Radiazioni ionizzanti e danno cardiovascolare

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Radiazioni ionizzanti e danno cardiovascolare
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Scuola Politecnica e delle Scienze di Base
Area Didattica di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali
Dipartimento di Fisica
Laurea triennale in Fisica
Radiazioni ionizzanti e danno
cardiovascolare
Relatori:
Candidato:
Prof. Lorenzo Manti
Dott. Francesca Margaret Perozziello
Mauro Buono
Matricola 567/597
A.A. 2014/2015
INDICE
Introduzione
1. Effetti deterministici e stocastici delle radiazioni ionizzanti
1.1. Cenni sui principali meccanismi di interazione delle
radiazioni ionizzanti con la materia
1.2. Generalità sugli effetti biologici delle radiazioni ionizzanti
1.3. Effetti deterministici
1.3.1. Effetti deterministici sulla cellula
1.3.2. Effetti deterministici sull’uomo
1.4. Effetti stocastici
1.4.1. Danni genetici e carcinogenesi radio-indotta
2. Evidenze dell’aumento di rischio di malattie cardiovascolari radioindotte
2.1. Possibili meccanismi del danno cardiovascolare
radio-indotto
2.2. Il Life Span Study: sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki
2.3. Pazienti sottoposti a radioterapia
2.4. Studi in vitro ed in vivo
3. Conclusioni
4. Bibliografia
Introduzione
La scoperta delle radiazioni ionizzanti (RI) risale ufficialmente al 1895, quando il fisico tedesco Wilhelm
Conrad Röntgen scoprì i raggi X in seguito all’ utilizzo di una valvola termoionica ricoperta da un foglio
di stagno e da una pellicola fotografica. Successivamente, grazie anche all’avvento di tecnologie più
avanzate, si cominciarono ad utilizzare i raggi X a fini diagnostico-terapeutici: infatti, in seguito alla
scoperta della radioattività naturale ad opera di Antoine-Henri Becquerel nel 1896 e all’isolamento di
radio e polonio dalla pechblenda da parte di Pierre e Marie Curie, fu possibile osservare per la prima
volta gli effetti biologici delle RI, marcando così di fatto la nascita della radiobiologia.
Le RI, a differenza delle radiazioni non ionizzanti, le quali sono dotate di un’energia tale da causare al
più effetti termici ed il passaggio di un elettrone da un orbitale atomico ad un altro ad energia maggiore
(eccitazione), posseggono un’energia tale da causare l’espulsione di uno o più elettroni dall’atomo
d’appartenenza (ionizzazione): ad esempio, per la molecola d’acqua, che è la più rilevante
nell’interazione con il materiale biologico l’energia richiesta per un evento di ionizzazione è circa 34 eV
[1].
In termini di dose assorbita, un contributo non trascurabile all’esposizione umana alla RI
proviene dalle sue applicazioni mediche, non solo a scopo diagnostico (radiodiagnostica e
medicina nucleare) ma, soprattutto, a scopo terapeutico (radioterapia). Particolare
diffusione, poi, sta assumendo anche in Italia la radioterapia effettuata con fasci di particelle
cariche (adroterapia): questa è particolarmente efficace nel trattamento di tumori profondi
e/o radioresistenti rispetto a quella convenzionalmente basata su fotoni ed elettroni, a causa
del favorevole profilo di deposizione di energia (curva di Bragg), che comporta meno dose
assorbita dal tessuto sano e maggiore efficacia radiobiologica nell’inattivazione delle cellule
tumorali
Pur essendo innegabili i benefici che l’utilizzo delle RI hanno apportato in ambito medico,
ben noti sono anche i loro effetti cancerogeni e teratogeni sull’organismo: infatti, proprio
tra coloro che pioneristicamente lavorarono con le radiazioni, si registrarono i primi casi di
tumori radio-indotti, ed il cancro rappresenta sicuramente il più temuto tra gli effetti
collaterali a lungo termine, proprio tra i pazienti sottoposti a radioterapia [2].
Meno noti, invece, per lungo tempo sono stati altri effetti dannosi, di tipo non neoplastico
(in inglese, non-cancer effects). In particolare, grande interesse hanno attratto le patologie
cardiovascolari radio-indotte. Infatti, recentemente si sono delineati due importanti filoni di
ricerca, che hanno dimostrato una forte correlazione tra esposizione a RI e danno
cardiovascolare [3]. Il primo è rappresentato dai risultati del Life Span Study (LSS), il più
esaustivo programma di studi epidemiologici sugli effetti biologici delle RI sull’uomo,
condotto su oltre 120.000 sopravvissuti ai bombardamenti atomici delle città di Hiroshima
e Nagasaki, dal quale è emersa non solo una maggiore incidenza di neoplasie connesse alla
dose di radiazione, ma anche un incremento di cause di mortalità non tumorali, soprattutto
cardiovascolari [4]. Il secondo bacino di dati, invece, consiste nel follow-up di pazienti
sottoposti a radioterapia (RT): sia in soggetti affetti da linfoma di Hodgkin a localizzazione
mediastinica, sia in altri colpiti da cancro della mammella sinistra, si è riscontrato
un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari [5,6]. Ciò ha in parte costretto a rivedere
uno degli assiomi della radiobiologia classica, secondo cui i tessuti a ridotto potenziale
proliferativo, come quello cerebrale o, appunto quello cardiaco, erano da ritenersi
particolarmente radioresistenti. Pertanto, un’intensa attività di ricerca si sta focalizzando
sulla comprensione dei possibili meccanismi alla base dell’induzione di malattie
cardiovascolari dovuto all’esposizione alla RI, come il progetto ETHICS, finanziato dalla
Commissione Scientifica Nazionale V dell’Istituto Nazionale di fisica Nucleare, da cui questo
lavoro di tesi prende spunto.
Ciò che è evidente è che il danno da radiazione al cuore sembra presentare tempi di
latenza nell’ordine di anni [5]. Esso può coinvolgere pericardio (maggiormente coinvolto),
miocardio, valvole e vasi coronarici, presentandosi anche come lesioni dell’endotelio. Il
danno capillare si manifesta attraverso telangectasia, mentre il danno ai vasi coronarici e
carotidei si manifesta con complicazioni di carattere trombotico, infiammatorio e
fibrogenico [7].
Al fine di ridurre il rischio tardivo di complicazioni cardiovascolari radio-indotte, risulta quindi
necessaria una comprensione profonda dei meccanismi radiobiologici di tali danni,
ottenibile mediante studi sia in vivo che epidemiologici.
In questo lavoro di tesi si discuteranno i risultati ad oggi disponibili sul nesso tra RI e danno
cardiovascolare.
1. Effetti deterministici e stocastici delle
radiazioni ionizzanti
1.1. Cenni sui principali meccanismi di interazione delle radiazioni ionizzanti con la
materia
Le RI possono essere, per comodità e convenzione, classificate in elettromagnetiche e corpuscolari: le
prime consistono in raggi X e raggi gamma (a seconda che abbiano origine atomica o nucleare,
rispettivamente), mentre le seconde in protoni, neutroni, elettroni, positroni e ioni.
Un’ulteriore classificazione delle RI riguarda il loro meccanismo preferenziale di interazione. Si suole
suddividere le RI in direttamente ionizzanti o indirettamente ionizzanti: nel primo caso, s’intende che
la RI deposita la sua energia direttamente sulla molecola di interesse, ad esempio il DNA, ivi
producendo alterazioni dei legami chimici; per indirettamente ionizzanti, s’intendono quelle
radiazioni in cui il danno è prodotto dalle specie radicali reattive che vengono generate in seguito
all’interazione con l’ambiente circostante, costituito essenzialmente da molecole d’acqua (figura 1)
[1].
Figura 1. Rappresentazione del meccanismo di danno diretto ed indiretto da parte delle RI sul
DNA
Le radiazioni corpuscolari sono considerate direttamente ionizzanti; a differenza dei raggi x e
gamma I neutroni, infine, non essendo dotati di carica elettrica, non subiscono perturbazioni
di tipo coulombiano da parte degli elettroni atomici e possono quindi raggiungere i nuclei,
provocando l’emissione di particelle cariche o neutre, e di raggi gamma, le quali a loro volta,
possono ionizzare e danneggiare le biomolecole. Si tratta ancora, quindi, di radiazioni
indirettamente ionizzanti (tabelle 1 e 2). [8]
Tabella 1. Classificazione delle radiazioni in funzione della loro lunghezza d’onda (λ) e della
loro energia (hν)
Tabella 2. Principali tipi di radiazioni ionizzanti.
Gli elettroni secondari, messi in moto dal meccanismo di ionizzazione e anche detti raggi δ 1,
trasportano energia l’energia ceduta dal fotone o particella e la trasferiscono al mezzo
circostante, anche a punti molto distanti dal sito in cui è avvenuta l’interazione iniziale.
Nel caso di particelle, il linear energy transfer (LET) fornisce un’indicazione della densità di
eventi di ionizzazione lungo la traccia della ione incidente . Il LET è, pertanto, definito come:
𝑑𝑑𝑑𝑑
𝐿𝐿∆ = � 𝑑𝑑𝑑𝑑 � ,
∆
dove con dE si intende la quantità di energia ceduta localmente per collisioni dalla particella
lungo un segmento di traccia dl, avendo considerato esclusivamente trasferimenti di energia
inferiori ad un valore soglia (cut) Δ. In radiobiologia si usa comunemente il LET100 dal
momento che fino a 100 eV gli elettroni secondari hanno range nell’ordine dei nm, quindi di
interesse per il danno al DNA (la cui doppia elica è distanziata di circa 2 nm)
L’unità di misura più utilizzata per il LET è il keV ∙ μm-1.
In base alla loro energia e alla natura del mezzo, i raggi X e gamma, invece, subiscono una
grande varietà di processi, tra cui i più rilevanti ai fini radiobiofisici, sono l’effetto
fotoelettrico, l’effetto Compton e la creazione di coppie.
•
Effetto fotoelettrico
Si verifica quando un fotone di energia intorno a 0.5 MeV, interagisce con un elettrone
atomico delle shell più interne. Nell’urto il fotone trasferisce la sua energia
all’elettrone, il quale conserva la sua quantità di moto, in virtù del suo legame col
nucleo. Quest’ultima viene successivamente assorbita dal nucleo, il cui stato resta
immutato, a causa della massa molto maggiore di quella dell’elettrone, il quale
acquisisce energia sufficiente ad essere espulso dall’atomo (figura 2).
L’energia minima posseduta dall’elettrone espulso è data da:
𝐸𝐸𝑚𝑚𝑚𝑚𝑚𝑚 = ℎ𝜈𝜈 − 𝐸𝐸𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙𝑙
dove hν è l’energia assorbita dal fotone incidente.
1
Il nome deriva dal fatto che, essendo emessi con energia relativamente bassa, la traiettoria è breve e soggetta a
collisioni, disegnando una sorta di delta dell’alfabeto greco.
Figura 2. Rappresentazione schematica dell’effetto fotoelettrico
•
Effetto Compton
Consiste nell’interazione tra un fotone ed un elettrone debolmente legato al nucleo,
ossia con un’energia molto più bassa rispetto a quella dello stesso fotone (intorno al
MeV, in genere) Nell’interazione il fotone viene diffuso in una direzione diversa da
quella d’incidenza, mentre l’elettrone viene a sua volta messo in moto con una certa
energia cinetica (figura 3).
Dalle leggi di conservazione dell’energia e del momento, risulta che l’energia del
fotone dopo l’urto è data da:
ℎ𝜈𝜈 ′ =
ℎ𝜈𝜈
1 + 𝛾𝛾(1 − 𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐)
dove hν è l’energia iniziale del fotone, θ è l’angolo di diffusione e γ = hν/mc2.
L’energia cinetica dell’elettrone è, invece, data da:
𝐸𝐸𝑒𝑒 = ℎ𝜈𝜈 �
𝛾𝛾(1 − 𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐)
�.
1 + 𝛾𝛾(1 − 𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐𝑐)
Figura 3. Rappresentazione schematica dello scattering Compton.
•
Produzione di coppie e-, e+
In questo processo il fotone viene assorbito e la sua energia viene in parte trasferita in
massa di una coppia elettrone-positrone e in parte come energia cinetica di queste
due (figura 4). Dai principi di conservazione dell’energia e del momento risulta che
questo fenomeno è possibile soltanto nel campo coulombiano di un nucleo o di un
elettrone e se l’energia del fotone incidente supera una certa soglia, data da hν ≥ 2mc2
(1,02 MeV), dove m è la massa dell’elettrone (0,511 MeV). La quantità di energia
trasformata in energia cinetica della coppia di particelle prodotte è
𝐸𝐸 + + 𝐸𝐸 − = ℎ𝜈𝜈 − 2𝑚𝑚𝑐𝑐 2 .
L’energia non si distribuisce equamente tra le due particelle prodotte, a causa della
repulsione coulombiana tra nucleo ed elettrone. Successivamente, il positrone
annichila, producendo una coppia di fotoni a 511 keV.
Figura 4. Rappresentazione schematica della creazione di coppie e+,e-.
Nel caso delle particelle cariche pesanti, indipendentemente dai tipi di processi in cui possono
essere coinvolti, è possibile fornire una stima della perdita dell’energia da essi trasportata per
unità di distanza percorsa nel mezzo, causata dalla interazione Coulombiana con gli elettroni
degli atomi bersaglio (electron stopping), è descritta dalla formula di Bethe- Bloch:
dove
2
𝑁𝑁 𝑧𝑧𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡
4 𝜋𝜋𝜋𝜋 2 𝑍𝑍𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒𝑒
𝑑𝑑𝑑𝑑
𝑚𝑚𝑣𝑣 2
=
ln
�
− 2𝛽𝛽 2 − 𝛿𝛿 − 𝑈𝑈�
𝑚𝑚𝑒𝑒 𝑣𝑣 2
𝐼𝐼0 𝑧𝑧𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡𝑡
𝑑𝑑𝑑𝑑
•
e è la carica dell'elettrone
•
N è la densità atomica del target
•
ztrg è il numero atomico degli atomi del target
•
me è la massa dell'elettrone
•
v è la velocità della particella proiettile
•
Zeff è la carica efficace del proiettile
•
I0 é il potenziale di ionizzazione medio effettivo calcolabile per Z > 1 con la formula
semiempirica: I0=16 Ztrg0.9 eV
•
β è v/c
•
δ ed U: correzioni relativistiche.
L’andamento che descrive la perdita di energia di una particella carica per unità di percorso in
funzione della profondità è rappresentato graficamente dalla curva di Bragg: si osserva una
regione in cui vi è una perdita di energia costante (detta plateu) fino ad una determinata
profondità in cui vi è la massima deposizione di energia (detto picco), la quale avviene in
prossimità del punto di arresto dello ione (figura 5).
Figura 5. Perdita di energia in funzione della profondità per vari tipi di RI in acqua.
•
Neutroni
Per quanto concerne l’interazione dei neutroni con la materia, essa ha luogo per collisione
diretta con i nuclei atomici. Queste interazioni dipendono dall’energia dei neutroni, dalla
densità atomica e dalle masse degli atomi interessati.
Essi, essendo neutri, possono penetrare profondamente nella materia dal momento che
non interagiscono elettricamente con le particelle cariche circostanti. In funzione
dell’energia posseduta, distinguiamo i neutroni lenti (da 0 a 1 keV) dai neutroni veloci (da
0,5 a 10 MeV); esistono, inoltre, i neutroni intermedi, la cui energia è compresa fra quella
dei neutroni lenti e veloci.
L’interazione tra un neutrone ed un generico nucleo ZXA genera un nucleo composto in
uno stato eccitato ( ZYA+1)*:
𝐴𝐴
𝑍𝑍𝑋𝑋
+ 𝑛𝑛 → ( 𝐴𝐴+1𝑍𝑍𝑌𝑌)∗
Il nucleo composto resta in uno stato eccitato per un tempo breve, per poi rilasciare
l’energia in eccesso, emettendo una o più particelle. Se il neutrone viene riemesso, si
verifica lo scattering, detto elastico, se il nucleo resta in uno stato eccitato, altrimenti la
collisione è di tipo inelastico: in questo caso, il prodotto della reazione sarà un nucleo in
uno stato finale diverso da quello iniziale.
1.2. Generalità sugli effetti biologici delle radiazioni ionizzanti
Nel caso del DNA, che rappresenta il bersaglio per eccellenza dell’azione geno- e citotossica
delle RI, le principali alterazioni consistono nella formazione di legami trasversali, nel
danneggiamento di una base azotata o di uno zucchero, nella rottura della singola elica, o
single-strand break (SSB) e rotture della doppia elica, o double-strand break (DSB), cui si
aggiungono la formazione di cluster di lesioni (tipicamente danni alle basi, SSB e DSB
ravvicinati fra loro, specie nel caso di ioni pesanti e neutroni), intercalazione (ossia
l’introduzione di un frammento tra i due filamenti del DNA), intra-strand cross link, interstrand cross link e, infine, il legame crociato tra DNA e proteine. Tutte queste lesioni possono
manifestarsi sia per effetto dell’azione diretta che indiretta (quest’ultimo è il meccanismo
predominante nel caso dei fotoni come detto in precedenza) (figura 6).
Tra la deposizione di energia dovuta al passaggio della RI nella materia biologica ed il
manifestarsi di effetti biologici macroscopici possono intercorrere anche anni. Tuttavia, ciò
che determina l’entità del danno avviene in tempi rapidissimi: i processi fisici di assorbimento
energetico avvengono nell’ordine dei 10-15s, quelli chimici, in cui il danno viene “fissato”
nell’ordine dei 10-5s (a causa della vita media dei radicali) e, infine, quelli biologici possono
presentare, appunto, una latenza di anni.
L’azione della RI sulla molecola di DNA è oggetto di numerosi studi in quanto essa è presente in singola
copia ed è portatrice dell’informazione genetica individuale; ciò non implica che le altre molecole
presenti all’interno della cellula non siano radiosensibili. E’ stato stimato che l’assorbimento di una
dose di 1Gy2 da parte di un nucleo cellulare comporta circa 2000 ionizzazioni.
Il danno al DNA può tradursi, a livello cellulare, in una serie di effetti, causando alterazioni
nella duplicazione, nella trascrizione o nella traduzione. La ionizzazione della molecola di
DNA può causare mutazioni o amplificazioni geniche, riarrangiamenti cromosomici
responsabili di carcinogenesi e/o morte cellulare per apoptosi, necrosi o morte
clonogenica [9].
Figura 6. Rappresentazione dei principali danni al DNA
1.3. Effetti deterministici
Per danni deterministici indotti dalla RI si intendono quelli in cui frequenza ed entità
dell’effetto variano in funzione della dose ed in cui è individuabile una dose soglia, superata
la quale tali effetti si manifestano, pur considerando la ben nota variabilità inter-individuale
2
Il Gray (1 Gy = 1J/1 Kg) indica la quantità di energia rilasciata dalla RI ed assorbita per unità di massa.
della risposta alla RI. Inoltre, il valore della dose soglia è funzione della distribuzione
temporale della dose, quindi è necessario, in caso di esposizioni protratte, elevare la soglia
secondo un “fattore di protrazione”.
Come è evidente in figura 7, la gravità del danno aumenta al crescere della dose, pur avendo
un periodo di latenza solitamente breve (nell’ordine di giorni o settimane), in taluni casi
tardivo nell’ordine di mesi od anni. Ovviamente, esistono diversi tipi di andamenti funzionali
per le curve dose-effetto, a seconda dell’effetto e del tipo di radiazione considerati. [10]
Figura 7. Rappresentazione grafica del danno deterministico in funzione della dose di
radiazione assorbita.
1.3.1. Effetti deterministici sulla cellula
Il principale danno cellulare, superata la dose soglia, è la morte della cellula stessa. Essa
può esprimersi principalmente in due modi: inibizione della capacità riproduttiva cellulare
(morte proliferativa), oppure, in caso di dosi elevatissime (decine di Gy), morte causata
dalla distruzione delle strutture cellulari. La morte cellulare è, tuttavia, un fenomeno
complesso e la definizione di “morte” non è univoca, in quanto esso dipende dalla
particolare funzione che viene a cessare nella cellula cosiddetta morta o dal meccanismo
attraverso cui l’integrità della cellula viene persa.
Il concetto di morte proliferativa rappresenta il pilastro del razionale dell’utilizzo delle RI in
radioterapia, in quanto l’arresto della proliferazione celluare causa la regressione delle
malattie neoplastiche. Una delle modalità “classiche” per valutare l’effetto della radiazione
è la costruzione di una curva di sopravvivenza clonogenica, in cui si misura la frazione di
cellule sopravvissute, il cui acronimo è SF (Surviving Fraction), in funzione della dose. La
prima definizione operativa di sopravvivenza cellulare fu data da Puck e Marcus nel 1956:
una cellula sottoposta a radiazione sopravvive se essa riesce a generare una colonia
contenente almeno 50 individui, o equivalentemente, se si innescano circa 5-6 cicli di
divisione cellulare successivi all’irraggiamento [11].
L’entità della morte cellulare non dipende esclusivamente dalla dose ricevuta, ma, anche
ad esempio, dal tipo di cellula (quindi dalla radiosensibilità intrinseca), dalla qualità della
radiazione (fotoni o particelle cariche) e, quindi, dal LET.
I dati sperimentali sulla dipendenza della sopravvivenza cellulare dalla dose per radiazioni a
basso LET sono ben descritti dall’equazione lineare-quadratica:
𝑆𝑆𝑆𝑆(𝐷𝐷) = 𝑒𝑒 𝛼𝛼𝛼𝛼+ 𝛽𝛽𝐷𝐷
dove:
2
•
SF: è la frazione di sopravvissuti
•
D: è la dose
•
α: è il fattore che modellizza il danno letale, proporzionale alla dose
•
β: è il fattore che modellizza il danno sub-letale proporzionale al quadrato della dose.
Le radiazioni ad alto LET (ad esempio, gli ioni accelerati) hanno per loro natura una più alta
probabilità di interagire con la materia, pertanto gli eventi di ionizzazione da esse prodotti
sono ravvicinati l’uno all’altro, e ciò provoca una più alta probabilità di generare DSB, ovvero
danno letale, non riparabile. Invece, le radiazioni a basso LET (es. raggi X), producendo eventi
di ionizzazione spazialmente separati l’uno dall’altro, hanno una più bassa probabilità di
interagire con la materia e, quindi, producono principalmente SSB, il quale è un danno più
facilmente riparabile rispetto ai DBS dai sistemi cellulari.
Come mostrato in figura 8, la curva lineare-quadratica di sopravvivenza clonogenica delle
radiazioni a basso LET è caratterizzata da una spalla alle basse dosi ( <= 1Gy, dovuta
principalmente ai danni sub letali), mentre, al crescere del LET, si osserva una progressiva
scomparsa della spalla ed una accentuazione della pendenza della curva di sopravvivenza.
Questo, secondo i modelli radiobiologici correnti, rispecchia la maggiore efficacia
nell’induzione di morte cellulare della radiazione ad alto LET.
Figura 8. Andamento delle curve di sopravvivenza relative a cellule esposte a due diversi tipi di
RI; si osservi che la frazione di sopravvissuti è riportata in scala semilogaritmica, mentre la
dose in scala lineare. Alla componente αD è associato un danno non riparabile mentre alla
componente βD2 un danno riparabile (danno sub-letale). Il rapporto α/β fornisce il valore della
dose in corrispondenza del quale i contributi della componente lineare e di quella quadratica
sono uguali; esso dipende dal tipo di radiazione e viene assunto come indice della
radiosensibilità della linea cellulare.
1.3.2. Effetti deterministici sull’uomo
Per quanto riguarda gli effetti deterministici sull’uomo, tessuti e organi sottoposti ad elevate
dosi di radiazioni sono danneggiati principalmente a causa della inattivazione di un elevato
numero di cellule, che a sua volta causa un’alterazione dell’equilibrio strutturale del tessuto
(omeostasi). Maggiormente danneggiate sono le cellule cosiddette radiosensibili, perché ad
elevato ritmo mitotico e morfologicamente e funzionalmente indifferenziate. Sono, invece,
considerate radioresistenti le cellule differenziate, mature, specializzate e con scarsa
probabilità di divisione cellulare. Vedremo che questo assioma è contraddetto proprio dalle
evidenze a supporto del nesso fra esposizione a RI e danno cardiovascolare.
La radiosensibilità di un tessuto è, quindi, secondo il modello di Bergonie e Tribondeau [1],
direttamente proporzionale all’attività mitotica e inversamente proporzionale al grado di
differenziazione delle cellule che lo compongono (tabella 3).
Nell'irradiazione cronica della pelle (soprattutto in corrispondenza delle mani), l'esperienza
clinica ha dimostrato che sono necessarie dosi di qualche decimo di Gy alla settimana e per
lunghi periodi (molti mesi, anni) per causare una radiodermite cronica ("cute del
radiologo")[12].
Qualora l'irradiazione acuta avvenga al corpo intero o a larga parte di esso (panirradiazione),
viene a determinarsi, per dosi sufficientemente elevate, la cosiddetta sindrome acuta da
irradiazione, che può portare a morte, a causa di perdita irreparabile di un elevato numero di
cellule in uno o più organi vitali del corpo.
Questa sindrome è caratterizzata da tre forme cliniche, la gravità delle cui manifestazioni
dipende dalle rispettive dosi-soglia:
•
ematologica, che causa la sindrome del midollo osseo, in cui, dopo un’irradiazione di 2-10 Gy,
si ha l’alterazione della struttura vascolare midollare, ipocellularità, con conseguente
deplezione delle tre linee cellulari midollari (ematopoietiche, leucocitarie e megacariocitiche),
frammentazione del nucleo cellulare e picnosi (morte in interfase)[13];
•
gastro-intestinale, che determina la sindrome gastrointestinale, nella quale con una dose di 10
– 100 Gy, si ha il danno dell’enterocita (cellula epiteliale a rivestimento dei villi intestinali) ,
costituito da rigonfiamento, picnosi e necrosi, fino alla disepitelizzazione, con conseguente
spinta rigenerativa, manifestata dall’aumento del ritmo mitotico[14];
Tessuto
Dose
(Sv) 3
Frazionamento
Effetto
Testicoli
0.15
singola dose
sterilità
temporanea
Testicoli
3.5 6.0
singola dose
sterilità
permanente
Ovaio
2.5 6.0
singola dose
sterilità
Ovaio
6.0
multifrazionate
sterilità
Cristallino
0.5 2.0
singola dose
opacità visibili
Cristallino
5
singola dose
cataratta
Cristallino
5
multifrazionate
opacità visibili
Cristallino
>8
multifrazionate
cataratta
Midollo
osseo
0.5
singola dose
ridotta
ematopoiesi
Tabella 3. Dose-soglia degli effetti deterministici su alcuni tipi di tessuti.
•
neurologica, che si esplica nella sindrome del sistema nervoso centrale, la quale è indotta da
lesioni dirette alle cellule nervose cerebrali e a lesioni vasali; esse causano disequilibrio
idroelettrolitico per variazione della permeabilità vascolare, modificazioni neuronali, danno
del centro del respiro bulbare. Il tempo medio di sopravvivenza varia con la dose, ma una
dose minima di 100 Gy causa la morte dell’individuo [15].
Un tipico effetto deterministico tardivo è, poi, quello che avviene a livello del cristallino,
causando una cataratta precoce radio-indotta [16].
Il polmone, organo particolarmente radiosensibile, può presentare radiopolmonite acuta e
morte entro pochi mesi per una dose di 25 Gy. Il danno polmonare è costituito
essenzialmente da morte dell’epitelio di rivestimento delle vie respiratorie ed alveolari, con
3
Il Sievert (Sv) è usato in radioprotezione per quantificare il rischio/danno provocato dalla radiazione su un organismo.
E’ dimensionalmente equivalente al Gy da cui differisce per una serie di fattori adimensionali (weighting factors) che
tengono conto sia delle diverse caratteristiche delle RI (fotoni vs. ioni, ad esempio) sia della diversa radiosensibilità di
organi e tessuti.
conseguente infiammazione, ostruzione delle vie respiratorie e dei vasi sanguigni ed infine
fibrosi [17].
L’irradiazione gonadica comporta, nella donna, sterilità temporanea e amenorrea, per dosi di
1-2 Gy; per dosi superiori, sterilità permanente per uccisione degli oociti.
Nell’uomo, invece, si ha, per un’irradiazione moderata, fertilità non immediatamente ridotta,
mentre con l’aumentare della dose, una sterilità maggiore, fino a sterilità definitiva per dosi
pari a 4 – 6 Gy [18].
1.4. Effetti stocastici
I danni stocastici sono quegli effetti in cui solo la probabilità di accadimento, e non la gravità,
è funzione della dose; essi non richiedono il superamento di un valore soglia per la loro
comparsa, sono a carattere probabilistico, si distribuiscono casualmente nella popolazione
esposta e presentano associazione causale statistica (come dimostrato dalla sperimentazione
radiobiologica e dall’evidenza epidemiologica) (figura 9).
Figura 9. Rappresentazione grafica della probabilità di manifestazione di danni stocastici in
funzione della dose di radiazione assorbita.
Essi possono manifestarsi anche dopo molti anni dall’irradiazione, e non mostrano
tipicamente un andamento lineare in funzione della dose ricevuta [10].
È possibile effettuare una valutazione del rischio per l’esposizione a basse dosi delle RI,
mediante uno dei modelli cardini nel campo della radioprotezione: il linear no-threshold
model (LNT). Secondo questo modello, qualunque radiazione, indipendentemente dalla sua
dose, può risultare nociva, in quanto, la correlazione tra dose assorbita e rischio è di tipo
“lineare senza soglia”. Quindi, tale modello prevede che non esista alcuna soglia al di sotto o
al di sopra della quale, la risposta cessi di essere lineare.
Tuttavia, sono stati elaborati modelli alternativi al LNT, in quanto, gli studi epidemiologici su
individui esposti a dosi di radiazione più elevati rispetto alla media, hanno dimostrato
incidenze di patologie tumorali radio-indotte notevolmente più basse rispetto a quanto
previsto dal LNT. Uno di questi prevede che l’organismo non presenti danni apprezzabili per
radiazioni al di sotto di una certa dose assorbita. Secondo altri modelli, invece, il danno
presenterebbe un andamento non-lineare alle basse dosi: l’organismo, non riuscendo a
riparare il danno debolmente indotto, risulterebbe più esposto.
Le ricerche in campo di radioprotezione considerano tuttora il LNT come il modello più
affidabile (figura 10) [19].
Figura 10. Rappresentazione del modello correntemente in auge in radioprotezione (LNT) e
delle sue possibili modificazioni alle basse dosi.
Gli effetti stocastici si dividono in somatici, laddove il danno si esplica sulle cellule del soma
(corpo), e in tal caso, il danno si trasmette alle cellule figlie, con conseguente trasmissione di
una patologia, ed in effetti genetici, laddove il danno avviene sulle cellule germinali e quindi la
mutazione viene trasmessa alla progenie.
1.4.1. Danni genetici e carcinogenesi radio-indotta
Vi sono due tipi di danno genetico da radiazioni: le mutazioni geniche (o puntiformi) e le
aberrazioni cromosomiche.
Le mutazioni geniche sono variazioni del DNA, mentre le aberrazioni cromosomiche sono
variazioni nella struttura o nel numero di cromosomi.
Le mutazioni geniche possono aumentare, ridurre od alterare l’espressione di un gene. Le RI,
come altri agenti genotossici, possono aumentare il tasso di mutazioni in piante ed animali.
Le mutazioni cromosomiche sono importanti non tanto nelle cellule somatiche del corpo
quanto in quelle germinali. Infatti, la mutazione di una cella somatica può provocare la morte
di quella cellula o la sua trasformazione in senso neoplastico.
Invece, le mutazioni delle cellule germinali o degli zigoti, causano altissima probabilità di
morte della prole o, comunque, gravi difetti somatici. Aberrazioni cromosomiche sono
provocate da interscambi nello stesso cromosoma o fra cromosomi diversi, o delezioni.
Intere porzioni di cromosomi vengono casualmente eliminate o si fondono con altri già
presenti. I geni si vengono così a trovare in una posizione diversa da quella originale, con
conseguente alterata regolazione genica con effetti estremamente drammatici (figura 11)
[20].
In caso di esposizione a basse dosi e/o continuative nel tempo (esposizioni croniche), il danno
cellulare è principalmente esplicato dalle modificazioni molecolari a livello del DNA, che può
portare al più temuto fra gli effetti non deterministici dell’esposizione alle RI, cioè la
carcinogenesi radio-indotta. Tale processo è del tutto casuale; infatti, è necessario che
l’interazione della radiazione col tessuto provochi danno al DNA, che non vi sia un
meccanismo efficace di riparo, che la conseguenza del danno non sia la morte cellulare, ma,
ad esempio, mutazioni o alterazioni strutturali e numeriche dei cromosomi, che la cellula
mutata non venga attaccata e distrutta dal sistema di difesa dell’organismo e, infine, che si
sviluppi una neoplasia clinicamente evidente. Questa catena di eventi non ci consente di
parlare di certezza del danno, ma di probabilità di danno post-esposizione a RI [21].
Figura 11. Rappresentazione di possibili mutazioni cromosomiche.
Il fatto che in seguito all’esposizione, anche dopo molti anni, si possa sviluppare un tumore
radio-indotto rende difficile stabilire direttamente un nesso di casualità tra esposizione alla RI
e l’insorgenza del tumore. E, pertanto, necessario, ottenere correlazioni sicure di tipo causaeffetto, eseguendo studi statisticamente robusti su elevato numero di persone irradiate. E’
stato questo il caso, come verrà discusso in seguito nello specifico tema della correlazione fra
esposizione a RI e malattie cardiovascolari, danno anch’esso stocastico ma non carcinogenico,
dei sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki o di pazienti sottoposti a
radioterapia.
2. Evidenze dell’aumento di rischio di
malattie cardiovascolari radio-indotte
Le patologie cardiovascolari costituiscono, insieme al cancro, la prima causa di morbidità 4 e
mortalità 5 al mondo [22]. Si stima che oltre il 50% dei pazienti affetti da cancro venga
sottoposto a radioterapia (RT). Come menzionato in precedenza, una crescente mole di dati
sperimentali ed epidemiologici punta a un chiaro nesso causale fra esposizione a RI e
incremento di rischio a danno cardiovascolare, per cui è facile comprendere quanto sia
importante conoscere quali siano i reali effetti che le RI possano avere sull’apparato
cardiovascolare, e quanto possano incidere sul sopraggiungere di patologie cardiovascolari
nell’individuo trattato.
Sono sostanzialmente due le principali fonti su cui si basano le evidenze sperimentali fra danni
cardiovascolari (DCV) a lungo termine e RI: i sopravvissuti alle esplosioni atomiche di
Hiroshima e Nagasaki ed i pazienti trattati con RT.
Questi studi dimostrano che all’irradiazione totale, per dosi inferiori di 1 Gy, è associato un
incremento del fattore di rischio relativo 6 al DCV [3].
Va sottolineato, comunque, come fattori come l’ampia diversità dei diversi sottotipi di DCV e
la presenza non trascurabile di altri fattori di rischio, complichino le stime di rischio per
l’insorgenza tali effetti radio-indotti stocastici di natura non-cancerosa.
Gli studi epidemiologici forniscono informazioni raccolte su un lungo arco temporale e su
una coorte di individui sufficientemente ampia per l’identificazione degli effetti relativi
all’incidenza delle malattie cardiovascolari associati alla radiazione. Le ricerche
sull’esposizione alle alte dosi e la meta-analisi 7 dell’esposizione a dosi medio-basse,
4
Proporzione di individui ammalati in un dato momento in rapporto al numero di individui a rischio, intesi come coloro
che nella popolazione considerata possono contrarre malattia.
5
Rapporto tra numero di individui deceduti in una popolazione durante un periodo di tempo e numeri di individui che
compongono la popolazione stessa.
6
Probabilità che un soggetto appartenente ad un gruppo esposto a determinati fattori sviluppi la malattia, rispetto alla
probabilità che un soggetto appartenente ad un gruppo non esposto sviluppi la stessa malattia
7
È uno strumento di ricerca secondario consistente in una serie di metodi matematico-statistici atti alla rivalutazione e
integrazione di più studi clinici, al fine di ottenere un unico indice quantitativo di stima che permetta di trarre
conclusioni più forti di quelle tratte sulla base di ogni singolo studio
dimostrano un incremento di cardiopatie ischemiche [3, 4, 23].
In questo contesto, risulta sempre più difficile attribuire ai DCV radio-indotti una
connotazione stocastica o deterministica ben precisa, in quanto in alcuni casi è possibile
osservare una soglia piuttosto che in altri.
Ciò che è certo è che risulta impossibile la predizione di tali effetti senza un’accurata
conoscenza dei meccanismi che conducono al danno radio-indotto.
2.1. Possibili meccanismi del danno cardiovascolare radio-indotto.
È noto che il principale meccanismo legato al sopraggiungere di patologie cardiovascolari è la
formazione di placche ateromasiche. Non è ancora stato possibile definire pienamente i
meccanismi primari di azione attraverso cui si manifesta il danno aterosclerotico radioindotto. Un numero elevato di effetti, come il danno endoteliale, l’infiltrazione lipidica e di
cellule infiammatorie e l’attivazione lisosomiale, invece, sono ampiamente documentati
[24,25].
In prima istanza, il meccanismo alla base del danno vascolare radio-indotto è riconducibile a
disfunzioni dell’endotelio [26], anche se fattori come il fumo e la dislipidemia sembrano
fungere da acceleratori del danno, mentre la radiazione può indurre, a livello delle arterie
(figura 12) ed, in particolare a livello coronarico, cambiamenti di carattere fibrotico.
Sembrerebbe che l’effetto combinato di irradiazione ed altri fattori di rischio possano
aumentare e accelerare il processo aterosclerotico.
È poi confermato che l’infiammazione gioca un ruolo fondamentale nella comparsa e nello
sviluppo di tali processi. E’ altresì noto che la RI induce cambiamenti a breve termine in
condizioni di stress ossidativo all’interno della parete arteriosa ed in quelle delle lipoproteine
aterogene, le quali partecipano attivamente alla formazione del danno.
Un altro meccanismo di disfunzione endoteliale radio-indotta avviene attraverso la
produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS). Alcune molecole proinfiammatorie
(citochine e fattori di crescita) possono stimolare la proliferazione endoteliale radio-indotta, la
proliferazione di fibroblasti, la deposizione di collagene e quindi la fibrosi che porta
all’evoluzione della placca ateromasica.
Figura 12. Rappresentazione strutturale di una generica arteria.
Il danno endoteliale conseguente all’irradiazione determina secrezione di trombomoduline
[27]. Queste insieme ad altre molecole proinfiammatorie incrementano l’attrazione dei
leucociti sull’endotelio (chemiotassi), con conseguente infiltrato infiammatorio subendoteliale [28].
La proliferazione intimale del tessuto fibroso, conseguente all’infiammazione, porta
all’occlusione del lume vascolare [29]. La placca ateromasica conseguente a radiazione non è
tuttavia istologicamente distinguibile da quella non radio-indotta. Tuttavia, nella placca radioindotta, la tonaca media risulta maggiormente distrutta, mentre l’avventizia subisce un
notevole inspessimento con presenza di maggiore fibrosi [30]. In particolare lo studio dei vasi
coronarici ha mostrato che il danno da irradiazione è caratterizzato anche da una diminuzione
delle cellule di muscolatura liscia dello strato muscolare e da fibrosi dell’avventizia [29].
2.2. Il Life Span Study: sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki
Le evidenze epidemiologiche che ad oggi sono note nell’associazione tra irradiazione e DCV si
basano in gran parte dai dati derivanti dagli studi sulle popolazioni di Hiroshima e Nagasaki.
Nel 1950 ebbe inizio uno dei primi studi sulle conseguenze a lungo termine (mortalità,
incidenza di neoplasie e malattie non cancerose) che le radiazioni ionizzanti hanno sull’uomo,
il Life Span Study (LSS). Tale studio, condotto dal Radiation Effects Research Foundation (RERF)
e prima ancora dall’ Atomic Bomb Casualty Commission, consisteva in una coorte di circa
120000 individui selezionati tra i 284000 sopravvissuti alla bomba atomica e composta da
circa 93000 individui esposti e 27000 individui di una popolazione di riferimento, per i quali le
dosi stimate di radiazioni assorbite potevano considerarsi trascurabili, sempre provenienti da
Hiroshima e Nagasaki [4]. Come risulta dalla tabella 4, entro un raggio di 1 km, la dose di
radiazione a cui è stata sottoposta la popolazione di Hiroshima risultava di circa 7 Gy, di cui
4,2 Gy consisteva di raggi gamma con un contributo pari a circa 0,3 Gy costituito da neutroni;
per un raggio pari a 2,5 km non era apprezzabile la dose specifica dovuta ai neutroni, per cui
alla dose di radiazione complessiva, pari a di 0,013 Gy, contribuivano prevalentemente raggi
gamma [31].
Tabella 4. Dose della radiazione (Gy) in assenza di schermaggio in funzione della distanza
dall’ipocentro dell’esplosione. I dati sono basati sul sistema dosimetrico DS02 8 [31].
Furono selezionate tre sotto-coorti: il primo gruppo era costituito da soggetti localizzati nel
raggio di 2500 metri dall’ipocentro dell’esplosione, quindi pesantemente esposti a radiazione;
il secondo comprendeva individui distribuiti in un raggio non superiore a 10000 metri
dall’ipocentro; il terzo gruppo, infine, annoverava persone che erano immigrate a Hiroshima e
8
Sistema dosimetrico stabilito nel 2002 [4].
Nagasaki 5 anni dopo l’esplosione delle bombe atomiche.
Furono quindi accoppiati i soggetti dei vari gruppi in tale modo: coloro che appartenevano al
secondo gruppo furono poi accoppiati per età e sesso ai soggetti del primo; allo stesso modo,
gli individui appartenenti al terzo gruppo furono accoppiati, per età e sesso, ai membri del
primo gruppo.
Furono seguiti questi tre gruppi onde valutare la mortalità.
Ad oggi, 50000 individui sono ancora vivi, con un età media di 74 anni. Tutti i soggetti che al
momento dell’esplosione della bomba atomica avevano più di 40 anni sono morti, ma più
dell’80% di coloro che avevano meno di 10 anni sono ancora oggetto dello studio.
E’ stato stimato che di questi, il 20% degli uomini e il 40% delle donne, sarà ancora vivo nel
2030. Saranno, quindi, necessari 40 anni perché il LSS possa essere completato. Fra l’altro, nel
2001 ha avuto inizio uno studio sui figli di tali individui per lo studio degli effetti ereditari e
transgenerazionali (malformazioni fisiche, disturbi del sistema cognitivo, etc.).
I risultati pubblicati in letteratura riguardanti per la prima volta la correlazione fra RI e danno
al sistema cardiovascolare sono stati estrapolati proprio da questo studio. Esso, in particolare,
ha dimostrato su base epidemiologica che l’esposizione a RI era associato all’ incidenza di
mortalità per patologie cardiovascolari e ictus e quindi a un excess risk per lo sviluppo di tali
patologie, fino ad allora non considerate come un effetto radio-indotto [4, 32].
Per quanto attiene alla dipendenza funzionale di tale rischio dalla dose, secondo i dati
elaborati nell’ambito del LSS, non era possibile stabilire se la relazione dose-risposta fosse di
tipo lineare, mentre non vi era evidenza di aumento significativo al di sotto di una dose di 0.5
Sv [32].
Una recente revisione del LSS, l’Adult Health Study (AHS), ha dimostrato una correlazione a
dosi fino a 1 Sv tra l’esposizione dei soggetti alle radiazioni delle bombe atomiche di
Hiroshima e Nagasaki e anche l’aumento dell’incidenza dell’ipertensione arteriosa e
dell’infarto del miocardio. L’AHS iniziò poco dopo il LSS ed utilizzava una sotto-coorte di circa
20.000 individui del LSS, con una valutazione biennale della morbidità. Circa il 70% dei
soggetti che hanno partecipato all’AHS, risulta essere ancora in vita e valutabile dopo 50 anni
[4].
Va sottolineato che questo fu uno dei primi studi che si poneva come obiettivo quello di
valutare la morbidità, piuttosto che la mera mortalità dei soggetti esposti.
I ben noti fattori di rischio per patologia cardiovascolare indipendenti dalle radiazioni, quali
fumo di sigaretta, diabete, obesità, ipertensione arteriosa ed alti livelli di LDL nel sangue, non
sono stati considerati in maniera sufficientemente accurata all’interno di questi studi e ne
costituiscono sicuramente un fattore confondente.
Come possiamo osservare dalla tabella 5, la mortalità e la morbidità per vari tipi di DCV, nei
soggetti esposti alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, il rischio relativo è sempre
statisticamente significativo, con una associazione tra RI e DCV che va da 0,1 per l’incidenza
dell’ipertensione arteriosa, a 0,17 per l’incidenza della miocardiopatia ischemica nei soggetti
che avevano più di 40 anni al momento dell’esposizione. La mortalità per patologie cardiache
presenta un’associazione anche questa statisticamente significativa di 0.17 [23].
Dati
Dose media
Numero di
Patologia riscontrata
Eccesso di
cuore/cervello
pazienti nel
(1958-1998)
rischio
(range) (Sv)
Mortalità
Morbidità
0.1 (0-4)
0.1 (0-4)
relativo Sv-1
follow-up
86.572
10.339
Patologia cardiaca
0.17
Ictus
0.12
Incidenza di
0.05
ipertensione
Incidenza di danno
0.05
ischemico cardiaco
Incidenza di infarto del
0.12
miocardio
Incidenza di ictus
0.07
Tabella 5. Eccesso di rischio relativo (per Sv) del DCV nei set di dati epidemiologici della dose di
radiazione media stimata al cuore [23]
Una recente ulteriore rivisitazione dei risultati del LSS ha evidenziato che, durante il follow-up
del LSS, si verificarono 19.054 decessi per patologie cardiovascolari tra gli 86.611 soggetti
dello studio
La coorte copre una vasta gamma di dosi di esposizione, ma è ponderata per dosi basse, il che
indica che ha una notevole capacità di esaminare i rischi a basse dosi ed è utile per esaminare
la forma della curva dose-risposta. Dei decessi, 9622 furono causati da ictus, 8463 da malattie
cardiache, e 969 da altre malattie circolatorie. L’eccesso di rischio relativo per unità di dose
assorbita (ERR/Gy) per tutte le malattie circolatorie, sulla base del modello lineare, nel range
di dosaggio completo, era 11% (p<0,001). Tale percentuale rappresenta circa 210 casi di
morte per malattia circolatoria, associato all'esposizione a radiazioni.
L’ERR/Gy per ictus è risultato essere in un range del 9% (da 1% a 17%, p=0.02). ERR/Gy per
tutte le patologie cardiovascolari è risultato essere in un range del 14% (dal 6 al 23%,
p<0.001) (tabella 6) [33].
Tabella 6. Numero di partecipati e decessi per malattie vascolari [33].
La relazione dose-risposta (ERR /Gy) per la morte da ictus è stata interpolata sia con una
funzione lineare che secondo un andamento lineare - quadratico. Si può osservare nella figura
che la zona ombreggiata indica il 95 % dell’intervallo di confidenza. Le linee verticali sono
intervalli di confidenza del 95 % per specifici rischi dose-categoria. I punti stimati di rischio per
ciascuna dose sono indicate da cerchi (figura 13).
Figura 13. Grafico della relazione dose risposta per morte da ictus [33]
L’ ERR per morte per malattie cardiache mostra l’andamento le funzioni lineare e linearequadratica. La zona ombreggiata è del 95% nella regione di confidenza. Le linee verticali sono
di confidenza del 95 %intervalli per specifici rischi categoria della dose. Stime di punti di
rischio per ciascuna categoria di dosi sono indicate da cerchi (figura 14).
Figura 14. Grafico della relazione dose-risposta per patologia cardiaca [33].
L’effetto dose-risposta risultava statisticamente non significativo sia per ictus, che per
malattie cardiache, per dosi inferiori a 0,5 Gy. Per quanto riguarda l’ictus, la dose limite è pari
a 0,5 Gy, con limite superiore dell’intervallo di confidenza pari a 2 Gy; per quanto concerne le
patologie cardiache, invece, il limite superiore è di 0 Gy, con un limite superiore dell’intervallo
di confidenza pari a 0,5 Gy.
Nei soggetti con età inferiore a 20 anni al momento dell’esposizione, le morti per malattie
cardiache sono più numerose di quelle per ictus, mentre è vero il contrario per la coorte di
soggetti la cui età era superiore ai 40 anni al momento dell’esposizione (tabella 6) [33].
2.3. Pazienti sottoposti a radioterapia
Lo studio dei soggetti sottoposti a RT ha portato ulteriori conferme sull’esistenza di una
significativa relazione tra esposizione a RI e l’aumento di rischio dell’insorgenza di patologie
cardiovascolari. Ampiamente studiate sono state le donne affette da carcinoma mammario e
trattate con RT. In particolare, le pazienti erano esposte a dosi totali a fine trattamento
comprese tra i 40 e 50 Gy. È stato possibile notare che, nelle donne in cui il carcinoma era
localizzato nella mammella sinistra, l’incidenza di morte per patologia cardiaca risultava
maggiore, poiché la RT era effettuata sull’emitorace sinistro, rispetto alle pazienti affette da
neoplasia nella mammella destra in cui l’irradiazione veniva effettuata sull’emitorace destro
(tabella 7) [5, 7].
È stato stimato che il rischio di morte per patologia cardiaca è superiore al 44% nelle donne
trattate per cancro alla mammella sinistra, rispetto a quelle con cancro alla mammella destra,
quindi il beneficio clinico legato alla sopravvivenza al cancro è controbilanciato
dall’incremento di rischio di sviluppare patologie cardiache (tabella 8) [34].
Recentemente, l’elevato tasso di patologia ischemica cardiaca nei pazienti trattati 10 anni
prima con RT, affetti da malattia di Hodgkin, ha suscitato molta attenzione. Lo studio
“Amsterdam”, utilizzando una coorte di 1200 soggetti affetti da malattia di Hodgkin e trattati
con RT, ha dimostrato con un follow-up di 35 anni, che circa il 4% dei pazienti decedeva per
patologia cardiovascolare [35, 36].
Risultati del gruppo di pazienti con follow-up >20 anni
Anni dopo la
diagnosi
Morte cardiaca
Seno sinistro
Rapporto di
mortalità
Seno destro
Sinistro vs. destro
<5
230
180
1,19
5-9
189
145
1,21
10-14
157
106
1,42
>15
234
145
1,58
Tabella 7. Rischio cardiovascolare dopo RT post-operatorio in cancro della mammella [7]
Follow-up
10 anni
20 anni
Con RT
63,4
53,4
Senza RT
60,4
48,6
Sopravvivenza cancro della mammella trattato
Tabella 8. Rapporto tra sopravvivenza di soggetti con cancro alla mammella tratti e non con
RT [34].
Quindi, in tale patologia, considerando che la percentuale di recidiva della malattia era pari al
23%, l’insorgere di patologie cardiovascolari post-radioterapia risulta meno significativo dal
punto di vista clinico.
È quindi chiaro che è necessario monitorare le donne trattate con RT per cancro alla
mammella sinistra, ma soprattutto migliorare la pianificazione dell’intervento radioterapico,
in modo da ridurre l’irradiazione cardiaca. A tale proposito, è stato anche proposto che il
cancro al seno sia trattato mediante adroterapia, usando un fascio di protoni: ciò ridurrebbe
significativamente la dose assorbita dal tessuto sano. Il problema maggiore è rappresentato
dai costi, che nel caso dell’adroterapia sono molto maggiori rispetto alla RT convenzionale [5].
2.4. Studi in vivo ed in vitro
Nel processo infiammatorio risulta fondamentale l’adesione dei leucociti all’endotelio
vascolare, mediata dal rilascio di selectine dall’endotelio, e l’espressione di molecole di
adesione, come le E-selectine e ICAM1 [37]. Numerosi studi in vitro su colture cellulari di
cellule endoteliali e del midollo osseo, hanno dimostrato che irraggiamenti nell’intervallo 1 -5)
Gy determinano un’iperespressione delle E-selectine, nonché di altre molecole
proinfiammatorie [38]. È stato altresì studiato, che un’irradiazione a basse dosi, cioè
nell’intervallo 0,1 Gy-1 Gy, determina ipoespressione delle molecole di adesione leucocitaria,
con concomitante effetto antinfiammatorio. Sulla scorta di questi studi è stato quindi
ipotizzato che l’iperespressione delle molecole proinfiammatorie, dopo esposizione ad alte
dosi di RI, determina danno endoteliale, conseguente all’attivazione del processo
infiammatorio a livello sub-endoteliale.
Studi in vivo sono stati effettuati ricorrendo al modello di ratti spontaneamente iperteso
predisposto a ictus (stroke-prone spontaneously hypertensive rat, SHRSP) per una maggiore
comprensione dei meccanismi dei DCV [23].
Come ricordato nei paragrafi precedenti, studi epidemiologici e su pazienti sottoposti a RT
hanno dimostrato che la RI può essere associata a un incremento del rischio di ipertensione
arteriosa, che con elevata probabilità, conduce a ictus e malattie cardiache secondarie. Studi
recenti sui SHRSP, irraggiati con alte dosi, stanno verificando se sussiste una correlazione tra
dose di radiazione assorbita e ictus [39].
Essi si basano sulla valutazione della durata della vita, analisi morfologiche e patologiche di
tessuti autoptici e, infine, sulle misure di biomarcatori plasmatici, per identificare i possibili
DCV radio-indotti. Tali studi, inoltre forniscono informazioni circa i meccanismi sull’ictus radioindotto, che potrebbero essere utili per meglio comprendere quelli relativi all’uomo.
SHRSP di sesso maschile sono stati irraggiati da radiazione gamma con dosi di 1,2 e 4 Gy, ed i
risultati sono stati confrontati con quelli relativi a ratti non irraggiati. Preliminarmente, risulta
che i ratti irraggiati hanno una vita più breve rispetto a quella dei ratti non irraggiati e che i
cambiamenti vascolari in organi quali cervello cuore e rene dei topi irradiati erano maggiori.
In particolare, si è osservato che, nei topi irradiati, si aveva un incremento dell’espressione
delle proteine pro-infiammatorie a livello endoteliale e microvascolare, un aumento di
accumulo di lipidi e una iniziale formazione di ateromi 9. Tali studi erano effettuati con dosi
superiori a 1 Gy [40].
Studi successivi hanno esaminato la risposta per dosi pari a 0,25 Gy, 0,50 Gy e 0,75 Gy: anche
in questo caso, la durata della vita e alterazioni morfologiche sono apparse evidenti. Tuttavia,
come già dimostrato negli studi in vitro, l’irradiazione a basse dosi causa anche nel topo una
ipoespressione di molecole di adesione con conseguente effetto antinfiammatorio.
9
È una formazione consistente in una placca di materiale lipidico (colesterolo, fosfolipidi, grassi neutri), proteico e
fibroso, dovuta a un processo progressivo di degenerazione sub-intimale.
3. Conclusioni
L’utilizzo delle RI in medicina è, ad oggi, estremamente diffuso. Ben riconosciuti sono i suoi
benefici, dall’uso come mezzo diagnostico in radiologia all’utilizzo terapeutico in RT. Proprio
quest’ultima sta avendo sempre maggiore diffusione: basti pensare che ben il 50% delle
patologie neoplastiche sono oggi trattate con RT, la quale, seppur utilizzata talvolta a scopo
palliativo, ha come suo obiettivo primario la guarigione dalla malattia. E’ stato ampiamente
dimostrato come in molti casi risulti risolutrice.
Appare, quindi, ovvio quanto importante sia conoscere a fondo quali possano essere gli effetti
“collaterali” che la RT possa avere sull’organismo.
La patologia cardiovascolare indotta da RI è stata sicuramente dimostrata. In primis, gli studi
epidemiologici come il LSS e l’AHS hanno ampiamente dimostrato l’associazione tra
l’esposizione a dosi medio-basse di RI, come nel caso dell’esplosione delle bombe di
Hiroshima e Nagasaki, ed incidenza di cardiomiopatia ischemica e patologia cerebrovascolare. Successivamente, grazie agli studi su soggetti sottoposti a RT per carcinoma
mammario sinistro, o per localizzazione mediastinica di linfoma di Hodgkin, si è cercato di
comprendere meglio come l’irradiazione del cuore e dell’apparato vascolare possa
determinare tali patologie. Questi studi, in accordo con quelli epidemiologici, hanno
confermato come le RI siano in grado di indurre patologia cardiovascolare. Esistono, tuttavia,
dei limiti per questi studi che evidenziano la difficoltà nell’eliminare possibili bias e fattori
confondenti legati, per esempio, agli stili di vita degli individui. Infatti, bisogna tener ben
presente come i rischi cardiovascolari siano ampiamente diffusi nelle società sviluppate e che
la patologia cardiovascolare rimane la prima causa di morte, insieme al cancro, nella
popolazione generale. Non basta, quindi, solo l’associazione statistica, seppur robusta, tra
l’irradiazione e l’insorgere di patologie cardiache a dimostrarne l’associazione. Ad oggi,
numerosi studi sia in vitro che in vivo sono in atto e sembrano comunque confermare che il
potenziale aterogeno delle RI è reale; ulteriori studi si stanno effettuando per poterne ben
comprendere il reale meccanismo biofisico. Uno dei più recenti è il progetto INFN ETHICS
(Pre-clinical Experimental and THeoretical studies to Improve treatment and protection by
Charged particleS), di cui il Laboratorio di Biofisica del Dipartimento di Fisica è capofila
nazionale. In tale progetto, fra le altre cose, sono studiati i danni indotti da fasci di particelle
cariche su cellule cardiache endoteliali microvascolari.
L’importanza di tali studi è fondamentale poiché avremo sempre più soggetti che grazie alla
RT sono sopravvissuti al cancro, ma che potrebbero, in futuro, sviluppare ed ammalarsi di
patologia cardiaca. Dimostrato infatti l’aumento di rischio cardiovascolare in tali pazienti
trattati con RT, si potrebbero quindi prospettare programmi di screening o follow-up in modo
tale da poter intervenire su quelli che sono i “classici” fattori di rischio cardiovascolari e poter
agire per tempo, onde determinare una sopravvivenza ed una qualità di vita per tali pazienti
guariti dalla patologia neoplastica, pari a quella della popolazione generale.
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