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Sono stata tre giorni e tre notti a Las Vegas,
sempre a giocare alle macchinette
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ra che siamo sole, Clelia siede sul suo letto e io su quello vuoto di fianco. Clelia ha 72 anni. Ci diamo del tu, perché ad una
certa età si finisce per aver la stessa età.
– Ti ricordi com’era la tua prima casa, quella dove sei nata?
– Sono nata a Campiano. In casa c’erano mia mamma, mio babbo e i
miei fratelli. Eravamo tre e due cinque, più i genitori della mia mamma.
In casa mia, c’era la miseria, io sono del ’38, un fratello era del ’44 e l’altro del ’41. Dormivamo tutti in un’unica stanza. Mio papà faceva il bracciante e mia mamma era sempre ammalata: era molto robusta e respirava male. Io andavo con i braccianti a fare il suo lavoro, avevo 13 anni. Da
Campiano andavo nelle risaie ai Fiumi Uniti. Facevo una vita così: faticosa. A 14 anni feci la domanda e mi chiamò la Callegari. Ho fatto il lavoro di un uomo, ho lavorato come un animale, perché una volta, se dovevi fare qualcosa, la facevi. Ho lavorato fino al ’72, fino a che la fabbrica è fallita. I miei genitori sono venuti ad abitare a Ravenna, vicino ai miei
nonni. E in quell’anno mi sono sposata. Mio marito abitava a sette chilometri da Faenza, aveva tanta terra e per 23-24 anni ho raccolto sempre
delle pesche. E vabbè! È stato un buon marito, era un buon uomo, solo
che, in casa nostra avevo anche la suocera, uno zio, un cognato, che poi
è morto. Non abbiamo avuto figli: il lavoro alla Callegari mi aveva schiantato la schiena e non portavo avanti le gravidanze. Ho avuto due aborti:
uno in marzo del ’72 e l’altro in settembre. Pesavo 33 chili. Sono stata
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malissimo. Mio marito è morto di leucemia del ’95, in giugno. Aveva fatto testamento e mi aveva lasciato in eredità tanti soldi. Per me, per stare
vicino a mia madre che era sempre più ammalata, ho comprato un appartamento a Ravenna. Era un bell’appartamento, l’ho arredato e stavo
bene. Ma lì la solitudine mi ha inguaiato. Venendo da una grande famiglia, ero rimasta sola, a parte mia madre che diventava sempre più vecchia. Ho dato dei soldi ai miei fratelli: per un appartamento a uno, per la
macchina all’altro. Mi sono fatta delle amiche.
Amiche che giocavano. Giocavano al lotto e alle macchinette e quella è stata la mia rovina.
Mi sono attaccata a loro. Sono andata in vacanza in Russia e in America, perché i soldi li avevo. Sono stata tre giorni e tre notti a Las Vegas,
sempre a giocare alle macchinette, alle slot machine. Tutte le notti.
A Ravenna stavo sempre attaccata alle macchinette. Nei bar. In tabaccheria. Vincevo. Perdevo. Vincevo. È diventa una fissazione. Una malattia. E i soldi sono finiti. Così ho venduto l’appartamento e mi sono
giocata anche quello: stavo sempre attaccata alle macchinette.
Non ho mai dato fastidio a nessuno. Ma quando perdi tutto, tutti ti
cancellano, anche i fratelli. Quattro anni fa è morta la mia mamma, all’età di 94 anni; uno dei miei fratelli mi ha cancellato completamente,
e non l’ho più visto; con l’altro siamo ancora in contatto. Ho abitato
quattro anni da una signora, in affitto, una donna che mi voleva bene.
Lì pagavo 520 euro al mese. Quando è scaduto il contratto d’affitto, dato che dovevano ristrutturare la casa, sono stata costretta ad andarmene. Mi sono trasferita in un’altra casa a 550 euro al mese e non ce l’ho
fatta a pagarli. Il padrone mi ha mandata via. Non mi aveva nemmeno
fatto il contratto. In attesa di trovare un altro alloggio, avevo lasciato lì
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il mio corredo, tutte le mie cose. Il proprietario aveva detto: lasci qui tutto, tanto io l’appartamento non l’affitto. Ma quando sono andata a riprendere quel poco che avevo, era sparito tutto. Tutto. Mi sono trovata
senza niente. Cosa potevo fare? Denunciarlo? Lui avrebbe anche potuto smentirmi. Mi sono trovata per strada e… dove vado? cosa faccio?
Vado a dormire nei vagoni del treno. Ho dormito in un vagone del treno luglio e agosto.
Clelia serra le labbra e mi guarda dritto negli occhi interrogativa. Io
deglutisco.
– Entravamo nel vagone di notte: alle dieci e mezza, undici. A mezzanotte, a volte, veniva la polizia dei treni e ci cacciava. Venivamo fuori, ci appoggiavamo nelle panchine e, quando se ne andavano, circa
all’una e mezza, le due, rientravamo nello stesso vagone. Era un treno
che stava fermo fino alle cinque e mezza del mattino. Stando nei viali della stazione su una panchina, ho visto di tutto. Ragazze di quattordici, quindici anni che si drogavano, ragazzi che bevevano, perché
quelli che dormono nei vagoni bevono. E ho conosciuto anche un ragazzo bravissimo: Sta vicino a me, che non ti tocca nessuno, mi diceva. Era un ragazzo di Lugo che viveva per strada da due, tre anni. Beveva. Ma non si drogava. Una sera, ero con un’amica polacca, anche
lei sbandata, ci aprì il vagone proprio lui, era il capo: State attente che
c’è della gente violenta in giro, ma vi bado io. Lui dormiva da una parte e io qui. – Clelia mima la scena con le mani come se la rivivesse. Dopo una pausa riprende il ricordo – Mi ha aiutato molto, mi ha aiutato molto. Se non conosci qualcuno è pericoloso. Io sono vecchia, ma
le giovani? Di pomeriggio vedevo queste ragazzine sedute in una panchina che chiedevano a me se sapevo dove trovare della droga, del fu51
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mo. E mi dicevo: poveretta me, dove andranno a finire? Per me quel
ch’è fatto è fatto, ma loro?
Clelia si soffia il naso e si passa il fazzoletto sugli occhi.
– Sei stanca? – le chiedo – Vuoi che ci interrompiamo un attimo?
– No, no. È che queste cose non le racconto mai. Nessuno le vuole sentire e qui dentro le conoscono già.
– Allora… e di giorno cosa facevi?
– Fino alle cinque stavo nel treno, dopo stavo nella sala d’attesa fino
alle sei. Alle sei prendevo la bici, perché la macchina l’avevo data a mio
fratello. Andavo a lavarmi all’ospedale: lavarmi un po’ la faccia. Entravo
e andavo nei bagni. Sono stata un mese senza fare una doccia, forse di
più, sì di più. Di giorno, se ero stanca, andavo a dormire in una panchina dei giardini pubblici. E lì incontravo tanta gente come me, più o meno. Quella mia amica polacca l’avevo conosciuta nella sala d’attesa, l’avevo vista entrare e mi aveva chiesto: Per favore mi bada la mia valigia? E
lì abbiamo fatto amicizia. Se vuoi venire con me, le ho detto, io dormo
nel vagone di un treno. Poi le hanno trovato un lavoro e ogni tanto mi
chiama e dice: Oh sa che rimpiango la nostra amicizia. Quando venivo
a prendere la sportina, siccome mangio poco e sono di stomaco delicato, la davo a chi aveva più fame di me. Come me ce ne sono tanti in giro
a Ravenna. Una notte un poliziotto mi disse: Signora, domattina vada a
parlare col mio capo, non può fare una vita così alla sua età. A quei tempi, tutte le sere, venivo a prendere le sportine dalla Carla. Un giorno lei
mi dice: vuoi delle cose da cucinare a casa? Non ho una cucina, ho risposto. Allora mi ha chiesto: vuoi venire a dormire qui? c’è un posto. Così sono andata a parlare con la Concetta, che mi ha messo qui. Era il 6 settembre del 2010. Io se non avessi trovato la Carla non so. Io ho tanta for52
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za di volontà di sopravvivere, non è che mi abbatto, vado in giro, non sto
a dormire, lavo i piatti, e faccio quello che la Carla mi dà da fare. Il mercoledì cucino. Qui non ho trovato molti amici, due forse, mi raccontavano le loro storie e io li ascoltavo. Qui abbiamo una stanza, dove al massimo siamo in tre.
Quando hai la casa non ci pensi, è quando la perdi che te ne accorgi.
Clelia sospira mentre con le mani piega e ripiega un fazzoletto di carta.
Sorrido. Continuo? Continuo.
– Il giorno che sei entrata qui, che impressione ti ha fatto questa casa?
– La prima volta mi sono sentita un po’ spaesata. Io sono uno spirito
libero e devo essere indipendente. Sono un carattere così. Però mi sono
abituata e adesso mi trovo bene. Le assistenti sociali mi stanno cercando
un posto nelle case popolari. Ma poi, come lo pago? Un po’ mi aiuta mio
fratello, perché ho ancora dei debiti in banca. Carla mi manda il mercoledì sera al Ga, il gruppo Giocatori anonimi. Da settembre non gioco
più. Prima non avevo una lira, adesso, anche se vado in un sali e tabacchi
a comprare le sigarette, anche se ho un euro in tasca, le macchinette non
mi attirano più. E non mi manca neppure il giocare. Adesso proprio non
ho più giro, ma proprio non sento nostalgia.
– Sei pentita di essere caduta nel vizio del gioco?
– Se tornassi indietro non lo farei più. Ma ero sola, non avevo nessuno, ero vedova. Io non sapevo nemmeno cosa volesse dire giocare.
Mio papà, quando siamo venuti ad abitare a Ravenna, che è il covo del
gioco, diceva sempre a me e mia madre: Se so che giocate al lotto vi
meno. E non abbiamo mai giocato. Forse se fossi rimasta nel faentino, non avrei mai giocato: non conoscevo nessuno, attorno c’era solo
tutta terra.
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Clelia scuote la testa abbassando il mento sul petto. Poi alza gli occhi e mi fissa con lo sguardo dell’innocenza. Il suo fazzoletto è ridotto
a brandelli.
– Questo dormitorio lo consideri come la tua casa?
– Per adesso sì, perché dove vado? Concetta ha fatto i conti dei miei
debiti e sono tanti. Tantissimi soldi da pagare alle banche. Ma se mi trovassero una casa popolare, non so… è fatica pagare un affitto.
– E che casa vorresti?
– Mi piaceva la casa che avevo, ma adesso andrebbe bene una casa qualsiasi. Non ha più importanza ormai com’è.
– Ma tuo fratello non potrebbe ospitarti?
– Non posso e non voglio. Quando avevo i soldi, gli ho dato un assegno da 60 milioni davanti alla mia mamma, per comprarsi l’appartamento. Sono andata da lui una volta a fare la doccia, mi vuole bene, ieri
mi ha telefonato per sapere come stavo, se avevo bisogno. Lui vive da solo, è separato dalla moglie. Ma non andrei a vivere con lui. So che non
andremmo d’accordo, siamo due caratteri diversi. Ha avuto un principio di ictus e mi ha telefonato quand’è stato all’ospedale e sono andata a
trovarlo. Qualche volta mi dà dieci euro, non di più. Non devo avere soldi nel portafoglio, al massimo quelli per le sigarette. Pensano che la giocatrice, se avesse dei soldi, giocherebbe. Al Gruppo ho conosciuto un uomo e sua moglie che giocavano da trent’anni, e avevano anche dei figli.
Hanno rovinato se stessi e anche i figli. Ascoltare le storie degli altri giocatori serve. Lì al Gruppo ti danno un bollino per ogni mese che non giochi: io ne ho già tre.
Clelia si alza e dalla tasca del cappotto estrae tre dischetti colorati. Li
guarda e me li mostra come fossero medaglie d’oro. Gli occhi contenti.
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– Ce l’hai un sogno?
– No, adesso non ce l’ho più. Con mia mamma e mio papà c’era la
miseria, alla Callegari ho lavorato come un cane. Ma eravamo felici.
Sarei stata sempre felice, se non fossi venuta a Ravenna per stare vicino
a mia madre.
Clelia alza i suoi occhi azzurri: sembrano due nontiscordardime mossi dal vento.
– Questa è la mia storia, non ho più niente da dire. Questo è il mio calvario, ho raccontato tutto.
Sulla porta chiedo a Clelia di disegnare una casa sul mio blocco. Nella borsa ho messo matite, fogli bianchi e a quadretti per far disegnare una
casa a ognuno degli ospiti. Vorrei mettere i loro disegni nella raccolta dei
loro racconti.
– Ma non so disegnare! – mi dice Clelia, ritraendo la mano di fronte
alla mia matita che le porgo.
– Non importa com’è il disegno. Basta una casa come quella che facevi a scuola.
Prende la matita, ma la posa subito. Poi mi guarda spaventata:
– Io non ricordo com’è una casa.
M’arrendo e l’abbraccio.
Mentre esco dalla camera mi viene incontro un giovane alto, gambe
magre ma busto tozzo e pelle scurissima. Mi chiede:
– Se vuoi, io parlo con te.
– Andiamo – dico istintivamente. Temo che se non approfittassi della sua disponibilità ora, perderei la sua storia.
Clelia, la più giovane, sale le scale e mi viene incontro con l’ansia stampata addosso:
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– Tocca a me?
– Le dispiace aspettare un altro po’, vorrei parlare con lui prima che se
ne vada?
– Aspetto, aspetto. – mi rassicura – Ormai sono abituata ad aspettare.
E dove vado?
La Clelia più giovane fa dietro front e scende nuovamente le scale accendendosi una sigaretta.
Mi rivolgo al ragazzo:
– Dove preferisci andare a parlare?
– Giù nella saletta, dove si fuma, tu fumi?
– No, ma va benissimo. Andiamo.
Scendiamo al piano di sotto, oltrepassiamo le docce e arriviamo nella
saletta della caldaia. È caldo e il divano è comodo. La caldaia non perde
più e non fischia neppure.
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