poi lo scatto della serratura quando una di loro girò la maniglia.
«Ti amo, Beth», disse in fretta Wrath.
«Ti amo anch'io.»
«Andrà... tutto bene.»
Con un altro scatto la porta si richiuse.
Wrath si sedette sul pavimento nel punto esatto in cui si trovava, non
fidandosi a circumnavigare la biblioteca per trovare una posizione migliore.
Mentre si metteva comodo, il crepitio del fuoco nel camino gli offrì un quadro
di riferimento... poi si rese conto che riusciva a vedere mentalmente tutta la
stanza.
Se allungava il braccio verso destra... sì. Sfiorò con la mano una delle gambe
lisce del tavolo vicino al divano. Risalì fino al fondo quadrato, batté la mano
sul piano del tavolo e... sì, trovò i sottobicchieri che Fritz teneva lì in una pila
ordinata. E un libricino di cuoio... e la base della lampada.
Era confortante. Stranamente, aveva avuto la sensazione che il mondo fosse
scomparso solo perché non riusciva a vederlo. Ma in realtà era ancora tutto lì.
Chiuse gli occhi inviando una richiesta.
Dovette attendere molto tempo prima di ottenere risposta, molto,
moltissimo tempo prima di ritrovarsi come per magia accanto a una fontana
che ciangottava dolcemente. Si era chiesto se sarebbe stato cieco anche lì,
dall'Altra parte, e lo era. Tuttavia, come già in biblioteca, sapeva com'era il
luogo in cui si trovava pur non vedendolo. Sulla destra c'era un albero pieno
di uccellini cinguettanti e davanti a lui, al di là della fontana zampillante, il
loggiato con le colonne che faceva parte degli appartamenti privati della
Vergine Scriba.
«Wrath, figlio di Wrath.» Non sentì avvicinarsi la madre della razza, ma
d'altronde lei si spostava levitando e la sua lunga veste nera non toccava mai
il suolo. «Qual è il motivo che ti ha condotto da me?»
La Vergine Scriba sapeva benissimo perché era lì e lui non aveva più
intenzione di stare al gioco. «Voglio sapere se sei stata tu a farmi questo.»
Gli uccelli ammutolirono, quasi scioccati da tanta temerarietà.
«A farti che cosa?» La sua voce era come quando era comparsa alla Tomba
con Vishous: distante e priva di interesse. Cosa che come minimo ti faceva
incazzare, se faticavi anche solo a scendere le scale di casa tua.
«La mia vista. Me l'hai tolta perché ho ricominciato a combattere?» Wrath si
strappò via gli occhiali dalla faccia e li scagliò sul pavimento liscio. «Sei stata
tu a farmi questo?»
In tempi ormai lontani, lei lo avrebbe frustato a sangue per quella
insubordinazione; mentre aspettava la sua reazione, Wrath quasi sperò che
gli arrostisse il culo con una saetta.
Invece non ci fu nessun castigo. «Ciò che doveva essere è stato. La perdita
della vista non ha nulla a che fare col fatto che sei tornato a combattere, e
neanche con me. Ora torna nel tuo mondo e lasciami al mio.»
Wrath capì che si era voltata perché la sua voce si affievoliva via via che si
allontanava dalla parte opposta.
"Wrath si accigliò. Era andato lì aspettandosi una violenta litigata; era
quello che voleva. E invece niente; niente contro cui scatenarsi, neanche una
baruffa per la sua deliberata mancanza di rispetto.
Era un cambiamento così radicale che Wrath per un attimo dimenticò
completamente la propria cecità. «Che cosa ti prende?»
Nessuna risposta, solo una porta che si chiudeva piano.
In assenza della Vergine Scriba gli uccelli mantenevano il silenzio; il
delicato gorgoglio dell'acqua che zampillava nella fontana era l'unico suo
punto di riferimento. Finché non sentì avvicinarsi qualcun altro.
D'istinto, Wrath si voltò verso il rumore di passi pronto a combattere,
scoprendosi con sorpresa meno indifeso di quanto pensasse. In mancanza
della vista, l'udito riempiva il vuoto lasciato dagli occhi: capì dov'era il nuovo
arrivato grazie al fruscio dei vestiti e a uno strano clic, clic, clic... cavolo,
sentiva anche il battito del suo cuore.
Forte. Regolare.
Che cosa ci faceva lì un vampiro?
«Wrath, figlio di Wrath.» Non era una voce maschile, ma femminile.
Eppure l'impressione che ne ricavò era di mascolinità. O forse era solo
potente?
«Chi sei?» chiese.
«Payne.» «Chi?»
«Non importa. Dimmi una cosa, pensi di fare qualcosa con quei pugni?
Oppure vuoi startene lì impalalo?»
Lui abbassò immediatamente le braccia, perché era disdicevole alzare le
mani su una femmina...
Il montante lo colpì alla mascella con tale violenza da voltargli la testa e le
spalle. Stordito, più per la sorpresa che per il dolore, Wrath lottò per
riacquistare l'equilibrio. Appena ci riuscì, udì come un sibilo e venne colpito
di nuovo, questa volta il pugno lo centrò sotto la mascella, rovesciandogli
indietro la testa.
Questo però fu l'ultimo colpo che Payne riuscì a mettere a segno senza
incontrare il minimo ostacolo. L'istinto di autodifesa e i lunghi anni di
addestramento di Wrath scattarono in automatico; anche se lui non vedeva
niente, l'udito prese il posto degli occhi, dicendogli dov'erano cose come
braccia e gambe. Wrath agguanto un polso sorprendentemente sottile e
costrinse la femmina a voltarsi.
Col tallone lei gli sferrò un calcio allo stinco; il dolore gli risalì lungo la
gamba facendolo imbestialire. Sentì in faccia qualcosa tipo una fune e l'afferrò
sperando che fosse una treccia attaccata alla...
Diede un potente strattone e sentì l'avversaria torcersi all'indietro. Sì, era
attaccata alla sua testa. Perfetto.
Farla sbilanciare fu facile; però, cribbio se era forte quella figlia di puttana.
In equilibrio su una gamba sola, riuscì a voltarsi con un balzo, colpendolo alla
spalla col ginocchio.
Wrath la sentì atterrare e cercare di allontanarsi a quattro zampe, ma senza
mollare la presa sui suoi capelli, la tirò verso di sé. Lei però, sempre fluida e
sempre in movimento come l'acqua, lo colpiva in continuazione, finché lui
non fu costretto a sbatterla malamente per terra e a tenerla giù.
Fu un caso di forza bruta che prevaleva sulla grazia.
Ansimando, Wrath guardò un viso che non vedeva. «Che cazzo di
problema hai?»
«Mi annoio», e con ciò gli diede una testata al naso.
Il dolore fu tale da dargli il capogiro, neanche fosse su una giostra; allentò
la presa per un attimo e alla sua avversaria bastò quello per liberarsi di
nuovo. Adesso sotto c'era lui; lei gli stringeva la gola col braccio, tirando
fortissimo: doveva aver afferrato il polso con l'altra mano per fare più leva.
Wrath lottava convulsamente per far entrare un po' d'aria nei polmoni.
Cristo santo, se andava avanti così quella lo avrebbe ammazzato. Senza
scherzi.
La reazione giunse dal profondo, dal fondo del suo stesso essere, dalla
doppia elica del suo DNA. Non aveva nessuna intenzione di morire lì,
adesso. Neanche per idea. Lui era un sopravvissuto. Un combattente. E quella
troia, chiunque fosse, non avrebbe staccato il suo biglietto per il Fado.
Malgrado la morsa d'acciaio intorno al collo, lanciò un grido di battaglia e si
mosse talmente in fretta da non rendersi nemmeno conto di cosa stesse
facendo. Sapeva solo che in meno di un secondo la sua avversaria era a faccia
in giù sul marmo, con tutte e due le braccia piegate dietro la schiena.
Senza un motivo ripensò a quando, parecchie notti prima, aveva slogato le
braccia a quel ¿esser nel vicolo, prima di ammazzarlo.
Avrebbe fatto esattamente la stessa cosa con lei...
La risata che sentì sgorgare sotto di sé lo bloccò. Qáella femmina... stava
ridendo. E non come chi ha perso il bene della ragione. Si stava proprio
divertendo, anche se doveva aver capito che stava per svenire dal dolore che
lui intendeva infliggerle.
Wrath allentò leggermente la presa. «Sei una troia malata nella testa, lo
sai?»
Sotto di sé sentiva il corpo dell'avversaria scosso dalle risate. «Lo so.»
«Se ti lascio andare ricomincerai da capo?»
«Forse sì, forse no.»
Strano, ma quasi gli piacque quella sfida al buio; così, un istante dopo, la
liberò come avrebbe fatto con uno stallone ombroso: in fretta e scostandosi
subito. Coi piedi ben piantati per terra, era pronto a sentirsi aggredire di
nuovo, e quasi ci sperava.
Invece lei rimase dov'era, sul pavimento di marmo, e Wrath sentì ancora
quello strano clic clic clic.
«Che cos'è?»
«Ho l'abitudine di infilare l'unghia dell'anulare sotto quella del pollice e poi
la faccio scattare in fuori.»
«Ah. Fico.»
«Ehi, pensi di tornare ancora da queste parti?»
«Non saprei. Perché?»
«Perché non mi divertivo così da... parecchio.»
«Ma chi hai detto che sei? E perché non ti ho mai vista prima?»
«Diciamo solo che Lei non ha mai saputo cosa farsene di me.»
Dato il suo tono, era chiaro chi fosse la Lei in questione. «Be', Payne, posso
tornare per fare ancora un po' a botte.»
«Bene. Non farmi aspettare troppo.» Wrath sentì che si stava alzando in
piedi. «A proposito, i tuoi occhiali sono vicino al tuo piede sinistro.»
Si udì un fruscio, poi una porta che si chiudeva piano.
Wrath raccolse gli occhiali e si sedette per far riposare un po' le gambe.
Buffo, si stava gustando il dolore alla gamba, la fitta alla spalla e il modo in
cui pulsava ogni livido ed escoriazione. Li conosceva bene, facevano parte
della sua storia e del suo presente e gli sarebbero serviti nel futuro
spaventosamente oscuro e sconosciuto che lo attendeva.
Il suo corpo gli apparteneva ancora, funzionava ancora. Poteva ancora
combattere e forse, con un po' di pratica, poteva tornare a essere quello che
era.
Non era morto.
Era ancora vivo. Non ci vedeva, okay, ma poteva ancora toccare la sua
shellan e fare l'amore con lei. E poteva ancora pensare e camminare, parlare e
sentire. Braccia e gambe funzionavano alla grande, e così pure cuore e
polmoni.
Abituarsi non sarebbe stato facile. Una scazzottata memorabile non bastava
a spazzare via i lunghi mesi che aveva davanti, mesi di frustrazioni, rabbia,
passi falsi e faticoso apprendimento.
Ma in prospettiva aveva una speranza. Contrariamente al naso sanguinante
che si era procurato ruzzolando giù dalle scale, quello di adesso non gli
pareva il simbolo di tutto ciò che aveva perduto, ma piuttosto la
rappresentazione di tutto ciò che ancora aveva.
Quando riprese forma nella biblioteca della grande casa della confraternita,
sorrideva, e quando si alzò in piedi gli venne da ridere nel sentire una fitta
tremenda a una gamba.
Si concentrò, poi, zoppicando, fece due passi a sinistra e... trovò il divano;
ne fece dieci in avanti e... trovò la porta; l'aprì, ne fece quindici dritto davanti
a sé e... trovò la balaustra dello scalone.
Sentiva i rumori dei commensali riuniti in sala da pranzo, il sommesso
tintinnio delle posate d'argento sui piatti di porcellana colmava i silenzi della
conversazione. E sentì un profumino di... ah, sì, agnello. Ecco cosa intendeva.
Con cautela fece trentacinque passi a sinistra, camminando un po' come i
granchi, e scoppiò a ridere, specie quando si passò la mano sulla faccia e sentì
il sangue gocciolare dalle dita.
Capì subito quando tutti lo videro. L'aria si riempì di una cacofonia di
rumori: forchette e coltelli che cadevano sui piatti, imprecazioni e sedie spinte
all'indietro sul pavimento.
Wrath rideva e rideva, senza riuscire a smettere. «Dov'è la mia Beth?»
«Oh, Signore», esclamò lei andandogli vicino. «Wrath... ma cosa ti è
successo?»
«Fritz», gridò lui stringendo a sé la sua regina. «Mi porti un piatto? Muoio
di fame. E anche un asciugamano, così posso pulirmi.» Strinse forte Beth.
«Accompagnami al mio posto, ti spia- ce, amore mio?»
Sulla stanza calò un silenzio che suonava come un "porco cane cos'è questa
storia?"
Fu Hollywood a chiedere, «Chi ha scambiato la tua faccia per un pallone da
football?»
Wrath si limitò a fare spallucce accarezzando la schiena della sua shellan.
«Ho fatto amicizia con una persona.»
«Bell'amico del cavolo.»
«Puoi dirlo forte. Solo che è una lei.»
«Una lei?»
Lo stomaco di Wrath protestò sonoramente. «Sentite, posso mangiare qui
con voi o cosa?»
Qualcosa, in quell'accenno al mangiare, li indusse a riscuotersi; ci fu un
gran trambusto e voci che si accavallavano; poi Beth lo aiutò ad attraversare
la stanza. Appena si fu accomodato gli misero in mano un panno umido e
davanti a lui si levò il profumo celestiale di agnello al rosmarino.
«Volete sedervi, per l'amor di Dio», esclamò Wrath, pulendosi faccia e collo.
Ci fu un gran baccano di sedie che venivano spostate; poi Wrath trovò
coltello e forchetta e con essi tastò il piatto, identificando l'agnello, le patate
novelle e... i piselli. Eh sì, quei cosini tondi erano piselli.
L'agnello era squisito. Proprio come piaceva a lui.
«Sicuro che fosse un'amica?» chiese Rhage.
«Sì», rispose Wrath, stringendo forte la mano di Beth. «Sicurissimo.»
Capitolo 58
Ventiquattr'ore a Manhattan bastavano a trasformare anche il figlio del
Male in un'altra persona.
Al volante della Mercedes, col bagagliaio e il sedile posteriore pieni di
sacchetti di Gucci, Louis Vuitton, Armani ed Hermès, Lash era felice come
una pasqua. Aveva dormito in una suite al Waldorf, si era scopato tre donne di cui due in simultanea - e aveva mangiato come un re.
Lasciando la Northway all'uscita per la colonia dei symphath, controllò l'ora
sullo spettacoloso Carrier Tank d'oro nuovo di pacca, sostituto del vistoso
quanto falso Jacob & Co. che proprio non era alla sua altezza.
Quello che segnava la lancetta delle ore non era poi così male, il guaio era la
data: si sarebbe beccato una lavata di capo dal re dei symphath, ma non gliene
poteva fregare di meno. Per la prima volta da quando l'Omega lo aveva
riportato in vita e trasformato, si sentiva benone. Indossava un paio di
pantaloni spigati Max Ja- cobs, ima camicia di seta Louis Vuitton, un gilet in
cachemire Hermès e mocassini Dunhill. Il suo uccello era spompato, aveva la
pancia ancora piena dopo la cena consumata a Le Cirque e sapeva di poter
tornare come niente nella Grande Mela per rifare tutto da capo.
Purché i suoi ragazzi ci dessero dentro con lo spaccio.
Almeno su quel fronte le cose sembravano procedere alla grande. Mr D
aveva chiamato un'oretta prima riferendo che la merce continuava ad andare
via come il pane. Che poi era una buona notizia ma anche ima cattiva notizia:
avevano più grana, ma le scorte si stavano esaurendo in fretta.
I lesser tuttavia sapevano cos'era la capacità di persuasione, ecco perché
l'ultimo tizio che aveva accettato di vederli per un grosso acquisto non era
stato freddato, bensì catturato.
Mr D e gli altri l'avrebbero fatto sudare, e non in palestra.
Il che lo fece ripensare alle ore trascorse in città.
La guerra con i vampiri avrebbe sempre avuto come base Caldwell, a meno
che i fratelli non decidessero di trasferirsi. Ma Manhattan era una delle
capitali mondiali della droga, ed era vicina, molto vicina. A un'ora di
macchina soltanto.
Naturalmente quel viaggetto a sud non gli era servito solo per fare
shopping sulla Quinta Avenue. Lash aveva trascorso gran parte della serata
passando da un locale all'altro per studiare l'ambiente, vedere chi andava
dove... perché così poteva capire cosa comprava la gente. I patiti dei rave
party adoravano l'ecstasy; i nuovi ricchi, pieni di soldi facili, avevano un
debole per coca ed ecstasy; gli universitari preferivano l'erba e gli
allucinogeni, ma non disdegnavano l'oxicodone e le metamfetamine; i dark e
gli emo avevano una passione per l'ecstasy e le lamette da barba, mentre i
tossici che infestavano tutti i vicoli intorno ai locali amavano crack, speed ed
eroina.
Se fosse riuscito a infiltrarsi prima nel mercato di Caldie, dopo poteva fare
lo stesso a Manhattan, traendone maggiori profitti. Non c'era motivo di non
pensare in grande.
Svoltando nel viottolo sterrato che aveva imboccato la prima volta, infilò la
mano sotto il sedile e tirò fuori la SIG calibro quaranta nuova di zecca che
aveva comprato la sera prima andando in città.
Non c'era motivo di mettersi in tenuta da combattimento. Un bravo killer
non ha bisogno di sudare per fare il suo lavoro.
La fattoria bianca era sempre lì tranquilla in mezzo al paesaggio, ora
ammantato di neve, candidata ideale per i biglietti natalizi degli umani. Nella
notte che ancora indugiava, il fumo saliva pallido da uno dei comignoli, gli
sbuffi catturavano, amplificandola, la tenue luce lunare creando ombre che
correvano sul tetto. Dietro le finestre, la dorata luce delle candele tremolava,
come agitata da una leggera brezza che soffiava in tutte le stanze. O forse
erano solo quei maledetti ragni.
Malgrado l'apparenza da innocuo focolare domestico, quel posto metteva i
brividi, Cristo.
Lash parcheggiò la Mercedes vicino al cartello dell'ordine monastico e
scese; la neve si posò soffice sulle Dunhill nuove di zecca. Lash la scosse via
con un'imprecazione, chiedendosi perché cavolo quei symphath della malora
non potevano essere messi in quarantena a Miami.
Ma invece nooooooooo, erano stati piazzati a un tiro di schioppo dal
Canada.
D'altronde non piacevano a nessuno, per cui in effetti una logica c'era.
La porta della fattoria si aprì e comparve il re, la tunica bianca agitata dal
vento, gli occhi rossi stranamente splendenti. «Sei in ritardo. Di giorni.»
«E allora? La tue candele resistono alla grande.»
«E il mio tempo non è prezioso come la cera sprecata inutilmente?»
«Non ho detto questo.»
«Ma le tue azioni parlano da sole.
Lash salì i gradini d'ingresso con la pistola in pugno e, vedendo come il re
lo guardava muoversi, fu tentato di controllare se per caso avesse la patta
aperta. Eppure, quando si trovò faccia a faccia col symphath, volarono di
nuovo scintille nell'aria gelida.
Eh no, lui la mazza la usava solo per giocare a baseball...
«Allora, vogliamo parlare di affari?» farfugliò, cercando di non farsi
ammaliare da quegli occhi rosso sangue.
Il re sorrise, alzando le dita a tre nocche sui diamanti che aveva al collo. «Sì,
assolutamente. Vieni da questa parte che ti porto dal tuo bersaglio. È a
letto...»
«Credevo che ti vestissi solo di rosso, Principessa. E tu cosa cazzo ci fai qui,
Lash?»
Il re si irrigidì e Lash si voltò di scatto con la pistola in pugno. Sul prato
avanzava... un pezzo di marcantonio con due scintillanti occhi color ametista
e un'inconfondibile cresta da moicano: Rehvenge, figlio di Rempoon.
Il bastardo non era affatto sorpreso di trovarsi in territorio symphath. Al
contrario, sembrava di casa. Oltre che incazzato nero.
Principessa?
Lash si gettò una rapida occhiata alle spalle e... non vide niente che non
avesse già visto: un tizio inagrissimo con una lunga tunica bianca e i capelli
raccolti in uno chignon come quelli di... una ragazza, in effetti.
Date le circostanze, sarebbe stato bello scoprire di essere stato abbindolato.
Molto meglio volersi scopare una femmina bugiarda che dover affrontare il
fatto di essere.. . Sì, be', non c'era motivo di toccare quel tasto, anche solo
nella sua mente.
Lash voltò di nuovo la testa; quella piccola quanto bizzarra interruzione era
capitata proprio a fagiolo. Eliminare Rehvenge dal business della droga
avrebbe liberato ogni sorta di spazio commerciale a Caldwell.
Stava per premere il grilletto quando il re scattò in avanti, afferrando la
canna della pistola. «Non lui! Non lui!»
Lo sparo risuonò nella notte e la pallottola andò a conficcarsi nel tronco di
un albero, quasi fosse affetta da strabismo. Rehvenge guardava Lash e la
principessa lottare per il controllo dell'arma. Da un certo punto di vista non
gli importava chi dei due avrebbe vinto, se lui o chiunque altro sarebbe
rimasto ferito nel corso della lotta, o come mai un ragazzo che risultava
morto fosse ancora vivo e vegeto. La sua vita stava per finire lì dov'era
cominciata, in quella colonia. Morire quella sera, la mattina dopo o cent'anni
dopo, essere ammazzato dalla principessa o da Lash faceva ben poca
differenza; il risultato finale era già deciso, il suo destino segnato, i particolari
non avevano importanza.
Anche se forse quel fatalismo a metà tra il laissez-faire e il 'fan- culochissenefrega era dovuto al suo umore nero. In fin dei conti era un
innamorato senza la sua compagna e dunque, per utilizzare la classica
metafora del viaggio, ormai aveva fatto le valigie, liberato la stanza del suo
motel terreno ed era già sull'ascensore in discesa verso la hall dell'inferno.
O almeno questo era ciò che pensava il suo lato vampiresco. L'altra metà
del suo essere gli stava gridando: ehi, sveglia! Le grandi tragedie erano
sempre uno stimolo per il suo lato malvagio, dunque non si sorprese quando
il symphath in lui ricacciò indietro gli ultimi residui della dopamina che si era
sparato in vena. In un lampo la vista perse lo spettro cromatico completo e si
appiattì, la tunica della principessa divenne rossa, i diamanti al suo collo
sanguinarono, trasformandosi in rubini. Evidentemente lei vestiva di bianco
ma, avendola sempre vista con occhi da divoratore di peccati, aveva dato per
scontato che si vestisse del colore del sangue.
Già, be', e allora? Come se gliene fregasse qualcosa del suo guardaroba.
Ora che il suo lato malvagio era affiorato, Rehv non potè fare a meno di
gettarsi nella mischia. Una volta riacquistata la sensibilità alle braccia e alle
gambe, balzò sulla veranda. L'odio lo infiammava dal profondo e, pur non
avendo nessun interesse a schierarsi con Lash, voleva fottere la principessa, e
non in senso buono.
Le andò alle spalle agguantandola per la vita e sollevandola da terra, il che
permise a Lash di strapparle via la pistola, allontanandosi di scatto.
Dopo la transizione, quello stronzetto si era trasformato in un colosso. Ma
non era l'unico cambiamento. Puzzava di malvagità lontano un miglio, la
stessa che animava i lesser. Evidentemente l'Omega lo aveva riportato
indietro dal regno dei morti, ma perché? E come?
Tutte domande che non gli interessavano granché, preso com'era a
comprimere la gabbia toracica della principessa fin quasi a toglierle il respiro.
Attraverso la camicia di seta lei gli aveva conficcato le unghie negli
avambracci e, potendo, vi avrebbe affondato anche i denti, ma lui aveva
preso le opportune contromisure: con una presa letale dietro lo chignon, le
teneva bloccata la testa.
«Sei fantastica come scudo umano, troia», le bisbigliò all'orecchio.
Mentre lei cercava di parlare, Lash si raddrizzò i vestiti nuovi di zecca
puntando la SIG che aveva in pugno alla testa di Rehv. «Lieto di vederti,
Reverendo. Stavo per venire a cercarti, ma mi hai risparmiato il viaggio.
Anche se devo dire che vederti nascosto dietro quella femmina, maschio o
quello che è, non rende giustizia alla tua fama di duro.»
«Questa qui non è mica un maschio; se non temessi di passare per un porco
le strapperei il vestito per dimostrartelo. Ma, senti un po', aggiornami, ti
spiace? Devo essermi perso qualche passaggio. Io sapevo che eri morto.»
«Non per molto, come vedi.» Lash sorrise, mostrando due lunghe zanne
bianche. «Allora è proprio una femmina, eh?»
La principessa riprese a divincolarsi e Rehv la ridusse all'obbedienza
staccandole quasi la testa dal collo. Mentre lei ansimava, gemendo, lui disse,
«Sì. Non lo sapevi che i symphath sono praticamente ermafroditi?»
«Non so dirti che sollievo sia sapere che ha mentito.»
«Voi due siete fatti l'uno per l'altra.»
«Lo penso anch'io. Allora, cosa ne dici di lasciar andare la mia ragazza?»
«La tua ragazza? Non ti pare di correre un po' troppo? E sorvolo sul tuo
programma stile "avventura di una notte". Mi piace l'idea che ci spari, a tutti e
due.»
Lash si accigliò. «Credevo fossi un lottatore, invece sei solo una checca.
Avrei dovuto venire a spararti nel tuo , club.»
«Per la verità, da una decina di minuti sono già morto. Per cui non me ne
frega un cazzo. Anche se sono curioso di sapere perché vorresti uccidermi.»
«Contatti. E non del tipo mondano.»
Rehv inarcò un sopracciglio. Allora era stato Lash a uccidere quegli
spacciatori? Ma che cavolo? Anche se... quello stronzo aveva provato a
spacciare droga allo ZeroSum, un anno prima, e per questo lo avevano
sbattuto fuori a calci. Evidentemente, adesso che era in combutta con
l'Omega, stava resuscitando le vecchie abitudini lucrative.
Con la logica impeccabile del senno di poi, le cose cominciavano a
quadrare. I genitori di Lash erano stati i primi a essere trucidati, quell'estate,
durante i raid dei lesser. Mano a mano che, una dopo l'altra, le famiglie
venivano trovate morte nelle loro case teoricamente segrete e protette, la
domanda che tutti - il consiglio, la confraternita e ogni civile - si erano posti
era come aveva fatto la Società a scoprire tutti quegli indirizzi in un colpo
solo.
Semplice: Lash, trasformato dall'Omega, aveva guidato l'attacco.
Rehv aumentò ancora un po' la stretta sul torace della principessa, mentre
anche le ultime tracce di torpore svanivano. «E così stai cercando di infilarti
nei miei traffici, eh? Sei stato tu a far fuori tutti quegli spacciatori.»
«Sto solo risalendo la catena alimentare, per così dire. E con te? sottoterra
arriverò al vertice, almeno a Caldwell. Quindi lasciala andare, così ti faccio un
buco in testa e tutti quanti possiamo passare ad altro.»
D'un tratto un'ondata di paura investì la veranda, sommergendo Rehv, la
principessa e Lash.
Rehv volse lo sguardo e rimase impietrito. Bene, bene, bene, guarda chi si
vede. Sarebbe finito tutto molto prima di quanto pensasse.
Sette symphath in lunghe vesti rosso rubino risalivano il prato coperto di
neve in formazione a freccia. Al centro del gruppo, con in testa un copricapo
di rubini e spuntoni neri, un individuo alto e curvo su se stesso avanzava con
l'aiuto di un bastone.
Lo zio di Rehv.Il re.
Sembrava molto invecchiato, ma nonostante il fisico indebolito dagli anni,
l'animo restava saldo e malvagio come un tempo: Rehv rabbrividì e la
principessa smise di divincolarsi; persino Lash ebbe il buon senso di
indietreggiare.
Le sette guardie del corpo si fermarono ai piedi della veranda, le tuniche
agitate dalla brezza gelida, che adesso anche Rehv sentiva sul viso.
Il re parlò con voce flebile e chioccia, strascicando le "s". «Benvenuto a casa,
nipote carissimo. E salute a te, visitatore.»
Rehv fissava suo zio. Non lo vedeva da... Dio, tanto, tantissimo tempo. Dal
funerale di suo padre. Evidentemente il tempo non era stato clemente col re,
curvo sotto il peso degli anni; Rhev sorrise al pensiero della principessa
costretta a portarsi a letto quel corpo avvizzito e cascante.
«'Sera, zio», disse. «Lui è Lash, a proposito. Nel caso non lo sapessi.»
«Non ci hanno presentati ufficialmente, no, anche se, sono a conoscenza del
motivo che l'ha condotto sulla mia terra.» Il re puntò gli acquosi occhi rossi
sulla principessa. «Mia cara ragazza, credevi che fossi ignaro delle tue visite
regolari a Rehvenge? E credevi che fossi all'oscurò della tua ultima
macchinazione? Ero troppo legato a te, temo, e dunque ho chiuso un occhio
sulla tresca con tuo fratello...»
«Fratellastro», precisò asciutto Rehv.
«... tuttavia non posso tollerare questo alto tradimento col lesser. In verità,
confesso di essere rimasto impressionato dalla tua intraprendenza, avendo io
annullato le disposizioni con cui rinunciavo al trono in tuo favore. Ma non mi
lascerò più sviare dall'adorazione che provavo per te. Mi hai sottovalutato, e
per tale irriverenza ti infliggerò un castigo adeguato alle tue mire e alle tue
ambizioni.»
Il re annuì, e istintivamente Rehv si voltò di scatto. Troppo tardi. Alle sue
spalle un symphath con la spada in pugno aveva già il braccio a mezz'aria... la
lama non calò per prima, ma fu solo un vantaggio marginale poiché l'elsa
colpì Rehv proprio in cima alla testa.
L'impatto fu la seconda esplosione di quella notte e, a differenza della
prima, questa volta Rehv non rimase in piedi dopo che luci e rumori si furono
spenti.
Capitolo 59
Alle dieci di mattina Ehlena era ancora sveglia come un grillo. Bloccata in
casa dalla luce del sole, camminava su e giù per la sua stanza con le braccia
strette intorno al corpo e i calzettoni che facevano ben poco per scaldarle i
piedi.
D'altronde era così gelata dentro che, anche con un paio di graticole ai
piedi, sarebbe morta di freddo. Lo shock doveva averle sballato la
temperatura corporea, bloccando il suo termostato interno su Frigorifero
invece che su Normale.
Dall'altra parte del corridoio suo padre dormiva profondamente e ogni
tanto lei infilava la testa nella sua stanza per vedere come stava. Una parte di
lei desiderava che si svegliasse, perché voleva chiedergli di Rehm e Montrag,
dei loro legami di parentela e...
Solo che era meglio lasciarlo fuori da quella faccenda. Metterlo in
agitazione per una cosa che poteva finire in niente era da evitare a tutti i costi.
Lei aveva letto da cima a fondo il manoscritto e trovato quei nomi, certo, ma
comparivano una sola volta in mezzo a una quantità di parenti. Inoltre,
quello che suo padre ricordava non era rilevante. Contava solo ciò che Saxton
era in grado di dimostrare.
Dio solo sapeva come sarebbe andata a finire.
Ehlena si fermò in mezzo alla stanza, improvvisamente troppo stanca per
continuare a camminare. Pessima idea. Appena si fermò la sua mente tornò a
Rehv, quindi ricominciò a girare coi piedi congelati. Ragazzi, non era giusto
augurare la morte a nessuno, ma era quasi lieta che Montrag fosse trapassato
creando un enorme diversivo con la storia del testamento. Senza quello
sarebbe impazzita subito, ne era più che sicura.
Rehv...
Mentre si trascinava stancamente per la stanza, gli occhi le caddero sul
letto. Sul piumone giaceva il manoscritto di suo padre, e, come lui, sembrava
riposare tranquillo e sereno. Ehlena ripensò a tutto quello che Alyne aveva
messo sulla pagina; adesso sapeva esattamente qual era stata la sua
intenzione. Era stato turlupinato e tradito proprio come lei, fuorviato da
un'apparente facciata di onestà e affidabilità perché incapace di comportarsi
in modo vilmente crudele e calcolatore. Lo stesso valeva per lei. Sarebbe mai
riuscita a fidarsi di nuovo della propria capacità di comprendere il prossimo?
La paranoia le agitava la mente e le viscere. Dov'era la verità, nelle bugie di
Rehv? Ve n'era mai stata traccia? Mentre davanti agli occhi le scorrevano
immagini di lui, scavò nei ricordi, interrogandosi sulla linea di demarcazione
tra realtà e finzione. Aveva bisogno di saperne di più... Il guaio era che l'unica
persona in grado di completare il quadro era proprio quella a cui non voleva
avvicinarsi mai più.
Contemplando un futuro pieno di domande incalzanti e senza risposta, si
raccolse i capelli con mani tremanti. Stringendoli con forza, li tirò come se
potesse strapparsi via dalla testa tutto quel vortice di pensieri folli.
Cristo, poteva l'inganno di Rehv essere l'equivalente della rovina
finanziaria di suo padre? L'evento scatenante della follia?
Quella era la seconda volta che un maschio la umiliava, mettendola in
imbarazzo. Il suo fidanzato aveva fatto qualcosa di simile... l'unica differenza
era che aveva mentito a tutti tranne che a lei.
Si poteva pensare che, dopo quella prima esperienza negativa, avesse
imparato la lezione. Ma evidentemente non era così. Si era fidata un'altra
volta della persona sbagliata.
Smise di camminare aspettando... diamine, non sapeva neanche bene cosa...
che la testa le esplodesse o roba del genere.
Ma non accadde. Niente da fare neanche sul fronte "sarchiatura cognitiva":
le erbacce del suo cervello erano ancora tutte lì, malgrado tutto il suo tirarsi i
capelli. L'unica cosa che rischiava di ottenere era un gran mal di testa, oltre a
una pelata alla Vin Diesel.
Voltandosi vide il portatile.
Con un'imprecazione attraversò lo spazio angusto e si sedette davanti al
Dell. Mollando la presa letale sui capelli, sfiorò con il dito il mouse facendo
sparire il salvaschermo.
Internet Explorer. Preferiti: www.CaldwellCourierJournal.com.
Quello che le serviva era una dose di concretezza. Rehv era il passato, e il
futuro non era certo un qualche astuto avvocato con un'idea brillante. Al
momento, l'unica cosa in cui poteva confidare era la ricerca di un impiego: se
Saxton e le sue carte si rivelavano un buco nell'acqua, in meno di un mese lei
e suo padre si sarebbero ritrovati in mezzo a una strada, a meno che lei non
trovasse' lavoro.
E in questo non c'era nulla di falso o di fuorviarne.
Nell'attesa che si aprisse il sito web del CCJ, si disse che lei noti era suo
padre e che Rehv era uno che aveva frequentato per u" totale di... diciamo
qualche giorno? Sì, le aveva mentito, ma era' un seduttore supersexy ed
elegantissimo e, col senno di poi, non, avrebbe proprio dovuto fidarsi di lui.
Specie visto quello che già sapeva dell'universo maschile.
La colpa era di Rehv, ma anche lei aveva sbagliato. La consapevolezza di
essersi comportata da stupida perché vittima del suo' fascino non le faceva
fare i salti di gioia, ma l'idea che ci fosse una logica interna, per quanto
raccapricciante, l'aiutava a sentirsi un po' meno matta...
Accigliandosi, si avvicinò al monitor del computer. Nella pagina
introduttiva del sito c'era l'immagine di un edificio sventrato da una bomba.
Il titolo recitava: Esplosione rade al suolo club locale. Sotto, in caratteri più
piccoli, c'era scritto: ZeroSum ultima vittima della guerra tra spacciatori?
Lesse l'articolo trattenendo il fiato. Le autorità indagano. Non si sa se all'ora
dell'esplosione nel club ci fosse qualcuno. Sospetti sulle detonazioni multiple.
Una finestra integrativa illustrava il numero di spacciatori sospetti trovati
morti a Caldwell e dintorni nell'ultima settimana. Erano quattro. Tutti uccisi
in modo professionale. La polizia stava indagando su ciascuno degli omicidi
e, tra i sospetti, figurava il proprietario dello ZeroSum, un certo Richard
Reynolds, alias il Reverendo... che al momento risultava disperso. Si faceva
notare che da anni Reynolds era sulla lista nera della Narcotici, anche se non
era mai stato formalmente accusato, di nessun crimine.
Il sottinteso era ovvio: Rehv era il reale bersaglio dell'esplosione perché era
stato lui a uccidere gli altri.
Ehlena tornò alle foto del club distrutto. Nessuno poteva sopravvivere a un
disastro del genere. Nessuno. La polizia avrebbe concluso che era morto.
Potevano metterci una settimana o due, ma alla fine avrebbero trovato un
cadavere e dichiarato che era il suo.
Dagli occhi non le scesero lacrime. Dalle labbra non uscirono singhiozzi.
Era troppo sconvolta. Rimase semplicemente seduta in silenzio, stringendosi
di nuovo le braccia intorno al corpo, gli occhi fissi sullo schermo luminoso.
Fu assalita da un pensiero bizzarro, ma ineludibile: una sola cosa sarebbe
stata peggiore di quello che aveva affrontato entrando in quel club e
scoprendo la verità su Rehv, ed era leggere quell'articolo prima di fare quel
viaggetto in centro.
Non che volesse Rhev morto, Dio... no. Anche dopo tutto quello che le
aveva fatto non gli augurava una morte violenta. Ma prima di scoprire tutte
le sue menzogne era stata innamorata di lui.
Era stata... innamorata di lui.
Gli aveva davvero donato il suo cuore.
Adesso gli occhi si gonfiarono e le lacrime caddero, lo schermo divenne
sempre più sfocato e indistinto, le immagini del club saltato per aria vennero
spazzate via. Si era innamorata di Rehvenge. Era stata una passione
travolgente e non era durata, ma i sentimenti erano sbocciati lo stesso.
Con una fitta di dolore ricordò il corpo caldo di lui sopra di sé, l'odore
tipico dei vampiri innamorati che le invadeva le narici, le sue spalle enormi
contratte per lo sforzo mentre facevano l'amore. Era bellissimo, in quei
momenti, un amante infinitamente generoso. Gli era piaciuto davvero farla
godere...
Peccato che fosse quello che voleva farle credere, ed essendo un symphath
era bravo a manipolare la gente. Anche se, Dio, c'era da chiedersi cosa ci
avesse guadagnato a mettersi con lei. Lei non aveva né denaro né una
posizione, nulla che potesse tornargli utile, e Rehv non le aveva mai chiesto
niente, non l'aveva mai usata in alcun modo...
Ehlena si trattenne dallo scivolare in una qualche visione rosea di ciò che
era accaduto tra loro. Il succo era che lui non meritava il suo amore, e non
perché fosse un symphath. Per quanto strano, lei avrebbe potuto convivere con
quella realtà... anche se forse questo stava solo a dimostrare quanto poco
conoscesse i divoratori di peccati. No, erano le bugie e il fatto che lui fosse
uno spacciatore di droga a mettere la parola fine alla loro storia, dal suo
punto di vista.
Uno spacciatore di droga. In un flashback rivide le vittime di overdose che
avevano varcato la soglia della clinica di Havers, quelle giovani vite in
pericolo senza una ragione. Alcuni di quei pazienti erano stati rianimati, ma
non tutti, e anche una sola morte provocata da quello che aveva smerciato
Rehvenge era di troppo.
Ehlena si asciugò le guance e si sfregò le mani sui pantaloni. Basta piangere.
Non poteva permettersi il lusso di essere debole. Aveva suo padre a cui
pensare.
Passò la mezz'ora successiva a inviare domande di lavoro.
A volte si è costretti a essere forti, e basta questo a trasformarci per davvero
in quello che dobbiamo essere.
Quando gli occhi alla fine gettarono la spugna e cominciarono a incrociarsi
per la stanchezza, Ehlena spense il computer e si stese sul letto accanto al
manoscritto di suo padre. Chiuse le palpebre con la sensazione che non
sarebbe riuscita a dormire. Se iì suo corpo aveva deciso di chiuderla lì, il
cervello non sembrava intenzionata a seguirne l'esempio.
Sdraiata lì, al buio, cercò di calmarsi ripensando alla vecchia casa in cui
aveva vissuto con i suoi genitori prima che tutto cambiasse. Rivide se stessa
nell'atto di attraversare le stanze sontuose, passare accanto ai raffinati pezzi
d'antiquariato, fermarsi ad annusare un mazzo di fiori appena colti dal
giardino.
Il trucco funzionò. A poco a poco la mente si lasciò permeare da quel luogo
tranquillo ed elegante, i pensieri vorticosi rallentarono la loro corsa fino a
frenare e a parcheggiare nella sua testa.
Aveva appena cominciato a cedere al riposo, quando venne colpita in pieno
petto da una convinzione stranissima, che la pervase da capo a piedi.
Rehvenge era vivo.
Rehvenge era vivo.
Lottando contro quella marea sconvolgente, Ehlena cercò disperatamente di
aggrapparsi al pensiero razionale, desiderosa di analizzare il perché e il
percome di una certezza simile, ma il sonno la vinse, insinuandosi dentro di
lei e trascinandola via da tutto.
Seduto dietro la scrivania, Wrath faceva scorrere con delicatezza le mani
sulla sua superficie. Telefono, okay. Tagliacarte a forma di pugnale, okay.
Carte, okay. Altre carte, okay. Dov'era il...
Si sentì un colpo e qualcosa che rotolava. Trovato, portapenne e penne.
Sparse un po' dappertutto. Okay.
Mentre raccoglieva quello che aveva rovesciato, sentì Beth avvicinarsi per
aiutarlo, i passi leggeri sul tappeto.
«E tutto okay, leelan», disse. «Faccio io.»
La sentì indugiare accanto alla scrivania e fu lieto che non si intromettesse.
Per quanto fosse puerile, voleva riordinare da solo il caos che aveva creato.
A tastoni trovò fino all'ultima penna. O almeno così gli parve.
«Ce n'è qualcuna sul pavimento?» chiese.
«Una. Vicino al tuo piede sinistro.»
«Grazie.» Si infilò sotto la scrivania, tastò il pavimento e chiuse il pugno
intorno alla liscia forma a sigaro di quella che doveva essere una Mont Blanc.
«Questa sarebbe stata più dura da trovare.»
Nel raddrizzarsi fece attenzione a localizzare il bordo della scrivania,
assicurandosi di non sbatterci la testa prima di alzarla. Era già un
miglioramento rispetto a qualche ora prima. Bene, dunque, era stato fregato
dal portapenne, ma stava facendo progressi nel mettersi diritto. Non era
ancora la perfezione, ma almeno non stava bestemmiando né sanguinando.
Considerato il disastro di prima, quando era sceso per l'Ultimo Pasto, le
cose andavano meglio.
Wrath terminò l'esplorazione manuale della scrivania, trovando la lampada
sulla sinistra e il sigillo reale e la ceralacca usati per autenticare i documenti.
«Non piangere», disse sottovoce.
Beth tirò su col naso. «Come fai a saperlo?»
Lui si picchiettò il naso. «Ho sentito l'odore.» Spinse indietro la sedia e si
batté le mani sulle ginocchia. «Vieni a sederti qui. Lasciati abbracciare da tuo
marito.»
Sentì la sua shellan girare intorno alla scrivania e l'odore delle sue lacrime
divenne più forte, perché più si avvicinava, più piangeva. Come sempre,
Wrath le cinse la vita con un braccio e la attirò contro di sé, facendo
scricchiolare la delicata poltroncina sotto quel peso extra. Sorridendo, lasciò
che le sue mani trovassero i lunghi capelli di Beth e accarezzassero le
morbide onde.
«E così bello toccarti.»
Con un fremito, Beth si abbandonò contro di lui e Wrath ne fu lieto.
Contrariamente a quando doveva usare le mani al posto degli occhi o a
quando raccoglieva qualcosa che aveva rovesciato, col caldo corpo di Beth tra
le braccia si sentiva forte. Grande. Potente.
In quel momento aveva bisogno di tutto questo e, da come Beth si accasciò
contro il suo petto, ne aveva bisogno anche lei.
«Sai cosa voglio fare quando avremo finito di fare i passacarte?» mormorò.
«Cosa?»
«Ti porto a letto e ti tengo lì per tutto il giorno.» Rise di soddisfazione,
sentendo l'odore di lei che si intensificava. «Non ti spiace, vero? Anche se ti
spoglierò nuda e ti farò restare così.»
«Neanche un po'.»
«Bene.»
Rimasero abbracciati a lungo, finché Beth alzò la testa dalla sua spalla.
«Vuoi lavorare un po', adesso?»
Lui girò la testa in modo da guardare - se non fosse stato cieco - la scrivania.
«Sì, io... merda, ne ho bisogno. Non so perché. E così e basta. Cominciamo
dalle cose facili... Dov'è la borsa da postino di Fritz?»
«Proprio qui, vicino alla vecchia poltrona di Tohr.»
Beth si chinò e, nel farlo, spinse il sedere contro l'inguine di Wrath in modo
alquanto piacevole; con un gemito, lui l'afferrò per i fianchi e premette verso
l'alto. «Mmm, non devi raccogliere nient'altro? Forse dovrei rovesciare
qualche altra penna, o magari buttar giù il telefono.»
La risatina gutturale di Beth era più sexy della sua biancheria intima, «Se
vuoi che mi chini, basta chiedere.»
«Dio, quanto ti amo.» Quando Beth si raddrizzò, Wrath le voltò là testa e la
baciò sulla bocca, assaporando la morbidezza delle sue labbra, rubando una
leccatina... e diventando duro come un ceppo di legno. «Sbrighiamoci con le
scartoffie, così finalmente posso portarti dove voglio io.»
«E dove sarebbe?»
«Sopra di me.»
Beth rise di nuovo e aprì la cartella di cuoio dove Fritz raccoglieva le
richieste inviate per posta ordinaria. Wrath udì un fruscio di buste e un
profondo sospiro della sua shellan.
«Okay», disse Beth. «Vediamo cosa c'è qui.»
C'erano quattro richieste di matrimonio da firmare e sigillare, Operazione
che normalmente gli avrebbe preso a dir tanto un minuto e mezzo. Adesso,
invece, apporre firma e sigillo reale richiesero una certa dose di
coordinazione... ma con Beth sulle ginocchia fu divertente. Poi c'era un
mucchio di estratti conto bancari, seguiti da bollette e ancora bollette; il tutto
sarebbe passato a V per il pagamento on line, grazie al cielo, dato che
verificare in modo puntiglioso conti e cifre non faceva per Wrath.
«Un'ultima cosa», disse Beth. «Una grossa busta da parte di uno studio
legale.»
Quando Beth si sporse in avanti, di sicuro per prendere il tagliacarte
d'argento a forma di pugnale, Wrath fece scorrere le mani giù per le sue
gambe e poi su, lungo l'interno delle cosce.
«Mi piace da morire come trattieni il respiro», disse, sfregandole il naso
dietro il collo.
«Perché, l'hai sentito?»
«Altro che.» Continuò ad accarezzarla, valutando se voltarla per farla
sedere sopra la sua erezione; in fondo poteva chiudere la porta a chiave senza
bisogno di alzarsi. «Cosa c'è nella busta, leelan?» chiese, facendole scivolare
una mano in mezzo alle cosce, proprio sopra la vulva, e massaggiandola.
Questa volta, ansimando, Beth lo chiamò per nome, e fu sexy da morire. «Che
cos'hai lì, femmina?»
«È... un certificato... genealogico», rispose Beth con voce velata
dall'eccitazione, cominciando a dimenare i fianchi. «In vista di un
testamento.»
Wrath mosse il pollice sopra il suo dolce sesso, mordicchiandole la spalla.
«Chi è morto?»
Dopo un ansito, lei rispose, «Montrag, figlio di Rehm.» A quel nome Wrath
s'irrigidì e Beth cambiò posizione, come se si fosse voltata a guardarlo. «Lo
conoscevi?»
«Era quello che voleva farmi ammazzare. Il che significa che, per l'Antica
Legge, tutto ciò che era suo adesso è mio.»
«Che bastardo.» Beth imprecò ancora un po', poi si senti un fruscio di
pagine. « Be', ha un sacco di... Accipicchia. Eh, sì... è proprio ricco... ehi, ma
sono Ehlena e suo padre.»
«Ehlena?»
«Lavora come infermiera alla clinica di Havers. E la persona più gentile che
abbia mai conosciuto. Non è stata lei ad aiutare Phury a far sgombrare la
vecchia struttura durante gli attacchi dei ¡esser? Evidentemente lei... o meglio,
suo padre... è il parente più prossimo, ma è molto malato.»
Wrath si accigliò. «Cos'ha?»
«Qui dice che è incapace d'intendere e di volere. Lei è la sua tutrice legale e
in pratica la sua badante; dev'essere dura. Non credo che navighino nell'oro.
Saxton, l'avvocato, ha scritto una... Oh, questo sì che è interessante...»
«Saxton? L'ho conosciuto l'altra sera. Cosa dice?»
«Dice di avere la certezza che i certificati genealogici di Ehlena e di suo
padre sono autentici e che è pronto a rischiare la reputazione per farsene
garante. Spera anche che tu voglia accelerare la distribuzione dei beni, perché
è preoccupato per le condizioni d'indigenza in cui vivono. Dice... dice che
meritano questo inatteso colpo di fortuna. "Inatteso" è sottolineato. Poi
aggiunge... che non vedevano Montrag da un secolo.»
Saxton non gli era parso uno stupido. Tutt'altro. Anche se nell'incontro da
Sal's l'intera faccenda dell'assassinio non era stata confermata, quel biglietto
scritto a mano sembrava un modo sottile per sollecitare Wrath ad astenersi
dall'esercitare i suoi diritti acquisiti di monarca in favore di familiari scioccati
nello scoprire di essere tra i parenti più stretti del defunto, bisognosi di
denaro... e del tutto estranei al complotto.
«Cosa pensi di fare?» chiese Beth, scostandogli i capelli dalla fronte.
«Montrag si è meritato la fine che ha fatto, ma sarebbe bello se ne derivasse
qualcosa di buono. I suoi averi non ci servono, e se quell'infermiera e suo
padre...»
Beth premette la bocca sulla sua. «Ti amo da morire.»
Wrath rise, baciandola. «Ti va di dimostrarmelo?»
«Dopo che avrai siglato l'approvazione? Aggiudicato.»
Per validare il testamento dovettero trastullarsi di nuovo con ceralacca e
sigillo reale; questa volta, però, Wrath aveva una fretta indiavolata di
affondare dentro la sua femmina. La sua firma non aveva ancora finito di
asciugarsi e il sigillo si stava ancora raffreddando quando baciò di nuovo
Beth sulla bocca, incapace di aspettare un secondo di più...
Bussarono alla porta e lui ringhiò, minaccioso, «Andate. Via.»
«Devo darti una notizia.» La voce soffocata di Vishous suonò
bassa e tesa. Il che autorizzava ad aggiungere l'aggettivo brutta a quanto
aveva detto.
Wrath aprì la porta con la forza del pensiero. «Parla. Ma fai alla svelta.»
L'ansito scioccato di Beth gli diede un'idea dell'espressione di V. «Cos'è
successo?» mormorò la regina.
«Rehvenge è morto.»
«Cosa?» esclamarono entrambi all'unisono.
«Ha appena chiamato iAm. Lo ZeroSum è stato raso al suolo da una bomba
e secondo lui Rehv era all'interno, quando è saltato per aria. Impossibile che
ci siano dei superstiti.»
Calò un silenzio di tomba mentre coglievano tutte le implicazioni di quella
tragedia.
«Bella io sa?» chiese tetro Wrath.
«Non ancora.»
Capitolo 60
John Matthew si rotolò nel letto e, sentendo qualcosa di duro contro la
guancia, si svegliò. Con un'imprecazione alzò la testa. Ah, giusto, lui e il Jack
Daniel's avevano fatto un po' a cazzotti e gli effetti si facevano ancora sentire:
moriva di caldo malgrado fosse nudo, aveva la bocca secca come carta vetrata
e doveva correre in bagno prima che gli scoppiasse la vescica.
Si rizzò a sedere sfregandosi gli occhi e grattandosi la testa... con la
conseguenza di risvegliare i postumi della sbornia.
Con la testa che gli scoppiava afferrò la bottiglia che aveva usato come
cuscino. Sul fondo erano rimaste solo due dita di whisky, ma bastarono a
fargli tornare la voglia di bere per darsi la carica. Fece per svitare il tappo e
scoprì che non ce l'aveva proprio messo. Meno male che si era addormentato
con la bottiglia diritta.
Bevve a grandi sorsate, imponendosi di respirare finché non fossero passate
le onde d'urto della nausea che gli esplose nelle viscere. Quando dell'alcol
restarono solo i fumi, lasciò la bottiglia vuota sul materasso e si guardò. Il suo
uccello dormiva ancora contro la coscia; non ricordava l'ultima volta che si
era svegliato senza un'erezione. D'altronde era stato con... tre? quattro?
Quante donne erano? Dio, non ne aveva idea.
Aveva usato il preservativo una sola volta. Con la prostituta. Per il resto
aveva fatto senza.
Alcune donne se le era scopate in coppia con Qhuinn, con altre invece era
andato in solitaria. Rivide immagini sordide e indistinte di quelle scene. Non
ricordava com'era stato, non ricordava nulla degli orgasmi che aveva avuto,
non sapeva com'erano le loro facce, a stento ricordava il colore dei capelli.
Sapeva solo che, appena tornato in quella stanza, si era fatto una lunga doccia
bollente.Tutto lo schifo che non ricordava gli aveva lasciato una macchia
indelebile sulla pelle.
Con un gemito buttò giù le gambe dal letto, lasciando cadere la bottiglia per
terra, vicino ai suoi piedi. Il tragitto fino al gabinetto fu un vero spasso, era
così sfasato che barcollava... be', proprio come un ubriaco. E camminare non
era l'unico dei suoi problemi. Ritto davanti al water dovette appoggiarsi al
muro e prendere bene la mira.
Tornato a letto si tirò un lenzuolo sopra le gambe, anche se gli sembrava di
avere la febbre: malgrado fosse solo, non voleva starsene lì a poltrire come
una pornostar in cerca di un'attrice per una particina secondaria.
Merda... la testa gli faceva un male cane.
Chiuse gli occhi, rimpiangendo di non aver spento le luci in bagno.
Tutt'a un tratto, però, smise di preoccuparsi del doposbornia. Con una
chiarezza terribile rivide Xhex che, a cavalcioni sopra di lui, lo montava con
vigorosa scioltezza. Oddio, che scena vivida, molto più che un semplice
ricordo. Con quelle immagini che gli scorrevano nella testa, risentì la morsa
della vulva sul pene e la fermezza con cui Xhex gli teneva giù le spalle,
rivivendo la sensazione di essere dominato.
Ricordava ogni minimo gesto, ogni movimento, tutti gli odori, persino il
modo in cui lei respirava.
Con lei ricordava tutto.
Piegandosi su un fianco raccolse da terra il Jack Daniel's; forse per un
miracolo la farina degli ubriaconi aveva riempito la bottiglia. Niente da fare...
L'urlo che si levò poco lontano era di quelli che si fanno quando si riceve
una pugnalata, un grido lacerante che gli fece passare subito la sbronza, come
dopo un gavettone d'acqua ghiacciata. John afferrò la pistola, saltò giù dal
letto e spalancò la porta, correndo verso la galleria delle statue. Qhuinn e
Blay fecero altrettanto, schizzando fuori dalle due stanze di fianco alla sua,
pronti a combattere.
In fondo al corridoio, i fratelli scuri in volto erano ritti sulla soglia degli
appartamenti di Bella e Zsadist.
«No!» La voce di Bella era acuta come l'urlo di poco prima. «No!»
«Mi dispiace tantissimo», disse Wrath.
Dal capannello dei fratelli, Tohr lanciò un'occhiata a John, pallido e tirato in
volto, lo sguardo spento.
Cos'è successo? Chiese a gesti John.
Tohr mosse lentamente le mani. Rehvenge è morto.
John fece una serie di respiri profondi. Rehvenge... morto?
«Gesù Cristo», farfugliò Qhuinn.
Dalla soglia della camera da letto i singhiozzi di Bella si riversavano in
corridoio. John voleva andare da lei. Ricordava com'era quel dolore. Si era
trovato in quella situazione orribile quando Tohr era sparito, subito dopo che
i fratelli avevano fatto esattamente la stessa cosa: dare la notizia peggiore che
si potesse ricevere.
Anche lui aveva gridato, proprio come Bella, e pianto nello stesso modo.
John guardò Tohr. Gli occhi del fratello bruciavano come se avesse delle
cose da dire, abbracci da dare, rimpianti da farsi perdonare.
Per una frazione di secondo, John fu sul punto di andare da lui.
Ma poi si voltò e, con passo malfermo, tornò in camera sua, chiudendo la
porta a chiave. Si sedette sul letto, poggiò le mani sulle ginocchia e
abbandonò la testa in avanti. Nel suo cervello si agitava il caos del passato,
ma in mezzo al petto dominava un'unica parola: No.
Non poteva riprovarci con Tohr, ci era già passato troppe volte. E poi non
era più un bambino, e Tohr non era mai stato suo padre, perciò tutta la
menata della serie "paparino salvami" non si applicava a loro due.
Al massimo potevano avere un rapporto da guerriero a guerriero.
Scacciò dalla mente il pensiero di Tohr e ripensò a Xhex.
Adesso lei stava soffrendo. Moltissimo.
Non sopportava l'idea di non poter fare niente per lei.
Ma poi rammentò a se stesso che, anche se avesse potuto fare qualcosa, lei
non avrebbe voluto quello che aveva da offrirle. L'aveva messo bene in
chiaro.
Nel suo capanno sul fiume Hudson, Xhex se ne stava seduta sul letto con la
testa penzoloni, le mani poggiate sulle ginocchia. Accanto a lei, sulla coperta,
c'era la lettera che le aveva dato iAm. Dopo averla tirata fuori dalla busta
l'aveva letta una volta, poi l'aveva ripiegata con cura e si era ritirata in quella
stanzetta.
Voltando la testa di lato, guardò fuori dalle finestre coperte di brina il fiume
lento e torbido. Faceva un freddo cane e la temperatura rallentava la corrente
e ghiacciava le sponde rocciose.
Rehv era un lurido bastardo.
W!
Quando gli aveva giurato di prendersi cura di una femmina non si era
soffermata a riflettere bene. Nella lettera, lui le ricordava l'impegno assunto
chiarendo che la femmina in questione era lei stessa: non doveva andare a
cercarlo, non doveva mettere in alcun modo in pericolo la vita della
principessa. In caso contrario, lui non avrebbe accettato il suo aiuto e sarebbe
rimasto nella colonia, qualunque azione lei intraprendesse per salvarlo. Se
fosse andata contro il suo volere e la parola data, iAm aveva ordine di
seguirla fino alla colonia, cosa che avrebbe messo a repentaglio anche la vita
dell'Ombra.
Brutto figlio di puttana.
Era un finale di partita perfetto, degno di uno come Rehv: poteva essere
tentata di infrangere la promessa e poteva sperare di far ragionare il suo
capo, ma aveva già sulla coscienza la morte di Muhrder, e adesso quella di
Rehvenge. Aggiungere alla lista anche quella iAm l'avrebbe uccisa.
E poi Trez sarebbe andato in cerca del fratello, facendo salire il totale a
quattro.
Prigioniera della situazione, strinse il bordo del materasso talmente forte da
far tremare le braccia.
In qualche modo si ritrovò il pugnale in mano; solo in seguito si sarebbe
ricordata che aveva dovuto alzarsi e attraversare la stanza, nuda, fino ai suoi
calzoni, per estrarlo dal fodero.
Tornata a letto, ripensò ai maschi che aveva perso nel corso della sua vita.
Rivide i lunghi capelli scuri di Muhrder, i suoi occhi infossati e l'ombra di
barba sulla mascella squadrata... risentì il suo accento del Vecchio Continente
e rammentò il suo tipico odore di polvere da sparo e sesso. Poi rivide gli
occhi color ametista di Rehvenge, la cresta da moicano e i suoi bei vestiti...
risentì il profumo della sua colonia, Must de Cartier, e rivisse la sua brutalità
chic.
Infine vide gli occhi blu scuro di John Matthew e il suo taglio di capelli
militare... lo sentì muoversi dentro di lei... risentì il suo respiro affannoso
dopo che il suo corpo di guerriero le aveva dato ciò che lei aveva voluto e che
non aveva saputo gestire.
Tutti quanti se n'erano andati, anche se almeno due di loro erano ancora
vivi. Ma non occorreva essere morti per uscire dalla vita di qualcuno.
Guardò la lama lucente, mortalmente affilata, del pugnale e la inclinò in
modo che la debole luce del sole vi si riflettesse in un lampo che l'accecò per
un attimo. Era brava con i coltelli. Erano la sua arma preferita, in realtà.
Bussarono alla porta e lei alzò la testa di scatto.
«Ehi, tutto okay lì dentro?»
Era iAm, che non solo aveva fatto da portalettere per Rehv, ma che
evidentemente era stato incaricato di farle da babysitter. Xhex aveva provato
a buttarlo fuori di casa, ma lui si era trasformato in ombra assumendo una
forma che lei non riusciva ad afferrare e tanto meno a sbattere fuori a calci da
quella maledetta porta.
Anche Trez era seduto nella stanza principale del capanno da caccia, ma a
ruoli invertiti con suo fratello. Quando Xhex si era chiusa a chiave in camera
da letto, lui se n'era rimasto seduto immobile a guardare il fiume in un
silenzio opprimente. Sulla scia della tragèdia c'era stato come uno scambio di
personalità tra i due fratelli e adesso iAm era l'unico a parlare. Per quel che
ricordava, Trez non aveva detto una sola parola da quando avevano appreso
la notizia.
Tutto quel silenzio, però, non c'entrava col lutto; la sua griglia emotiva era
contrassegnata da collera e frustrazione e Xhex aveva la sensazione che Rehv,
nella sua perversa saggezza, avesse trovato il modo di intrappolare anche
Trez nell'inazione. Come lei, anche il Moro stava tentando di trovare una via
d'uscita che però, conoscendo Rehv, non esisteva. Rehvenge era un maestro
nella manipolazione... lo era sempre stato.
E aveva studiato con cura quella exit strategy. A sentire iAm era già tutto
sistemato, non solo sul piano personale, ma anche su quello finanziario. iAm
si era beccato Sal's, Trez la Maschera di Ferro e lei un bel gruzzolo. Rehv
aveva pensato anche a Ehlena, sebbene iAm sostenesse che avrebbe seguito
lui la cosa. Il grosso del patrimonio familiare andava a Nalla; la neonata
ereditava quindi milioni e milioni di dollari accanto a tutti i beni e i cimeli di
famiglia, che, in base al diritto di primogenitura, appartenevano a Rehv e non
a Bella.
Rehv era uscito di scena magnificamente, facendo piazza pulita dello
spaccio di droga e delle scommesse allo ZeroSum. Anche alla Maschera di
Ferro c'erano ragazze a pagamento, ma nessuno degli altri traffici sarebbe
proseguito, né lì né da Sal's. Con la scomparsa del Reverendo, i locali si erano
ripuliti quasi del tutto.
«Xhex, dì qualcosa, almeno so che sei viva.»
iAm non poteva entrare dalla porta o smaterializzarsi per vedere se lei
respirava ancora. La stanza era una cassaforte di acciaio, assolutamente
impenetrabile. C'era persino una sottile rete tutto intomo agli stipiti della
porta per impedirgli di insinuarsi all'interno sotto forma di ombra.
«Xhex, stasera abbiamo già perso lui. Se con te facciamo due su due, giuro
che ti ammazzo da capo.»
«Sto bene.»
«Nessuno di noi sta bene.»
Lei non rispose e sentì iAm allontanarsi dalla porta imprecando.
Forse più tardi poteva aiutarli, quei due. In fin dei conti erano le uniche
persone che sapevano come si sentiva. Persino Bella, che aveva perso suo
fratello, non conosceva la sottile tortura con cui loro tre avrebbero dovuto
convivere per il resto dei loro giorni. Bella credeva che Rehv fosse morto e
questo le consentiva di elaborare il lutto, superare il trauma della perdita e
andare avanti in qualche modo con la sua vita.
Xhex, iAm e Trez, invece, sarebbero rimasti ingabbiati nel limbo-inferno di
chi sa la verità senza poter fare nulla per cambiare le cose... col risultato che la
principessa era libera di torturare Rehvenge fino alla morte.
Pensando al futuro, Xhex aumentò la stretta sul manico del pugnale.
E l'aumentò ancora di più quando avvicinò la lama alla pelle.
Con le labbra serrate per non lasciar trapelare il dolore, versò il proprio
sangue invece delle lacrime.
Ma poi che differenza c'era? I symphath piangevano rosso, proprio come una
vena che stilla sangue.
Capitolo 61
Il cervello di Rehv tornò on line lentamente e a intermittenza. La coscienza
si accendeva e si spegneva, poi tornava di nuovo, diffondendosi dalla base
del cranio su fino al lobo frontale.
Aveva le spalle in fiamme. Tutte e due. La testa gli faceva un male cane da
quando quel symphath lo aveva spedito nel mondo dei sogni con l'elsa della
spada, e il resto del suo corpo sembrava curiosamente privo di peso.
Davanti alle palpebre abbassate, la luce brillava di un rosso scuro. Il che
significava che la dopamina era stata smaltita del tutto dal suo organismo... e
che adesso lui era quello che sarebbe stato per sempre.
Inspirò e sentì odore di... terra. Terra umida e pulita.
Passò qualche minuto prima che si sentisse pronto a dare un'occhiata, ma
alla fine gli serviva qualche altro punto di riferimento, oltre al dolore alle
spalle, Aprì gli occhi battendo le palpebre. Candele lunghe come le sue
gambe erano sistemate alle estremità di quella che all'apparenza era una sorta
di caverna; in cima a ognuna, tremule fiamme rosso sangue si riflettevano su
pareti che sembravano fluide.
No, non erano fluide. C'era qualcosa che strisciava sulla pietra nera... che
strisciava dappertutto...
Rehv abbassò gli occhi su se stesso e provò un senso di sollievo nel vedere
che i piedi non toccavano il pavimento semovente. Un'occhiata all'insù e...
delle catene appese al soffitto ondeggiante lo tenevano sollevato, catene
ancorate da sbarre inserite sotto le sue spalle attraverso il torace.
Era sospeso in mezzo alla caverna, nudo, sopra e sotto i confini lucidi e
pulsanti della roccia.
Ragni. Scorpioni. La sua prigione brulicava di guardie velenose.
Chiuse gli occhi e tese le antenne del suo lato symphath nel tentativo di
individuare altri suoi simili, deciso a protendersi oltre il luogo in cui si
trovava, verso menti ed emozioni che poteva manipolare per liberarsi: era
nella colonia per restarci, d'accordo, ma non significava che dovesse restare
appeso come un lampadario.
Niente. Percepiva solo una rete di elettricità statica.
Le centinaia di migliaia di aracnidi che lo circondavano formavano una
impenetrabile coltre psichica che castrava il suo lato symphath bloccando
tutto, in entrata o in uscita dalla grotta.
Nel petto sentì addensarsi la rabbia, più che la paura; si allungò verso una
delle catene e la tirò, facendo appello ai possenti muscoli pettorali. Tremando
da capo a piedi per il dolore, col corpo che oscillava a mezz'aria, non riuscì a
smuovere le pastoie né a sganciare i fermi che gli trapassavano la carne.
Tornando in posizione verticale sentì un fruscio, come di una porta che si
apriva alle sue spalle.
Qualcuno entrò e, dalla forza del blocco psichico che stava erigendo, Rehv
capì subito di chi si trattava.
«Zio», disse.
«Sono io, sì.»
Il re dei symphath avanzò, strascicando i piedi, con l'aiuto del bastone; per
fargli spazio, i ragni sul pavimento sfilacciarono brevemente la trapunta
formata dai loro corpi prima di richiudersi sui suoi passi. Sotto i panneggi
imperiali rosso sangue, il corpo di suo zio era debole, ma il cervello in cima a
quella schiena ricurva era incredibilmente forte.
A riprova che la forza fisica non era l'arma migliore per un symphath.
«Come ti senti in questa quiete oscillante?» chiese il re, col regale copricapo
di rubini che rifletteva la luce delle candele.
«Onorato.»
Le sopracciglia del re si sollevarono sopra i brillanti occhi rossi. «In che
senso?»
Rehv si guardò intorno. «Mi hai chiuso dentro una prigione impenetrabile.
Il che significa che sono più potente di quanto ti piaccia ammettere, o che tu
sei più debole di quanto speravi.»
Il re sorrise con la serenità di chi non si sente affatto minacciato. «Sai che
tua sorella voleva diventare re?»
«Sorellastra. E la cosa non mi sorprende.»
«Per qualche tempo le ho concesso ciò che voleva, nel mio testamento, ma
poi ho realizzato che mi ero lasciato influenzare in modo riprovevole e ho
cambiato tutto. Ecco a cosa servivano le decime che le versavi. Le usava per
concludere transazioni d'affari con gli umani; inaudito.» L'espressione del re
suggeriva che un tale comportamento equivaleva a invitare topi di fogna
nella propria cucina. «Questo da solo dimostra che è assolutamente inadatta a
governare. La paura è di gran lunga più utile per motivare i sudditi... il
denaro, al suo confronto, è irrilevante, se si vuole conquistare il potere.
Uccidermi, poi? In questo modo pensava di sovvertire il mio piano di
successione, con ciò sopravvalutando enormemente le proprie capacità.»
«Cosa le hai fatto?»
Un altro sorriso serafico. «Ciò che andava fatto.»
«Per quanto conti di tenermi qui così?»
«Finché lei non sarà morta. Sapere che sei mio prigioniero e che sei vivo fa
parte del suo castigo.» Il re guardò i ragni tutt'in- tomo, e qualcosa di simile a
un sincero affetto gli illuminò il volto bianco da teatro kabuki. «I miei amici ti
sorveglieranno a dovere, non preoccuparti.»
«Non sono preoccupato.»
«Lo sarai. Te lo garantisco.» Il re tornò a guardarlo negli occhi; i suoi tratti
androgini assunsero un carattere demoniaco. «Tuo padre non mi piaceva e
sono stato contento che tu l'abbia ucciso. Ciò detto, con me non avrai
quest'opportunità. Vivrai unicamente finché vivrà tua sorella, poi seguirò il
tuo esempio, riducendo il numero dei miei consanguinei.» «S-O-R-E-L-L-A-ST-R-A.»
«Ci tieni proprio a distanziarti dalla principessa. Non c'è da stupirsi che lei
ti adori tanto. Ciò che è irraggiungibile sarà sempre la cosa più affascinante
per lei. Il che, di nuovo, è l'unica ragione per cui sei ancora vivo.»
Il re si appoggiò al bastone e, lentamente, cominciò a tornare sui suoi passi.
Appena prima di uscire dal campo visivo di Rehv, si fermò. «Sei mai stato
sulla tomba di tuo padre?»
«No.»
«È il luogo che più prediligo al mondo. Calpestare la terra su cui la pira ha
ridotto la sua carne in cenere... magnifico.» Il re sorrise con gelida gioia. «Che
sia stato assassinato per mano tua rende il tutto ancora più piacevole, visto
che lui ti ha sempre considerato debole e indegno. Deve avergli bruciato non
poco essere sconfitto da un essere inferiore. Buon riposo, Rehvenge.»
Rehv non disse nulla, preso com'era a saggiare i muri mentali di suo zio in
cerca di un varco.
Quasi approvasse tali tentativi, il re sorrise e riprese a camminare. «Mi sei
sempre piaciuto. Anche se sei solo, un mezzosangue.»
Poi si udì un clic, come di una porta che si chiude.
E le candele si spensero.
Il disorientamento gli serrò la gola. Rimasto solo a penzolare albuio, senza
più punti di riferimento, Rehvenge fu sopraffatto dal terrore. Essere privato
della vista era la peggior...
Le stanghe conficcate nella parte superiore del suo corpo co»' minciarono a
tremare leggermente, come se una brezza, soffiando attraverso le catene, le
facesse vibrare.
Oh... Dio, no. ,
Il formicolio cominciò dalle spalle e si intensificò in un baleno, estendendosi
all'addome e alle cosce, dilagando fino alla punta delle dita, coprendogli la
schiena, risalendogli il collo fino alla faccia. Usando le mani per quanto
possibile cercò di spazzare via: l'orda di ragni e scorpioni, ma più ne gettava
per terra più ne arrivavano. Erano sopra di lui, si muovevano sopra di lui,
avvolgendolo in una camicia di forza di minuscoli, instancabili zampettii.
Sentirli alle narici e intorno alle orecchie fu la sua rovina.
Aveva voglia di urlare. Ma così li avrebbe ingoiati.
Intanto a Caldwell, nella villa di arenaria in cui presto si sarebbe trasferito,
Lash si fece la doccia con pigra precisione, prendendosela con tutta calma,
lavandosi con cura in mèzzo alle dita dei piedi e dietro le orecchie, prestando
particolare attenzione alle spalle e al fondoschiena. Non c'era nessun bisogno
di correre.
Più aspettava meglio era.
E poi, che meraviglia di bagno! Tutto d'alta classe, dal marmo di Carrara
dei pavimenti e delle pareti agli accessori in oro, fino all'enorme specchiera
incisa all'acquaforte sopra i lavandini incassati.
Le salviette appese ai portasciugamani riccamente decorati venivano da
Wal-Mart.
Già, e le avrebbe sostituite al più presto. Erano il massimo che Mr D era
riuscito a rimediare nella sua catapecchia, e Lash non aveva voglia di
sprecare tempo a girare per tutta Caldwell in cerca di qualcosa di meglio con
cui asciugarsi il sedere... non quando aveva tutta una nuova attrezzatura
sportiva da mettere alla prova. Dopo l'allenamento mattutino, tuttavia,
sarebbe entrato in Internet per ordinare roba tipo mobili, lenzuola e coperte,
tappeti e utensili da cucina.
Però poi tutto andava recapitato in quello schifo di topaia dove abitavano
Mr D e gli altri. Fattorini e spedizionieri non erano i benvenuti, nella sua
nuova casa.
Lasciò la luce accesa in bagno e passò nella camera da letto padronale. Il
soffitto era alto come nelle case d'anteguerra, talmente alto che, nelle giuste
condizioni atmosferiche, potevano formarsi delle nubi cumuliformi intorno
alle modanature intagliate a mano. Il pavimento era di un favoloso legno
massello con inserti in ciliegio e i muri erano tappezzati con incredibili volute
verde scuro, come l'interno delle copertine dei libri antichi.
Le finestre erano appena state sigillate con delle coperte dozzinali che
avevano dovuto inchiodare agli infissi... un vero peccato. Come per gli
asciugamani, però, anche questo sarebbe cambiato. E così pure il letto:
nient'altro che un gigantesco materasso posato sul pavimento, nudo e crudo
nella sua pelle bianca imbottita, come un americano del Midwest che cerca di
abbronzarsi in qualche località di lusso.
Lash lasciò cadere l'asciugamano legato intorno alla vita e l'erezione si
protese in avanti. «Mi piace che tu sia una bugiarda.»
La principessa alzò la testa, i lucidi capelli neri mandavano riflessi
azzurrognoli. «Non vuoi liberarmi? Si scopa meglio, te lo garantisco.»
«Non mi interessa.»
«Sei sicuro?» La principessa strattonò le catene d'acciaio fissate al
pavimento. «Non vuoi che ti tocchi?»
Lash sorrise guardando quel corpo nudo... che adesso gli apparteneva a
tutti gli effetti. Lei era il suo regalo, donatogli dal re dei symphath in segno di
buonafede, un sacrificio che era anche un castigo per il tradimento della
principessa.
«Tu non vai da nessuna parte», disse. «E le scopate saranno fantastiche.»
Aveva in mente di usarla fino a ridurla allo stremo delle forze; poi l'avrebbe
portata fuori, costringendola a trovargli dei vampiri da uccidere. Era il
rapporto perfetto. E se poi si stufava di lei o se lei lo deludeva sul piano
sessuale o come bacchetta da rabdomante, se ne sarebbe sbarazzato.
La principessa lo guardò torva, il rosso sangue degli occhi come una
bestemmia urlata a squarciagola. «Devi lasciarmi andare.»
Lash cominciò ad accarezzarsi l'uccello. «Solo per seppellirti.»
Il sorriso di lei era un distillato di malvagità, al punto che Lash fu quasi sul
punto di venire. «Lo vedremo», disse lei con voce bassa e profonda.
Le guardie del corpo del re l'avevano drogata prima che Lash lasciasse la
colonia insieme a lei, e quando l'aveva stesa su quel materasso le aveva
spalancato le gambe al massimo.
In modo da vedere il suo sesso stillante per lui.
«Non ti lascerò mai andare», disse inginocchiandosi sul materasso e
afferrandola per le caviglie.
La pelle di lei era morbida e bianca come la neve, la vulva rosea come i suoi
capezzoli.
Le avrebbe lasciato un mucchio di segni sul quel corpo asciutto e scattante.
E, a giudicare da come lei dimenava i fianchi, le sarebbe piaciuto.
«Sei mia», ringhiò Lash.
In un improvviso lampo di genio s'immaginò il collare del suo vecchio
rottweiler intorno a quel collo lungo e sottile. Le medagliette di King le
avrebbero donato tantissimo, così come il guinzaglio.
Perfetto. Assolutamente perfetto.
Capitolo 62
UN MESE DOPO...
Ehlena fu svegliata dal tintinnio della porcellana e dall'aroma di tè Earl
Grey. Appena aperti gli occhi vide una doggen inuniforme che lottava sotto il
peso di un vassoio d'argento massiccio. Sopra c'era una ciambella appena
sfornata sovrastata da una cupola di cristallo, un vasetto di marmellata di
fragole, una cucchiaiata di crema di formaggio su un minuscolo piattino di
porcellana e, il tocco che lei preferiva, un vasetto di fiori freschi.
Ogni sera un fiore diverso. Questa volta c'era un rametto di agrifoglio.
«Oh, Sasha, non sei tenuta a farlo, davvero.» Ehlena si rizzò a sedere sul
letto, spingendo indietro le lenzuola di lusso, più impalpabili dell'aria estiva
sulla pelle. «E molto gentile da parte tua, ma sinceramente...»
La cameriera si inchinò con un timido sorriso. «La Signora ha il diritto di
svegliarsi con una colazione come si deve.»
Ehlena alzò le braccia quando la cameriera le appoggiò un cavalletto sulle
gambe, sistemandovi sopra il vassoio. Alla vista dell'argenteria tirata a lucido
e del pasto cucinato con cura, il suo primo pensiero fu che suo padre aveva
appena ricevuto un vassoio identico, servito da un doggen di nome Eran.
Accarezzò il manico finemente cesellato del coltello. «Siete così buoni con
noi. Tutti voi. Ci avete fatto sentire i benvenuti in questa casa enorme, e ve ne
siamo molto grati.»
Alzando lo sguardo, Ehlena notò che la doggen aveva le lacrime agli occhi;
la cameriera si affrettò ad asciugarle con un fazzoletto.
«Signora... voi e vostro padre avete trasformato questa casa. Siamo molto
lieti che siate i nostri nuovi padroni. È tutto... diverso ora che siete qui.»
Da brava cameriera non poteva spingersi oltre, ma da come lei e gli altri
membri della servitù trasalivano per un nonnulla, le prime due settimane,
Ehlena dedusse che Montrag non era stato il più facile dei padroni di casa.
Ehlena strinse con forza la mano della domestica. «Sono lieta che sia andato
tutto per il meglio, per tutti noi.»
La cameriera si voltò per tornare alle sue incombenze, all'apparenza agitata,
ma felice. Davanti alla porta si fermò. «Oh, e, Signora, sono arrivate le cose
della signora Lusie. L'abbiamo sistemata nella suite degli ospiti accanto a suo
padre. E il fabbro viene tra mezz'ora, come aveva chiesto.»
«Perfetto, grazie.»
La porta si chiuse senza fare rumore e la doggen si allontanò canticchiando
tra sé un motivetto del Vecchio Continente; Ehlena sollevò il coprivivande
dal piatto e col coltello prese un po' di formaggio. Lusie aveva accettato di
trasferirsi lì con loro per fungere da infermiera e assistente personale del
padre di Ehlena, il che era fantastico. Nel complesso Alyne aveva accolto con
relativa tranquillità la nuova sistemazione, il suo comportamento e il suo
equilibrio mentale erano migliori di quanto fossero da anni, ma l'attenta
supervisione di Lusie contribuiva parecchio ad alleviare la costante
preoccupazione di Ehlena.
Fare attenzione con lui restava una priorità.
Lì alla villa, per esempio, suo padre non aveva preteso l'allumino alle
finestre. Al contrario, preferiva ammirare i giardini, magnifici anche dopo che
erano stati messi a riposo per l'inverno; a posteriori, Ehlena si domandava se,
in parte, la sua decisione di chiudere fuori il mondo esterno non derivasse dal
luogo in cui abitavano prima. Era anche molto più sereno e rilassato, lavorava
regolarmente nell'altra stanza degli ospiti accanto alla sua. Sentiva ancora le
voci, però, preferiva l'ordine al caos di qualunque genere e aveva bisogno
delle sue medicine. Ma era un sogno a confronto dell'ultimo paio d'anni.
Mangiando, Ehlena guardò la camera da letto che aveva scelto per sé e che
le ricordava la vecchia casa dei suoi genitori. Le tende erano dello stesso tipo
di quelle appese nella sua residenza di famiglia, enormi teli rossi, pesca e
bianco panna che ricadevano da una toga, guarniti con ruche e frange. La
lussuosa carta da parati di seta con un motivo ornamentale a base di rose si
intonava perfettamente con l