Educazione. Giornale di pedagogia critica

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Educazione. Giornale di pedagogia critica
EDUCAZIONE
Giornale di pedagogia critica
Anno II, 1 (2013)
Editoriale Anicia
2013
EDUCAZIONE
Giornale di pedagogia critica
Direttori: Francesco Mattei, Benedetto Vertecchi
Direzione e redazione: via della Madonna dei Monti, 40 00184
Roma (Italia)
Tel. (39)0657339666, e-mail: [email protected]
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Comitato scientifico: Franco Cambi, Colette Dufresne-Tassé,
Yves Galupeau, Roser Juanola, Bruno Losito,
Victor Santiuste Bermejo
Comitato di redazione: Gabriella Agrusti (redattore capo), Cinzia
Angelini, Valeria Caggiano, Cristiano Casalini, Antonella Poce, Rocco
Postiglione, Teresa Savoia, Gilberto Scaramuzzo
I contributi pubblicati sono stati sottoposti ad un procedimento di
revisione conforme alle norme ISI
I semestre 2013 - Anno II, 1
ISSN 2280-7837 (print)
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Editoriale
La pedagogia post-scientifica
Per quanto al divenire dell’educazione si sia accompagnato il manifestarsi di una grande cultura, è raro che gli atteggiamenti di volta in volta prevalenti siano stati conformi alle proposte che si sono andate
formulando. E ciò per l’evidente ragione che le riflessioni che hanno alimentato la crescita della cultura educativa si sono per lo più presentate come una via difficilior all’interpretazione dei fenomeni, e soprattutto
alle pratiche ad essi collegate, perché in contraddizione
coi modelli generalmente accolti. Si sono avuti progressi importanti nell’educazione solo quando si è accettato di contrastare il senso comune e i dispositivi di
accumulazione che sostengono i procedimenti inferenziali che ne sono il fondamento.
Il fatto è che se si considera il senso comune come
una sorta di sapere immanente nelle mentalità è difficile negare che alcuni aspetti dell’educazione abbiano tale caratteristica. Per esempio, nessuno dubita che l’educazione sia necessaria, e che senza l’educazione la
specie umana non riuscirebbe a realizzare il proprio
adattamento alla vita. Di conseguenza, da un punto di
vista strettamente biologico, si riconosce l’esistenza di
un’interazione tra educazione e natura. La questione
sulla quale il senso comune si manifesta in tutti i suoi
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 1-9.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
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limiti è il modo in cui avviene tale interazione, e se le
forme che conosciamo siano da intendersi come necessarie o debbano, piuttosto, essere considerate il risultato di alterazioni – della natura e dell’educazione – capaci di conferire variabilità ai fenomeni. Un conto è,
infatti, riconoscere una funzione di struttura all’interazione uomo-natura, altro conto estendere il carattere di necessità della struttura alla conformazione contingente di questo o quel fenomeno, per quanto ricorrente.
Se consideriamo l’educazione come il complesso
delle interazioni che hanno per intento l’adattamento
alla vita, ci si trova di fronte a manifestazioni diverse,
il cui tratto comune è costituito dalla loro caratterizzazione culturale. In altre parole, se è necessario prendersi cura di un bambino, non è necessario farlo nel modo
che è stato interiorizzato da quanti hanno avuto esperienza di educazione in tempi e luoghi determinati. Per
limitarci a un’esemplificazione molto parziale, basti pensare ai cambiamenti che negli ultimi secoli hanno interessato, con ritmi progressivamente accelerati, l’alimentazione, le pratiche igieniche, il vestiario, i rapporti dei
bambini con gli adulti. E ciò non solo per ciò che riguarda la specifica educazione fruita da un determinato
soggetto, ma più in generale i cambiamenti intervenuti
in quella che si può definire cultura dell’educazione, e
che consiste sia in interpretazioni d’insieme, sia in repertori sapienziali, ai quali fanno prevalente ricorso
quanti, per qualsiasi ragione, assumano una funzione
educativa.
Il senso comune conferisce legittimità ai repertori
sapienziali, accettando come condizione sufficiente per
operare inferenze il presentarsi ripetuto e non contraddetto di fenomenologie particolari. O, almeno, è questo
il modo in cui sono percepite pratiche educative che in
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La pedagogia post-scientifica
realtà sono in evoluzione costante e, di conseguenza,
non possono far riferimento neanche alle modeste (ovviamente, dal punto di vista logico) inferenze che si
traggono ricorrendo al principio della conferma. Ma la
conferma sussiste ubi non reperitur instantia contradictoria: è una condizione del tutto improbabile, se
non altro perché l’educazione è un processo che si
svolge nel tempo. L’interazione educativa è alimentata
proprio dal carattere contraddittorio che gli eventi in
atto (ovvero, le pratiche correnti dell’educazione) assumono rispetto a quelli che li hanno preceduti. Il senso comune educativo non fa dunque riferimento al
principio, ma alla presunzione della conferma e solo in
questo modo riesce a ignorare i cambiamenti intervenuti, riproponendo giudizi solo apparentemente sostenuti da induzioni. Non ha perciò un fondamento logico, ma ideologico.
È abbastanza scontato ritrovare elementi di ideologia nelle interpretazioni e nelle scelte di volta in volta prevalenti nell’educazione. Quel che non può darsi
per scontato è che l’ideologia sostenga sia la presunzione della conferma, sia il suo contrario, e cioè l’introduzione di elementi di modernizzazione nello scenario educativo. Da un lato, infatti, la presunzione della
conferma serve a dare stabilità nel tempo alle interpretazioni, dall’altra si fa riferimento alla combinazione
degli effetti d’alone esercitati dall’evoluzione sociale,
dallo sviluppo scientifico e dai progressi della tecnologia per conferire valore alla modernizzazione, ovvero a
scelte educative che contraddicono quelle preesistenti.
In un certo senso, s’incrociano due culture di senso
comune. La prima è quella della conservazione, derivante dal riconoscimento di una necessità che, in modo
più o meno esplicito, costituisce il punto d’approdo di
un processo di naturalizzazione dei comportamenti,
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Editoriale
mentre l’altra è una cultura tesa a conferire consistenza
a scelte marginali per la prossimità che presentano con
campi della conoscenza e della vita sociale cui si riconosce una qualificazione positiva.
L’incrocio dei due tipi di senso comune non è una
novità nella storia dell’educazione. In particolare, se si
considerano i cambiamenti intervenuti negli ultimi secoli, affiora di continuo un intreccio ambiguo tra conservazione e modernizzazione. Si è avuto un progresso
della cultura dell’educazione quando i due tipi di senso
comune non hanno concorso in modo prevalente a determinare le interpretazioni, ma si è manifestata la capacità di stabilire nuove inferenze. Basta rileggere i
primi capoversi della Didactica magna per rendersi
conto che all’origine della costruzione di una conoscenza sistematica nel campo dell’educazione ci sia il
rifiuto sia di un senso comune volto alla naturalizzazione delle interpretazioni educative, sia alla legittimazione di scelte contingenti, per lo più procedurali, definite
prescindendo da una ridefinizione complessiva, che oggi
chiameremmo di sistema (nel significato più ampio,
quello attribuito alla parola da L. von Bertalanffy).
Comenio osservava che spesso all’origine delle proposte di cambiamento nelle pratiche educative c’era un
intento di semplificazione del compito di apprendimento. Persone indubbiamente dotate di qualità (eximii
viri), rendendosi conto dello sforzo richiesto agli allievi (Sisyphica scholarum saxa miserati), si impegnavano nella ricerca di soluzioni (vestigare aggressi sunt).
Si trattava però di tentativi dai quali derivavano risultati molto diversi, soprattutto perché orientati a soddisfare un’esigenza specifica (per esempio, abbreviare il
percorso didattico, celerius instillandi breviores vias) o
a semplificare il compito degli insegnanti (facilius tradendi). Il limite ricorrente consisteva nel considerare i
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La pedagogia post-scientifica
problemi educativi solo per le loro manifestazioni più
appariscenti e, di conseguenza, nel proporre alternative
superficiali (omnes fere per externas quasdam e faciliore praxi collectas observationes).
Alle soluzioni di breve momento, Comenio contrappone l’esigenza di fondare le scelte su un’interpretazione d’insieme che consenta di insegnare tutto a tutti (universale omnes omnia docendi artificium). Ovviamente, non basta enunciare un simile intento, ma occorre
dimostrare che può essere realmente conseguito: Comenio teme (a maggior ragione dovremmo temerlo oggi)
che le sue proposte, sostenute da ipotesi rigorose e da
esperienze verificate, siano confuse con gli annunci più
o meno mirabolanti di chi vuole indurre ad accogliere
soluzioni educative non dimostrate (non enim opto
persuasionibus nostris quenquam abripi, ut minus exploratae rei assensum praebeat).
Comenio ha aperto una via che nei secoli successivi ha conosciuto sviluppi imponenti. La conoscenza
educativa, da sapienza solo sostenuta da intuizioni soggettive, è venuta acquisendo i caratteri della razionalità
scientifica. Non che anche prima di Comenio non siano state formulate interpretazioni di grande razionalità,
ma si trattava d’interpretazioni che si riferivano agli
aspetti dell’educazione che non suppongono un’organizzazione complessa. Sono gli aspetti che ora si definiscono informali (le interazioni familiari e sociali, gli
apprendimenti che si acquisiscono tramite le esperienze della vita quotidiana, la percezione di valori), per
distinguerli da quelli formali, che nella seconda metà
del millennio trascorso hanno assunto connotazioni
sempre più istituzionali.
I cambiamenti intervenuti sono molteplici, e variamente intersecati fra loro. Presentano, tuttavia, un
elemento in comune, costituito dal crescere delle di5
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mensioni di riferimento. È aumentata la parte alfabetizzata della popolazione. Con la diffusione dei libri a
stampa è cresciuto lo strumentario a disposizione per
insegnare e apprendere. Le trasformazioni produttive
hanno richiesto non solo forza fisica, ma anche, in
qualche misura, il possesso di capacità simboliche. I
progressi della conoscenza hanno modificato le concezioni generali della natura. I cambiamenti delle condizioni di esistenza hanno fatto crescere la speranza di
vita. Si è avuta un’attenzione progressivamente maggiore per ciò che è specifico dell’infanzia. Sono solo
alcuni esempi, ma ugualmente rivelatori dell’importanza che la crescita delle dimensioni di riferimento ha
avuto nello sviluppo dell’educazione.
Tale crescita ha comportato che la conoscenza educativa fosse attenta, oltre che a categorie generali,
agli aspetti quantitativi dei fenomeni. Comenio perseguiva un intento generale, conforme alla sua fede cristiana, ma lo associava a un’indicazione quantitativa
(omnia omnibus), che costituiva anche il criterio per
verificare la coerenza degli esiti con l’attività svolta. I
riformatori religiosi da un lato, i filosofi utopisti dall’altro, avevano tratteggiato uno scenario il cui tratto
distintivo era il possesso generalizzato di competenze
alfabetiche. Comenio individua le condizioni e i modi attraverso i quali quello scenario poteva essere realizzato.
Il criterio di verifica indicato da Comenio (omnia
omnibus) si prestava a una lettura cumulativa (la crescita della popolazione alfabetizzata), ma anche a una
complementare (quanta parte della popolazione non
fruiva di educazione formale?). Sia nel caso della lettura cumulativa, sia in quello della lettura complementare, l’indicazione delle quantità diventava essenziale per
comprendere quali fossero le difficoltà da affrontare. Il
progresso dell’educazione ha richiesto la definizione di
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La pedagogia post-scientifica
modelli e l’elaborazione di pratiche che dessero alle
due letture il medesimo rilievo. Per riprendere la felice
distinzione introdotta da Pascal, interpretare il cambiamento dei profili culturali era una questione di finesse, ma i riferimenti necessari per farlo non potevano
che essere forniti dalla géométrie.
La via per la crescita razionale della conoscenza
educativa è venuta quindi definendosi nella seconda
metà del millennio in concomitanza con il coinvolgimento di quote più rilevanti di popolazione in processi
d’istruzione formale. Si è rilevato come Comenio avesse sottratto la didattica alle suggestioni degli espedienti di breve momento, impegnandosi nella definizione degli elementi formali necessari per avviare un
percorso nitidamente definito per gli intenti da perseguire, per le ipotesi che avrebbero sostenuto l’attività,
per la disponibilità di un criterio regolatore del giudizio (in altre parole, di un criterio di valutazione). Questo percorso ha dimostrato la sua validità in quella lunga fase di crescita dell’educazione nella quale hanno
preso forma i sistemi scolastici contemporanei. Nel
tempo, gli intenti si sono precisati e sono diventati più
complessi, così come nuovi apporti si sono aggiunti alla conoscenza educativa. Bacone e Rousseau, Owen,
Condorcet, Wollstonecraft (e tanti altri) hanno ampliato i riferimenti per l’educazione, stabilendo collegamenti con lo sviluppo delle scienze e delle tecniche,
con la scoperta delle peculiarità della prima parte della
vita, proponendo un equilibrio tra l’educazione generale e quella funzionale alle trasformazioni produttive,
richiamando le istituzioni al compito di assicurare l’istruzione e affermando il diritto a fruirne anche da parte di chi tradizionalmente ne era escluso, a cominciare
dalle donne.
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Gli apporti che si sono venuti integrando nella conoscenza educativa hanno avuto per lo più origine dal
modificarsi dei rapporti tra i soggetti coinvolti nelle attività (quis traditurus e quis effecturus, per usare le definizioni di J. Clauberg in Logica vetus et nova) e dalla
necessità di rispondere al mutare delle esigenze che tali
soggetti esprimevano (quomodo quid tradere conveniat). Se al crescere della razionalità delle interpretazioni educative ha corrisposto l’affermazione di una
cultura critica, che si è qualificata in senso scientifico
per il nitido disegno dell’indagine, la formulazione esplicita delle ipotesi, l’accuratezza delle procedure e
dell’impianto di verifica, non si può dire che lo stesso
sia avvenuto quando si sono volute trovare soluzioni
prioritariamente rivolte al superamento delle asperità
incontrate da insegnanti o allievi. Si sono costituiti aggregati sempre più consistenti di cultura sapienziale,
orientati non a spiegare e risolvere il disagio connesso
all’educazione, ma a fornire supporto tecnico per esigenze particolari. Non c’è stato un progresso reale nelle interpretazioni, ma l’affermazione di rimedi sintomatici.
Gli aggregati sapienziali che hanno integrato la
conoscenza educativa hanno avuto una funzione di rassicurazione fin quando la crescita della domanda di
educazione ha reso tollerabili i limiti che ne segnavano
la pratica. L’attesa sociale del miglioramento delle
condizioni di vita consentito da una più diffusa fruizione dell’educazione formale ha accreditato come
scientifiche soluzioni procedurali e tecniche capaci di
indurre suggestioni, ma non di dimostrare la validità
delle proposte. I limiti di una pedagogia sempre meno
rivolta a interpretare il divenire dell’educazione e sempre più esposta al predominio di aggregati suggestivi
sono emersi quando, esaurita la fase della crescita quanti8
La pedagogia post-scientifica
tativa dei sistemi d’istruzione, la proposta d’istruzione
ha incontrato atteggiamenti sempre meno disponibili
negli allievi e ha suscitato dubbi nelle famiglie e, più
in generale, nella società.
In un certo senso, la razionalità scientifica nella
conoscenza educativa, che ha costituito il modello di
riferimento nella seconda metà del millennio trascorso,
sta subendo il ritorno di atteggiamenti precomeniani,
nei quali prevale l’attenzione ai cambiamenti di breve
termine e la ricerca di espedienti procedurali per far
fronte a difficoltà che non si sanno interpretare, e talvolta non si vogliono interpretare perché sarebbe possibile farlo solo a condizione di riconoscere la pochezza della cultura di riferimento. È una vera e propria
pedagogia post-scientifica quella che è incapace di dimostrazione, che si alimenta degli effetti d’alone derivanti da altri settori della vita sociale, che ha rinunciato
a formulare autonomamente i propri intenti e si rassegna a ricoprire un ruolo subalterno nello sviluppo della
cultura e della società.
fm bv
9
“ὦ Καλλία”, ἦν δ᾽ ἐγώ, “εἰ μέν σου τὼ ὑεῖ
πώλω ἢ μόσχω ἐγενέσθην, εἴχομεν ἂν αὐτοῖν
ἐπιστάτην λαβεῖν καὶ μισθώσασθαι ὃς ἔμελλεν
αὐτὼ καλώ τε κἀγαθὼ ποιήσειν τὴν
προσήκουσαν ἀρετήν, ἦν δ᾽ ἂν οὗτος ἢ τῶν
ἱππικῶν τις ἢ τῶν γεωργικῶν νῦν δ᾽ ἐπειδὴ
ἀνθρώπω ἐστόν, τίνα αὐτοῖν ἐν νῷ ἔχεις
ἐπιστάτην λαβεῖν; τίς τῆς τοιαύτης ἀρετῆς, τῆς
ἀνθρωπίνης τε καὶ πολιτικῆς, ἐπιστήμων ἐστίν;
οἶμαι γάρ σε ἐσκέφθαι διὰ τὴν τῶν ὑέων
κτῆσιν.
[Ἀπολογία Σωκράτους, 20a-b, ed. J. Burnet,
1903].
Peer review: alle origini di una procedura
Gabriella Agrusti
Università degli Studi Roma Tre
Department of Education
Via della Madonna dei Monti, 40 - 00184 Roma
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In molti paesi si sta affermando, o si è già affermato, un criterio per la valutazione della qualità dei
contributi scientifici costruito sulla revisione che esperti qualificati effettuano prima che tali contributi
siano pubblicati. Non è infrequente che il superamento
della procedura valutativa diventi un filtro nell’accesso
alle carriere scientifiche (universitarie e di altre istituzioni di ricerca e di cultura superiore)1. Il giudizio dei
revisori è, infatti, richiesto per la pubblicazione dalle
riviste più ambite nei diversi settori della conoscenza. I
contenuti delle riviste più diffuse, che rispettano determinati criteri di qualità, sono anche indicizzati (in
termini di titoli, sommari e parole chiave) in archivi
che consentono una consultazione rapida e organica
della produzione scientifica. A partire dai dati contenuti in tali archivi, oggi in massima parte digitalizzati, e
in base ai livelli di citazione degli articoli si generano i
fattori di impatto2 dei giornali scientifici. D’altra parte,
1
L. Yates, What does Good Education Research look like?,
Maidenhead, Open University Press, 2004, p. 92.
2
L’impact factor è solo una delle misure standardizzate create
dall’ISI – Institute of Scientific Information (Philadelphia, Stati Uniti)
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 11-27.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Gabriella Agrusti
le stesse riviste, per essere inserite nelle liste delle migliori agenzie internazionali di accreditamento, debbono sottostare ad una serie di condizioni, tra le quali assume un ruolo determinante l’assoggettamento dei testi
alla procedura di revisione tra pari.
Applicata alle riviste dei settori delle scienze sociali,
ma ancora più in particolare, ai periodici dell’area pedagogica, la revisione potrebbe apparire come l’ultimo ritrovato in fatto di valutazione, mentre ha una storia
piuttosto lunga, e un’evoluzione sulla quale è utile soffermarsi per provare a capire meglio i suoi meccanismi
e il suo portato sull’idea di qualità che promuove.
1. Le origini
Un campo ricorrente della letteratura sulla peer
review è quello medico, all’interno del più generale
ambito scientifico nel quale essa ha avuto origine. Infatti, anche gli albori delle procedure di esame della
qualità dei contributi scientifici ad opera di pari sono
da ricercarsi in questo settore – sebbene, come tutte le
idee semplici, vi siano anche in questo caso molteplici
rivendicazioni di paternità.
Una di esse vede – nella raccomandazione di un
medico siriano, vissuto poco prima dell’anno mille, di
tenere resoconti dettagliati sull’evolversi dei mali dei
propri pazienti – il primo embrione di una procedura di
che può essere utilizzata per misurare le citazioni ricevute da una rivista nel tempo. Solitamente il numero delle citazioni aumenta, raggiungendo una frequenza modale, tra il secondo e il sesto anno dopo la
pubblicazione. A partire da questo picco, vi è poi un decremento progressivo. In particolare, l’impact factor è una misura della curva citazionale tra il secondo e il terzo anno (cfr. M. Amin, M. Mabe, Impact
Factors: Use & Abuse, in «Perspectives in Publishing», 1, Oct 2000,
pp. 1-4).
12
Peer review: alle origini di una procedura
revisione tra pari3. Infatti, quale che fosse l’esito delle
cure prestate dal medico ai suoi pazienti, Ishaq bin Ali
al-Rahwi consigliava di redigere diari in più copie da
far leggere ad altri medici per controllare l’adeguatezza
delle scelte e dei trattamenti effettuati.
A ben vedere, però, anche dal punto di vista banalmente lessicale, il fatto che dei “pari” possano esprimere un giudizio sull’operato di un proprio simile è un
concetto che richiama alla mente una prerogativa tradizionale degli appartenenti all’aristocrazia britannica.
Hirschauer (2010) ricorda come fino al 1948, per i
membri della nobiltà inglese – i “pari”, appunto –, vi
fosse una specifica categoria di crimini sui quali essi
potevano essere giudicati unicamente da loro pari. Il
criminale sceglieva volontariamente di rimettere le
proprie sorti al giudizio di persone simili a lui, in quanto dello stesso rango. Se vi siano articoli scientifici (o
presunti tali) assimilabili a crimini nefandi, lasciamo al
lettore l’onere di stabilirlo.
Sta di fatto che il primo documento ascrivibile alla
categoria del giudizio tra pari è attribuito alle revisioni
effettuate per la rivista «Philosophical Transactions»,
fondata da Henry Oldenburg nel 1665 proprio in Inghilterra, allo scopo di risolvere primariamente il problema della visibilità delle scoperte scientifiche. Imbarcatosi nell’avventura di pubblicare una rivista a
proprie spese, sebbene fosse rivolta ai membri della
Royal Society di Londra, Oldenburg intendeva con
questo incoraggiare la diffusione delle più recenti scoperte per tutelarne l’originale paternità attraverso la
stampa (la scientific priority). Nell’introduzione al
primo numero delle «Transactions», infatti, per chiarire gli scopi e la natura della rivista Oldenburg scriveva:
3
R. Spier, The history of the peer-review process, in «Trends in
Biotechnology», 20 (2002), 8, pp. 357-358.
13
Gabriella Agrusti
It is therefore thought fit to employ the [printing] press, as
the most proper way to gratify those [who] (…) delight in the
advancement of Learning and profitable Discoveries (…)
clearly and truly communicated, desires after solid and useful knowledge may be further entertained, ingenious Endeavors and Undertakings cherished, and invited and encouraged to search, try, and find out new things, impart their
knowledge to one another, and contribute what they can to
the Grand Design of improving Natural Knowledge (…) All
for the Glory of God (…) and the Universal Good of Mankind»4.
La pubblicazione della Royal Society si fregia di
essere la prima rivista scientifica al mondo, e a Oldenburg (1619-1677), di origini tedesche e segretario della
Royal Society, spetta il merito di aver messo in pratica
le prime forme di revisione tra pari e di tutela della paternità delle scoperte scientifiche. Contrariamente a quello che si potrebbe immaginare, egli non era uno scienziato, bensì un teologo poliglotta che lavorava come
precettore per i giovani della nobiltà inglese. In questa
veste viaggiò a lungo in tutta Europa, stabilendo una
serie di rapporti con scienziati e uomini d’ingegno, anche poco noti, purché avessero al loro attivo scoperte
scientifiche di una qualche rilevanza. Queste reti rappresentavano il canale per trasmettere le informazioni
nella comunità scientifica del tempo. Gli scienziati
scrivevano a Oldenburg affinché potesse comunicare
ad altri le loro scoperte. La pubblicazione della rivista
era dunque il naturale sbocco di questa attività e probabilmente egli la intraprese con la speranza, presto
tradita, di poterne trarre qualche beneficio economico,
viste le sue condizioni generalmente precarie5.
4
H. Oldenburg, The Introduction, in «Philosophical Transactions», Royal Society, 1665-1666, 1.
5
L. Dirk, Henry Oldenburg: The first Science-Journal Editor, in
«CBE Views», 22 (1999), 6, p. 203.
14
Peer review: alle origini di una procedura
La figura di Oldenburg è piuttosto dibattuta a proposito di una delle primissime divergenze provocate
dalla peer review6. Tra i trentacinque membri che inizialmente costituivano la Royal Society figuravano anche Isaac Newton e Robert Hooke. Il secondo, meno
noto del padre della legge di gravitazione universale,
formulò una teoria sul movimento dei pianeti. Pare che
tra i due non corresse buon sangue, proprio a causa di
una revisione tra pari organizzata dallo stesso Oldenburg su un resoconto di Newton.
Come di prassi, tre membri della Royal Society
lessero il manoscritto di Newton e tra essi solo Hooke
mosse critiche al lavoro. Tali critiche venivano solitamente lette in una riunione pubblica dei membri della
Società. Newton non partecipò alla riunione, ma richiese a Oldenburg la valutazione di Hooke, che gli fu
prontamente inviata e alla quale rispose in modo piccato demolendo le critiche mossegli dal revisore7.
Hooke si scusò pubblicamente, giustificandosi con
l’aver letto solo rapidamente il lavoro di Newton, sostenendo che non fosse sua intenzione criticarlo apertamente e che in ogni caso le scoperte in esso presentate
potevano convivere con le sue teorie. In realtà, sappiamo che la riunione era pubblica e che dunque Newton
avrebbe potuto parteciparvi. Cosa più importante, sappiamo che le teorie di Hooke furono invalidate da quelle di Newton: quello che si era verificato non era altro
che uno scambio, forse acceso, tra intellettuali, ma con
l’indubbio merito di apportare nuova conoscenza. Almeno in questo caso, quindi, né alla procedura di revi-
6
A.R. Hall, M.B. Hall, Why blame Oldenburg?, in «Isis», 53
(1962), pp. 482-491.
7
Questa lettera fu pubblicata successivamente nelle Transactions.
15
Gabriella Agrusti
sione in sé, né ad Oldenburg che la gestiva, si possono
imputare particolari colpe.
2. Il labile confine tra censura e revisione
Nonostante l’aneddoto appena presentato, il materiale documentale a disposizione prima del XVII secolo è troppo limitato per poter compiere inferenze di
qualsivoglia natura su che cosa fosse in effetti la peer
review. Ciò che appare evidente è che la sua nascita sia
legata alle Accademie delle Scienze – non solo la già
citata Royal Society (1662), ma anche la Académie Royale des Sciences francese (1699). Tra le riviste che
hanno una storia legata a quella della revisione vi sono
infatti, oltre alla già citata «Philosophical Transactions», anche le memorie pubblicate dall’accademia
francese come parte dell’Histoire de l’Académie Royale
des Sciences: «L’autre Partie, ce sont les Mémoires,
c’est à dire, celles d’entre toutes les Pièces lûes dans
l’Académie, qui ont été jugées les plus importantes, &
les plus dignes d’être données au public dans toute leur
étendue»8.
Il fatto che le accademie potessero gestire autonomamente la pubblicazione di queste riviste rappresentava un unicum nel panorama dell’editoria del tempo, poiché gli altri testi erano normalmente sottoposti
alla censura. Alcuni ipotizzano che tali testi fossero
tutto sommato marginali e rivolti a un pubblico così
specializzato che non vi fosse la necessità di ingrossare
le già cariche fila di libri da sottoporre al vaglio della
8
Histoire de l’Académie Royale des Sciences, Année MDCXCIX.
Avec les Mémoires de Mathématique & de Physique pour la même
Année, A Paris, Chez Gabriel Martin, Jean-Baptiste Coignard, H.
Louis Guerin, avec privilège du Roy, 1699.
16
Peer review: alle origini di una procedura
censura. Biagioli, in particolare, sottolinea come, sebbene i casi eclatanti di Bruno e Galilei facciano pensare alla scienza come ad un fattore costantemente tenuto
sotto stretto controllo in quanto destabilizzante per
l’autorità religiosa, fossero in realtà i testi di politica,
satira o religione ad essere i più soggetti alla scure del
censore9.
All’inizio le accademie, attraverso appositi comitati, si facevano carico non tanto di garantire, come accade oggi, la qualità scientifica dei manoscritti, quanto
di tutelare i propri membri, in una sostanziale sovrapposizione tra revisori, autori ed editori. Una approfondita revisione di merito sarebbe arrivata solo quando vi
fosse stata sufficiente disponibilità di revisori competenti nello specifico settore trattato. I parametri utilizzati agli inizi erano per lo più negativi, ossia stabilivano che cosa non potesse essere pubblicato, e solo più
raramente, al contrario, quali pezzi fossero più meritevoli di pubblicazione. Con ciò, però, non si definivano
in positivo e compiutamente le caratteristiche auspicate, prevalentemente a causa della forte difformità di
competenze presenti in queste comunità scientifiche
embrionali. Vi era però l’esigenza, da parte delle accademie, di distinguersi e affermarsi nei confronti delle
università, pubblicando nei propri giornali articoli e
saggi che aumentassero il credito dei loro autori,
membri delle accademie stesse. Tali saggi erano «moneta corrente» per ottenere incarichi di insegnamento e
di ricerca.
Fino a quando la produzione di questi articoli rimase sostanzialmente collettiva, è difficile parlare di
revisione, proprio per le sovrapposizioni di ruoli cui si
9
M. Biagioli, From Book Censorship to Academic Peer Review,
in «Emergences: Journal for the Study of Media & Composite Cultures», 12 (2002), 1, pp. 11-45.
17
Gabriella Agrusti
accennava (1688). Inoltre, non si trattava inizialmente
di veri e propri testi inviati al comitato editoriale affinché fossero pubblicati, ma di lettere, resoconti, diaristica ai cui autori veniva frequentemente proposta la
pubblicazione ex post, consentendo ai curatori di mitigare la loro funzione censoria, che veniva in tal modo
applicata spesso indirettamente. Lo stesso Oldenburg
era autore di saggi che non erano altro che parafrasi e
miscellanee di estratti dalla sua corrispondenza10.
I primi nodi emersero quando, a causa della scarsità
del materiale pubblicabile prodotto in seno alle accademie stesse, fu necessario considerare, per la pubblicazione, anche manoscritti di studiosi non appartenenti
alle accademie e di studiosi stranieri. Bisogna operare
un distinguo tra la situazione francese, in cui molto minore era la pressione a pubblicare, e la situazione inglese, più orientata al mercato dell’editoria dell’epoca e
quindi più aperta verso l’esterno. Pur con queste distinzioni, e anche se nient’affatto «cieca», come vorrebbero le garanzie di qualità che oggi si cerca di sostenere attraverso di essa, apparve quindi una prima
forma esplicita di revisione.
E in effetti, anche l’anonimato della peer review
potrebbe essere dovuto ad una necessità contingente
più che alla ricerca consapevole di una condizione di
garanzia. L’ampia portata del panorama di riferimento,
data dalle aperture ad autori stranieri, determinò un anonimato di fatto: il revisore poteva anche venire a conoscenza del nome dell’autore, senza però averlo mai
incontrato personalmente, né avendo alcuna altra informazione biografica che potesse in qualche modo caratterizzarlo. Nel caso delle accademie, quindi, la preponderanza di revisori da un lato e la mancanza di testi
10
R. Hall, M.B. Hall, The Correspondence of Henry Oldenburg,
Madison, University of Wisconsin Press, 1966.
18
Peer review: alle origini di una procedura
interni da diffondere dall’altro possono essere all’origine di uno sviluppo più marcato della funzione di valutazione scientifica e pubblicazione di opere esterne.
Ciò aggiunse, alla già sancita prerogativa delle accademie di stampare riviste al di fuori del normale sistema di censura adottato per i volumi e i giornali di più
ampia diffusione, un alone di autorità nel determinare e
regolamentare la qualità delle produzioni scientifiche.
3. Le evoluzioni moderne
La revisione tra pari, in una forma assimilabile a
quella che conosciamo oggi, viene fatta risalire al 1731
e agli ambienti scientifici della Royal Society di Edimburgo, per approdare, in una veste rinnovata, in quella
di Londra una ventina di anni più tardi11. La caratteristica dell’anonimato dei revisori agli occhi degli autori
era garantita già da allora. Non si pensi, però, che la revisione abbia avuto da quel momento in poi una rapida
diffusione. Solo un secolo dopo, ancora nell’ambito
della medicina, si istituì un vero e proprio gruppo di
revisori scelti tra gli esperti del settore, a partire forse
da una proposta del direttore del «British Medical
Journal», E. Hart12.
Dalla fine del XVIII secolo alla metà del Novecento, gran parte dei giornali di medicina ha avuto finalità più assimilabili a quelle di quotidiani o giornali
di informazione specialistica che di riviste scientifiche,
poiché i comitati editoriali si rivolgevano esclusiva11
D.A. Kronick, Peer review in 18th-century scientific journalism, in «Journal of the American Medical Association», 263 (1990),
10, pp. 1321-1322.
12
J.C. Burnham, The evolution of editorial peer review, in
«Journal of the American Medical Association», 263 (1990), 10, pp.
1323-1329.
19
Gabriella Agrusti
mente ad un pubblico di professionisti e tecnici, del
tutto indipendenti nel prendere decisioni e che facevano affidamento prima di tutto sul proprio bagaglio di
conoscenze e sulla loro esperienza professionale. In
aggiunta a questo, i comitati editoriali erano più preoccupati di non riuscire a riempire pagine bianche che di
garantire la qualità dei contributi, al punto che spesso
gli autori erano gli stessi membri della redazione.
Il secondo dopoguerra negli Stati Uniti – e nell’area anglofona più in generale – segna un momento cardine per l’espansione della peer review, poiché è da
questo momento in poi che sono disponibili tracce consistenti dei processi di selezione editoriale. Le ragioni
dell’intensificarsi della revisione tra pari sono facilmente intuibili: un numero sempre crescente di ricercatori, un livello di specializzazione sempre più accentuato delle diverse discipline e, conseguenza di questi
primi due punti, il ridursi dello spazio a disposizione per
la pubblicazione. È necessario precisare, però, che tali
fenomeni non hanno mai seguito uno svolgimento uniforme per tutte le riviste e – cosa questa assai frequente
e riscontrabile, a prescindere da coordinate spaziotemporali – i comitati editoriali hanno spesso vissuto
l’introduzione della revisione tra pari come una scoperta originale, forse perché solo in modo frammentario si
è imposto il publish or perish e il conseguente rarefarsi
degli spazi di pubblicazione.
Punto fondamentale per la nostra trattazione è che
dagli anni quaranta ad oggi l’uso di esperti esterni per
giudicare la qualità degli articoli non si è sostanzialmente modificato, restando praticamente indenne all’introduzione di mezzi tecnologici, quali ad esempio i
sistemi di gestione editoriali online.
L’uso di valutatori indipendenti è stato anche mitizzato, identificato come l’evento chiave per lo svi20
Peer review: alle origini di una procedura
luppo della scienza contemporanea13. In realtà, persiste
una difformità molto marcata nell’attuazione delle pratiche di revisione, tanto da disegnare un panorama tutt’altro che univoco. L’indagine di Ware per il Publishing Research Consortium presenta alcuni risultati utili
per descriverla per sommi capi14.
Come già ricordato in precedenza, uno degli elementi che permette di classificare i diversi tipi di revisione è l’anonimato o meno di revisori e autori (blindness). La revisione può essere condotta da un solo
revisore (single blind), opzione più frequente nelle scienze «dure», oppure da due revisori (double blind), caso
più ricorrente invece nelle scienze sociali e nell’ambito
umanistico. Ma esiste anche una open peer review, nella quale non vi è alcuna forma di anonimato e una post
publication peer review, più rara, ma pure utilizzata,
nella quale si ribatte pubblicamente alle argomentazioni e
tesi proposte negli articoli. In particolare, quest’ultima
forma di revisione viene vista più ad integrazione delle
prassi esistenti che in sostituzione di esse.
Mediamente il processo di revisione dura quasi tre
mesi, con tempi più rapidi per il settore medico e infermieristico (in cui in un mese la valutazione viene
solitamente portata a termine), e decisamente più lunghi per le discipline umanistiche, con picchi che oltrepassano anche i sei mesi, non senza manifestazioni di
disagio da parte degli autori.
I revisori vengono retribuiti solo molto di rado, e
ottengono invece come prassi usuale un abbonamento
gratuito e una menzione di riconoscimento a posteriori
nel colophon della rivista. In media, a un revisore par13
J. Ziman, Information, communication, knowledge, in «Nature», 224 (1969), 5217, pp. 318-324.
14
M. Ware, Peer review: benefits, perceptions and alternatives,
London, The Publishing Research Consortium, 2008.
21
Gabriella Agrusti
ticolarmente attivo viene richiesto di rivedere dai nove
ai quattordici contributi l’anno, e ciò è percepito come
un sovraccarico da gran parte degli interessati.
Non tutti gli articoli ricevuti dalle riviste vengono
automaticamente sottoposti a revisione: il comitato editoriale realizza una scrematura di circa un quarto dei testi
eliminando quei manoscritti che presentano una qualità
evidentemente al di sotto degli standard della rivista o,
seppure in proporzione minore, scartando quei contributi che sono fuori tema rispetto alle finalità generali
della pubblicazione.
Anche i prodotti della revisione sono molto difformi tra loro. L’adozione di griglie per la valutazione
dei manoscritti e di indicazioni precise e dettagliate
circa gli elementi e i criteri che i revisori devono considerare nell’esprimere il loro giudizio è pratica comune solo nelle scienze naturali e in medicina, mentre
circa metà degli intervistati dallo studio di Ware nel
settore umanistico dichiara di non fare uso di alcuno
strumento preformulato per fornire il proprio parere.
Tali griglie, quando esistono, sono centrate in larghissima maggioranza su aspetti metodologici e, a seguire,
richiedono un parere sulla rilevanza e originalità di risultati e conclusioni cui gli autori pervengono.
Successivamente alla revisione, vengono rifiutati
mediamente tre saggi su dieci, uno su dieci viene accettato senza necessità di apportare modifiche, mentre
la gran parte degli articoli accettati lo sono previa introduzione di modifiche più o meno sostanziali.
Al di là dei frequenti aggiustamenti formali richiesti dai revisori nei riferimenti bibliografici, gli elementi
di miglioramento introdotti negli articoli in seguito alla
peer review risiedono nella argomentazione di premesse, ipotesi e risultati. Negli articoli che presentano ricerche quantitative, la percezione degli autori di mi22
Peer review: alle origini di una procedura
glioramento del contributo in seguito a revisione per
quel che riguarda l’uso e l’interpretazione di strumentari statistici è diffusamente positiva. Ciò nonostante, è
da notare che errori in questo ambito restano in ogni
caso molto frequenti anche in testi che superano positivamente la revisione. Garcia-Berthou e Alcaraz hanno mostrato come, in circa quattro articoli su dieci pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature, vi siano errori e
incongruenze nell’interpretazione dei test statistici15.
Sebbene la caparbietà degli autori nel ripresentare
a riviste diverse articoli in precedenza respinti venga
alla lunga quasi sempre premiata con la pubblicazione,
evidenziando evidenti incongruenze nel sistema della
revisione, gli articoli che sono accettati in riviste quotate ricevono una sorta di segno tangibile di approvazione che indica il soddisfacimento di determinati requisiti di qualità.
4. Le ombre del sistema
Sono relativamente pochi gli studi sistematici
condotti sulla peer review16, tutti nel settore medico, in
gran parte realizzati a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, e quasi nessuno di essi indaga
su base sperimentale quanto il sistema di revisione
possa dirsi efficace in relazione ai suoi obiettivi. Molte
sono invece le proposte avanzate per migliorarlo, come
sempre accade quando una prassi comune ha incidenza
15
E. Garcia-Berthou, C. Alcaraz, Incongruence between test statistics and P values in medical papers, in «BMC Medical Research
Methodology», 4 (2004), p. 13.
16
Una presentazione sistematica degli studi fino al 2000 si trova
in Jefferson, T., Alderson, P., Wager, E., & Davidoff, F., Effects of
editorial peer review: A systematic review, in «Journal of the American Medical Association», 287 (2002), 21, pp. 2784-2786.
23
Gabriella Agrusti
sui meccanismi impliciti o espliciti di cooptazione in
un gruppo professionale. Alcuni asseriscono che sia
proprio la pratica il punto in cui la revisione tra pari si
allontana dalla sua immagine ideale17.
La mancanza di effettiva “parità” tra revisori e autori e il plagio sembrano essere due tra le più preoccupanti pecche della peer review18. Come è facile intuire
dal quadro sinora tratteggiato, i revisori sono difficili
da trovare, e ancor più difficile è trovare dei buoni revisori.
Solitamente, il requisito minimo per divenire “giudici” dei propri pari è il possesso di un dottorato di ricerca, ma ciò non mette al riparo da errori nelle valutazioni. Per comprendere il lavoro dei propri colleghi,
solo sulla carta considerati pari per abilità, è necessario
condividere un lessico altamente specialistico, collegato non solo con i temi trattati, ma anche con la specifica
scuola di pensiero di riferimento, che fornisce le categorie interpretative con le quali lavorare. Ciò è particolarmente vero proprio per i settori umanistici, in cui il
livello di specializzazione è presente come in altri settori e tuttavia non sempre così immediatamente identificabile.
A tal proposito, il ruolo dei curatori e dei redattori
appare determinante per garantire la qualità del processo di valutazione19, a partire proprio dalla scelta dei revisori in ragione del tipo di contributo da valutare,
nell’offrire il tempo sufficiente ai revisori per svolgere
adeguatamente il lavoro richiesto, e da ultimo nel bi17
M. Biagioli, Art. cit., pp. 11-45.
E.W.K. Tsang, Is This Referee Really My Peer? A Challenge
to the Peer-Review Process, in «Journal of Management Inquiry», XX
(X), 2012, pp. 1-6.
19
S. J. Schwartz, B. L. Zamboanga, The Peer-Review and Editorial System: Ways to Fix Something That Might Be Broken, in «Perspectives on Psychological Science», 4 (2009), 1, pp. 54-61.
18
24
Peer review: alle origini di una procedura
lanciare il feedback ricevuto con il proprio giudizio e le
linee editoriali della rivista.
Il plagio è raramente individuato dai revisori, che
non sempre hanno la conoscenza enciclopedica necessaria a svelare la condotta irregolare degli autori. Il
problema non è certo da sottovalutare se, a questo scopo, nel settore biomedico sono stati messi a punto dei
programmi per il confronto di testi scritti che hanno
stimato la presenza di circa duecentomila brani duplicati all’interno di un archivio digitale di oltre diciassette milioni di articoli20. La pressione a pubblicare è tale
da ingenerare inoltre frequenti casi di auto-plagio (selfplagiarism), nei quali lo stesso saggio viene pubblicato
più volte su riviste diverse dal suo autore originario21.
Conclusioni
Parlare di peer review in rapporto alle sue origini
può essere utile per scoprire che alcune prese di posizione si sono ripetute nel corso dei secoli. Il considerare la revisione tra pari come qualcosa di originale e innovativo, anche se così non è, dal momento in cui si
decide di utilizzarla nella gestione della propria rivista,
ad esempio, è un fenomeno abbastanza ricorrente.
20
Il software è eTBLAST e ne ha dato notizia la rivista Scientific American già nel 2008, con un articolo nella versione online della
rivista.
21
Di recente inoltre, proprio nelle università americane i testi
presentati, in primo luogo le dissertazioni, sono sottoposte a un controllo automatizzato. Ciò in particolare dopo che casi di plagio sono
stati rilevati anche a Harvard (Harvard processa gli studenti copioni,
in «Corriere online», 1/09/2012). Anche in alcuni atenei italiani sono
in fase di sperimentazione programmi per il controllo delle tesi di laurea dei corsi specialistici.
25
Gabriella Agrusti
Il voler attribuire alla peer review il compito di
democratizzare il processo di costruzione del sapere
scientifico appare quanto meno sviante, anche se un
buon processo di revisione è alla base della costruzione
di un sapere intersoggettivo, e di una scienza le cui affermazioni si rendano falsificabili e culturalmente fondate. Il direttore di Nature ha affermato in un editoriale
molto commentato come la revisione tra pari sia il modo “meno imperfetto” di sostenere la qualità delle pubblicazioni scientifiche22, riprendendo per analogia il celebre motto di Churchill sulla democrazia. E tale deve
essere considerata, anche alla luce delle evoluzioni che
ha subito nel corso dei secoli.
Il fatto che le scienze sociali e le discipline umanistiche siano più “realiste del re”, nell’adottare una
doppia revisione cieca e tempi più lunghi di valutazione degli elaborati, rispetto alla medicina o alle scienze
naturali, non sembra garantire un risultato migliore. Vi
è, invece, una tendenza alla “burocratizzazione” del
processo, come in tutti i modelli e le procedure di valutazione adottate per seguire dettami esterni e non per
necessità effettive, che senza dubbio rappresenta la
minaccia maggiore per la sua efficacia.
La revisione è in nuce un meccanismo di diffusione controllata e costruzione condivisa di nuovo sapere.
L’attenzione agli aspetti metodologici su cui tanto
spesso si soffermano i suggerimenti dei revisori è proprio a garanzia del fatto che non vi siano intenti preconcetti nell’ostacolare nuovi paradigmi conoscitivi,
come vorrebbe una teoria del complotto ricorrente nei
giudizi ideologici contro la peer review, assicurando
22
L’editoriale della rivista «Nature» dal titolo Bad peer reviewers è del 2001 (413 - Settembre, 13, 93) è accessibile online sul sito
della rivista.
26
Peer review: alle origini di una procedura
invece, per il possibile, che tali risultati siano raggiunti
con metodiche trasparenti e riproducibili.
Quando la revisione riesce a far incontrare (e talora scontrare) due esperti in un settore, c’è la possibilità
che si produca una scintilla di sapere, citando uno dei
più noti studiosi della figura di Henry Oldenburg:
«knocking men’s heads together to make the intellectual sparks fly»23.
Riferimenti bibliografici
Biagioli, M., From Book Censorship to Academic Peer Review, in
«Emergences: Journal for the Study of Media & Composite Cultures», 12 (2002), 1, pp. 11-45.
Brown, T. (a cura di), Peer review and the acceptance of new scientific ideas. Discussion paper from a Working Party on equipping
the public with an understanding of peer review, November 2002
– May 2004, London, Sense about Science.
Eisenhart, M., The paradox of peer review: Admitting too much or
allowing too little?, in «Research in Science Education», 32
(2002), 2, pp. 241-255.
Hirschauer, S., Editorial Judgments: A Praxeology of 'Voting' in
Peer Review, in «Social Studies of Science», 40 (2010), 1, pp. 71103.
Roth, W.-M., Editorial power/authorial suffering, in «Research in
Science Education», 32 (2002), 2, pp. 215-240.
Schwartz, S.J., Zamboanga, B., The Peer-Review and Editorial System: Ways to Fix Something That Might Be Broken, in «Perspectives on Psychological Science», 4 (2009), 1, pp. 54-61.
Spier, R., The history of the peer-review process, in «Trends in Biotechnology», 20 (2002), 8, pp. 357-358.
Suls, J., Martin, R., The Air We Breathe: A Critical Look at Practices and Alternatives in the Peer-Review Process, in «Perspectives on Psychological Science», 4 (2009), 1, pp. 40-50.
23
A.R. Hall, M.B. Hall, Art. cit.
27
ὅτι μὲν ὑμεῖς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πεπόνθατε
ὑπὸ τῶν ἐμῶν κατηγόρων, οὐκ οἶδα·ἐγὼ δ᾽
οὖν καὶ αὐτὸς ὑπ᾽ αὐτῶν ὀλίγου ἐμαυτοῦ
ἐπελαθόμην, οὕτω πιθανῶς ἔλεγον. καίτοι
ἀληθές γε ὡς ἔπος εἰπεῖν οὐδὲν εἰρήκασιν.
μάλιστα δὲ αὐτῶν ἓν ἐθαύμασα τῶν πολλῶν
ὧν ἐψεύσαντο, τοῦτο ἐν ᾧ ἔλεγον ὡς χρῆν
ὑμᾶς εὐλαβεῖσθαι μὴ ὑπ᾽ ἐμοῦ ἐξαπατηθῆτε ὡς
δεινοῦ ὄντος λέγειν.
[Ἀπολογία Σωκράτους, 17a, ed. J. Burnet,
1903].
Roma 1566.
I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
Cristiano Casalini, Luana Salvarani
Università degli Studi di Parma
Dipartimento A.L.E.F.
Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma
[email protected]
[email protected]
Un umanista francese in fuga e uno scandaloso
professore spagnolo si incrociavano, in quegli anni
cruciali, a Roma. Un reticolo di strade disordinate attorno alle grandi chiese, cupi palazzi in stile fiorentino,
fontanelle e vespasiani all’angolo di case fatiscenti:
uno spazio con tanti istinti e moti scenografici che si
spegnevano nell’assenza di un piano. Pittori e decoratori manieristi avevano un bel contorcere e giocare di
simbologie finto-egizie, tra grottesche ed obelischi: ma
l’emozione non si accendeva. C’era bisogno di grandi
gesti per polarizzare le energie; di un’estetica non di
riuso né di nicchia; e di passioni nuove e diverse dall’eterna ritualità delle processioni e degli allestimenti
liturgici (le scritte sui muri dei lanzichenecchi in furia
qualche dubbio l’avevano pur insinuato).
Quella scena non era ancora stata allestita. E probabilmente, Muret e Venegas, maestri di retorica e maestri di teatro, ebbero più responsabilità di quanta non
sia mai stata riconosciuta loro nel trasformare quella scena mal apparecchiata nel più grande teatro del mondo.
O meglio, nel generare quella sete romana, di popolo e
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 29-51.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
di élite, che solo l’acqua barberiniana avrebbe placato
mezzo secolo dopo: sete di teatro, sete barocca.
Molto prima che le vigorose pianificazioni dei
grandi architetti rendessero visibile la Roma del Seicento, la scena barocca andava creandosi in uno spazio
di poche centinaia di metri, nel triangolo delle grandi
istituzioni della formazione romana. Quando Muret,
francese dagli allievi illustri, giunse a Roma, scese da
cavallo a Sant’Eustachio: era lì per insegnare alla Sapienza, Studium Urbis la cui “dignità” era stata stabilita per decreto da Bonifacio VIII, ma che rimaneva ancora distribuito tra palazzacci e vecchi appartamenti
del quartiere. Giacomo Della Porta, incaricato della
fabbrica, vi avrebbe riprodotto, trent’anni più tardi, le
maschie simmetrie della Sapienza pisana, una geometria alloctona mai veramente radicata nello spirito romano, sfuggendogli però uno stretto lembo fuori simmetria, perfetto per indurre l’erezione borrominiana del
nevrotico razzo di sant’Ivo. A pochi passi, due severe
sentinelle gesuitiche erano appena sorte: il Collegio Romano, oltre il Pantheon, e il Germanicum, dietro la curva di Piazza Navona. Proprio là, coi suoi faldoni di
drammi manoscritti1, sempre pronto alla prossima cacciata per immoralità, Miguel Venegas aveva fatto una
prima brevissima tappa, che tuttavia avrebbe lasciato
un segno profondo.
1
«Yet there does seem to be a close correlation between Venegas's itinerary during the years (1563-67) when he was being sent
from town to town and from college to college while his superiors decided whether or not they could afford to keep him in the order, and
the places where manuscripts of his works have been identified. This
may be an indication that he took with him on his travels copies of his
plays and poems. We know that his plays were, on occasion, staged in
colleges in Germany and Italy» (Griffin, Lewin Brecht, Miguel Venegas, and the school drama: some further observations, in «Humanitas», 35-36 [1983-1984], p. 34).
30
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
Questa sincronia tra due maestri d’eloquenza perseguitati dalle accuse di sodomia proditoria2, tra il Muret
umanista della Pléiade (ma con il gusto per il periodare solenne delle discipline giuridiche) e il Venegas,
mago del trimetro giambico e del monologo strappalacrime, accese la miccia del teatro romano. Lo fece all’interno dei collegi della Compagnia e nei cortili di
Sant’Eustachio. Lo fece con gli studenti dei collegi
come interpreti, e con autorità sempre più numerose
come pubblico.
Delle prime rappresentazioni nei collegi gesuiti a
Roma si hanno pochi dati certi: i copioni rimanevano
per lo più manoscritti, ed è dalle intestazioni di questi
manoscritti (sparsi tra biblioteche e collezioni private
nel mondo) o da notizie in lettere e testimonianze che
possiamo conoscere date, luoghi e circostanze degli
spettacoli. La letteratura è unanime nel sostenerlo: il
primo dramma gesuita documentato a Roma è un Saul
andato in scena al Collegio Germanico nel 1566. Non è
stato però notato, se non en passant da Nigel Griffin,
che il Saul in questione è il Saul Gelboaeus di Miguel
Venegas, seguìto (o preceduto di pochi mesi, perché la
documentazione è ambigua) dall’Achabus dello stesso
Venegas, sempre al Collegio Germanico. Approda così
a Roma una tradizione teatrale iniziata al collegio di
Guyenne a Bordeaux con i maestri umanisti Muret e
2
Non erano ancora i tempi della moda caravaggesca, quella
«openly homosexual subculture in Rome; sophisticated, confident and
wealthy enough to indulge in its fantasies and to develop its own
codes and ironies» (Margaret Walters, The Male Nude, London, Paddington Press, 1978, p. 188) che avrebbe celebrato i propri fasti nel
gran salotto artistico del cardinale Scipione Borghese, e, più avanti,
nelle veglie danzanti en travesti dei nipoti Barberini.
31
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
Buchanan,3 che, come ci testimonia Montaigne, lasciarono traccia nel ricordo degli allievi soprattutto con i
loro drammi e le messe in scena da loro coordinate.
Quando André de Gouveia, principale del collegio,
portò con sé a Coimbra quel prestigioso gruppo di maestri (Muret rimase però in Francia) e le loro prassi didattiche, importò quella medesima tradizione, che i
Gesuiti acquisendo il collegio fecero propria fin dalla
prima generazione, quella di Alvares il grammatico,
Soares il retorico e Miguel Venegas. A Roma il Muret,
che aveva riparato in Italia prima presso la bottega dei
Manuzio e poi presso il Papa, si ricongiunse con l’eredità culturale dei propri colleghi, partecipando così indirettamente alla nascita di un teatro gesuita “internazionale”, in anticipo su quello del messinese Stefano Tucci,
che non comparve sulle scene romane prima del 1574.
Le rappresentazioni del Saul e dell’Achab innescano una storia dei primi decenni del teatro gesuita a
Roma completamente dominata dal Venegas e dalla discendenza artistica di Muret: Francesco Benci suo allievo
prediletto, e poi Bernardino Stefonio allievo di Benci.
Un fascicolo romano di copioni manoscritti conservato
alla Biblioteca Nazionale (e già utilizzato da Gualtiero
Gnerghi per le sue pionieristiche ricerche4) accosta al
Saul quell’Eustachius che era stato messo in scena nel
1566 assieme all’Achab di Venegas (secondo la testimonianza di Polanco5), al Triphon di Benci e al Christus
Nascens del Tuccio. Presenta un indice quasi identico,
se non ne è una copia, un manoscritto (appartenuto a
3
Cfr. Montaigne, L’Educazione (Essais 25-29), a cura di C. Casalini e L. Salvarani, Roma, Anicia, 2011, pp. 109-110.
4
Gualtiero Gnerghi, Il teatro gesuitico ne’ suoi primordî a Roma, Roma, Officina Poligrafica, 1907.
5
Cfr. infra, n. 18.
32
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
Scipione Bargagli, traduttore in versi italiani dello Iefte
di Buchanan) posseduto da Sir Richard Heber Esq. e
battuto all’asta nell’Ottocento6: testimonianze di una
tradizione drammatica che aveva messo a fuoco i propri “pezzi forti” e li riproponeva, accanto ai drammi
composti volta a volta dalle classi di retorica, nei propri collegi sparsi per l’Europa. Sappiamo da Nigel
Griffin che i drammi di Venegas vennero ripresi più
volte tra Francia, Germania e Italia durante le sue peregrinazioni. Ed è certo che le repliche continuarono
ovunque ci fossero suoi copioni manoscritti: forse, nel
remoto Est dell’Europa, anche dopo la cacciata dall’Ordine che, nel 1567, cancellò Venegas dalla storia
dei Gesuiti, senza però interromperne la carriera di docente.
A Roma, l’assenza di una tradizione teatrale locale
in lingua latina e, in generale, del teatro tragico-pastorale maturato nelle piccole e medie corti, fornisce un
ambiente ideale, un contesto di purezza da laboratorio,
alle sperimentazioni del teatro di collegio, non a rischio di concorrenza con le salaci commedie aretinesche in volgare.
Il primo teatro gesuita a Roma nasce, con combinazione inedita e in parte fortuita, dalla convergenza
tra la dimensione “reservata” della retorica umanistica
e quella ricerca in grande stile degli estremi della scala
affettiva e sensoriale, che verrà poi detta “barocco”.
Dimensioni e tensioni che ci si è troppo a lungo abituati a
leggere come opposte e in rapporto di mutua esclusione, quando furono invece, in quella fortunata transizione, solo diverse accordature del medesimo strumen6
Biblioteca Heberiana. Catalogue of the Library of the Late
Richard Heber, Esq., part 11th, manuscripts, 1834.
33
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
to, bizzarro e astorico parto delle menti di alcuni talentuosi maestri di retorica.
In effetti, è solo la retorica applicata dei collegi e
la strenua disciplina della disputa, reagendo con la sofisticata Affektenlehre scelta dalla Compagnia di Gesù
come proprio campo d’azione, a consentire ed incoraggiare la convergenza di stili apparentemente opposti, deprivati del loro colore storico e riportati allo status di
codice. La dimensione didattica è la “terza forza” che
risolve un problema linguistico non certo limitato al
campo del teatro o più in generale della poesia neolatina. Passato e in qualche modo acquisito (anche se non
ovunque accolto) il salto di paradigma del primo umanesimo, la ricerca artistica che ne derivava si trovava a
un bivio. O la ricercatezza sempre più estrema, con la
rinuncia programmatica ed orgogliosa alla decifrabilità
fuori dall’hortus conclusus degli estimatori; oppure, e
sarà questa la via vincente, operare un salto di scala:
rendere seriali le scoperte umanistiche, accettando la
sfida delle grandi proporzioni e degli affetti ed effetti
senza freno, e delineare così un concetto prima sconosciuto, quello di grande pubblico7.
7
Una realtà non facile da gestire, nei suoi umori, agli inizi della
prassi teatrale collegiale. Secondo Villoslada, nel febbraio del 1566
era scoppiato un tumulto in seguito alla rappresentazione al Germanico del dramma Santa Caterina Vergine e Martire, «con grande apparato scenico. Presenti molti Cardinali e gli ambasciatori di Spagna,
Portogallo e Venezia. Il pubblico si mostrava molto commosso allo
spettacolo. Un capitano del Papa con un picchetto di cavalleria proteggeva l’entrata, ma era tanta la folla riunita all’ingresso che, forzata
la porta, riuscì in parte a penetrare nella sala, lanciando insolenze e
turbando lo spettacolo. Borgia ordinò che da quel momento tali spettacoli non furono più pubblici, decisione che provocò scontentezza e
dolore, specialmente tra i convittori italiani del collegio» (Riccardo G.
Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla sop-
34
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
Cos’era, quindi, questa operazione a livello di codici, se non la medesima in cui la Compagnia andava
riuscendo suo malgrado, ovvero l’imprevisto farsi carico dell’educazione delle classi dirigenti, che già
all’altezza del 1566 aveva generato un numero di collegi così vasto da turbare seriamente i Prepositi Generali? La selettività in ingresso degli aspiranti studenti –
noti i test di ammissione presso il Collegio romano,
che diverranno norma nella Ratio studiorum – servì
come palliativo per la domanda crescente (e come stimolo pubblicitario a provocare una domanda ancora
maggiore), fossero giovani inquieti in cerca di esotici
martìri oppure probi figlioli dell’aristocrazia di corte, o
scaltri mercanti intercontinentali. Si trattava di élite,
ma di una élite mondiale. E questa vasta clientela aveva esigenze formative impellenti, misurabili, spendibili
nel mondo; e ne avrebbe chiesto conto ai rettori gesuiti. Si trattava di capacità come il carisma di conquistare
le anime al cattolicesimo, l’abilità diplomatica e il fiuto politico dell’uomo di corte, il dominio di sé necessario a concludere un contratto. Il materiale didattico a
disposizione dei maestri gesuiti era quello comune a
tutti gli educatori del tempo. Torcere le sottigliezze di
una astratta speculazione e le maniere vacue di una retorica emulativa ai fini pratici di un Cortegiano sempre
più businessman: questa fu la sfida ed insieme il successo della formazione gesuita.
Non si spiega l’attrazione che i collegi della Compagnia esercitarono sulle classi dirigenti, se non con la
riuscita in questa de-strutturazione e sintesi delle culture universitaria e umanistica in pattern seriali rigorosamente finalizzati e traducibili come sapere pratico.
pressione della Compagnia di Gesù (1773), Roma, Università Gregoriana, 1954, pp. 76-77).
35
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
L’esercizio eccede l’interesse per il testo e il processo
sovrasta il contenuto, perché lo studente deve essere attrezzato a riuscire in società, a essere, propriamente,
uomo di mondo. L’uso della parola è la chiave di questo successo, e il suo potere deve agire su una pluralità
di registri, estendersi a un pubblico più vasto di quello,
tipicamente umanista, costituito da un pugno di pedanti
dediti a dotti conversari in villa.
L’insegnamento della retorica lavora, di conseguenza, più sulla composizione delle fonti che sulla loro selezione, più sulla intensificazione e amplificazione
degli effetti – anche psicologici, come la suscitazione
controllata di memorie – che sulla ricerca dell’eufonia
e della proprietà. E i classici di riferimento non possono più essere conosciuti, studiati e venerati, more humanitatis, nella loro ampiezza e complessità, nella loro
varietà di proporzioni, con tutta la loro dovuta estensione di materiale “inutile”. Solo nello spazio linguistico che seziona e centona i testi, li esemplifica e raccoglie in prontuari e manuali – avendo in mente però non il
rito funerario e autoreferenziale dell’apprendimento
scolastico, ma la sfida del pulpito e del palcoscenico –,
si riescono a sintetizzare Cicerone e Virgilio, Seneca e
Quintiliano in un’unica materia sfolgorante e multicolore, vivificata dalla lacca lucida di un’eco lucreziana
onnipresente: dimenticati pessimismo e materialismo,
ovunque risplende l’intonazione eroica e il fascino arcaizzante dell’esametro del De Rerum Natura.
La rinuncia ai contenuti di Lucrezio non è, evidentemente, solo un fatto ideologico e di censura religiosa,
è il fenomeno forse più macroscopico di quello scollamento tra oggetti linguistici e contenuti che costituisce il lato più sorprendente della ricerca gesuita. Il risultato è un verso il cui eclettismo non è segno di
mancanza di rigore, ma di precisa scelta estetica e
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Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
compositiva, e che troviamo già perfetto nel padre fondatore di tutta questa storia, il Muret del Julius Caesar
che Montaigne recitò al collegio di Bordeaux:
D. BRU.
Magnanime Caesar, quod tibi verbum excidit?
Tene potuisse Barbarorum copias,
Nil mente mota, fortiter contemnere,
Non posse nunc temnere mulieris somnia?
Ubi pectoris vis illa praecellens tui est,
Quam sensit olim, quique septeno videt
Nilum per arua profluentem gurgite,
Quique glaciali colla suppositus polo,
Concreta pigro maria sulcat marmore,
Et quos rapaci Rhodanus unda verberat,
Galli feroces? […]
Maestosi paesaggi, ablativi a fine verso a volontà,
costruzioni parallele, chiasmi modali e sintattici come
se piovesse: sarà pure la penna di un giovane maestro
che voleva dimostrare il suo possesso del trimetro
giambico, ma la direzione è già quella che si dispiegherà nel verso neolatino barocco maturo, attraverso la
mediazione, come vedremo, degli altrettanto vari ed
acrobatici trimetri di Miguel Venegas. E ritroviamo
puntualmente la stessa eloquenza “neo-lucreziana”, in
dimensioni da kolossal, nei tanti monologhi, canti e orazioni che punteggiano il Quinque Martyres, poema
epico-sacro di Francesco Benci, allievo gesuita di Muret8. Qui un’autorità sacerdotale invita le folle ad ono8
Il forte legame tra Muret e il suo allievo Benci rafforza
l’ipotesi di una collaborazione frequente dell’umanista francese con il
Collegio Romano. Il Collegio ne ricevette in lascito una cospicua
somma e tutta la biblioteca muretiana, per testamento di un “omonimo
nipote”, morto sedicenne, che viveva col Muret e che ne aveva ereditato il patrimonio (Villoslada, op. cit., pp. 58-59).
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Cristiano Casalini e Luana Salvarani
rare il rito funebre per Rodolfo Acquaviva, il cui feretro sfila nella notte tropicale di Goa, in un gran corteo
pagano, quasi identico a quello delle mariniane esequie
d’Adone:
Ferte Deo fetus ovium divina propago:
Ferte Deo, & sacras mactandos sistite ad aras:
Ferte Deo cum laude preces: persolvite honorem:
Carminibus celebrate Deum: sancta atria circum
Ture flagrent, resonent votis, & sanguine fument.
Auditis? Deus insonuit: vocem aequora caeli
Accepere: leues turbarunt protinus undae.
Pro quanta in voce est virtus? quantum instar in ipsa est?
Scilicet aëriam potis est excindere cedrum,
Cedrum quae Libani sublimi in vertice, quantum
Ad caelum ramis alte surgentibus exit,
Tantum etiam terris late diffundit odorem.
Sensit, & himmuleo similis qui territus antrum
Deserit, ignotasque fugax aufertur in oras,
Exiluit Sarus & Libanus, tonitruque remugit,
Quod micat & rutilas iaculatur ab aethere flammas.
Ecce autem horrisono miscetur terra fragore
[...]
Questo stile si colloca ovviamente al di fuori e oltre
gli schemi rinascimento/barocco, oppure atticismo/asianesimo, appiccicati di volta in volta a questo o quell’autore (a questa o quella prassi) malgré lui. Una lingua eroica di sintesi, comune all’oratoria tragica e al
teatro, che consente l’innesto tra memorie letterarie diverse: la fioritura viene favorita dalla presenza di un
terreno espressivo particolarmente fertile. La tradizione “senecana”9 cinquecentesca perde, già in Muret, il
9
Il “senechismo” muretiano, e poi gesuita, indulge meno di
quanto si crederebbe negli effetti cruenti e macabri cari allo Speroni e
al Giraldi Cinzio. Non il nero e rosso del senechismo cinquecentesco,
38
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
proprio colore umanistico, quando è lo strumento che
consente tours de force ad effetto come questo del monologo di Calpurnia:
CAL. Cæsar meus, nutrix mea, heu, Cæsar meus,
Meus ille Cæsar, quo mea innixa est salus,
Mihi visus ulnas inter effusus meas,
Iacere multo sanguine, et tabo fluens,
Multísque plagis pulcra fossus pectora…
che ritroviamo stilisticamente identici in certe scene
madri del gran Venegas:
I. Alterius alter aequa sit merces amor.
D. Amo te amandi quanta vis mihi est data.
I. Certamen aliud non erit tecum mihi,
In amando vinci non patiar a te David…
Ma al di fuori della norma umanistica sta il risolversi dell’energia nera delle immagini e del denso metallo retorico non nella catarsi, stoica e monumentale,
della morte dell’eroe, ma nell’inaspettato lieto fine, col
trionfo di Cesare portato in cielo.
Muret ci offre un esempio precocissimo della tipica situazione barocca in cui drammaturgo e pubblico
sono portati ad identificarsi con l’eroe negativo, o con
l’antagonista, salvati all’ultimo da un deus ex machina,
dal soprannaturale sovvertimento delle leggi di natura,
o, in contesto gesuita, direttamente dalla mano di Dio.
La meraviglia, evidentemente, non va tanto per il sottile in questioni di morale, la “morale della favola”. Ed è
interessante e sconcertante assieme vedere come Buchanan, compagno di Muret nell’avventura teatrale del
collegio di Bordeaux, ove mise in scena appunto il
ma l’oro e i colori vivi dei costumi esotici, è il colore di fondo della
tragedia gesuita.
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Cristiano Casalini e Luana Salvarani
dramma morale di Iefte, non capisca o non voglia capire il protagonismo di Cesare, assassinato per sua libera
scelta, e – presentando il dramma nei distici celebrativi
che aprono gli Iuvenilia muretiani – affidi la prima parte a Bruto:
Quanta in magnanimi consedit pectore Bruti,
Pro patria virtus cum pia tela daret,
Tanta animo, Murete, tuo sese intulit, ore
Altiloquo Bruti dum pia facta canis.
Ergo licet claris rarò non invida coeptis
Fortuna Aemathio sparserit ossa solo,
Ille iterum surgit per te post funera maior,
Crescit & ingenio laus rediviva tuo,
Et magis illustri gaudet decorata trophaeo,
Quam si Pyramidum contegat ossa labor.
Nessun monumento funebre, nessuna arca di pietra
nel teatro muretiano, che alla solennità memoriale delle piramidi preferisce lo splendore di un’apparizione di
Cesare in gloria, fissando un modello che verrà ripreso
e ampliato infinite volte nelle apoteosi del teatro gesuita (culminanti nella Apotheosis sive consecratio SS.
Ignatii et Francisci Xaverii, con le musiche di Kapsberger, 1622). Si conferma lo scarto di prospettiva del
Julius Caesar di Muret rispetto alla tragedia regolare:
l’autore non ha alcun reale interesse per Bruto tirannicida. Cesare c’est lui. Non solo perché l’esecrazione di
Cesare è, nella tragedia, più legata allo status di sodomita passivo (pathicus) che propriamente politica, sulla traccia delle accuse che inseguivano lo stesso Muret10:
10
La scelta di pathicus invece di cinaedus o altri sinonimi non è
neutra per il Muret, commentatore di tutto Catullo, che certo aveva in
mente il carme 112: Multus homo es, Naso […] Naso, multus es et pathicus. A rigore il Muret non aveva fama di pathicus, semmai stava
40
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
O rem pudendam! mollis & vix vir satis,
Regit Quirites Martis ortos sanguine,
Totumque nutu pathicus orbem temperat11;
ma anche perché il trionfo finale di Cesare, con la dichiarazione che i tirannicidi hanno potuto dilaniarne
solo il simulacro, solo l’ombra («Simulacra tantum nuda
dilaniata sunt: | Nec ipse cecidi: umbra cecidit tantum
mea»), è ripreso tal quale in un distico amoroso in
prima persona compreso negli epigrammi del Muret, e
dedicato, con tradizionale gesto di depistaggio, ad
un’amica lontana12.
Quando Miguel Venegas giunge a Roma nel 1562
– in uno dei continui spostamenti di sede, coi quali
l’Ordine cerca di sedare gli scandali che lo inseguono,
senza rinunciare al suo talento – porta con sé i copioni
delle grandi tragedie conimbricensi: Saul Gelboaeus,
Achabus, Absalon. Da viaggiatore forzato qual è, Venegas è inseguito dal demone dell’oblio, dall’esigenza
di lasciare un segno: è terrorizzato dall’idea che i suoi
libri vadano perduti. E, ovunque si fermi, ne fa fare
una copia13. Così avviene anche al Collegio Germanidall’altra parte («sed quia primae nobilitatis filios volebat comprimere, ideo fugit Romam»; Scaliger, Scaligerana Secunda, s.v. Muret,
p. 464, cit. da Giovanni dall’Orto).
11
«Quale vergogna! un uomo a malapena / Regge i Quiriti, prole del fier Marte; / Il cenno d’una checca muove il mondo».
12
«Extinctum toties sit fas occumbere. Iam sum | Non ego, sed
tantum corporis umbra mei» (Ab amica procul positus, ob idque noctu
quiescere non valens, mortem precatur).
13
Il Manareo, scrivendo a Borgia nel 1564, in un post scriptum
riferiva: «Maestro Vanegaz prega de suoi scritti che ne sta maniconico». L’anno dopo (26 novembre 1565), Borgia scriveva a Venegas,
evidentemente in ambasce per non aver ancora ricevuto i suoi scritti:
«quanto a los scriptos de Vuestra Reverencia, el Tramezino nos afirma
que de Venetia se embiaron en Leon, y de nuevo se haze diligençia
41
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
co, che nel 1566 (in preparazione di un ritorno del Venegas che probabilmente non ci fu mai14) può organizzare quella messa in scena del Saul da cui si fa iniziare
la storia del teatro gesuita a Roma.
La sintesi, già muretiana, di esasperata tensione emotiva e congegni retorico-espressivi da manuale, trovò in Venegas la temperatura perfetta per diventare
modello facilmente campionabile e riutilizzabile nella
prassi didattica, senza mai perdere il fascino della parola
maravigliosa. Testa da maestro di scuola e temperamento da regina della scena si intrecciano in questo stile inconfondibile, capace di trasmettere gli accenti della passione “sublime” tra Davide e Jonathan (come
nelle scene madri del Saul) e assieme proporre instancabilmente i giochini retorici “da premio di fine anno”15 come la rima interna, i versi monosillabici, i
para entender quien los llevo, y adonde enderazados, y al padre
emondo se le encomienda la diligençia en buscarle, que podria ser un
dia se hallassen, pues no es cosa che facilmente otros podrian robar».
(cit. in N. Griffin, Lewin Brecht, Miguel Venegas, op. cit., «Humanitas», 35-36 [1983-1984], p. 35).
14
Richiamato a Roma da Parigi e mandato ad imbarcarsi ad Anversa, il Venegas cercò di evitare lo sgradito rientro peregrinando per
la Germania, poi da Genova a Marsiglia e Avignone per infine approdare a Barcellona. Non si sa se nel periplo passò effettivamente da
Roma, né se si trovava nella capitale al momento della cacciata
dall’ordine l’anno successivo (ibid., pp. 41-42).
15
In una stampa (1591) del Philotimus del Benci, riferita alla
messinscena del dramma in distributione praemiorum (Calende di
gennaio 1590, Collegio Romano), si dà conto dei premi assegnati e dei
versi recitati dai premiati in ogni singola classe: classe di Retorica, di
Umanità e prima classe di Grammatica, ciascuna con tre prove – prosa
(solutae orationis), composizione in versi e epigrafi in greco –, mentre
è prevista una sola prova per le classi seconda, terza e quarta di
Grammatica. In ciascuna prova si forma un podio composto da primo,
secondo e terzo premio, e il premiato recita alcuni versi (per lo più un
distico elegiaco o una strofe saffica) che commentano il libro vinto, al-
42
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
chiasmi sintattici in parallelismo semantico e viceversa, gli adorati polittoti o le allitterazioni più spudorate.
Già Muret giocava con i tempi e modi verbali in un
luogo focale come la dichiarazione d’intenti dei tirannicidi:
Immo audeamus magnum aliquid & nos quoque:
Mactatus hacce dextera tandem cadat,
Qui, quandocunque ceciderit, sero cadet.
Pro patria confligere, augurium optimum est.
Molto più in grande stile il Venegas nel finale dell’Achabus:
Jor.
Lacrymae minus
Prosunt inanes, flere non tamen iuvat.
Och.
Magna est voluptas flere, flendo fugit dolor.
Jor.
Fleamus ergo, si quis est flendi modus,
Casum ne durum patris, an patriae fleam?
An omia simul? omnibus perijt simul.
Mihi perijt uni saepe, non solum semel
Flebo omnia semel, saepe sum flendus mihi
Ubi sunt relata spolia? victrices ubi
Palmas relinquis? regia ne nullo stetit
Cruore caedes, tam brevi emerent Syri
Mercede Regem, Tyrius hoc vidit Baal!
[…]
Jor.
tamente esemplificativi della tipologia di giochi retorici che i vincitori
dovevano esibire. Non sempre banale l’offerta di testi in premio: agli
ovvi Virgilio, Cicerone e Seneca tragico e ad autori interni all’ordine
(la Retorica di Padre Perpiña) si affiancano lo stesso Muret, ma anche
umanisti più rari d’area medicea, come Pietro Angeli da Barga, e opere ricercate – e care alla futura estetica barocca – come gli Emblemata
dell’Alciato (Francesco Benci, Philotimus Drama, Roma 1591, pp.
67-74). Cfr. R. G. Villoslada, op. cit., p. 70.
43
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
Non moritur ille, quem Deus iubet mori,
Ut vivat animo parte meliori sui.
Och.
Spem in genere, et opibus, robore, et sceptris loca
Fera mors genus, opes, robur, et sceptra locant
Nihil in te pulchrum cinerem praeter feres.
Questo pensiero teatrale, reso possibile dalla prassi didattica, si declina fin da subito in due dimensioni:
quella delle piccole pastorali mitologico-allegoriche
“per uso interno” (Benci ne compose due, il Philotimus
e l’Ergastus) e quella delle grandi tragedie sacre con
musica e balletto destinati allo spettacolo di fine anno.
Ed è quest’ultima dimensione del teatro di collegio a
ricadere in prospettiva sul grande teatro barocco, mettendo a punto congegni spettacolari in grado di ricodificarsi anche fuori dalle aule, nel campo assai più minato (e molto più costoso) del teatro professionistico.
Già le primissime messe in scena a Coimbra del
teatro di Venegas, come quella del 1559 dedicata al
Saul16, prevedono un apparato scenico e multisensoriale che al palco centrale (lo spettacolo si svolge a cielo
aperto, in un chiostro17) e alle mansions tipiche del teatro medievale e nordico, accosta la fastosità dei costumi e la presenza della musica polifonica (canto de órgano), in una direzione barocca di “opera d’arte totale”
16
Cfr. C.-H. Frèches, Le théâtre néo-latin au Portugal (15501745), Paris-Lisbonne, Nizet-Bertrand, 1964, p 187.
17
Altra caratteristica delle rappresentazioni che si svolgono in
chiostri o cortili interni è la possibilità, per il pubblico sulle balconate
o finestre del secondo piano, di vedere il palco dall’alto; il maestro di
scena può quindi comporre figure disponendo opportunamente comparse o coristi. Ne ritroviamo testimonianza, p. es., nei bozzetti di scena per il Crispo di Stefonio, riportati nel contributo di M. Fumaroli per
Les fêtes de la Renaissance, III, Paris, éditions du CNRS, 1975.
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Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
che andrà sempre più arricchendosi con l’aggiunta del
balletto e delle macchine sceniche. Il momento degli
intermedi allegorici con musica e danza, luogo chiave
della transizione tra la tragedia umanistica e l’Opera, è
presente fin dai primissimi spettacoli del Collegio
Germanico:
Innanzi quaresima, per allegrare il collegio, et diuertir molti
di fuori da altri passatempi meno honorati, si rappresentarono nel collegio germanico due attioni fatte da persone della
Compagnia. Una tragedia d'Acab, et una comedia d'Eustachio. Le quali, sì per esser in se molto buone et ben rappresentate, come per le uistosi intermedii, piacquero notabilmente a gli spettatori, fra i quali furono 7, o uero 8 cardinali,
e molto numero di prelati: et contentaronsi tanto, che fu bisogno ripetere le attioni piu d'una uolta, per questi et per
quelli altri che ne faceuano instancia; et benche sia grande il
cortile del collegio, doue si rappresentarono, nondimeno ci
era che far assai in difendersi con le porte chiuse da quelli
che uoleuano intrare [...]18.
Un meccanismo spettacolare e pubblicitario, un’industria del palcoscenico – di cui fanno parte sia le
messinscene sempre più fastose e costose, sia le repliche, sia i rendiconti, più o meno esagerati o inventati,
di repliche fastose e costose – che va perfezionandosi
lungo le prime tre generazioni del teatro di collegio gesuita a Roma, da Venegas a Francesco Benci, allievo
di Muret, al Bernardino Stefonio, allievo di Benci, che
con il Crispus (1597) e la Flavia (1600) fissa il nuovo
standard del teatro gesuita. Forse è sfumato un poco il
talento espressivo e la musicalità (volta a volta insinuante o pomposa, fiorita o martellante) dei versi del
maestro Venegas; in compenso il dominio dei tempi
18
Polanco, Epistola 119 Universae Societatis, in Monumenta
Historica Societatis Jesu - Polanci Complementa, Madrid, 1916, Tomus Primus, p. 533.
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Cristiano Casalini e Luana Salvarani
scenici e l’immaginazione visiva sono al loro culmine
di maturità.
Sono tempi e dinamiche estreme, ma del tutto familiari ai frequentatori del melodramma e dell’oratorio
barocco. Il fatto che si tratti di teatro didattico e di testo, concepito e composto come esercitazione retorica,
non deve fare dimenticare che composizione e struttura
sono pensati in scena, per quegli spettacoli pubblici da
cui dipendevano prestigio, visibilità e attrazione di finanziamenti per quei collegi di costo enorme, che la
Compagnia offriva “gratuitamente” ai regnanti con il
facile e immediato obiettivo di distruggere la concorrenza. Forse anche per questi motivi, all’altezza del
Crispo, il teatro di collegio fronteggia la sua prima polemica in grande stile. All’improvviso, tutto appare
“troppo”. Il protagonista è troppo virtuoso, troppo perfetto; la tragedia è troppo lunga, troppo lenta, indifferente agli standard aristotelici; le emozioni troppo esagerate; troppe apparizioni infernali in scena, e teologicamente discutibili; troppa musica; troppa danza... Penne
abilmente orchestrate (e c’è materia per uno studio a
parte), ma non sufficienti a fermare la storia, fanno esplodere il caso del teatro di collegio come sentina di
immoralità19.
La questione si trascinerà per oltre trent’anni, almeno fino al trattato di Gian Domenico Ottonelli S.J.,
Della Christiana moderatione del teatro (1632), opera
in forma di “supplica”, dall’interno della Compagnia,
19
Ne risentirà la stessa Ratio studiorum, che nella versione del
1599 disciplinerà l’esercizio del teatro dopo un cinquantennio di libere
sperimentazioni (e altrettanti scandali): «Tragoediarum et comoediarum, quas non nisi latinas ac rarissima esse oportet, argumentum sacrum sit ac pium; neque quicquam actibus interponatur, quod non latinum sit et decorum, nec persona ulla muliebris vel habitus introducatur».
46
Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
affinché il teatro gesuita torni sulla retta via20. Il poderoso tomo è una sequenza di argomentazioni e motivazioni per lo più esilaranti, come la pericolosità fisica
delle messinscene (storie pulp di giovani volti fusi assieme con le maschere in spaventosi incendi, invero
all’ordine del giorno), oppure il fatto che la continua
visione di giovinetti danzanti o attori travestiti induceva dignitosi prelati a sogni sconvenienti e confessioni
in punto di morte ancor più sconvenienti. Il Crispo di
Stefonio, ça va sans dire, ha gran parte in questa requisitoria, non si sa se espressione di un dibattito interno
all’Ordine o più semplicemente cortina fumogena per i
detrattori. Certo è che l’Ottonelli era anche l’autore,
con Pietro da Cortona (che accettò di condividere la responsabilità della firma, se non realmente la stesura)
del celebre Trattato della pittura e scultura, uso et abuso loro, manifesto della pittura religiosa e “di storia”
proposta dall’Accademia di San Luca. Il trattato andò a
stampa nel 1652: si era già in epoca post-barberiniana
e accodarsi a una certa aura di restaurazione, morto il
papa filofrancese e in disgrazia i nipoti mecenati e
gaudenti, pareva buona cosa ad artisti e maestri.
Intanto il teatro barocco con tutti i suoi eccessi,
sub specie melodramatica, aveva già vinto da un bel
po’. Quanto questa vittoria debba al teatro gesuita di
collegio, ce lo spiega un maestro del Collegio Romano
di “quarta generazione”: Tarquinio Galluzzi, allievo di
Bernardino Stefonio, che nella Rinovazione dell’antica
tragedia e difesa del Crispo (1632) mette in piedi la
più sensazionale “poetica” barocca dopo la celebre let20
Il tradizionale rimando al mito delle origini è in questo caso
ancora più paradossale, dal momento che gli spettacoli gesuiti dei
primi decenni furono i più sperimentali, i più arditi e fin dall’inizio suscitatori di inquietudini, quando non di vere e proprie sommosse.
47
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
tera del Marino a Girolamo Preti (1624). Galluzzi, però, fa risalire certe tecniche e invenzioni non alla maniera nuova della poesia, bensì al teatro gesuita, che
settant’anni prima aveva iniziato a calcare le scene a
Coimbra col Saul di Venegas. Il trattato, nella sua potenziale assurdità, è incredibilmente persuasivo e tutto
da leggere: dall’insistenza sulla teoria umorale (quella
elaborata da Huarte nel suo Examen de ingenios e “gesuitizzata” da Possevino) con la lunga descrizione del
suo maestro Stefonio come colerico adusto, alle pagine
e pagine in cui espone una sua teoria e celebrazione del
“rubare” artistico, evidente furto e parafrasi dell’originale mariniano (e intanto il Galluzzi – con sublime
tour de force metalinguistico – celebra il furto palese
nell’atto di commetterne uno celato); alle ricostruzioni
fantasiose di complesse scenografie e macchine del teatro greco, tratte, secondo l’autore, da Scaliger.
Ma il corpo dell’argomentazione è la difesa del teatro di collegio gesuita come autentico teatro d’ispirazione antica perché modellato non su Aristotele, ma
sulla lezione di Platone: lo scopo della tragedia non è
la catarsi, bensì l’amplificazione dimostrativa delle passioni, a scopo di educazione politica; essa è il prodotto
di società libere che vanno formate nel disprezzo della
tirannide, da cui il diritto del drammaturgo a farsi, nella Repubblica ideale, governatore al pari del filosofo.
Si rivendica, per i personaggi della tragedia, il diritto
di essere estremi sia in malvagità che in bontà, al di là
di ogni indicazione aristotelica, che secondo il Galluzzi21 va fatta risalire a una “dissimulazione onesta” da
parte del filosofo, in quel periodo dipendente di Alessandro Magno; verità non certa ma probabile, argo21
Il quale a sua volta ruba, ma dichiarandolo, l’argomentazione
a Sperone Speroni.
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Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
menta il Galluzzi, e in quanto tale più che sufficiente22.
Il gran trattato verrà dedicato dall’autore a Francesco
Barberini, suo ex allievo, che non perse tempo nel comprendere e assimilare quell’estetica, producendo proprio
nel 1631 il primo di una lunga serie di melodrammi sacri, il Sant’Alessio, su libretto del futuro papa Rospigliosi per le musiche di Landi.
La gran macchina dell’Opera si prenderà, storiograficamente, il merito della transizione verso il Barocco maturo, e farà dimenticare le origini oratorie e
testuali di quel teatro; non le scorderanno però i francesi che, sviluppando il balletto scenico come arte a sé
già in epoca barberiniana, erano pronti a ridistillarne la
parte letteraria, creando così senza fatica e d’un sol
colpo (nelle mani di drammaturghi che avevano tutti
studiato dai Gesuiti) il severo e celebrato teatro “di parola” del grand Siècle.
Riferimenti bibliografici
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GE0024.
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Crispo, Roma, Stamperia Vaticana, 1632.
Hispanic Society of America, Liber Tragaediarum: & aliorum
carminum, MS HC 411-53.
Marc-Antoine Muret, Iuvenilia, Parisiis in clauso Brunello, 1553.
Id., Orationes XXV, Parisiis Locqueneux, 1578.
22
Quanto alla “sconveniente” dimensione pubblica della passione incestuosa che fa da perno alla storia, non è altro, sostiene il Galluzzi, che ricostruzione di un’epoca in cui il pubblico adulterio e le
“famiglie allargate” non davano fastidio ad alcuno.
49
Cristiano Casalini e Luana Salvarani
Gian Domenico Ottonelli S.J., Della Christiana moderatione del
teatro, Roma, 1632.
Bernardino Stefonio, Crispus, Roma, 1601.
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51
νῦν οὖν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πολλοῦ δέω ἐγὼ
ὑπὲρ ἐμαυτοῦ ἀπολογεῖσθαι, ὥς τις ἂν οἴοιτο,
ἀλλὰ ὑπὲρ ὑμῶν, μή τι ἐξαμάρτητε περὶ τὴν
τοῦ θεοῦ δόσιν ὑμῖν ἐμοῦ καταψηφισάμενοι.
ἐὰν γάρ με ἀποκτείνητε, οὐ ῥᾳδίως ἄλλον
τοιοῦτον εὑρήσετε, ἀτεχνῶς – εἰ καὶ
γελοιότερον εἰπεῖν – προσκείμενον τῇ πόλει
ὑπὸ τοῦ θεοῦ ὥσπερ ἵππῳ μεγάλῳ μὲν καὶ
γενναίῳ, ὑπὸ μεγέθους δὲ νωθεστέρῳ καὶ
δεομένῳ ἐγείρεσθαι ὑπὸ μύωπός τινος, οἷον δή
μοι δοκεῖ ὁ θεὸς ἐμὲ τῇ πόλει προστεθηκέναι
τοιοῦτόν τινα, ὃς ὑμᾶς ἐγείρων καὶ πείθων καὶ
ὀνειδίζων ἕνα ἕκαστον οὐδὲν παύομαι τὴν
ἡμέραν ὅλην πανταχοῦ προσκαθίζων.
[Ἀπολογία Σωκράτους, 30d e - 31a, ed. J. Burnet, 1903].
Martin Buber: l’insegnamento
ne I racconti dei Chassidim
Cosimo Costa
Università LUMSA
P.zza delle Vaschette, 101 - 00193 Roma
[email protected]
1. Sul bambino e sull’educativo
Il bambino come essere vivente, come uomo sempre nuovo, afferma Buber, è una realtà unica che va ad
inserirsi nella “storia mondiale”. Ed è fornito di disposizioni ereditate dalla storia del mondo e dalle generazioni
passate. Ma insieme, questa “realtà bambino”, è caratterizzata dalla continua possibilità del divenire, dall’essere
un esistente sempre nuovo, sempre unico e irrepetibile,
fenomeno di una creatività del tutto eccezionale.
Principale cura dell’educatore, dunque, dovrebbe
essere quella di mantenere viva tale capacità, per poterla trasformare in una forza continua di rinnovamento:
Le prime parole della creazione sono da intendersi così: in
principio della creazione divina del cielo e della terra. Perché
anche ora il mondo è allo stato di creazione. Se un artigiano
fa un utensile e lo finisce, l’utensile non ha più bisogno di
lui. Non così il mondo: giorno per giorno, attimo per attimo,
esso ha bisogno che si rinnovino le forze della parola originaria da cui fu creato1.
1
M. Buber, «Scolari» in Id., I racconti dei Chassidim, trad. it. di
G. Bemporad, Milano, Guanda, 1992, p. 209.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 53-74.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Cosimo Costa
La realtà dell’educazione non è, comunque, costituita esclusivamente dallo sviluppo delle forze creative
insite nel bambino, perché l’immensa ricchezza di queste capacità creative non è espressa in maniera esauriente con il concetto di sviluppo. Inizialmente, con
“creazione” si intendeva la capacità, esclusivamente
divina, di trarre l’essere dal nulla; successivamente, con
lo stesso termine, si è intesa la capacità dell’uomo, imago
Dei, di dare forma alla materia. Un ulteriore progresso
è stato fatto quando, con la stessa parola, è stato indicato
qualcosa di insito nella persona umana, qualcosa che deve essere alla base dell’educazione di tutta la persona.
Queste forze innate sono l’espressione di un istinto indipendente che viene detto da Buber “istinto generatore”. La volontà di “produrre cose”, avvertita dal bambino, indica invece la tendenza a voler partecipare egli
stesso al continuo divenire delle cose, a voler essere il
soggetto della produzione. Manifestazioni di questo istinto possono essere considerate la forza trainante che spinge il bambino a pronunciare le parole per la prima volta,
la reazione di meraviglia (e anche di spavento) del ragazzo che costruisce con le sue mani un oggetto primitivo
a lui sconosciuto. È molto importante riconoscere l’indipendenza e l’unicità di tale “istinto generatore”. È
necessario infatti sottolineare la fondamentale armonia
dell’interiorità dell’animo umano, nella quale ogni voce è unica, ma può anche essere udita e sperimentata
nell’unità dell’armonia stessa. Una di queste voci è
proprio l’istinto generatore, fondamentale anche in ogni atto di educazione: sono le forze dell’educazione
che permettono all’istinto liberato di trasformarsi in
passione, in forza generatrice:
Da esse (dalle forze dell’educazione), dalla loro purezza e
genuinità, dalla loro potenza d’amore e discrezione, dipende
54
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
a cosa si legherà l’elemento che si è risvegliato e dipende di
conseguenza cosa ne sarà di tale elemento2.
Se l’istinto generatore non fosse influenzato e guidato dalle forze dell’educazione, non potrebbe realizzare
gli elementi indispensabili alla costruzione di una vera
vita umana: e cioè, la partecipazione e la reciprocità.
Così si esprimeva Rabbi Isacco Eisik:
la soluzione della vita è: dà e prendi. Ognuno deve dare e ricevere. Chi non fa l’una cosa e l’altra è un albero sterile3.
L’uomo, nella sola attività generatrice, rimane un
solitario, perché mentre è intento alla sua opera – per
esempio un artista – non compie uno scambio spirituale con un altro essere. Sta di fronte al mondo, non incontra il mondo. Soltanto nel momento in cui qualcuno
lo prende per mano, considerandolo creatura che vaga
come lui nel mondo, amico capace di amare, al di là
delle sue capacità artistiche, l’uomo è consapevole della reciprocità e ne è partecipe.
Pertanto, l’educazione non può basarsi solo sullo
sviluppo dell’istinto generatore, perché porterebbe l’essere umano alla solitudine. Il bambino, nell’esperienza
concreta della costruzione di oggetti, impara molte cose che altrimenti gli sarebbero sconosciute: impara l’oggettività del mondo, ma non la sua soggettività, il suo
rapporto vivo e reale con un Tu. L’istinto generatore,
da solo, non permette di sperimentare il Tu. Questo è
possibile solo con il forte desiderio di unione con il
mondo, con il desiderio che il mondo diventi per noi
«persona presente che ci venga incontro come noi a
2
M. Buber, «Sull’educativo», saggio di M. Buber alla Terza
Conferenza Internazionale di Pedagogia, Heidelberg, 1925 in Id., Discorsi sull’educazione, a cura di A. Aluffi Pentini, Roma, Armando
editore, 2009, p. 37.
3
Cfr. Id., «Da’ e prendi» in Id., I racconti dei Chassidim, cit., p. 491.
55
Cosimo Costa
lui, che ci scelga e ci riconosca come noi facciamo con
lui, che ci confermi come noi lui»4.
La vera educazione, dunque, è possibile con la liberazione delle forze creative dell’uomo, forze che devono essere sviluppate e che rappresentano la sua spontaneità. Essa non può basarsi sulla costrizione, ma deve
permettere la libera possibilità di espressione. Soltanto
in un secondo momento, quando il bambino-scolaro,
attraverso la sua esperienza e un’influenza delicata e
quasi inavvertibile, sarà pervenuto alla conoscenza di certi principi, eleverà il suo animo e lo educherà. Questa influenza particolare, quale potrebbe essere un cenno di
mano o uno sguardo, costituisce l’altro lato dell’evento
educativo, lato che, insieme alla liberazione delle forze
creative, permette lo sviluppo dello spirito dell’uomo.
Questo sviluppo non è inteso come “svolgimento”,
come sviluppo di qualcosa che in germe è già formato e
che deve solo maturare per realizzarsi pienamente: l’uomo, per sviluppare il suo essere spirituale, deve sviluppare le sue facoltà di ricevere in sé il mondo e di dargli
la sua “impronta”. Perciò si può affermare che tutto il
mondo, natura e società, educa l’uomo, fa nascere in
lui le forze necessarie per accogliere e penetrarne le influenze: insomma, genera nel singolo individuo la persona umana. Questa educazione cosciente e voluta può
intendersi come «selezione umana del mondo agente»
in quanto proveniente da una precisa selezione delle attività del mondo, raccolte ed esposte dall’educatore:
il rapporto educativo viene isolato e protetto da un flusso casuale dell’educazione – tutta: intenzionalmente isolato. Così,
solo nell’educatore, il mondo esercita in quanto soggetto la
sua influenza sulle persone5.
4
5
56
Id. «Sull’educativo», cit., p. 235. 39.
Ibid., p. 236. 43.
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
Un tempo non esisteva la professione del maestro
o dell’educatore. Gli scolari o gli apprendisti del “maestro” fabbro o filosofo vivevano con lui, imparavano
partecipando alla sua attività. Ma imparavano anche,
senza che nessuno se ne preoccupasse, il mistero della
vita. Ricevevano lo spirito del maestro:
Quando ebbe un po’ di familiarità con lui gli chiese se avesse
servito uno zaddik. Egli disse di no. Questo meravigliò Giacobbe Isacco perché la via non si può apprendere da alcun libro e da alcun racconto, ma solo da persona a persona6.
L’educazione come intenzione è indubbiamente
una realtà, ma si deve arrivare ad una sua completa attuazione affinché sia “compenetrata” di umanità. L’evento educativo è voluto coscientemente, ma l’antico
maestro è pur sempre il modello dell’insegnante. Infatti, è vero che l’educatore moderno deve agire con consapevolezza, ma lo deve fare come “se non agisse”: il
suo giusto modo di comportarsi deve essere caratterizzato da gesti quasi impercettibili (lo sguardo, il sorriso,
il cenno della mano).
Attraverso l’educatore, l’allievo viene in contatto
con la “selezione del mondo agente”, ma, se l’influenza
dell’educatore diviene troppo decisiva, l’intento educativo fallisce, perché l’intromissione provoca una divisione nell’anima di chi la subisce: una parte obbedisce
e una parte si ribella. Solo l’influenza delicata e impercettibile che nasce dalla pienezza dell’essere dell’educatore come rappresentante del mondo agente (natura e
società) permette la vera educazione.
La liberazione delle forze, dunque, è il punto fondamentale da cui deve partire l’educazione, ma non
deve esserne assolutamente lo scopo principale. Infatti,
6
Id., «Il fuoco impuro», in Id., I racconti dei Chassidim, cit., p.
235-236.
57
Cosimo Costa
la libertà di sviluppo può significare la possibilità di
divenire, non il divenire stesso. Si pensa spesso che
questa libertà sia l’opposto della costrizione, mentre
l’estremo contrario della costrizione è l’unione. L’opposto dell’essere costretti dal destino, dalla natura, dagli uomini non consiste nell’essere liberi dal destino,
dalla natura, dagli uomini, ma essere uniti, collegati
con essi. E presupposti di questa unione sono l’indipendenza, che è mezzo di collegamento, e la libertà,
che ne è il fecondo punto di partenza. Nell’educazione,
pertanto, la costrizione è la mancanza di unione, è la
ribellione, mentre la libertà è la possibilità di unione e
di collaborazione, è rapporto di reciprocità e di comprensione. La libertà comporta una responsabilità personale che cresce in maniera proporzionale alla crescita
della libertà: quanto più diveniamo liberi, tanto più
siamo soli nell’esercizio della nostra responsabilità. Da
ciò consegue l’importanza dell’evento educativo e della sua trasformazione nel tempo, con il graduale decadere dei legami che potevano essere di sostegno alla
responsabilità.
Spesso si pone in opposizione il principio della
“nuova” educazione (come Eros) con quello della “vecchia” educazione (come volontà di potenza). In realtà,
l’uno non è più valido dell’altro. Infatti, principio dell’educazione può considerarsi solo una relazione fondamentale che si compie nell’educazione. Poiché l’Eros
e la volontà di potenza sono passioni dell’animo, possono offrire all’educazione un campo occasionale, ma
non possono essere principi costitutivi dell’evento educativo. Il “vecchio” educatore, in quanto tale, non è
1’“uomo della volontà di potenza”, ma il portatore di
valori sicuri, 1’inviato della storia che offre i valori al
bambino. Questo atteggiamento educativo viene spesso
usato e sfruttato dalla volontà di potenza dell’individuo
58
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
che comincia ad infuriarsi quando vede svanire i suoi
pieni poteri. E pian piano il maestro-educatore non si
pone più davanti all’allievo come inviato, ma come
singolo individuo che, nella realtà della sua vita, viene
rinviato verso se stesso, anche se pensa di agire nella
massima obbiettività. A sua volta, l’Eros che secondo
l’accezione classica è scelta secondo l’inclinazione,
non può essere caratteristica del rapporto scolastico:
l’educatore si trova di fronte l’allievo senza poterlo
scegliere e proprio questo costituisce la “grandezza”
dell’educatore di oggi.
Quando l’educatore-insegnante entra in un’aula e
si trova davanti gli alunni, mescolati alla rinfusa, diversi nel loro aspetto esteriore ed interiore, li riceve e li
accoglie tutti, così come accoglie la creazione nelle sue
manifestazioni di tenebre e di luce, «poiché nella moltitudine e nella molteplicità dei bambini gli si manifesta appunto la creazione»7. Se l’educatore, per conseguire risultati migliori, pensasse di dover operare una
scelta, seguirebbe certamente un criterio diverso da
quello dell’inclinazione, forse deciderebbe secondo il
suo giudizio sui singoli valori. Ma anche in questa eventualità dovrebbe correggere continuamente la sua
scelta con l’umiltà particolare di colui che educa, per il
quale il fattore decisivo per realizzare il suo compito è
l’esistenza particolare dei suoi allievi:
Una volta Rabbi Bunam disse: Quando il sabato la mia stanza è piena di gente mi riesce difficile dire parole di insegnamento. Ché ciascuno ha bisogno del suo proprio insegnamento, ciascun insegnamento ha da essere compiuto e ciò
che do a tutti lo sottraggo a ciascuno8.
7
Id., «Sull’educativo», cit., p. 243. 53
Id., «Tutti e ciascuno», in Id., I racconti dei Chassidim, cit.,
pp. 520-521.
8
59
Cosimo Costa
2. Della relazione educativa come relazione dialogica
Si può dunque affermare, con Buber, che l’educazione possiede un significato di alta spiritualità rivolta
con gioia al mondo, nel quale siamo responsabili di un
settore di vita verso cui dobbiamo compiere la nostra
azione educativa senza intromissioni, senza desiderio
di sopraffazione o di piacere. Si può realizzare una positiva influenza spirituale sulla vita solo attraverso un
sistema definito delle diverse forme di relazione, un sistema che si basa sullo scambio, del tutto spontaneo e
originato dall’essenza terrena e spirituale dell’uomo, di
altruismo e di riserbo, di confidenza e di distacco. Tutte le forme di relazione attraverso cui si realizza l’influenza dello spirito hanno una propria struttura che
non impedisce la profonda comprensione e l’interiorizzazione personale, ma si oppone ad una mescolanza
con la propria sfera personale. È dunque essenziale, nel
rispetto di quanto detto, che nell’evento educativo nasca una vera relazione umana che, pur avendo come
caratteristica un’alta spiritualità, non può essere del
tutto priva del desiderio di potenza o dell’Eros, inteso
come desiderio di compiacersi e gioire di una raggiunta
sintonia. E questi elementi, desiderio di potenza e Eros,
possono essere considerati come un ponte che congiunge, una soglia che deve essere sperimentata almeno una volta in maniera decisiva per poter accogliere la
vera essenza dell’educazione.
L’esperienza elementare (e fondamentale) che scuote l’uomo volitivo e quello erotico è quella su cui si basa
la vera educazione. È l’esperienza della parte opposta:
Un uomo picchia un altro che non reagisce. Accade ora improvvisamente che colui che ha colpito riceva il colpo che ha
assestato, lo stesso colpo. Come colui che non ha reagito: per
un attimo egli sperimenta una situazione comune con la con-
60
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
troparte. Gli si manifesta la realtà. Cosa farà? Soffocherà
l’anima oppure il suo impulso cambierà direzione?9.
Colui che ha vissuto una volta tale esperienza, avrà presente l’altro per sempre, poiché è avvenuta una
“trasfusione” di soggettività: abbracciando, includendo
tutto può giungere alla comprensione completa dell’altro con la realtà, l’attualità del proprio essere.
Quando Rabbi Kalman, l’autore del famosissimo libro Luce
e sole, era un bambino di cinque anni, si nascose fanciullescamente sotto il talled del Rabbi di Berditschev e guardò in
su, il viso coperto. Allora scese su di lui una forza ardente,
penetrò nel suo cuore e ne prese possesso. Dopo molti anni
Rabbi Elimech presentò al Rabbi di Berditschev alcuni dei
suoi più nobili scolari e tra essi il giovane Kalman. Rabbi
Levi Isacco lo guardò e lo riconobbe. “Questo è mio” disse10.
Questo tipo di relazione fra due persone, caratterizzata da una comprensione più o meno grande, può
definirsi dialogica. E anche se essa si rende evidente
attraverso i colloqui, questi non ne costituiscono il fondamento, perché il rapporto dialogico può continuare
anche nel silenzio, nella separazione spaziale, se perdura la presenza potenziale dell’uno per l’altro, se esiste il “riconoscimento” della personalità particolare dell’altro, riconoscimento valido solo se fondato su una
vera comprensione dell’esperienza dell’altro. La volontà
di potenza, dunque, e l’Eros sono la soglia da varcare
per trasformare le relazioni da loro determinate in dialogo vivo. L’elemento della comprensione costituisce
il fondamento della relazione pedagogica.
Da quanto affermato, consegue che la relazione
educativa è relazione dialogica e si basa essenzialmente sulla fiducia e sulla convinzione che esiste una de9
10
Id., «Sull’educativo», cit., p. 244. 56-57.
Id., «Scolari», in Id., I racconti dei Chassidim, cit., p. 209.
61
Cosimo Costa
terminata persona con la quale è possibile un colloquio
continuo. Affinché tale colloquio possa durare nel tempo,
la persona che educa deve rimanere sempre presente
agli occhi del bambino, e perché ciò avvenga l’educatore deve accogliere in sé la presenza del bambino come di colui che lo collega con il mondo, che è un centro della sua responsabilità verso il mondo.
Se l’educatore ha realmente accolto in sé il bambino, la presenza potenziale dell’uno verso l’altro continua ad esistere, anche se non si occupa continuamente del bambino. Tra loro esiste una realtà particolare
che è la reciprocità:
Che ha fatto Sussja?, mi disse. Sono disceso da tutti i gradini
fino a che sono stato presso da lui e ho legato la radice della
mia anima alla radice della sua anima. Allora egli ha dovuto
fare penitenza con me11.
La reciprocità nella relazione è però particolare,
perché riguarda il dare e il ricevere dell’educatore e
dell’allievo, ma non la comprensione completa da parte di ognuno di loro. Colui che ha il compito di influire
(in maniera molto delicata e quasi impercettibile) sulla
formazione di determinati esseri umani, deve sempre
fare esperienza della sua attività dalla parte dell’altro,
deve riferirsi di volta in volta all’anima dell’essere che
ha davanti nella sua concretezza e che sperimenta con
lui la situazione comune dell’“educare” e dell’“essere
educato”. L’educatore può trasformare il suo arbitrio in
volontà soltanto se osserva se stesso dal punto di vista
dell’altro e se prende coscienza della sua azione sulla
personalità di quell’essere. Ma la comprensione completa
non può essere reciproca, perché, mentre l’educatore fa
esperienza delle conseguenze della sua azione educati11
Id., «La penitenza comune», in Id., I racconti dei Chassidim,
cit., p. 220.
62
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
va sull’allievo, questo non può fare esperienza dell’educazione di chi lo educa. L’educatore conosce i due
poli della situazione, l’allievo soltanto uno. Nel caso in
cui anche lui riuscisse a sperimentare l’altra parte, la
relazione educativa verrebbe meno e si trasformerebbe
in amicizia. Perciò l’educatore, sperimentando l’altro e
ponendosi di fronte a lui, fa esperienza, in pari tempo,
dei suoi limiti nei confronti dell’altro e dell’unione che
può stabilire con l’altro. Fa esperienza, anche solo con
vaghe sensazioni, di quelle che sono le vere necessità
dell’anima dell’allievo: di conseguenza, riesce a conoscere sempre più profondamente ciò di cui ha bisogno
l’uomo per il suo sviluppo e anche che cosa lui, come
educatore, è in grado di comunicargli di quanto gli è
necessario:
Un giorno che Rabbi Banam insegnava alla sua tavola, tutti
si spinsero tanto avanti che il servitore li rimproverò ad alta
voce. ‘Lascia’ gli disse lo Zaddik ‘credimi; come essi prestano orecchio per sentire ciò che io dico, così presto anch’io
orecchio per sentire ciò che la mia bocca dice’12.
Dunque, la responsabilità dell’educazione verso
un determinato essere guida l’educatore alla guida di
se stesso. Educazione di uomini mediante uomini significa selezione del mondo agente per mezzo di una
persona. L’educatore raccoglie le forze edificanti del
mondo. Tali forze sono eternamente le stesse: è il mondo
nell’unità e rivolto verso Dio. L’educatore si educa a divenire il loro organo; comunque, non è questo il principio dell’educazione perché non esiste e non è mai esistita una norma fissa13. La norma può riferirsi soltanto ad un’epoca, ad una società, perché, legata alle
12
Id., «Orecchi e bocca», in Id., I racconti dei Chassidim, cit.,
p. 521.
13
Cfr. Id., «Sull’educativo», cit., pp. 250-251. 66-67.
63
Cosimo Costa
emozioni e alle azioni spirituali, può influenzare l’educazione attraverso il proprio linguaggio.
È necessario che l’educazione abbia un obbiettivo.
Ma quale può essere? Quando emerge una figura ideale e valida per tutti, l’obbiettivo dell’educatore sarà
quello di formare in ogni individuo questa figura ideale. Ma nel caso in cui non si evidenziasse nessun modello, l’unica immagine da formare sarà quella di Dio.
Questo, secondo Buber, l’obiettivo a cui deve tendere
l’educatore consapevole e responsabile. Nell’esperienza
della comprensione totale, egli esperimenta anche la
sofferenza, e da questa scopre l’unica direzione da seguire verso il soffio di Dio, che rappresenta il frutto
della vera libertà dell’uomo e della sua responsabilità.
Infatti, l’uomo, la creatura che plasma e trasforma il
creato, non può creare, ma può aprire se stesso e gli altri all’elemento creativo14.
3. L’approccio didattico alla luce della relazione dialogica
L’educatore deve possedere, nella sua “missione”,
la nozione sufficiente per fondare in modo cosciente e
integrale la sua opera. Perciò è necessario lo studio storico, affinché la sua esperienza personale sia arricchita
e illuminata da quella del passato. Ma è anche necessario, per questo scopo, grande amore per l’“uomo” che
egli deve educare:
Rabbi Uri insegnava: L’uomo è simile ad un albero. Ti metterai davanti ad un albero e spierai continuamente come cresce e di quanto è cresciuto? Non vedresti nulla. Ma curalo
sempre, taglia ciò che in esso è inservibile, proteggilo dagli
insetti nocivi; a tempo debito sarà diventato grande. Così
14
64
Cfr. Id., «Sull’educativo», cit., p.252. 69.
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
l’uomo: è solo necessario superare gli impedimenti affinché
egli raggiunga la sua altezza; ma non si deve esaminare ad
ogni momento di quanto egli sia cresciuto15.
Il compito dell’educatore non si apprende, ma si
costruisce personalmente. Si crea nella mediazione intelligente dell’amore che, divenuto potenza efficace,
rende capace di educare.
Dunque, per educare l’uomo è necessario possedere un concetto del suo essere, del senso e del fine dell’esistenza. Ogni educatore è un “filosofo”, un uomo
che ha chiarito a se stesso il senso dell’uomo e delle
cose e che, perciò, è in grado di stabilire quale valore
l’educazione assuma e quali fini possa proporsi16. Ma
l’educazione, oltre alla portata filosofica, presenta anche un aspetto di realizzazione pratica. È qualcosa che
deve essere attuato e, come tale, ha bisogno di un insieme di norme, di una tecnica particolare. Ci si trova
di fronte ad una pedagogia che va considerata, dal punto di vista dell’esperienza, in rapporto alle ragioni storiche e ambientali in cui viene a realizzarsi; e dunque,
di fronte ad una pedagogia che tende a creare al suo
fianco una tecnica di applicazione.
Buona parte dell’opera educativa viene attuata
concretamente nell’insegnamento. Di conseguenza, la
tecnica dell’insegnamento e dell’organizzazione di quanto necessario per l’opera educativa diventa una scienza
che affianca e prolunga la pedagogia. Questa scienza è
la didattica, e la scuola è l’ambiente in cui essa si realizza in maniera specifica, poiché insegnando si propone di trasmettere un metodo, di stimolare ed aiutare un
regolare esercizio delle capacità conoscitive, di favori15
Id., «L’albero che cresce», in Id., I racconti dei Chassidim,
cit., p. 409.
16
Cfr. M. F. Sciacca, Pagine di pedagogia e di didattica, Milano, Marzorati, 1974, p. 35.
65
Cosimo Costa
re la formazione di una visione organica e globale, di
sviluppare il senso critico.
Con il termine “didattica” s’intende il progressivo
accompagnare i poteri intellettivi dell’alunno, favorendone lo sviluppo. Solo così si potrà insegnare qualcosa
che non sia sterile comunicazione di notizie o apprendimento forzato di una qualsiasi disciplina. L’insegnante
deve fare in modo che ogni disciplina appaia come un
momento o uno sviluppo graduale della mente. Quindi,
la sua preparazione non può limitarsi alla disciplina
che è chiamato ad insegnare, ma deve estendersi anche
allo studio di tutti i problemi tecnici che il suo insegnamento comporta. Inoltre, deve possedere la capacità di analizzare la situazione in cui è instaurato il suo
rapporto con l’alunno per poter permettere l’esplicazione della meravigliosa attitudine dell’uomo ad educare l’altro uomo.
L’atto didattico, concretizzando un’azione educativa, possiede caratteristiche specifiche. E prima fra
tutte l’intenzionalità, che deve trovare una precisa, cosciente disposizione nel soggetto che compie l’atto.
L’intenzione è sempre diretta ad un fine. L’atto didattico è sempre finalizzato, oltre che al fine generale del
metodo, al fine particolare relativo alla situazione a cui
si applica. Perciò un’altra caratteristica propria di ogni
atto didattico è che esso si svolge sempre fra almeno
due soggetti.
Come nella pedagogia gli atti esaminati sono essenzialmente atti di relazione, così nella didattica: in
quanto tecnica dell’intervento educativo, l’esistenza di
una relazione fra chi insegna e chi impara è fondamentale per l’azione didattica. E il processo insegnamentoapprendimento si può realizzare a pieno quando si instaura una condizione di disponibilità alla reciproca
66
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
conoscenza e comprensione17. Esso è definito, in particolare, da una caratteristica che contribuisce a qualificare ogni azione educativa, e cioè, l’asimmetria della
relazione il soggetto, rispetto al contenuto dell’azione,
non si trova nella stessa posizione dell’altro. Questa
mancanza di reciprocità nella comprensione completa
dei due soggetti è stata così definita nel pensiero buberiano:
Egli (l’educatore) sperimenta l’essere educato del discepolo,
ma quest’ultimo non può sperimentare l’educare dell’educatore. L’educatore si trova ai due poli della situazione comune, il discepolo solo da una parte18.
L’insegnamento deve realizzarsi come sistema aperto e dinamico, sostenuto da numerose variabili che
agiscono contemporaneamente anche a livello relazionale tra insegnante e alunno. È essenziale che l’insegnante faccia piena esperienza della «natura interattiva
dell’insegnamento che prende corpo in un sistema scolastico-educativo aperto. Oltretutto ciò prospetta l’insegnamento come “incontro” di esseri umani interessati a processi di crescita culturale e morale»19. L’“incontro”, cioè la relazione umana, rappresenta l’aspetto
del rapporto didattico che riguarda più da vicino il
momento generale della relazione fra due particolari
esseri umani, il docente e l’alunno. Fondamentali, pertanto, per una relazione efficiente nell’insegnamento,
risultano la coerenza di pensiero e la comprensibilità del
comportamento dell’insegnante, dall’inizio alla conclusione dell’azione educativo-didattica. «Se la condotta delle relazioni fra l’insegnante e gli alunni [...]
17
Cfr. Id., «Sull’educativo», cit., p. 249. 64
Ibidem.
19
G. Petracchi, Apprendimento scolastico e insegnamento, Brescia, La Scuola, 1981, p. 57.
18
67
Cosimo Costa
deve essere costantemente cauta e avvertita proprio per
non ledere l’efficienza della comunicazione, anche la
sua conclusione deve rivestire il sigillo della più calda
umanità. Basta un errore finale perché tutto il lavoro
inteso a costruire un rapporto positivo, valido anche
per il futuro, venga distrutto, uscendo il fanciullo o il
giovane dalla scuola con un’esperienza negativa che
potrebbe essere assai dannosa nei rapporti che egli avrà
in futuro, per esempio come padre, nei confronti del sistema educativo»20.
Dunque, l’insegnamento deve realizzarsi, nella situazione concreta, in termini “interpersonali”, cioè
come rapporto tra quell’insegnante e quell’alunno, fra
quell’alunno e i suoi compagni. Alla base di questa situazione di interazione c’è la comunicazione di chi apprende, per poter verificare l’acquisizione delle conoscenze
apprese e promuovere ulteriori processi cognitivi.
La dimensione intersoggettiva della comunicazione caratterizza la crescita della persona. A tal fine, la
comunicazione deve essere non solo informazione, ma
soprattutto partecipazione, condivisione:
Rabbi Sussja passò una volta presso un prato dove un guardiano di porci, circondato dal branco, suonava una canzone
su uno zufolo di salice. Si avvicinò e si fermò ad ascoltare
fino a che seppe a memoria la canzone e poté portarsela con
sé. Così la canzone del pastorello Davide fu liberata da lunga
prigionia21.
L’apprendimento può avvenire per una forma di
comunicazione non intenzionale, e per mezzo di essa,
inconsciamente, il bambino assume linguaggi e comportamenti dalla comunità sociale di appartenenza. E
20
F. Bertoldi, Trattato di didattica, Bergamo, Minerva Italica,
1983, p. 151.
21
Id., «La canzone del pastore», in Id., I racconti dei Chassidim,
cit., p. 229.
68
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
ancora: esso può avvenire per comunicazione intenzionale, attraverso la quale, mediante le istituzioni scolastiche,
il ragazzo dovrà maturare capacità oltre che acquisire
comportamenti e conoscenze; per scoperta personale,
per mezzo della quale il bambino, con il suo desiderio
di conoscere, è interessato a scoprire l’ambiente e in
questo modo dar vita a processi autonomi di acquisizione di abilità e conoscenze.
Queste diverse modalità di trasmissione della cultura nella scuola promuovono diversi tipi di apprendimento: per ricezione e per scoperta. Nel primo, le informazioni sono assunte così come vengono comunicate (le
conoscenze e le informazioni sono presentate in maniera definitiva). Nel secondo, le informazioni sono acquisite in seguito ad un impegno nella ricerca personale (le conoscenze sono prodotte da attività indipendente per mezzo della quale si perviene al possesso di
altri elementi di conoscenza). Le informazioni o le conoscenze “ricevute” non sono però, per questo, già apprese.
Nell’ambito scolastico, le informazioni ricevute devono
venire in contatto con il complesso delle conoscenze già
possedute, devono essere “incorporate”. Infatti, la «intenzionalità educativa della scuola non è diretta solo a fornire nozioni di abilità, bensì a maturare capacità di elaborazione delle conoscenze ricevute»22.
Questa “incorporazione” può essere di due tipi: una
si identifica con l’“apprendimento meccanico”, l’altra
con l’“apprendimento significativo”. Con l’apprendimento meccanico l’alunno assume le conoscenze così come
gli sono state presentate (ricezione) o come le ha scoperte e memorizzate, senza connetterle con quanto già
conosce. Con l’apprendimento significativo, invece, le
conoscenze acquisite dall’alunno sono elaborate e in22
G. Petracchi, Apprendimento scolastico e insegnamento, cit.,
p. 103.
69
Cosimo Costa
tegrate con il complesso di idee già possedute, dando
così un significato particolare a quanto appreso.
È naturale, allora, che, se si apprende qualcosa, si
sappia cosa vuol dire, se ne assuma il significato. Ma
nell’insegnamento (scolastico) la significatività non è
frutto della sola assunzione di un “significato” attraverso il linguaggio o altri simboli, perché in questo caso ci
si troverebbe in presenza di una scuola trasmissiva e nozionistica. È necessario invece che obbiettivo dell’insegnamento sia la comprensione dei significati, così da
favorire il conseguimento di processi cognitivi. E perché
questi possano essere adeguatamente promossi, l’insegnante deve considerare che tali processi si realizzano
tenendo conto di un complesso di condizioni relative allo sviluppo mentale, allo stato motivazionale, alla potenzialità significativa di quanto deve essere appreso, alla maggiore o minore chiarezza e stabilità della struttura
cognitiva. Inoltre, la significatività è il risultato dei processi cognitivi dell’alunno, e deriva quindi dalla sua attività nell’organizzazione dei “significati”. Pertanto, si
possono considerare diversi livelli di significatività, a
seconda del complesso delle conoscenze possedute e
dell’intensità dell’impegno attivo del soggetto.
Nell’apprendimento significativo l’alunno partecipa con tutta la sua personalità, perché si impegna non
solo sul piano conoscitivo, ma anche su quello psicologico (affettivo ed emozionale). Se i due tipi di apprendimento sono considerati in rapporto alla capacità
“formativa”, quello significativo ha certamente il primato. Infatti «è sufficiente ricordare come la significatività sia il risultato dei processi cognitivi che impegnano il singolo alunno: sono processi fondamentali
per la struttura della personalità»23.
23
70
Ibid., pp. 142-143.
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
Nella scuola, nel suo ordinamento e nelle sue finalità, esistono anche condizioni che possono richiedere
l’apprendimento meccanico, non puramente mnemonico, da utilizzare comunque in ambiti specifici e limitati. Inoltre, considerando l’evoluzione della personalità
infantile, spesso alcuni contenuti di conoscenza, affrontati dall’alunno con un apprendimento meccanico,
vengono appresi successivamente in maniera “significativa”. Se la significatività deve essere conseguita da
parte di ogni alunno, il compito dell’insegnante a scuola non è semplice. Infatti, poiché la significatività è
propria dell’interiorità dell’individuo, delle sue capacità, l’insegnante può soltanto facilitarla: stimolando, orientando e recuperando i processi cognitivi. Con l’avvertenza, però, che non può sostituire l’impegno attivo
dell’alunno nell’elaborazione e nell’integrazione delle
nuove conoscenze.
Strumento fondamentale dell’attività dell’insegnante,
per un apprendimento significativo, è la lezione espositiva. Le critiche a certi tipi di lezione (accademica, cattedratica) sono numerose. Ma è necessario sottolineare
i motivi che determinano i significati educativi della lezione espositiva. Innanzi tutto, nell’insegnamento è necessario l’intervento organico dell’insegnante, al quale
spetta il compito di presentare agli alunni conoscenze
organiche essenziali. La lezione verbale, pertanto, ha un
suo significato educativo e permette la comunicazione di
valori culturali che resterebbero perlopiù sconosciuti.
La lezione espositiva provoca un apprendimento
ricettivo, ma non un’acquisizione passiva, perché stimola l’attiva assimilazione e per questo può divenire
apprendimento significativo. La lezione comunica certamente conoscenze definite ma, nello stesso tempo,
stimola interesse alla rielaborazione personale delle
stesse conoscenze, incentiva alla continua scoperta di
71
Cosimo Costa
sé e del mondo con la minaccia alla stabilità della sua
struttura personale. E l’insegnante deve necessariamente tener conto di questa reazione emotiva dell’alunno e aiutarlo a considerare razionalmente la situazione: per favorire, in un rapporto di reciproca fiducia,
una nuova strutturazione della sua esperienza.
La lezione espositiva è usata anche allo scopo di
favorire la partecipazione attiva degli alunni. E a ciò
contribuisce sensibilmente anche il linguaggio non
verbale (espressione del viso, posizione del corpo, gesti, movimenti). È perciò fondamentale, quando si programma una lezione verbale, verificare quali sono gli
scopi che si intendono conseguire con quel determinato linguaggio. Può infatti accadere che il linguaggio,
prodotto dell’uomo, sia usato rispondendo ad obbiettivi diversi da quelli precedentemente espressi. È dunque molto importante che la comunicazione verbale sia
chiara e coerente: per evitare discordanze e ambiguità
e, poiché rivolta a promuovere l’apprendimento in una
classe non in un solo alunno, che sia formulata con
schemi e articolazioni nuove. Per incrementare il processo di comprensione e assimilazione nella maggior
parte degli alunni, anche se con effetti diversi nei singoli.
4. Breve conclusione
La scuola è il luogo in cui i ragazzi sono mandati
affinché “incontrino” e “comunichino” con altri pari e,
insieme ad altri compagni di avventura (scolastica),
possano formare la loro personalità. Essa è anche la
base per lo sviluppo della personalità di ciascun alunno, e perciò ogni insegnante è chiamato a collaborare
in modo “efficace”.
72
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti dei Chassidim
Proprio questa unità inscindibile, insegnante-scolaro, costituisce la sintesi concreta che è la scuola. In
questa unità l’insegnante non insegna, ma impara insegnando. E gli alunni, a loro volta, sono educatori degli
insegnanti (in una relazione di reciprocità).
La scuola è tale se è un atto unico e comune. Così dicendo il
problema della scuola s’imposta davvero come quello della
formazione della personalità di ciascuno nella comunicazione personale e comunionista: ma, se è così, non solo la scuola, ma tutta la vita ci educa, ci forma, perché tutta la vita è
educazione alla libertà24.
L’uomo, come ho più volte affermato, è un’entità
irrepetibile, una personalità unica. Per questo, nel momento in cui educo l’altro ad essere se stesso, collaboro alla sua personale formazione; più diviene sé stesso,
più sviluppa la sua personalità e più diviene altro da
me. L’educazione autentica è proprio questo: fare in
modo che l’altro sia sé stesso, nella continua consapevolezza che non può essere sé stesso se non in relazione all’altro.
Riferimenti bibliografici
Opere di Martin Buber
Discorsi sull’educazione, a cura di A. Aluffi Pentini, Roma, Armando editore, 2009.
I racconti dei Chassidim, trad. it. di G. Bemporad, Milano, Guanda, 1992.
Il chassidismo e l'uomo occidentale, a cura di F. Ferrari, Genova,
Il Nuovo Melangolo, 2012.
Il messaggio del chassidismo, a cura di F. Ferrari, Firenze, Giuntina, 2012.
24
M.F. Sciacca, Pagine di pedagogia e di didattica, cit., pp.105-
106.
73
Cosimo Costa
Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Cinisello
Balsamo, San Paolo Edizioni, 2012.
Il problema dell'uomo, a cura di I. Kajon, Milano, Marietti, 2004.
L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, trad. it. di U. Schnabel, Firenze, Passigli, 2001.
L’uomo tra il bene e il male, Milano, Gribaudi, 2003.
La vita come dialogo, Brescia, La Scuola, 2013.
Sentieri in utopia. Sulla comunità, Milano, Marietti, 2009.
Sul dialogo. Parole che attraversano, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 2013.
74
Tracce di vita sovversiva.1
Franco e Piero Calamandrei
Maria Cristina Leuzzi
Università degli Studi Roma Tre
Department of Education
Via Manin, 53 - 00185 Roma
[email protected]
Spesso accade di essere trovati da un libro e la propria mente ringrazia il caso. Quel libro, diviene elemento
gratuito di chiarezza, e la chiarezza dona benessere.
Quel libro, dal titolo evocativo, è La vita indivisibile, di Franco Calamandrei2. Sono raccolti i due primi
suoi quaderni con riflessioni, rievocazioni, annotazioni
e appunti di lavoro. Vi è racchiusa, dal 1941 al 1947, la
sua giovinezza, il periodo, come ricorda oggi la figlia
Silvia3, delle sue «grandi scelte storiche»4.
1
Il titolo, al plurale, configurerà, alla fine della ricerca, ulteriori
testimonianze di avvenuta o mancata comunicazione affettiva o di risolti o irresoluti conflitti ideologici tra genitori e figli.
Qui, prendo in esame le riflessioni e le considerazioni di F. Calamandrei sui suoi anni di formazione intellettuale e politica così come
emergono dal suo La vita indivisibile. Diario 1941-1947, Firenze,
Giunti, 1998 con prefazione di R. Bilenchi, riprodotta dall’edizione a
cura di R. Bilenchi e O. Cecchi, Roma, Editori Riuniti, 1984. Le citazioni riguardano l’ultima edizione. Cenni al rapporto tra F. e P. Calamandrei nella mia Introduzione al panel La memoria sovversiva: tracce e trame di vita affettiva, in Atti del V Congresso della Società delle
Storiche, Napoli, 28-30 gennaio 2010.
2
Una scheda biobibliografica di F. Calamandrei è in Appendice.
3
S. Calamandrei, Nota alla presente edizione, in F. Calamandrei, La vita indivisibile…, cit., p. 6.
4
Spesso le grandi scelte storiche coincidono, per molti, anche
con il tempo della propria coscienza, come dimostra Ingrid Warburg
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 75-94.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Maria Cristina Leuzzi
Scelte sovversive, quelle di Franco5, perché andranno a confliggere con le scelte e le aspettative di
suo padre, Piero6, il grande giurista e intellettuale.
Come sempre, quando ci si accosta ad un rapporto
familiare e, tanto più, ad un conflitto generazionale, la
cautela è d’obbligo, ma l’interesse per il “fatto”, dal punto di vista della storia dell’educazione, è molto vivo.
«Quasi si vorrebbe noi anziani che i mandorli per
fiorire prendessero prima con noi anziani l’appuntamento: e così ce la prendiamo coi giovani che fioriscono per loro conto, senza chiederci il permesso e
senza aver preso le preventive istruzioni». A chi si riferisce Piero Calamandrei?7 Al figlio.
Cinque anni dopo, a Roma, nell’ottobre del 1943,
quando già le sue scelte sovversive erano compiute,
Franco annota: «I figli devono educare i genitori»8.
Spinelli, Il tempo della coscienza. Ricordi di un’altra Germania 19101989, Bologna, Il Mulino, 1994.
5
M. Avagliano, in un’ampia ricostruzione della lotta partigiana
attraverso i diari e le lettere di tanti e tante protagonisti, include anche
F. Calamandrei in quella che definisce “generazione ribelle”. L’autore
si sofferma però soltanto sulle imprese belliche e, per Franco, riporta
le pagine del suo resoconto sulla preparazione e attuazione dell’attentato di via Rasella, a Roma, ma non entra nel merito delle modalità e
delle ragioni individuali della scelta partigiana di tanti giovani, uomini
e donne. Cfr. M. Avagliano, La generazione ribelle. Diari e lettere dal
1943 al 1945, Torino, Einaudi, 2006.
6
Una scheda biobibliografica di P. Calamandrei è in Appendice.
7
P. Calamandrei, manoscritto inedito, 1938, citato in esergo, da
A. Casellato, a cura, Piero e Franco Calamandrei. Una famiglia in
guerra. Lettere e scritti (1939-1956), Bari-Roma, Laterza, 2008.
8
Ibidem. La frase annotata da Franco e posta in esergo da A.
Casellato, op. cit., p. 148, è una riflessione di P. Lafargue riferita a Marx,
peraltro suo suocero, essendosi sposato con Laura Marx. Esponente
socialista di primo piano, Lafargue è autore di diversi saggi tra cui Il
diritto dell’ozio, pubblicato quattro anni dopo la morte di Marx, nel
1887. È sintomatico (o del tutto casuale?) che questa annotazione,
senza nessun commento da parte di Franco, sia preceduta dalla trascrizione di un pensiero di R. Rolland su Lenin: «Bisogna sognare, ma a
76
Tracce di vita sovversiva
Sono poche battute, ma estremamente chiarificatrici della complessità insita nel rapporto familiare,
dello sguardo generazionale “naturalmente” non convergente, ma amaramente compreso, in quel tempo, da
un padre e da un figlio9. E quando Franco scrive quella
frase, nell’ottobre 1943, è un uomo di venticinque anni10 che, appena un mese prima, l’8 settembre, ha lasciato l’impiego all’Archivio di Stato a Venezia11, per
condizione di credere seriamente al nostro sogno, di esaminare attentamente la vita reale, di confrontare le nostre osservazioni con il nostro sogno, di realizzare scrupolosamente la nostra fantasia…». Ibid., p. 147.
Una felice riproposizione del tema avviene nel 1959, da Ada Prospero Marchesini Gobetti quando sul «Giornale dei Genitori», n. 1, pp.
3-4, scrive, in modo interlocutorio, l’articolo Devono invecchiare i giovani o i genitori ringiovanire?, ora in M.C. Leuzzi, a cura, Ada Marchesini Gobetti. Educare per emancipare. Scritti pedagogici 1953-1968,
Manduria, Lacaita, 1982, pp. 132-138.
Anche una recente considerazione di V. Magrelli va nel segno
dell’assertività: «Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna
della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato». Cfr. V.
Magrelli, Geologia di un padre, Torino, Einaudi, 2013, p. 29.
9
«È comunque indubbio che quel conflitto generazionale ebbe
toni e significati singolari in quegli anni drammatici che vanno dal
crepuscolo del fascismo alla catastrofe del 1943 e alla Resistenza»:
così nel 1986, Alessandro Galante Garrone entra, con sapienza, nel
«non facile esame» del rapporto tra Piero e Franco. Cfr. A. Galante
Garrone, Padri e figli, in «Il Ponte», a. XLII, n. 2, pp. 43-75; la citazione è a p. 43.
10
Secondo il costume dell’epoca, superata la maggiore età dei
ventuno anni, gli uomini entravano di fatto e di diritto nel mondo degli
adulti con ruoli e responsabilità adeguate. Per le donne, come noto,
non era prevista una reale emancipazione.
11
Nel periodo veneziano Franco pubblica con Einaudi la traduzione de Il sogno e la vita, di G. de Nerval e inizia la traduzione di
Dominique, di E. Fromentin. Ne dà notizia, chiosando una lettera di
Franco ai genitori, datata 6 luglio 1943, A. Casellato, a cura, Piero e
Franco Calamandrei. Una famiglia in guerra, cit., p. 42n. In precedenza, nel 1942, Franco aveva curato un’edizione de Del Segretario,
di Francesco Sansovino, per la collezione in ventiquattresimo di Le
Monnier diretta da Pancrazi, col titolo L’avvocato e il segretario, dove
nella prefazione c’è un’ampia riflessione sugli intellettuali italiani. Ulteriore notizia di A. Casellato, a cura, op. cit., p. 43.
77
Maria Cristina Leuzzi
iscriversi al Partito comunista e aderire alla Resistenza
romana. E Marisa Musu, gappista anche lei, lo ricorda
come «uno spilungone con una strana faccia da uccello
notturno, un vocione e un marcato accento fiorentino.
È gentile, allegro, pieno di humour»12.
Il profondo dissidio con il padre si era già manifestato ed ora, con le scelte irreversibili di Franco si è
acuito.
Se a Parigi, già dal 1929, l’École des parents cercava di individuare un nuovo modello genitoriale mettendo in discussione quello declinato sull’autoritarismo
patriarcale, nella nostra cultura pedagogica, ben radicata nelle sue caratteristiche ottocentesche, e rafforzata
dalle istanze del neoidealismo e del regime fascista, a
lungo, nel corso del Novecento13, l’istituzione familiare
12
M. Musu, La ragazza di via Orazio. Vita di una comunista irrequieta, a cura di Ennio Polito, Milano, Mursia, 1997, p. 64. Il ricordo di M. Musu è anche in A. Casellato (a cura di), Piero e Franco Calamandrei. Una famiglia in guerra, cit., p. XXI.
13
Fino ai primi anni Settanta del Novecento, la famiglia italiana
non ha presentato elementi significativi di trasformazione, come il
«mutamento delle funzioni e dei caratteri dell’istituto familiare, ma
anche delle relazioni soggettive tra i suoi membri, della loro vita quotidiana, quindi dell’immagine complessiva di famiglia che ciascuno di
noi, e tutti insieme, elaboriamo e mettiamo in circolazione». Cfr. C.
Mancina, La famiglia, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 9. Per un approfondito studio storico-giuridico, si veda P. Ungari, Storia del diritto di
famiglia in Italia (1796-1942), Bologna, Il Mulino, 1974.
Una cifra del cambiamento nell’ordinamento familiare sarà la
definitiva approvazione della riforma del diritto di famiglia, nel 1975,
che abolisce il reato di adulterio e la separazione per colpa; riconosce i
diritti dei figli naturali; estende la patria potestà anche alla madre; abbassa la maggiore età da ventuno a diciotto anni. Sono coeve, o seguiranno, altre leggi riformatrici, da quella sul divorzio (1970), a quella
sulla parità (1977) e alla legge 194 che disciplina l’aborto (1978), ma
tutte avranno come matrice del cambiamento le uniche due rivoluzioni
incruente del Novecento: il movimento antiautoritario degli studenti
del 1968 e il movimento femminista dei primi anni Settanta. È ormai
ricca la bibliografia sulla famiglia e riguarda sia il pensiero storico e
78
Tracce di vita sovversiva
è stata pensata e vissuta come un ambito strettamente
privato. Lo ius sanguinis, confortato dal Codice civile,
legittimava il capofamiglia, considerato, appunto, ancora pater familias, a comportamenti autoritari e a sottomissioni inevitabili da parte della moglie e dei figli
ed escludeva, quasi a priori, l’attenzione al riconoscimento delle pur sempre presenti dinamiche affettive e
relazionali14.
I conflitti, i silenzi, le mortificazioni, le inadeguatezze, le illusioni amorose, il «pacato amore coniugale»
successivo a squillanti «Per nozze»15, sembravano annullarsi nel riconoscimento sociale dei ruoli coniugali
e genitoriali, legittimati, nella loro essenza, dalla tradizione. L’educazione dei figli, declinata dalla obbedienza16, si modulava attraverso il “tu devi” e non sul “tu
storico-educativo che quello antropologico, psicologico, sociologico,
giuridico, statistico e letterario.
14
Sul tema cito soltanto: A. Arru, a cura, Pater familias, Istituto
Universitario Orientale di Napoli, Dottorato di Ricerca, Quaderno n.
2, Roma, Biblink editori, 2002.
15
I Per nozze, componimenti in versi in onore degli sposi, di
tradizione medioevale, ritornano in auge durante tutto il XIX secolo
come strumenti efficaci a ufficializzare «la contrapposizione tra le turbolenze dell’amore-passione e le sicurezze affettive dei legami matrimoniali». Ne danno conto numerosi studi di storia locale esaminati da
A. Giallongo nel cap. IV Metamorfosi medievali nei «Per nozze»
dell’Ottocento, del suo Frammenti di genere. Tra storia ed educazione, Milano, Guerini, 2008. La citazione è a p. 86.
16
L’obbedienza totale, richiesta ai minori, sinonimo di buona
educazione borghese, è stato quasi un a-priori dell’operare educativo
sia in ambito familiare che scolastico, con i relativi sistemi di premi e
punizioni, che dall’Ottocento è stato trasmesso al secolo successivo e
rimasto pressoché immutato fino al secondo dopoguerra. Cfr. in particolare, per una ricostruzione delle correnti pedagogiche, F. Cambi, La
pedagogia borghese nell’Italia moderna. 1815-1970, Firenze, la Nuova Italia, 1974; per la condizione infantile e le problematiche educative, E. Becchi, L’Ottocento, in E. Becchi e D. Julia, a cura, Storia
dell’infanzia, vol. 2, Dal Settecento ad oggi, Roma-Bari, Laterza,
1996, pp. 132-206; per le problematiche giovanili, G. Levi e J.-C.
79
Maria Cristina Leuzzi
puoi”17. E la famiglia e la scuola, in piena sintonia su
tali modalità pedagogiche, continuavano a dare stabilità
e sicurezza al costume sociale e alla prassi educativa18.
Sono questi gli elementi inquinanti, gli “amabili
resti”19 con cui fare i conti per instaurare una nuova e
più efficace “civiltà degli affetti”20? Sembrerebbe di sì.
Appare, infatti, sin dalla pagina iniziale degli appunti, che Franco voglia partire dagli amabili resti per
dare ordine alle sue “storie”, in modo tale da restituire
a se stesso, come scrive, la “formazione della memoria”, cioè “una educazione alla memoria”21.
Sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, una
maggiore “laicizzazione” del pensiero pedagogico, gli
innesti di altre discipline umanistico-scientifiche e, via
via, i nuovi scenari della storia sociale, l’utilizzo della
categoria di genere, la disamina di fonti di diversa tipologia, lo studio quasi indiziario delle fonti letterarie,
hanno restituito respiro alla storia dell’educazione22 e i
Schmitt, Storia dei giovani, vol. 2, L’Età contemporanea, Roma-Bari,
Laterza, 1994.
È significativo che la modalità dell’obbedienza risulti ancora
oggi (dopo Pinocchio e Giannettino) in ambito letterario, spagnolo in
particolare, in Almudena Grandes, Modelli di donna, Parma, Guanda
Ed., 1996, quando nel cap. L’amore materno, la protagonista ricordando l’età infantile della figlia dice: «Non sapete quanto era carina da
piccola, ma carinissima, davvero, un tesoro di bambina, allegra, docile, ordinata, obbediente». Ibid., pp. 99-126.
17
Come in precedenti studi, le specificazioni educative tra autoritarismo e autorevolezza sono mie.
18
Cfr. M. Barbagli e D. I. Kertzer, a cura, Storia della famiglia
italiana. 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992, in particolare, G. Levi,
Famiglia e parentela: qualche tema di riflessione, pp.307-321.
19
A. Sebold, The Lovely Bones, trad. it. di Chiara Belliti, Amabili resti, Roma, Edizioni e/o, 2002.
20
Ne ha parlato M. Marzano durante il suo intervento al Festival
delle Letterature, Roma, 25 maggio 2010.
21
F. Calamandrei, La vita indivisibile…, cit., pp.17-18.
22
Cfr. A. Santoni Rugiu, Scenari dell’educazione nell’Europa
moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1994.
80
Tracce di vita sovversiva
contributi di sempre più numerose storiche dell’educazione, hanno reso e continuano a rendere possibile il disvelamento di quest’ambito privato, a vantaggio di un
rapporto il più possibile bilanciato tra natura e cultura.
Inoltre, la messa in discussione di una certa mistica del materno23, configurato spesso nell’indispensabile amore oblativo delle madri24, ha permesso di non esaurire le modalità materne delle donne nell’esclusivo
istinto, tanto naturale quanto poco culturale, ma di
comprendere anche il materno tra i sentimenti da coltivare e da sviluppare, sempre in relazione all’altro da
sé. Allo stesso modo, si è fatta più attenzione alle scelte di numerose donne che nel corso dei secoli hanno,
con consapevolezza o meno, guardato alla propria vita,
e agito, in modo di-verso25.
Da questo nuovo modo di osservare la vita affettiva e, per molte fonti, come ricordavo, il metodo indiziario si è rivelato efficace, anche la figura paterna emerge, oggi, in nuovi e più penetranti paradigmi.
Proprio perché figura, per tradizione e per simbologia,
dominante, la si studia anche guardando agli effetti
della sua ricaduta fattuale e simbolica non soltanto sulla donna moglie, ma anche sui figli, primogeniti o no,
23
La messa in discussione del famigerato istinto materno, ma
poco dibattuta in ambito educativo, è di E. Badinter, L’amour en plus,
Paris, Flammarion, 1980, tr. it. di Rosetta Loy, L’amore in più. Storia
dell’amore materno, Milano, Longanesi, 1981.
24
Un approfondito excursus sul tema è in M. D’Amelia, La
mamma, Bologna, Il Mulino, 2005.
25
Un esempio di scelte di vita divergenti rispetto al modello di
donna borghese tipico dell’Ottocento è rappresentato da Erminia Fuà
Fusinato che, pur con scarsa consapevolezza, ma del tutto naturalmente, ha potuto vivere e, quindi, scegliere, una vita “attiva” grazie ad una
educazione indirizzata alla sua emancipazione ricevuta in famiglia
perché nella sostanza laica e del tutto estranea a quei radicati pregiudizi di genere dell’Ottocento. Cfr. M. C. Leuzzi, Erminia Fuà Fusinato.
Una vita in altro modo, Roma, Anicia, 2008.
81
Maria Cristina Leuzzi
maschi e femmine. E se le ricerche rinviano ad esempi
di cure paterne a volte esemplari rispetto ai tempi coevi, sono molte, tuttavia, le testimonianze di carenze affettive lasciate cadere nei diari personali e negli epistolari da figlie e da figli26; oppure da lettere mai spedite
al proprio padre. Ma Franz Kafka, nel 1919, dalla nostra cultura pedagogica era pressoché sconosciuto! E
quando toccherà a Pirandello scandagliare i nuclei affettivi mettendo in discussione stereotipi, pregiudizi e
ipocrisie della società borghese, poco riverbero, se non
nessuno, avrà sulla cosiddetta società educante.
Come ricordato, si dovranno attendere gli anni
Settanta, quando la “rivoluzione” giovanile e la perturbante riflessione di molte donne capovolgeranno paradigmi sociali e affettivi fin lì consolidati e per nulla
scalfiti dagli articoli della Costituzione e dall’esercizio
di voto femminile, perché la ricerca storico-pedagogica
(ma non in toto, naturalmente!) abbandonasse la neutralità e l’inesausto neutro di genere.
Il proseguire, nel mettere in rilievo discrepanze,
dicotomie, superficialità e pregiudizi di genere, sia maschili che femminili, nella loro genesi e nel loro radicarsi nelle mentalità, con i loro effetti nel costume sociale e nella prassi educativa, se arricchiscono, ormai,
la ricerca storico-educativa, possono anche sostanziare
la consapevolezza delle giovani generazioni di vivere
un presente del tutto diverso, dove le scelte non sono
obbligate né dal destino di nascita e né dai “protocolli”
familiari e sociali. Su uno dei possibili protocolli, Carlo Fruttero, da anziano, traccia un saliente ricordo pedagogico del padre: «Era un uomo di indole timida e
26
Cfr. C. Covato, Memorie di cure paterne. Genere, percorsi
educativi e storie d’infanzia, Milano, Unicopli, 2002. Sul tema, in campo letterario, tra altri, si veda, H. Kureishi, Il mio orecchio sul tuo cuore,
Milano, Bompiani, 2004; Ph. Roth, Nemesi, Torino, Einaudi, 2011.
82
Tracce di vita sovversiva
mite (scoprii solo più tardi), ma come tutti i padri torinesi della sua generazione riteneva naturale pretendere
dai figli, per il loro futuro bene, comportamenti ispirati
dai locali classici dello stoicismo, Alfieri, D’Azeglio,
De Amicis. Le carezze erano rare e imbarazzate, i doveri numerosi e non negoziabili. […] Alto e imponente
d’aspetto, mio padre aveva inoltre occhi color ghiaccio
che intimidivano già in stato di riposo; aggrottandosi,
non lasciavano scampo, bisognava muoversi»27.
Non rientrano, anche queste forme, nel bagaglio
educativo delle passate – ma non troppo – generazioni?
Direi di sì. Eppure, l’iniziale rapporto tra Piero e
suo figlio Franco ha caratteristiche d’eccezione rispetto
al canone educativo borghese degli anni Venti e Trenta. Franco nasce da una coppia che si è sposata per
amore28 e non per convenienza o per sottoscrivere un
contratto, e trascorre un’infanzia avviluppata nella attenzione e nell’affettività reciproche29.
27
C. Fruttero, Mutandine di chiffon, Milano, Mondadori, 2010,
p. 221. Un ulteriore testimonianza su un genitore di ruvidezza ottocentesca, ce la ricorda V. Magrelli riportando, dalla corrispondenza di
Robert Louis Stevenson le considerazioni dello scrittore su suo padre:
«Mio padre ed io riusciamo a bruciare un anno in mezz’ora» e, ancora,
«Con grande dispiacere, stamattina mio padre mi ha propinato
un’abbondante dose di Hyde. Ha cominciato a colazione come suo solito… Sono stato molto duro con lui e non gli ho più rivolto la parola
finché non si è calmato… Con una notte insonne alle spalle, quella
dose di Hyde mi ha messo definitivamente a terra (finora Jekyll aveva
avuto la meglio)». Cfr. V. Magrelli, Geologia di un padre, cit., p. 87.
28
Piero Calamandrei, diciannovenne e Ada Cocci, diciottenne,
si incontrano e si riconoscono nel 1908 e si sposano il 10 dicembre
1916. La sua profonda unione con Piero richiederebbe una riflessione
del tutto autonoma alla luce anche della rievocazione del marito in P.
Calamandrei, Ada con gli occhi stellanti. Lettere 1908-1915, Palermo,
Sellerio, 2005.
29
Così U. Volli: «Casa Calamandrei vi appare come un piccolo
gruppo affettuoso, composto di madre, padre e figlio e una domestica,
che vive in un ambiente urbano (Firenze) con qualche escursione nella
campagna senese delle vacanze, e resta solitamente abbastanza isolato,
83
Maria Cristina Leuzzi
La ritualità, di anno in anno osservata e ripetuta
per l’arrivo della Befana, con il padre che al mattino
sveglia e solleva sulle proprie spalle il piccolo Franco
per portarlo davanti al camino addobbato, è un ricordo,
una sua “storia”, talmente viva da annotarla nel suo
diario senza eliminare, ora, da adulto, quegli elementi
di contorno che al tempo Franco aveva soltanto percepito: il suo aver voluto credere alla Befana fintanto che
i suoi genitori non avessero preso atto della fine della
sua “ingenuità”, per allungare il tempo della sua infanzia e non far finire, soprattutto, “la giovinezza” dei
suoi genitori30. È singolare che un bambino si sia potuto porre, anche se in modo embrionale, il problema
della fine della giovinezza dei propri genitori: si può
presumere che abbia ascoltato qualche considerazione
in merito, tanto più perché il padre mette per iscritto la
sua grande malinconia nel constatare l’avvenuta crescita del figlio, proprio verso il compimento dei sei anni
di Franco, nel 1923. Il padre, che aveva avuto quell’idea tenera e affettuosa, quando Franco aveva tre anni, di seguire per iscritto con molta attenzione il suo
con l’eccezione di qualche relazione sociale piacevole ma non molto
frequente con amici e parenti». Al centro di questa famiglia nucleare
moderna «stanno un padre e una madre ben definiti nei loro ruoli, lui
responsabile economico e regolatore supremo, lei fuoco della vita affettiva e organizzatrice della routine domestica, che collaborano amorevolmente all’educazione del bambino, avvalendosi di una servitù molto
limitata». Cfr. U. Volli, Diventare padre, Introduzione, in P. Calamandrei, Colloqui con Franco, Firenze, Vallecchi, 1995, pp. 9-10.
30
Così Franco inizia a scrivere nell’aprile del 1941: «Il giorno in
cui io non credetti più alla Befana finì la giovinezza dei miei genitori e
un’altra lunga età incominciò per loro nella quale avrebbero sentito il
mio cuore sempre meno credulo a poco a poco sfuggire attraverso le
maglie del loro affetto». Il 20 giugno termina l’annotazione sulla «festosa commedia dell’Epifania», e scrive: […] «ma in fondo alla mia
gioia mi inquietava il sentimento che qualcosa nostro malgrado si fosse nella nostra esistenza senza rimedio sciupato». F. Calamandrei, La
vita indivisibile…, cit., pp. 22 e 25.
84
Tracce di vita sovversiva
processo di crescita e, soprattutto, il suo sviluppo linguistico, termina quell’inconsueto, originale, poetico, e
attentissimo diario, quasi giornaliero, sul figlio, quando questi dà atto di sapersi esprimere quasi correttamente nella lingua italiana. E le parole finali dello
scritto rivelano tutta la sua nostalgia e rimpianto per
quegli anni precedenti che lo avevano visto tanto impegnato ed è come se una stagione della sua vita si fosse definitivamente conclusa. Quasi avesse di fronte il
figlio, scrive: «Franco, tu parli ormai come parlano le
signore nei salotti, come parlano i deputati in Parlamento… Che malinconia!»31.
Al contempo, però, per Franco, il ricordare l’attenzione prestata ai suoi genitori, si innesta su un’altra sua
“storia”, che diviene via via più chiara: elabora, infatti,
il senso di oppressione, di monotonia, di ritualità che
ha visto e provato nella vita borghese. E questa percezione a quel tipo di vita che non sentiva confacente a
sé, inizia, con buona probabilità, nel periodo adolescenziale. Più volte, ora, sottolinea la linea di demarcazione tra l’infanzia e l’adolescenza; più volte ricorda la
luminosità dell’infanzia guastata «dai primi segni di
morte»: […]«tranquillo è il lago degli occhi», ma poi
«in quel lago si increspano a momenti correnti insidiose […] e sulla fronte i capelli ricevono l’artifizio di
pettini, spazzole, pomate, che la vanità e l’ambizione
amorosa adopera davanti allo specchio. Poco più e l’uomo è fatto ahimé, con i suoi lineamenti indelebili, ognuno la traccia di una pena inflitta o subita»32.
Franco, nel ricostruire la “storia”, sembra che abbia voluto combattere quell’idea di inerzia, di immobilità che vede rispecchiata nella vita “oggettiva”, cioè
nella «realtà costituita dalla contemporanea esistenza
31
32
P. Calamandrei, Colloqui con Franco, cit., p. 157.
F. Calamandrei, La vita indivisibile…, cit., p. 32.
85
Maria Cristina Leuzzi
di infinite vite in senso soggettivo»33, e abbia ricercato
«la gioia del caso». Diviene ricerca dell’evasione da un
train de vie che gli sembra quasi scontato, perché facilmente prevedibile e, quindi, monotono e alla fin fine
oppressivo. Franco è alla ricerca del “meraviglioso”,
che pur esiste, «negli eventi, nel loro infinito accavallarsi e rinnovarsi» e vorrebbe «portare, saper trovare,
questo meraviglioso, nella squallida vita borghese»34.
Forse, proprio il ritenere “squallida” la vita borghese
che è quella che lui conosce, declinata in famiglia, è
l’inizio, nella sua adolescenza, del conflitto tacito con
il padre. Il suo malessere adolescenziale ha una lunga
incubazione. Franco cerca il suo modo di stare al mondo. E nel novembre del 1941, a Roma, nel passeggiare
sui “lungofiume” dai colori autunnali dei platani ritrova «la realtà dello spazio, della natura, del mondo» e
vede il senso dell’esistere e ripensa a quei momenti
della sua giovinezza quando la stessa sensazione, «la
stessa percezione della realtà del reale – ma ancora vaga e incerta – mi rallegrava vedendo l’ombra delle nuvole spostarsi sulla terra, avvicinarsi al luogo dove ero
io, e quel luogo passare insensibilmente ma realmente,
come per sortilegio che nascesse dal suolo, dal sole
all’ombra»35.
La natura lo aiuta e asseconda la sua legittimazione al distacco, di un’autonomia reale che è anche rinnovamento di uno stile di vita, che sente necessari, impellenti. Ricorda che con “stupore” e con “felicità”, ma
anche con “smarrimento”, stava vedendo ora, il mondo
33
Ibid., p. 33.
Ibid., p. 27.
35
Ibid., p. 35.
34
86
Tracce di vita sovversiva
attraverso «una terza dimensione», attraverso il terzo
occhio36.
Sin dall’inizio dei suoi appunti, per assecondare la
sua educazione alla memoria, chiede aiuto alla grande
Letteratura, a Leopardi, a Gide, a Boccaccio, a Gogol,
a Twain e a molti altri ancora, e dai loro scritti trova
spunti rievocativi che divengono chiarificatori per le
sue sensazioni e per questa sua profonda esigenza di
“sviluppo libero”. Sviluppo che non può più assecondare, ma sfidare per trovare, cioè, la sua personale biforcazione tra un mondo antico e quello odierno, che
non ripudi l’antico, ma lo rivisiti.
E ricerca le sue ragioni continuando la sua analisi
sulla «squallida vita borghese» anche durante l’attività
resistenziale. Inizia a prendere corpo la sua vita indivisibile. Bontempelli e, molto di più, Marx, lo aiutano.
Il 2 agosto 1942, scrive in terza persona, sempre
nell’intento di ricostruire la sua “storia”, e si autoindica come “X”, e dice che «[X] aveva per natura una esigenza molto forte di moralità e di responsabilità. Ma
dall’infanzia gli era rimasta nella coscienza una morbida soggezione al padre (diretta e indiretta nel timore di
recar dolore alla madre) per la quale pur aspirando ad
un ideale di vita più puro e consapevole di quello del
padre, non aveva potuto romperla del tutto con la forma che moralità e responsabilità rivestivano nella coscienza paterna» […] «per lui insomma importava conseguire una moralità ed una responsabilità superando
quelle impostagli dal padre; e non sottrarsi ad ogni responsabilità e moralità buttandosi all’amoralismo e ci36
Ibid., p. 36. È possibile che la sua conoscenza approfondita di
Leopardi, come i continui rimandi e trascrizioni presenti nei quaderni
dimostrano, sia stato il tramite per conoscere la traduzione fatta dal
poeta dello ’EgceirÎdion di Epitteto, scritto in greco dal suo scolaro
Arriano di Nicodemia.
87
Maria Cristina Leuzzi
nismo». Non erano, difatti, insite nella sua natura quest’ultime modalità, pur cercandole per volere d’opposizione, ma alla fine «X appariva nelle sue azioni più
dissipato e dissoluto e indifferente» di chi, per natura,
era dissipato e indifferente. E Franco ricorda che «per
chi lo osservava appariva in lui un penoso contrasto fra
un fondo di serietà, di gravità (la sua natura) e un atteggiamento di indifferenza, di frivolo cinismo, che egli si illudeva essere la sua vera liberazione»37. E, forse,
Franco si riferisce al periodo universitario fiorentino.
La sua iscrizione alla Facoltà di Giurisprudenza rientra
in quella naturalità e ovvietà che scelte non autonome,
ma tacitamente eterodirette, portano con sé. Tuttavia,
per «moralità e responsabilità», si laurea nei tempi e
brillantemente, addirittura in Diritto internazionale.
Eppure, la disapprovazione del padre è plateale e il loro rapporto si fa difficile. In questi anni, infatti, Franco
non soltanto ha coltivato ampiamente il suo forte interesse per la Letteratura, accostandosi all’ermetismo,
aborrito dal padre38, ma si lascia affascinare da quel
senso di effervescenza, di nuovo, che il regime fascista
propagava, e che faceva illudere soprattutto i giovani
borghesi che un nuovo modo di vivere fosse possibile
e attuabile. E illude anche Franco.
Ma per il padre, evidentemente, Franco non fa più
parte, come sottoscrisse nel 192539, «degli studenti con
la schiena dritta».
37
Ibid., p. 43.
Dello stile ermetico assunto da Franco nei suoi scritti e vissuto come “un tradimento” dal padre, ne dà ampio conto A. Galante
Garrone in Padri e figli, cit., pp. 49-51.
39
A seguito degli scontri tra fascisti e liberi goliardi durante
l’inaugurazione dell’anno accademico nell’Ateneo fiorentino, il 20
gennaio 1925, sul foglio clandestino antifascista «Non Mollare!» appare il duro resoconto sugli incidenti, e si distingue tra «i manganellatori in agguato contro gli studenti di schiena dritta». Cfr. E. Rossi, G.
38
88
Tracce di vita sovversiva
Frequenta i circoli letterari fiorentini e aderisce alle
esperienze culturali promosse dai Littoriali del Guf40.
Pubblica recensioni, saggi e racconti su Il Bargello,
Campo di Marte, Corrente. Quando è a Roma, nel 1940,
pubblica due racconti sulla rivista Rivoluzione, del
GUF di Firenze41. L’adesione alla attività culturale fascista42, ma mai con, come sottolinea Alessandro Galante Garrone, «gesti di sfacciata e incensatoria adesione al regime»43 e il suo interesse e il fascino che
prova per la Letteratura, agli occhi del padre sono deviazioni immorali inaccettabili. Eppure, Franco, ricorda che quando venne «il giorno in cui le circostanze lo
portarono ad opporre all’ideale paterno il proprio naturale ideale, a scavalcare quello per raggiungere questo,
di colpo le abitudini, i vizi, i tic della sua esistenza cinica e dissipata gli apparvero assurdi, inconcepibili,
una stagione di folle stravaganza che il suo animo aveva vissuto contro ogni istintiva necessità»44. Franco
comincia a prendere coscienza dell’errore della sua adesione al fascismo già dalla presa di Barcellona da
parte dei franchisti, dopo l’aspro resoconto sulla barbaSalvemini, P. Calamandrei, Non mollare!, Firenze, La Nuova Italia,
1955, p. 96.
40
Cfr. L. Della Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica
e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Torino, Bollati
Boringhieri, 2003. Qui non è menzionato Franco, ma ampio rilievo ha
l’impegno intellettuale antifascista di Piero.
41
I racconti che Franco pubblica sono: Alla cugina cresciuta e
Prima storia infantile.
42
R. Bilenchi, amico e confidente, trascrive una riflessione autobiografica di Franco: «Credetti di vedere nel fascismo la possibilità
di uno slancio collettivo e unanime, di una solidarietà nell’entusiasmo,
di una polemica contro la grettezza e l’egoismo borghese; d’altra parte
mi irritò il carattere sterile e inerte dell’antifascismo di mio padre e dei
suoi amici». R. Bilenchi, Prefazione, in F. Calamandrei, La vita indivisibile…, cit., p. 12.
43
A. Galante Garrone, Padri e figli, cit., p. 53.
44
Ibid., pp. 43-44.
89
Maria Cristina Leuzzi
rie commessa che gli fece Romano Bilenchi45, ma rimane forte in lui la certezza di voler proseguire gli studi letterari e lascia Firenze per iscriversi alla Facoltà di
Lettere di Roma e preparare una tesi su Gide. E il conflitto con il padre si acuisce ancor più, perché è un
chiaro segnale che il figlio non seguirà le orme paterne.
La via del Diritto è abbandonata per lasciare il
campo alla via dei diritti e, con essi, alla propria autonomia.
Ma le convinzioni del padre su di lui sono coriacee, è ferito e amareggiato e non riflette affatto sulle
motivazioni delle scelte di Franco. Però, forse, il padre
ha dimenticato, «per il coraggio del suo alto e libero
magistero», ampiamente documentato ormai, la comprensione che aveva richiesto in famiglia, Franco aveva quasi quindici anni, quando alla fine del 1931, come
professore universitario, aveva prestato giuramento alle direttive fasciste.
Ma errori e incomprensioni sono sulla via della ricomposizione anche se Franco continua ad essere estremamente riservato sulla sua maturazione interiore.
L’impegno, il coraggio e la lucidità di Franco nel periodo resistenziale fanno di lui un uomo dalla schiena
dritta e il padre, ora, lo riconosce come figlio suo.
Franco sembra aver trovato la sua giusta collocazione nel mondo reale e ha chiarito sempre più, tramite
Marx, l’analisi del perché ha ritenuto “squallida” la vita borghese.
Il 10 ottobre 1945, scrive: «Proprio nella scissione
fra vita politica e vita privata sta l’essenza del costume
borghese. In questo limitare il proprio impegno sociale
alla vita politica e seguire nella vita privata la più atomistica libertà dell’egoismo. Nel credere che a pagare
45
R. Bilenchi, Prefazione, in F. Calamandrei, La vita indivisibile…, cit., p. 12.
90
Tracce di vita sovversiva
il proprio scotto sociale basti adempiere i propri diritti
e doveri politici, e poi ciascuno viva solo per sé. (Alla
luce di questa distinzione la classica frase borghese:
«Ah! Io non mi occupo di politica!» acquista il suo più
pieno rilievo. È come dire: «Me ne frego di tutto, fuor
che del mio porco comodo – e dirlo ormai senza più
pudore, proclamando la propria miserabile condizione
di bruto»)46.
E Franco non è un bruto, ma un uomo “dentro” alla sua vita che diviene sempre più armonica. E può
scrivere ai genitori, il 21 dicembre 1943: «Sto ottimamente. Nel fisico e nel morale. La vita che faccio, piena di attività e di contatti interessanti, mi dà, come non
avevo mai provato così intensamente finora, il senso
soddisfacente di essere “dentro” alla vita, di vivere solidalmente con gli altri uomini»47. Franco tace ai suoi
genitori che il benessere raggiunto era dovuto anche
all’innamoramento per Maria Teresa Regard48. Ne scriverà a loro soltanto il 27 maggio successivo e, nel presentare Maria Teresa, dice: «Finalmente ho con me una
compagna […] fra pochi giorni ci sposeremo. Maria
Teresa ha vent’anni, ed è disposta, aperta alla vita, dolcemente ansiosa di vivere come può esserlo una fanciulla. E insieme, esperienze amare, compiti duri assunti e adempiuti col più grande coraggio, l’hanno resa
forte, perspicace, assennata, come non è facile trovare
una donna. Dall’ottobre ad ora, l’attività che ci ha avvicinati è stata per noi così folta e così approfondita
nell’animo, che è come avessimo in comune un passato molto più lungo. E da quando ci siamo uniti ci sentiamo così illuminati l’uno dell’altro, fatti tanto più li46
F. Calamandrei, La vita indivisibile…, cit., pp. 266-267.
A. Casellato, a cura, op. cit., p. 71.
48
Anche per il sodalizio che la unisce a Franco sarebbe necessario un approfondimento autonomo.
47
91
Maria Cristina Leuzzi
beri, fiduciosi, capaci, che al nostro amore non può esserci dubbio»49.
Le inquietudini esistenziali, affettive e politiche,
sembrano ormai lontane. La strada ricercata è stata trovata e con la schiena dritta, la sua vita può diventare
veramente indivisibile.
Brevi schede bio-bibliografiche
Piero Calamandrei, nasce a Firenze il 21 aprile 1889. Insigne
giurista, fu professore universitario di diritto processuale a Siena e
dal 1924 a Firenze, dove presterà il giuramento imposto dal fascismo e riserverà alla cerchia privata, la sua famiglia, i suoi amici e i
suoi allievi, i suoi sentimenti antifascisti. È l’animatore, con Salvemini, Carlo e Nello Rosselli ed Ernesto Rossi, del Circolo culturale di Firenze. È tra gli ideatori del foglio clandestino «Non mollare» e tra i fondatori del Partito d’Azione. Membro dell’Assemblea Costituente, è eletto deputato alla Camera dal 1948 al 1953.
Nel 1945 fonda la rivista «Il Ponte». Muore a Firenze il 27 settembre 1956.
Dei suoi scritti ricordo: Id., In difesa dell’onestà e della libertà
della scuola. Interpellanza del 16 dicembre 1948 alla Camera dei
Deputati sul “caso” Luigi Russo, a cura di P. Simoncelli, Palermo,
Sellerio, 1994; Id., Colloqui con Franco, Firenze, Firenze, La Voce 1924 e n. ed. Firenze, Vallecchi, 1995; Id., Inventario della casa di campagna, Firenze, Le Monnier, 1941, ed. fuori commercio,
e n. ed. Roma, Tumminelli, 1945; Milano, Vallecchi, 1989; Montepulciano, Le Balze, 2002; Id., Diario 1939-1945, Firenze, La
Nuova Italia, (1982) 1997; Id., Ada con gli occhi stellanti. Lettere
1908-1915, a cura di S. Calamandrei, Palermo, Sellerio, 2005; Id.,
La burla di Primavera con altre fiabe e prose sparse, (Alpes,
1920) Palermo, Sellerio, (1987) 2006; Id., Per la scuola, con intr.
Di T. De Mauro e nota storico-bibliografica di S. Calamandrei, Palermo, Sellerio, 2008. È recente lo studio di P. Bagnoli, Piero Calamandrei: l’uomo del ponte, Arezzo, Fuorionda, 2013.
49
A. Casellato, a cura, op. cit., pp. 82-83.
92
Tracce di vita sovversiva
Franco Calamandrei, figlio di Piero e di Ada Cocci, nasce a Firenze il 21 settembre 1917, mentre il padre è al fronte. Studia al
Liceo Michelangelo e si laurea in Legge nel 1939, con una tesi in
Diritto internazionale preparata durante un soggiorno all’Aja presso la Scuola di Diritto internazionale. Nel 1940 si trasferisce a
Roma, si iscrive alla Facoltà di Lettere e prepara una tesi su Gide,
con P. P. Trompeo. Nei precedenti anni universitari aveva frequentato i circoli letterari fiorentini e pubblicato recensioni, saggi e
racconti su Rivoluzione, Il Bargello, Campo di Marte, Corrente.
Partecipa ai Littoriali per la critica teatrale e vince il secondo premio. Pubblica due racconti sulla rivista Rivoluzione, del GUF di
Firenze. Nel 1942, avendo vinto un concorso per L’Archivio di
Stato, si trasferisce a Napoli e, nel 1943, a seguito dello spostamento al Nord degli Archivi, a Venezia. Subito dopo l’8 settembre
1943, decide di raggiungere Roma per entrare in contatto con la
Resistenza e iscriversi al PCI. È nominato vicecomandante del
centrale Gruppo di Azione Patriottica (GAP) e assume il nome di
battaglia di “Cola”. Al suo fianco, nella stessa formazione, c’è
M.T. Regard. Si sposano il 13 giugno del 1944. Negli anni romani
la sua passione per la letteratura francese non si è offuscata: pubblica con Einaudi, nel 1943, con una sua prefazione, la traduzione
dei racconti di G. de Nerval, Il sogno e la vita. Arrestato il 28 aprile 1944, è protagonista di una rocambolesca fuga dalla famigerata
pensione Iaccarino, in via Romagna, adibita a carcere dai torturatori dei reparti speciali di polizia fascista di P. Koch. Nel 1945
pubblica La Monaca, di Diderot, Milano, La Nuova Biblioteca.
Insigniti ambedue della medaglia d’argento nel 1950, Franco e
Maria Teresa, con la piccola Silvia (1947), condivideranno anche
la conoscenza dei paesi asiatici. Franco, dopo aver lavorato al Politecnico di Vittorini, è nominato corrispondente dell’Unità, dal
1950 al 1956, prima da Londra e poi da Pechino e dal Tibet. Rientrati in Italia, Franco ricopre incarichi direttivi nel PCI e diviene
nuovamente padre, di Gemma, nata nel 1960. È eletto senatore nel
1968, nel collegio di Pistoia, ed è membro della Commissione
d’inchiesta P2 e della Commissione del Consiglio d’Europa per i
Rapporti con i Parlamenti Nazionali. È rieletto anche nelle successive Legislature e manterrà gli incarichi fino alla morte (Roma, 26
settembre 1982).
Tra i suoi scritti: nel 1946, cura l’edizione per l’Universale economica di Milano, Scritto sotto la forca, di J. Fucik; nel 1949 traduce la prima e seconda parte di Proust, All’ombra della fanciulla
in fiore, per Einaudi; nel 1953, per l’Universale economica di Milano, scrive la prefazione a Il popolo dell’abisso, di J. London; nel
93
Maria Cristina Leuzzi
1956, scrive Guerra e pace nel Vietnam, edito da Parenti; sempre
nel 1956, insieme a M.T. Regard, scrive Rompicapo tibetano, edito da Parenti; nel 1968 cura una raccolta di scritti di Ho Chi Minh,
Lo spirito del Vietnam, edito dagli Editori Riuniti; nel 1979 pubblica il dialogo con Stefano Terra prima su «Il Ponte» e poi come
prefazione a S. Terra, La generazione che non perdona, edito da
Bompiani; nel 1982 scrive la nota introduttiva ai Diari di Piero
Calamandrei.
Nel 1984, sono pubblicati La vita indivisibile (Diario 1941-1947),
a cura di O. Cecchi, con prefazione di R. Bilenchi, e i Discorsi
parlamentari, a cura di C. Pinzaroni. Nel 1995, a cura di S. Calamandrei e di A. Galante Garrone, è edito dalla Nuova Italia, Le occasioni di vivere (Diari e scritti 1975-1982).
Riferimenti bibliografici
Calamandrei, P., Colloqui con Franco, Firenze, La Voce 1924, e
n. ed. Firenze, Vallecchi, 1995.
Id., Per la scuola, intr. di T. De Mauro e nota storico-bibliografica
di S. Calamandrei, Palermo, Sellerio, 2008.
Calamandrei, F., Le occasioni di vivere (Diari e scritti 19751982), a cura di S. Calamandrei e di A. Galante Garrone, Firenze, Nuova Italia, 1995.
Id., La vita indivisibile. Diario 1941-1947, (Roma 1984) Firenze,
Giunti, 1998, con pref. di R. Bilenchi.
Galante Garrone, A., Padri e figli, in «Il Ponte», Anno XLII, 1986,
n. 2.
Casellato, A., a cura di, Piero e Franco Calamandrei. Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956), Bari-Roma, Laterza, 2008.
94
Su Bonhoeffer educatore
Francesco Mattei
Università degli Studi Roma Tre
Department of Education
Via Manin, 53 - 00185 Roma
[email protected]
Ciò che conta per la Bibbia è sempre
l’ánthropos téleios, l’uomo intero.
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa
1. Sulla poliedricità di Bonhoeffer e dell’educazione
Sembra caduta, da qualche tempo, l’attenzione
sulla parabola culturale ed esistenziale di Bonhoeffer,
figura tragica e illuminante della prima metà del Novecento. E così, il teorico della secolarizzazione radicale
sembra egli stesso travolto dall’oblio carsico che inabissa
Dio e il pensiero religioso nel saeculum e nella mimetizzazione proteiforme della parola “laica”. Affetta da ibridazione1 con la parola religiosa, quella dizione “laica”
1
L’ibridazione tra la parola che conta e la parola che non conta, tra
la parola di Dio e la parola dell’uomo è antica, e si riflette significativamente nel termine laico.
kÒj deriva infatti da laÒj (popolo): più propriamente, quel popolo che può sostare negli spazi dedicati ai riti sacri, là
dove l’¥gioj (il santo, il sacro) si manifesta. Da qui il verbo laikÒw, che
vuol dire render pubblico, manifestare (il sacro). Laico è dunque colui
che sta di fronte al disvelamento del sacro (prÒj-f©n») nel terreno di
accesso ai riti. KlÁroj, invece, trae origine da kl£w, e dice separato;
separato dal laÒj. Ce n’è abbastanza, credo, per uno scivolamento semantico dei termini. E la storia ne ha dato ampia e aspra dimostrazione.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 95-120.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Francesco Mattei
assume caratteri ambigui e ambivalenti. Perciò è sottoposta a continue ermeneutiche e a continui fraintendimenti. E perciò necessita, sempre più, di ricorrenti ed inevitabili esplicitazioni. La conseguenza, ineludibile, è
l’urgenza di una risemantizzazione del termine secolarizzazione, soprattutto dopo le patenti dialettiche oppositive di culture e religioni, mentalità e giurisdizioni,
economie e politiche seguite ai vasti fenomeni migratori degli ultimi decenni. Il che pone in diversa luce la
centralità che, sulla scia delle affermazioni di Nietzsche e
di Bonhoeffer, aveva assunto la tematizzazione della secolarizzazione: tanto nel discorso laico quanto in quello religioso. Dire secolarizzazione, infatti, non significa
esprimere una semplice posizione teologico-filosofica e
confinare quella dizione (concettualmente inoffensiva) nei
testi sacri o profani di chiese ed accademie. Dire secolarizzazione vuol dire anche parlare di mentalità, di culture,
di comportamenti, di atteggiamenti, di giurisdizioni, di
assetti politici2. Il vasto mondo, insomma, in cui l’uomo pratico muove i suoi passi per costruire il mondo,
il suo mondo, storico-effettuale.
Ora sappiamo che, dopo il limite semantico-concettuale imposto da Nietzsche al lessico filosofico occidentale, con il suo Requiem aeternam Deo (La gaia
scienza, 125), e dopo il non nostalgico congedo bonhoefferiano dal Dio tappabuchi (Lückenbüsser)3, una
secolarizzazione pacificata stenta, di questi tempi, ad
essere accettabilmente credibile. O, almeno, rischia di
apparire come uno dei tanti luoghi comuni che, strada
2
Per una considerazione più approfondita del concetto di secolarizzazione rinvio al mio studio: F. Mattei, La formazione dell’ánthropos téleios. Parresia e responsabilità in D. Bonhoeffer, Roma,
Anicia, 2011, p. 70 e sgg.
3
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere
(1951), Milano, Edizioni Paoline, 1989, p. 401.
96
Su Bonhoeffer educatore
facendo, hanno perso parte considerevole della loro corrispondenza con la realtà, una realtà che appare sempre
più mossa, più critica, più incerta, più frastagliata. Fino
ad aprire squarci teorico-semantici su un mondo (umanoreligioso) problematico e ancora non sufficientemente
stabilizzato, un mondo che vede nella de-secolarizzazione un bacino di senso nuovo per l’uomo contemporaneo. Del resto, i milioni di migranti che hanno attraversato i mari e lavorato (e vissuto) a fianco di uomini occidentali (secolarizzati) non potevano non suscitare interrogativi e domande “di nuovo” sensate. Giacché, se per gli
uni il Dio rappresentava un orizzonte di senso, anche in
coloro che quel lemma avevano desemantizzato, doveva aprirsi, post transitum, la strada per una necessaria
risemantizzazione della parola religiosa4. E assumeva
4
Cfr., ad esempio, il caso delle Corti islamiche in Inghilterra, assimilate dal common law, pur con i molti problemi lasciati aperti, ad un
qualsiasi arbitrato. D’altronde, esse sono esemplate sul Beth Din (Casa
della regola) della tradizione ebraica, reintrodotta in Gran Bretagna dai
tempi di Cromwell e oggi sancita nell’Arbitration Act del 1999. Per quanto concerne il tema secolarizzazione/de-secolarizzazione, cfr. P. Jenkins,
God’s Continent. Christianity, Islam, and Europe’s Religious Crisis, Oxford,
Oxford University Press, 2007; P.L. Berger (a cura di), The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, Washington,
2000.
Una citazione a parte merita naturalmente H. Cox. Mentre nel recente studio (2001) Fire from Heaven. The Rise of Pentecostal Spirituality and the Reshaping of Religion in the 21st Century osserva con
interesse i moti de-secolarizzanti, negli ’60 del ‘900 guardava alla secolarizzazione come ad una visione veramente nuova. Essa «stabilisce
– scriveva – una nuova situazione che rende completamente antiquate
le precedenti forme di pensiero e di azione» (H. Cox, La città secolare
(1965), Firenze, Vallecchi, 1968, p. 117). Per le critiche a Cox, cfr. T.
Worden, Signore da chi andremo?, in «Concilium», V (1969), n. 10.
Per la radicalizzazione delle posizioni in tema di secolarizzazione,
cfr. L. Pellicani, Dalla città sacra alla città secolare, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2011. O ancora, il tamquam deus non esset in Manno, cfr. M.
Manno, Lettere a Francesco, Roma, Anicia, 2011, pp. 14-15. Più sfumate
le posizioni di Rusconi: in G.E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I
97
Francesco Mattei
così nuova veste – anche se non nuovissima, in verità –
la problematicità del rapporto religiosità-laicità, nelle
numerose versioni che la storia politico-culturale e socio-religiosa ha altre volte conosciuto5.
Dunque, le migrazioni hanno parlato anche di un
Dio che l’Occidente aveva messo tra i ferri vecchi della storia: della storia fattuale e della storia del pensiero.
Ma anche i migranti si sono presto resi conto, e non
poteva essere diversamente, delle sostituzioni operate
dagli uomini del tramonto, gli uomini dell’Occidente,
nei confronti di un assoluto comunemente chiamato
Dio. E non bastava certo il dolorante grido nietzscheano a decretarne definitivamente la morte. Resta però il
fatto, ed è fatto storico, che l’Occidente aveva ormai
scavato una fossa profonda per il Dio ebraico-cristiano
e aveva riposto nel saeculum le ragioni della sua vita:
una vita tutta intessuta di scienza e tecnologia, politica
ed economia, fatticità e… un dimenticato amore e una
non più sperabile speranza. Umanesimo puro, insomma. Perciò doveva apparire un po’ strano, a tutti coloro
che avevano scandito i tempi dell’anno e della vita sui
ritmi secolari della Rivelazione e della predicazione di
quella Rivelazione, vedere le chiese (spesso) vuote e considerarle come pura testimonianza di tempi passati, di
laici, i cattolici e la democrazia, Torino, Einaudi, 2000. Più problematica ed aperta la posizione di Habermas: J. Habermas, «La religione
nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’“uso pubblico della ragione” da parte dei cittadini credenti e laicizzati», in Id., Tra scienza e
fede (2005), Roma-Bari, Laterza, 2008.
5
Tralascio la sterminata bibliografia sulla laicità. Ricordo soltanto, per la diversità delle prospettive, G. Zagrebelsky, Lo Stato e la
Chiesa, Roma, Biblioteca di Repubblica, 2007 e A. Scola, Una nuova
laicità. Temi per una società plurale, Venezia, Marsilio, 2007.
98
Su Bonhoeffer educatore
tempi in cui il Dio della Rivelazione muoveva ancora le
lancette del tempo della vita dell’uomo occidentale6.
Questa la prima impressione che si ha nel pensare
all’incontro, consumato e ormai durevole, tra culture ed
economie, religioni e mentalità presenti nel fenomeno
migratorio. Ad una riflessione più attenta, però, non sfugge il fatto che la dialettica reale, e non solo mentalistica,
ha modificato anche l’altro polo del rapporto. I recenti
avvenimenti in terra d’Africa, del resto, ne sono testimonianza dolorante. La democrazia “sta” salda solo se sottoposta al pesante mantello della religione? La convivenza civile vive esclusivamente sotto il segno del “Libro”?
Gli anni futuri lo diranno, ma non è difficile immaginare che anche quei popoli conosceranno, e presto,
le ragioni della secolarizzazione. Proprio come l’hanno
conosciuta, in tempi ormai interiorizzati, il mondo cristiano e il mondo ebraico. E anch’essi rivivranno, così, il
loro medioevo, un tempo in cui il tempo dell’uomo si
scandiva inesorabilmente sul tempo di Dio.
Perché allora ricordare Bonhoeffer, un Bonhoeffer
oggi, nonostante il lavorio sulle edizioni critiche7 dei
suoi scritti, poco riletto e poco ripensato? E cosa può
dire Bonhoeffer all’uomo di oggi preso tra globalizzazioni sfibranti (o feconde), meticciati violenti (o arricchenti), economie dominanti (od esauste), religioni
profonde (o alienanti), politiche colonizzanti (o cooperanti), educazioni incerte (o dinamizzanti)?
6
Cfr. J. Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Roma-Bari, Laterza, 1987.
7
Con il vol. X, Scritti scelti (1933-1945), a cura di A. Conci, è
terminata nel 2009 l’edizione critica – in Italia presso la Queriniana di
Brescia – delle opere di Bonhoeffer. Il vol. I era uscito nel 1991. Nel
presente art. citerò dalle edizioni precedenti.
99
Francesco Mattei
Questo il punto. O meglio, questi i punti. Giacché
il pastore e lo studioso di Breslavia ha pensato e vissuto radicalmente molte di queste non trascurabili interrogazioni. E perciò risulta arduo, ma utile, muoversi tra
le sfaccettature del suo pensiero e della sua prassi quotidiana, tentando di catturarne l’anima storico-politica e
di intravederne il profilo teologico-filosofico (e non
dimenticando, perché il fatto non è insignificante, il cono
d’ombra che è sceso sulla sua opera). Ma ciò poco toglie, credo, alla sua statura religiosa, morale e politica.
Che rimane, nella desolazione dei totalitarismi desertificanti della prima metà del ‘900, un punto di riferimento
certo e un paradigma pregno di forza attiva ed interpretante dell’umano autentico. E costituisce, mi sembra,
questo umano autentico, il terreno vero della riflessione
bonhoefferiana, anche e soprattutto nella polarità dialettica (ed emancipata) che egli stabilisce tra l’umano e
il divino, l’ultimo e il penultimo8.
Ma allora, perché anche un punto di vista sull’educazione? Perché un accostamento di Bonhoeffer a
parte educationis, un punto di vista prospettico non certo
frequente nella pagina teologico-culturale di Bonhoeffer, nemmeno nei molti frammenti marginali?
In prima approssimazione, così si potrebbe rispondere: perché anche l’educazione è carica di molte sfaccettature, di molte semantiche, di molti volti, di molti
fraintendimenti. E perché anch’essa è sottoposta a molti impoverimenti, a molte edulcorazioni, a molti “aggiornati” travestimenti che non danno ragione della sua
inavvertita necessità per l’uomo contemporaneo. Perciò
la sua poliedricità rischia seriamente di essere confusa
con specchi fuorvianti e a tal punto deformanti da far
8
Cfr. D. Bonhoeffer, «Le cose ultime e penultime», in Id., Etica, Milano, Bompiani, 1969, pp. 101-106.
100
Su Bonhoeffer educatore
perdere la coscienza del soggetto e la sua indispensabile unità in continua (auto)formazione9.
In secondo luogo, ma appare inutile sottolinearlo,
proprio perché il pastore di Breslavia si è adoperato,
con semplicità ed eroismo, durante il gelo disumano
del nazionalsocialismo tedesco, per plasmare coscienze
di cittadini e di pastori10 fedeli alla parola di Dio e ad
una legge dell’uomo non deformata dai tarli della disumanizzazione. Dunque, il lato educante della sua attività
è intimamente intrinseco alla sua opera di professore e di
persona partecipe e consapevole della vita della comunità religiosa e, forse e ancor più, della pólis tedesca affacciata sull’orlo dell’abisso.
Ma di quale uomo parlava Bonhoeffer? E che tipo
di uomo intendeva fare di sé e, costruendo sé, aiutare
gli altri ad edificarsi?11
9
Per le vicende concernenti le derive semantiche del concetto di
educazione, cfr. F. Mattei, «Una testa ben fatta. E le mani? Note sul
concetto di formazione», in Id. (a cura di), La formazione professionale. Scorci storici e problemi aperti, Roma, Anicia, 2012, p. 32 e sgg.
10
Ricordo qui che nel 1933, al momento dell’ascesa di Hitler al
potere, per non sottomettersi supinamente alle prescrizioni “ariane”
imposte dal regime, Bonhoeffer lasciò l’insegnamento all’Università
di Berlino e fu parroco a Londra, fra i tedeschi di quella città. E nel
1935, per preservare l’integrità e la genuinità del messaggio cristiano,
accettò la conduzione di un seminario a Finkenwalde, chiuso nel 1937
per volere di Himmler. Nel 1939, nell’imminenza della guerra, si trovava invece in America, ma fece ritorno in Germania, dove si dedicò
alla resistenza attiva contro Hitler. E così prese anch’egli parte a quei
gruppi resistenziali di matrice cristiana che cercarono di salvaguardare
l’onore della Germania e, insieme, il cuore del messaggio evangelico
di uguaglianza, responsabilità, rispetto della vita. Tra essi furono attivi
il vescovo di Münster, von Galen, e i giovani universitari di Monaco
della «Rosa bianca», il cui motto era «Etsi omnes, ego non».
11
Lontano dalla severa condanna hegeliana sull’edificazione (e
sul dover-essere), Bonhoeffer era certamente più vicino, sul tema, alla
lezione kierkegaardiana, e ne dette continua testimonianza.
101
Francesco Mattei
2. L’ánthropos téleios
Come ricordato in epigrafe, in Resistenza e resa
Bonhoeffer annota seccamente: «Ciò che conta per la
Bibbia è sempre l’ánthropos téleios, l’uomo intero».
Ed è lo stesso “uomo intero” attorno a cui da sempre
ruota l’interesse e l’intenzionalità dell’educazione. Anche di quella educazione, oggi non raramente sfibrata,12
che continuamente si affanna a sezionare e parcellizzare il soggetto nelle sue infinite, astratte e disseccate
dimensioni. Con il rischio, non sempre e non solo teorico, di perdere l’unità e la centralità di decisione (etica) del soggetto e la sua personale e ineludibile haecceitas. Naturalmente, il contesto bonhoefferiano è, nel
caso, di matrice strettamente scritturale e richiama alla
lettera la lezione di Matteo (5,48)13, di Paolo in Ef 4,13
(e„j ¥ndra tšleion), di Giacomo 1,4 (›rgon tšleion
™cštw, †na Ãte tšleioi kaˆ ÐlÒklhroi).
Tšleioj dice qui (ciò che è) finito, giunto al suo
termine, compiuto. Dunque: perfetto, completo, integro
(l’ebraico tamin, e il greco ÐlÒklhroj usato da Giacomo). In definitiva, che ha realizzato il suo fine. E
tšleioj è allora colui che si dedica a Dio in maniera
esclusiva; colui che vive in modo irreprensibile le istanze espresse nel discorso della montagna (Mt 5-7),
all’interno del quale il termine per la prima volta ricorre
nel Nuovo Testamento. Un contesto diverso, dunque,
da quella “perfezione” (tele…wsij)14 che nella paideia
12
Mi sono soffermato su alcuni aspetti di queste derive odierne
dell’educazione in F. Mattei, Sfibrata paideia. Bulimia della formazione, anoressia dell’educazione, Roma, Anicia, 2009.
13
«Siate dunque perfetti (oân Øme‹j tšleioi) come perfetto è il
Padre vostro che è nei cieli (Ð pat¾r Ømeîn (...) tšleioj» (Mt 5, 48).
14
Cfr. Aristotele, Metafisica, 1021b o, in contesto neotestamentario, Paolo, Eb 7,11 (E„ m n oân tele…wsij…).
102
Su Bonhoeffer educatore
greca trova il suo paradigma nel raggiungimento del
bello e del buono, in quella kalokagathia che connota
l’intera lezione educativa socratico-platonico-aristotelica.
Il contesto neotestamentario, allora, legittima pienamente l’anér téleios (¢n¾r tšleioj) di Bonhoeffer
teologo, pastore ed educatore. Esso risulta un paradigma di lettura del tutto legittimo. Per nulla enfatico. Ed
egli può mostrare ed esibire – avendolo già mostrato in
re, vivendo una vita radicale per Dio e per gli altri – la
sua lontananza dall’anèr dípsychos (¢n¾r d…yucoj) di
cui parla Giacomo (1,8), quel vir duplex animo che affliggeva ed affligge molta dolorante umanità che usa i
“contesti”15 come luoghi di inautenticità, di dicotomizzazione del soggetto, di perdita del senso di sé come
unità responsabilmente de-cidente (la bonhoefferiana
Entscheidung).
Naturalmente, questo sguardo sull’intero e sul perfetto non impedisce a Bonhoeffer di continuare a guardare con molta (e non troppo preoccupata) attenzione alla
parabola nietzscheana. E non gli vieta di interrogarsi con
radicalità e coerenza sulla “grande separazione” denunciata da Nietzsche in Umano, troppo umano e sul
“restringimento” che è stato fatto dell’umano. Perciò torna alla mente la pagina nietzscheana dello Zarathustra
in cui sono espressi, in modo incisivo, i turbamenti per
quella contrazione16. Una tematica, questa, che appare
15
Sul tema del “contesto”, come luogo di inautenticità o di necessaria storicità, Bonhoeffer si sofferma più volte in Sequela, Brescia,
Queriniana, 1997.
16
«Egli (Zarathustra) voleva venire a sapere che cosa fosse accaduto nel frattempo dell’uomo: se fosse diventato più grande o più
piccolo. E una volta, al vedere una fila di case nuove, disse pieno di
meraviglia: ‘Che mai significano queste case? In verità, non fu certo
un’anima grande a erigerle a sua immagine! (...)’. E Zarathustra si
fermò, meditabondo. Infine disse rattristato: ‘Tutto è diventato più
103
Francesco Mattei
coinvolgere in profondità ogni discorso educativo, come scriveva in proposito Edda Ducci:
Esiste, per ognuno che se ne occupi o ne parli, il pericolo,
spesso inavvertito, di lasciar strettire l’umano. (…) Forse non
è paradossale ipotizzare che parlare oggi dell’umano in educazione, come tema specifico, non sia una tautologia e neanche un
pleonasmo17.
È la medesima pre-occupazione, quella per un approccio antropologico limitante, che sembra percorrere
molte delle pagine bonhoefferiane. Il teologo mostra
infatti la sensibilità di chi coglie con grande consapevolezza la complessità che il termine “umano” veicola,
conservando nella sua riflessione un tratto di forte aporeticità che, come la penía dell’amore platonico, origina una ricerca insaziabile.
Appare allora interessante, in Bonhoeffer, in ordine al tema antropologico18 ed educativo, non tanto l’evidenza dei risultati o l’efficacia19 delle soluzioni, ma
la prospettiva ermeneutica e metodologica. Si tratta di
un approccio inusuale, che consente di illuminare, in
parte, la molteplicità degli aspetti impliciti nell’essere
piccolo (…)!’. E sospirò e guardò in lontananza» (F. Nietzsche, Così
parlò Zarathustra, Milano, Mursia, 1974, pp. 147-148).
17
E. Ducci, Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Roma,
Anicia, 1992, p. 10.
18
Non mi soffermo qui sul versante antropologico e sulla concezione dell’umano (in rapporto al mondo e al divino) in Bonhoeffer.
Rinvio, per questo, al già citato studio su Bonhoeffer e soprattutto al
rapporto con Nietzsche e i teologi della secolarizzazione e della demitizzazione. Centrale anche, e non potrebbe essere diversamente, il tema della soggettività. Cfr. F. Mattei, La formazione dell’ánthropos téleios, cit. capp. 2 e 3.
19
Per le semplificazioni educative in fatto di “efficacia” cfr. F.
Mattei, «Sul paradigma dell’efficacia e dell’efficienza», in Id. (a cura
di), Sul paradigma dell’efficacia in educazione, Roma, Anicia, 2012,
pp. 11-50.
104
Su Bonhoeffer educatore
e nel divenire uomo in autenticità e pienezza20. Ed è
questo, forse, che autorizza a leggere in Bonhoeffer un
intento paidetico vero, una Bildung non sterilizzata,
una costruzione pedagogica dell’essere uomo.
3. Bildung, comunità, parresia
In una lezione seminariale del 1932 Bonhoeffer
sostiene con forza questa tesi: l’esistenza che riconosce
come suo fondamento la soggettività, escludendo dunque criteri di riferimento trascendenti, non sarà mai in
grado di portare a compimento le potenzialità dell’umano. E il riferimento è all’etica kantiana: che, proprio
perché così fondata, porta in sé le ragioni del proprio
fallimento21.
Non è il caso di approfondire qui il giudizio, ma
resta sempre fermo, in Bonhoeffer, il radicamento del
soggetto in una trascendenza necessaria. Perciò guarda con sgomento all’ateismo nichilista22 che sta pervadendo la cultura dell’uomo europeo. Un ateismo che
egli nettamente distingue dall’ateismo teologico23 di un
Feuerbach, ad esempio, giacché questi non potrebbe
20
Sulla pienezza dell’umano in Bonhoeffer sarebbe utile soffermarsi, come egli spesso sottolinea. D’altronde, una secolarizzazione non esangue implica necessariamente una diversa considerazione
dell’uomo e del mondo, che non è terra di esilio, ma patria e casa vera. Ricordo qui, per brevità, la famosa pagina sulla “filosofia del sole”, dove il teologo, sull’esempio di Gesù «rivendica per sé e per il Regno di Dio la vita umana tutt’intera e in tutte le sue manifestazioni» (cfr.
Resistenza e resa, cit. p. 415).
21
D. Bonhoeffer, Gli scritti (1928-1944), a cura di M.C. Laurenzi, Brescia, Queriniana, 1974, pp. 233-256.
22
Cfr. Id., Etica, cit., pp. 76-92.
23
Cfr. Ibid., p. 87.
105
Francesco Mattei
mai rinunciare al riferimento alla tradizione religiosa cristiana: da cui eredita aporie, dottrine, linguaggio.
Dunque, un rifiuto radicale del «nulla come Dio»24 e
l’impossibilità di elevare il nulla a categoria teologica,
come scrive chiaramente in Etica: «Es ist Nichts als
Gott». E non manca di coinvolgere, in questo rifiuto,
anche la tecnica, quando essa si costituisce come fine in
sé. Questa, scrive Bonhoeffer, quando «diventa fine a
se stessa, ha una sua anima, ha per simbolo la macchina in cui si concreta la violazione e lo sfruttamento
della natura»25.
Ora, dinanzi all’«abisso del nulla», come si esprime Bonhoeffer26, l’umano perde i suoi tratti individualizzanti, la sua storia e la sua progettualità. E per uscire
da questa spirale nullificante, egli avanza una sua singolare proposta, naturalmente religiosa: «Due cose soltanto possono preservarci dal cadere definitivamente
nell’abisso: il miracolo di un nuovo risveglio della fede, e la potenza che la Bibbia chiama “il resistente”, Ð
katšcwn (2 Tess 2,7), ossia la forza di ordine, dotata di
grande potenza fisica, che ferma coloro che stanno per
gettarsi nell’abisso. Il miracolo è l’atto salvifico di Dio
che interviene dall’alto, da oltre i limiti di ciò che è
storicamente concepibile e probabile»27.
Detto così, sembra difficile pensare che questa
salvezza dall’alto possa trovare posto in chi, come
Bonhoeffer, ha sempre dato ampio spazio al saeculum
24
Ibid., p. 89.
Ibid., p. 83. Interessante, in proposito, ricordare quanto scriveva Heidegger sulla tecnica: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un
ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più
dalla terra» (M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, Parma,
Guanda, 1987, p. 134).
26
Ibid., p. 90.
27
Ibid., p. 91.
25
106
Su Bonhoeffer educatore
e alla storia, alle ragioni delle cose penultime e al radicamento di responsabilità28 nel mondo. Eppure, anche
questo è Bonhoeffer, giacché la “resistenza” di cui egli
parla, è sempre resistenza ancorata alla fede. Parimenti,
la concezione che egli ha dell’esperienza è sempre esperienza legata a questo duplice radicamento. Del resto, per non cadere nell’abisso del non senso e del disvalore, è necessario per lui un intervento «dall’alto, da
oltre i limiti di ciò che è storicamente concepibile e
probabile». Insomma, egli invoca un referente semantico
sempre eccedente la situazione. Così Bonhoeffer pone tale esigenza in Sequela: «Deve essere del tutto chiaro che
la categoria di una situazione non deriva mai dalla situazione stessa»29. E l’uomo “intero”, aggiunge, può sopravvivere solo nutrendosi della relazione con un’ulteriorità in cui poter riconoscere le radici del proprio essere,
una relazione capace di conferire valore al proprio esistere.
In questa prospettiva, assumono particolare rilevanza le precomprensioni esistenziali di ogni individuo (e
qui, anche dell’educatore). Infatti, la scelta per un significato è decisione (Entscheidung) che coinvolge gli assi
semantici dell’interiorità della persona. Non sempre
dichiarati, essi sono però sempre operanti, e l’attività
formativa, per un’esigenza di onestà e di chiarezza, richiede dunque l’esplicitazione dei presupposti di significato che condizionano la proposta stessa. Perciò Bonhoeffer si colloca consapevolmente – senza reticenze e
nel solco della tradizione luterana – all’interno di una
Weltanschauung che scorge il fondamento della realtà
nel Dio cristiano. Ed è così che, prospettando una pos28
Responsabilità deriva da respondeo, una risposta a qualcuno
che interpella. In Bonhoeffer, una risposta a sé e al Dio totalmenteAltro che egli confessa. La stessa radice, del resto, è nel tedesco: Verantwortung.
29
D. Bonhoeffer, Sequela, cit., p. 55.
107
Francesco Mattei
sibile via d’uscita dall’impasse nichilista, il teologo di
Breslavia individua nel «miracolo di un nuovo risveglio della fede» il riferimento di significato alla cui luce comprendere la situazione.
Dalla necessità di esplicitare la Weltanschauung
sottesa ad ogni proposta formativa scaturisce allora il
monito bonhoefferiano: nell’atto educativo non è possibile dicotomizzare tecnica (didattica) e senso antropologico. La tecnica agisce infatti in funzione di un significato (e, soprattutto in educazione, di un modello
di uomo). E dunque, il ritenere che essa possa essere
fine a se stessa rappresenta comunque una scelta di significato: la scelta del nulla di senso.
Il termine educazione non è allora estrinseco in Bonhoeffer. Non è dettato da ragioni di penna di qualche
studioso di cose pedagogiche. Egli si occupa di Bildung in modo specifico, e soprattutto in un momento
particolare della sua vita, quando è chiamato a dirigere
il Predigerseminar di Finkenwalde (ben presto, come
noto, chiuso per volontà di Himmler). Così egli manifesta le sue perplessità e le sue convinzioni, pur pensando a quel periodo della sua vita come al «più pieno
da un punto di vista professionale e umano»30:
La parola formazione suscita i nostri sospetti. Siamo disgustati dai programmi cristiani e anche dalla parola d’ordine
superficiale e sciocca del cosiddetto cristianesimo pratico che
dovrebbe sostituire un preteso cristianesimo dogmatico. (…)
30
La testimonianza è citata in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer: teologo cristiano contemporaneo. Una biografia, Brescia, Queriniana, 1975,
p. 431. Come presente è anche una dettagliata ricostruzione storica (ibid.,
pp. 431-615). Che la speculazione teorica di Bonhoeffer sia poi fortemente legata alla figura di Gesù Cristo, è inutile qui ricordare. Il tema della
kšnwsij di Fil 2,7, dello svuotamento di Dio in Cristo è in lui centrale.
Cfr. F. Mattei, La formazione dell’ánthropos téleios, cit., p. 31 e sgg.
108
Su Bonhoeffer educatore
Bisogna dunque dare al termine formazione un significato
completamente diverso da quello cui siamo stati abituati; infatti
la Sacra Scrittura parla di formazione in un senso che a tutta
prima ci risulta estraneo. Essa non si preoccupa di dare al mondo un certo assetto in base a piani e programmi: per essa in
qualsiasi processo formativo l’unica cosa essenziale è la figura
di colui che ha vinto il mondo, la figura di Gesù Cristo31.
E allora non esita, più tardi, ad individuare nella
chiesa un luogo formativo particolarissimo, giacché la
presenza di Cristo a ciò la vincola.
Formazione significa che Cristo prende forma nella Chiesa
(…). Va detto però (…) (che) essa non può mai arrogarsi un
diritto, un’autorità, una dignità proprie indipendentemente da
Gesù Cristo. La Chiesa non è nient’altro che quella parte di
umanità in cui Cristo ha preso forma (...). Essa non riguarda
pertanto le cosiddette funzioni religiose dell’uomo, ma riguarda l’uomo tutto intero (c.m.) nella sua esistenza terrena e
in tutti i suoi rapporti32.
Anche in questi brevi tratti, dunque, è evidente
che per Bonhoeffer non è pensabile una funzione autonoma, per la chiesa, fuori dal suo rapporto con Cristo.
Nemmeno nella sua veste di chiesa educante. Rescisso
infatti quel rapporto, la chiesa stessa rientra nella logica dell’umano e perde perciò il suo carisma di chiesa
educante (proprio perché “professante”): professante
quella parola che da Cristo ha appreso (il das Christliche). E sarà questo legame, naturalmente, a connotare in
radice il concetto di educazione a cui pensa Bonhoeffer.
Le riflessioni critiche su questa corda, com’è facile intuire, non sono mancate: né allora né oggi. Resta il
fatto, però, che in quella occasione Bonhoeffer ebbe
31
32
D. Bonhoeffer, Etica, cit., p. 69.
Ibid., p. 72.
109
Francesco Mattei
modo di tematizzare in modo esplicito il suo modus
educationis, che così Marlé tratteggia:
Nella casa fraterna di Finkenwalde, Bonhoeffer inaugura con
i suoi allievi una vera vita di comunità, di cui dovrà difendere la legittimità di fronte ai suoi detrattori, che non tarderanno a farsi avanti. Preghiera comune, studio, correzione fraterna ed eventualmente confessione, celebrazione della Cena,
serene passeggiate anche lungo le vicine scogliere: ecco come si
presenta la vita comunitaria a Finkenwalde. Pure l’esperienza
della povertà evangelica ne costituisce un elemento. È un
momento di fervore eccezionale stimolato dalla prospettiva
delle dure prove che attendono i futuri ministri33.
Lo rilevo, ma so che è pleonastico: l’accostamento
bonhoefferiano al tema è dettato dal particolare contesto educativo. Si trova infatti di fronte a giovani che si
preparano all’annuncio della parola ed è dunque naturale, per lui, sottolineare il legame a Cristo,34 la centralità della relazione comunitaria, il sensus Ecclesiae
come esclusivo servizio alla figura di Cristo. Ma se il
contesto è qui educativo-religioso, non si può certo
dimenticare che il colto professore dell’Università di
Berlino35 ha agito, anche politicamente, per tener fede a
quei principi, per lui derivanti dalla sua fisionomia religiosa. E ciò invita a riflettere sull’efficacia dell’edu33
R. Marlé, Dietrich Bonhoeffer, testimone di Gesù Cristo tra i
suoi fratelli, Brescia, Morcelliana, 1968, p. 34.
34
«La fraternità cristiana non è un ideale che noi dobbiamo realizzare, ma una realtà creata da Dio in Cristo, a cui ci è dato di poter partecipare. (…) Il fondamento di ogni realtà pneumatica è la Parola di Dio,
chiara e manifesta in Gesù Cristo. Il fondamento di ogni realtà psichica è
l’oscurità impenetrabile degli impulsi e dei desideri dell’animo umano.
Il fondamento della comunione spirituale è la verità, il fondamento della
comunione psichica è la brama» (D. Bonhoeffer, Vita comune. Il libro di
preghiera della Bibbia, Brescia, Queriniana, 1991, p. 25).
35
Nell’agosto del 1936 la polizia, sempre guardinga sull’operato
di Bonhoeffer, gli revocò la facoltà di insegnamento.
110
Su Bonhoeffer educatore
cazione da lui ricevuta e sul suo essere egli stesso educatore. Del resto, non mancano riferimenti espliciti, ma
sempre interni alla vita e alla natura dell’essere chiesa,
nei testi che andava allora elaborando: Vita comune,
Sequela e L’essenza della chiesa36.
Accenno soltanto, en passant, che l’aspetto che sta
maggiormente a cuore a Bonhoeffer, anche in questo
contesto, è proprio la relazionalità, l’altro come fonte
di certezza (il für-andere-dasein cristologico di Resistenza e resa). E dunque, soltanto la vita ecclesiale, l’essere fratello per l’altro, garantisce dal solipsismo e dall’inganno della solitudine e radica il soggetto nella
storicità. Il rapporto con il fratello è perciò, di per sé,
formativo, poiché questi, essendo l’altro di cui non si
può disporre, rappresenta e garantisce l’origine della
Parola di Dio (come proveniente dal di fuori dell’extra
se), divenendo così portatore obiettivo di un senso non
prodotto dall’io stesso e da questo im-producibile.
Dio ha voluto che cerchiamo e che troviamo la sua Parola viva
nella testimonianza del fratello, in bocca a uomini. Per questo il
cristiano ha bisogno di altri cristiani che dicano a lui la Parola di
Dio; da solo infatti non può cavarsela senza ingannare se stesso
sulla verità (…). Il Cristo del mio cuore è più debole del Cristo
della parola del fratello; il primo è incerto, il secondo è certo.
Quindi è chiaro lo scopo della comunione dei cristiani: essi si incontrano gli uni gli altri come latori del messaggio di salvezza37.
Dunque, relazione con Cristo, relazionalità con i
fratelli, ascolto della Parola di Cristo da parte della chiesa
confessante ed educante. E in questo contesto strettamente “seminariale” si articola la riflessione di Bonhoeffer sulla formazione. Non dimenticando, vista la conse36
D. Bonhoeffer, L’essenza della chiesa (1971), Brescia, Queriniana, 1977.
37
Id., Vita comune, cit., p. 19.
111
Francesco Mattei
quenzialità della concretezza operativa di Bonhoeffer, la
ricaduta di queste posizioni sulla reale effettualità storica.
Ma voglio aggiungere un ulteriore elemento, da Bonhoeffer offerto sul finire della sua parabola esistenziale e
che può essere iscritto nella tradizione greca e stoicocristiana38 della parresia, del dire la verità a fronte alta.
Si tratta di un frammento breve presente negli scritti
dal carcere39. A metà novembre del 1943, Bonhoeffer
rende noto ad un amico che sta lavorando ad uno studio
intitolato «Was heißt: die Wahrheit sagen?»40. Purtroppo, nonostante i successivi ripensamenti, modifiche,
completamenti, documentati nelle lettere del 27 novembre41 e del 15 dicembre 194342, il testo è rimasto
incompiuto, e non conclude il lavoro teorico sul significato del «dire la verità».
Benché da un punto di vista materiale la redazione
risulti interrotta, lo scritto ne delinea però con chiarezza la tematica, e fornisce un articolato approfondimento della questione. E il breve saggio appare certamente
significativo per l’indagine sull’impostazione concettuale della Bildung bonhoefferiana. Infatti, per un verso l’argomento del «dire la verità», a differenza ad esempio dell’interrogativo teoretico su «che cos’è la
verità», risulta essere una problematica squisitamente
pedagogica (nota Bonhoeffer: «(…) bisogna imparare
a dire la verità»43). Per altro verso, poi, il tema permet38
Per il suo uso in contesto greco, cfr. M. Foucault, Discorso e
verità nella Grecia antica (1985), Roma, Donzelli, 1996; il termine
parrhs…a è anche ricorrente in Epitteto e molto frequente nei testi
neotestamentari, soprattutto in Giovanni e Paolo.
39
Bethge lo ha collocato come «V Appendice» a Etica: D. Bonhoeffer, Etica, cit., pp. 307-314.
40
Cfr. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, cit., p. 195.
41
Ibid., pp. 211-212.
42
Ibid., p. 232.
43
Id., Etica, cit., p. 308 (c. m.).
112
Su Bonhoeffer educatore
te di riflettere su un’applicazione concreta della prospettiva dell’autore.
Gli elementi centrali della questione sono già espressi nelle lettere coeve alla stesura del frammento.
Dire la verità, afferma infatti Bonhoeffer nella lettera di
fine novembre, significa dire «come una cosa è in realtà;
ossia rispettare il mistero, la fiducia, il velo. Il tradimento, per esempio, non è la verità, come non lo è la frivolezza, il cinismo (…). Ciò che è nascosto non deve essere rivelato che nella confessione cioè davanti a Dio»44.
Nella lettera del 15 dicembre, invece, più che al
motivo del non tradire la fedeltà, emerge il criterio della dignità dell’uomo, per cui non è opportuno rivelare
sentimenti decettivi, come la paura o la sessualità, in
forme invadenti. «Io faccio risaltare – scrive – il senso
della fiducia, della fedeltà, del mistero, in contrapposizione alla nozione cinica di verità, per la quale non esiste alcuno di questi valori»45. E così vengono abbozzate le coordinate ermeneutiche del dire il vero: il
mistero, la fiducia, la fedeltà, il rifiuto della frivolezza
e del cinismo. Il primo aspetto implica un orizzonte di
significato più ampio della circostanza stessa; il secondo e il terzo una dimensione interpersonale; il quarto
un’attenzione alla circostanza concreta. Ma che cosa
significa dire la verità, se si tratta di opporsi alla veridicità cinica o frivola e di rispettare il mistero, la fedeltà e la fiducia? Il saggio in esame intende rispondere
all’interrogativo. La prima tesi espressa da Bonhoeffer
è che «dire la verità ha significati diversi a seconda
della situazione in cui ci si trova»46.
44
Id., Resistenza e resa, cit., p. 213.
Ibid., 232.
46
Id., Etica, cit., p. 307.
45
113
Francesco Mattei
Di questo asserto il teologo propone una esemplificazione, a partire dalla quale confuta due soluzioni
tradizionali inadeguate. L’esperienza, argomenta Bonhoeffer, mostra che la verità nel linguaggio dei genitori
di fronte ai bambini è diversa dalla verità propria dei
discorsi che i genitori tengono tra loro. Nessuno, comunque, direbbe che la parola di un genitore corrisponde a verità, solo se, senza riguardo alcuno, mette
al corrente il figlio delle intimità dei genitori. Nessuno
chiama infatti menzogna la giusta reticenza.
Come il linguaggio usato tra i genitori e i figli è per natura
diversa da quello tra marito e moglie, tra due amici, tra maestro e scolaro, tra autorità e suddito o tra nemici, così pure la
verità contenuta in quelle parole è molto diversa47.
C’è dunque una verità per ogni linguaggio e una verità per ogni soggetto che parla, in rapporto agli stati e alle condizioni degli interlocutori. È dunque da rifiutare
una visione di verità come adaequatio intellectus ad rem
che, portando ad un automatismo di pensiero e parola, riduca la verità espressa ad una nota astratta del parlare. La
verità, invece, va concepita come «una conoscenza giusta ed una considerazione seria dei dati reali»48.
Il seguace della verità astratta potrebbe obiettare, a
questo punto, che la verità non viene detta agli uomini,
ma a Dio, e che, pertanto, essendo egli principio immobile, eterna ed identica deve essere la verità. A ciò Bonhoeffer controbatte, confutando questa seconda opinione
errata, che Dio non è un «principio generale», ma una
«realtà vivente»49. A conferma della situazionalità della
verità e del nesso profondo tra verità e aderenza alla re47
Ibid., p. 307.
Ibid., p. 308.
49
Ibid., pp. 308-309.
48
114
Su Bonhoeffer educatore
altà, l’autore propone, quindi, un’analisi della persona
cinica, che vuol sempre dire le cose come sono.
Il cinico che pretende ‘dire la verità’ dovunque, sempre a
ciascun uomo in qualsiasi circostanza, non raggiunge se non
un simulacro della verità. Volendosi dare il prestigio di un
fanatico della verità, che non vuole aver riguardi per le debolezze umane, egli finisce per distruggere la verità vivente tra
gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la
fiducia, tradisce la comunità in cui vive50.
Di questa posizione, che Bonhoeffer chiama “satanica”51, e che distrugge la realtà in omaggio alla verità, è
esempio la domanda che un ipotetico maestro rivolge ad
un alunno delle elementari sull’ubriachezza del padre o
su certi vizi della madre. La risposta falsa del bambino
non è menzogna, perché salva la realtà della sua famiglia nei confronti di una irruzione indebita e violenta. La
risposta del fanciullo, in effetti, è più conforme alla realtà e alla verità di quella pretesa dal maestro52.
Il nodo centrale, quindi, pare quello di definire la
realtà perché possa essere norma del dire vero o falso,
evitando il doppio scoglio del relativismo e del machiavellismo, realismo il primo per difetto, il secondo
per eccesso, e in ogni caso realismo mancato. A tale
scopo, Bonhoeffer propone una definizione della menzogna: «Menzogna è contraddire la Parola di Dio, che
egli ha detto in Cristo e sulla quale riposa il creato»53.
50
Ibid., p. 309.
Ibidem.
52
Su questa contestualizzazione della verità, tra ipocrisia e buona
fede, così si esprime Merleau-Ponty: «Il valore dell’uomo non sta né
in una sincerità esplosiva e maniaca, né in una fede senza discussione,
ma nella coscienza superiore che gli permette di valutare il momento
in cui è ragionevole aver fiducia e il momento in cui bisogna discutere, di riunire in se stesso fede e buona fede» (M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 2009, p. 211).
53
D. Bonhoeffer, Etica, cit., p. 312.
51
115
Francesco Mattei
In questo senso, la menzogna è la negazione della realtà, intesa nel suo sgorgare profondo; menzogna è «la
distruzione cosciente e intenzionale della realtà»54.
Osserva con finezza il teologo che non solo la parola, ma anche il silenzio può essere menzogna, negazione della realtà così come è sostenuta dal suo fondamento. Al contrario, la verità è il rispetto, l’annuncio,
l’esecuzione della parola dotata di senso, capace di
fondare la realtà.
Le nostre parole sono destinate ad esprimere, in unione con
la Parola di Dio, la realtà come essa è in Dio e il nostro silenzio deve essere segno del limite che la realtà, così come essa
è in Dio, pone alla parola55.
Vero e falso, caratteristiche sia del linguaggio che
del silenzio, stanno nell’aderenza alla realtà concreta, il
cui significato è svelato da una parola altra rispetto alla
situazione. E così sono delineati i parametri ermeneutici per una valutazione e una educazione alla verità della parola: la completa partecipazione alla concretezza
della realtà storica in fieri, il riferimento ad un significato fondante e disvelantesi nella situazione, la comprensione della propria autonomia nella relazione con gli altri.
Il linguaggio, infatti, è vero nell’autenticità del rapporto,
sempre nuovo e da formare, con la parola altra da sé, con
quella storica del proprio tempo e con le parole delle persone con cui ci si rapporta. Ma un’osservazione non può
essere taciuta: mentre stendeva questo scritto, Bonhoeffer
partecipava alla resistenza tedesca; era stato da poco incarcerato; era a conoscenza di nomi e circostanze; correva il rischio di essere piegato attraverso la tortura e indotto a rivelazioni che, nello sforzo di adeguare essere e
54
55
116
Ibidem.
Ibidem.
Su Bonhoeffer educatore
pensiero, avrebbero rappresentato il tradimento della fedeltà ai propri compagni e alla propria appartenenza ad
una storia in cerca di autenticità. La sua fine ha scritto il
capitolo ultimo della sua parabola e della sua parola. E ne
ha mostrato, fino in fondo e luminosamente, il significato
profondo.
Ciò detto, è difficile stilare bilanci definitivi in un
territorio così mosso e frammentato. Mi limito perciò a
ricordare alcuni aspetti significativi: e per quanto concerne il versante teologico-filosofico e per la sua inevitabile ricaduta sull’orizzonte paidetico e sulla Bildung
del travagliato Novecento. Per un verso, Bonhoeffer si
è cimentato con l’oscurità della ragione, una ragione
indebolita, nella sua clarté, nei confronti di una realtà
mossa da mille contraddizioni e prepotentemente deflagrata. Deflagrata e polverizzata in frammenti di umanità
lontano dai legami di senso e di significato della realtà
umana. Per altro verso, la lezione bonhoefferiana ha
costituito una grande lezione, una pagina bella e ostensibile della vita della fede. Una fede fedele all’uomo e
fedele a Dio. E in ciò, credo, egli ha imposto un silenzio rispettoso e interrogante a quanti hanno martellato
con durezza sulla virtus oppiacea della fede. Perché il
pastore Bonhoeffer, in definitiva, ha vissuto la fede
con chiarezza parresiaca e con rispetto della verità. E
perché, in fondo, è stato testimone (e testimone fedele)
di una Parola ascoltata con semplicità, acutezza, rispetto della parola stessa, senza stravolgimenti interessati e
senza imposizioni ad altri delle proprie convinzioni,
dedicandosi con coerenza, come tutti gli riconoscono,
al compito di testimoniare le sue convinzioni in materia di fede e di ragionata razionalità, tentando di mettere
ordine, dal suo punto di vista religioso, nel mondo. Ed è
questo, credo, il lascito più prezioso del Bonhoeffer pa117
Francesco Mattei
store, teologo, educatore. Un testimone dell’umano integrale e di un Dio rispettoso della libertà dell’uomo e
del saeculum in cui egli si muove. E ha così offerto un
frammento vivo, e ancora prezioso, di quella storia del
Novecento che continua a gettare luci inesplorate anche
in questi primi anni del nuovo e travagliato millennio.
118
Su Bonhoeffer educatore
Riferimenti bibliografici
Scritti di Dietrich Bonhoeffer
a. Opere pubblicate dall’autore
Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della
Chiesa (1930), a cura di A. Gallas, Brescia, Queriniana, 1994.
Atto ed essere. Filosofia trascendentale ed ontologia nella teologia sistematica (1931), a cura di A. Gallas, C. Danna, Brescia,
Queriniana, 1993.
Creazione e caduta. Interpretazione teologica di Gn 1-3 (1933), a cura di A. Gallas, M. Rüter, I. Tödt, Brescia, Queriniana, 1992.
Sequela (1937), a cura di A. Gallas, M. Kuske, I. Tödt, Brescia,
Queriniana, 1997, 2004.
Vita comune. Il libro di preghiera della Bibbia (1939), Brescia,
Queriniana, 1991.
Pregare i salmi con Cristo (1940), Brescia, Queriniana, 1969.
b. Testi postumi
Etica (1949), Milano, Bompiani, 1969.
Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere (1951), Paoline, Milano, 1989.
L’ora della tentazione (1953), Brescia, Queriniana, 1968.
Cristologia (1960), Brescia, Queriniana, 1990.
L'essenza della chiesa (1971), Brescia, Queriniana, 1977.
Gesammelte Schriften, a cura di E. Betghe, Kaiser, München,
1958-1974, 6 voll.; trad. it. di alcuni scritti in Id., Gli scritti
(1928-1944), a cura di M.C. Laurenzi, Brescia, Queriniana,
1979; altri brani scelti dalla Comunità di Bose sono pubblicati in
Id., Memoria e fedeltà, Magnano, Qiquaion, 1995.
Id., - von Wedemeyer, M., Lettere alla fidanzata Cella 92. Dietrich
Bonhoeffer Maria von Wedemeyer (1992), Brescia, Queriniana,
1994.
119
τοσόνδε μέντοι αὐτῶν δέομαι·τοὺς ὑεῖς μου,
ἐπειδὰν ἡβήσωσι, τιμωρήσασθε, ὦ ἄνδρες,
ταὐτὰ ταῦτα λυποῦντες ἅπερ ἐγὼ ὑμᾶς
ἐλύπουν, ἐὰν ὑμῖν δοκῶσιν ἢ χρημάτων ἢ
ἄλλου του πρότερον ἐπιμελεῖσθαι ἢ ἀρετῆς, καὶ
ἐὰν δοκῶσί τι εἶναι μηδὲν ὄντες, ὀνειδίζετε
αὐτοῖς ὥσπερ ἐγὼ ὑμῖν, ὅτι οὐκ ἐπιμελοῦνται
ὧν δεῖ, καὶ οἴονταί τι εἶναι ὄντες οὐδενὸς ἄξιοι.
καὶ ἐὰν ταῦτα ποιῆτε, δίκαια πεπονθὼς ἐγὼ
ἔσομαι ὑφ᾽ ὑμῶν αὐτός τε καὶ οἱ ὑεῖς. ἀλλὰ γὰρ
ἤδη ὥρα ἀπιέναι, ἐμοὶ μὲν ἀποθανουμένῳ, ὑμῖν
δὲ βιωσομένοις·ὁπότεροι δὲ ἡμῶν ἔρχονται ἐπὶ
ἄμεινον πρᾶγμα, ἄδηλον παντὶ πλὴν ἢ τῷ θεῷ.
[Ἀπολογία Σωκράτους, 41e-42a, ed. J. Burnet,
1903].
Abstracts
Editoriale
Post-scientific Education
In the second half of the past millennium, scientific rationality in
educational knowledge was a reference model. Now it has to deal
with the return of pre-Comenius attitudes focusing on short-term
changes, on the search for procedural expedients to solve difficulties that cannot be interpreted – or that it is better not to interpret
because they could reveal the paucity of the reference culture.
When pedagogy is unable to demonstrate, it is a post-scientific
pedagogy nurtured by the halo effects deriving from other domains
of social life; a post-scientific pedagogy that has given up the
autonomous formulation of its aims and has finally accepted to
play a subordinate role in the development of culture and society.
Keywords: educational models, common sense, scientific rationality, Comenius, the crisis of Education.
La pedagogía post-científica
La racionalidad científica en la educación, que sirvió como
modelo de referencia en la segunda mitad del pasado milenio,
vuelve a las actitudes precomenianas, en las que prevalece la
atención a los cambios a corto plazo y la búsqueda de expedientes
procesales para resolver dificultades que no se pueden interpretar o que es mejor no interpretar, ya que podrían revelar la escasez de
la cultura de referencia. Cuando la pedagogía no puede demostrar
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 1 (2013), pp. 121-126.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Abstracts
lo que afirma, es una pedagogía post-científica, alimentada por los
efectos de halo que se derivan de otros ámbitos de la vida social;
una pedagogía post-científica que ha renunciado a la formulación
autónoma de sus objetivos y, finalmente, ha aceptado jugar un
papel subordinado en el desarrollo de la cultura y la sociedad.
Palabras clave: modelos pedagógicos, sentido común, racionalidad
científica, Comenius, crisis en la educación
Gabriella Agrusti
Peer review: the origins of the procedure
The article provides an overview of the origins and developments of
the peer review process, identifying, in its assumptions and early
applications, possible hints for a clearer understanding of what the
process is today. Even if sometimes perceived as an attempt to obstruct new cognitive paradigms, peer reviewing represents an effective mechanism for controlled dissemination and shared construction of innovative knowledge, focusing on methodological aspects
in order to promote transparent and replicable results.
Keywords: peer review, history, Philosophical Transactions,
Mémoires, criticisms, procedures.
Peer review: los orígenes del procedimiento
El artículo ofrece una visión general de los orígenes y el desarrollo
del proceso de la revisión por pares, e identifica las posibles
sugerencias en los supuestos y primeras aplicaciones para una mejor
comprensión del proceso actual. Aunque a veces se percibe como la
materialización del deseo de evitar nuevos paradigmas cognitivos, la
revisión es un mecanismo eficaz para la difusión de la construcción
controlada y compartida de conocimientos innovadores, prestando
especial atención a los aspectos metodológicos, con el fin de
promover resultados transparentes y replicables.
Palabras clave: peer review, historia, Philosophical Transactions,
Mémoires, críticas, procedimientos.
122
Abstracts
Cristiano Casalini, Luana Salvarani
Rome 1566.
Jesuit colleges at the origins of Baroque theatre
The Jesuit taste for Baroque theatre appeared as early as their colleges were sprouting up all over the world. The origins of Jesuit
school theatre have usually been dated back to 1566, when a Saul
was performed at Collegium Germanicum. Extant manuscripts
prove that this play was authored by Miguel Venegas, the celebrated Coimbra College Jesuit playwright, and that Jesuit playwriting tradition was inherited by Francesco Benci, the beloved pupil
of Marc-Antoine Muret, who taught at la Sapienza, and by Bernardino Stefonio, Benci’s pupil. This paper aims at retracing this
tradition, showing the genealogy that runs from Collège de
Guyenne through Coimbra to Rome and further to Baroque tragedy.
Keywords: Miguel Venegas, Marc-Antoine Muret, Jesuit education, Baroque theatre, Collegium Germanicum.
Roma 1566.
Los colegios de la Compañía en los orígenes del teatro barroco.
El gusto por el teatro barroco jesuita apareció desde el momento
en que los colegios jesuitas comenzaron a extenderse en el mundo.
Los orígenes del teatro de el colegio jesuita se fija normalmente a
1566, cuando Saúl estuvo representada en el Collegium.
Germanicum. Fuentes manuscritas demuestran que este trabajo fue
ejecutado por Miguel Venegas, el famoso dramaturgo del colegio
de los jesuitas de Coimbra, y esta tradición teatral fue heredado
por el jesuita Francesco Benci, el discípulo favorito de MarcAntoine Muret, que enseñó en la Sapienza, y Bernardino Stefonio,
discípulo de Benci. En este artículo se propone de investigar esta
tradición, que muestra la genealogía entre el Collège de Guyenne,
a través de Coimbra, em orígene Roma y en la tragedia barroca
posterior.
Palabras clave: Miguel Venegas, Marc-Antoine Muret, la
educación jesuita , teatro barroco, Collegium Germanicum.
123
Abstracts
Cosimo Costa
Martin Buber: teaching in Tales of the Hasidim
Even if Martin Buber was an author with many scientific interests,
he never neglected, in his search for theological wisdom on the
great traditions of Judaism, the educational side. This article tries
to interpret, starting from these assumptions, the nature of the
teacher-pupil relationship, the power of the dialogic relationship,
the conditioning of that perspective in the living reality of the act
of teaching.
Keywords: Martin Buber, Hasidim, dialogue, education, teaching.
Martin Buber: la enseñanza en los Cuentos jasídicos
Martin Buber fue autor de muchos textos científicos, pero nunca
olvidó el aspecto educativo, en su búsqueda de la sabiduría
teológica en las grandes tradiciones del judaísmo. Intenta volver a
leer a la luz de estas enseñanzas, la naturaleza de la relación
profesor-alumno, el poder de la relación dialógica, el condicionamiento desde la perspectiva de la realidad concreta en el acto de
enseñar.
Palabras clave: Martin Buber, Hasidim, el diálogo, la educación,
la enseñanza.
Maria Cristina Leuzzi
Traces of a subversive life.
Franco and Piero Calamandrei
Adolescent crisis is a phenomenon that even the most attentive
parents have to deal with. The opposition between the young and
the elderly, where whatever is new is interpreted by the latter as an
excess, belongs to the very nature of the growing process. The relationship between Franco and his father Piero Calamandrei makes
no exception. In the forties of the twentieth century, Franco’s life
choices conflicted with his father’s mentality and education. Piero
represents a traditional model, a strict and authoritarian father who
is unable to “see” his child as different from him.
124
Abstracts
Keywords: Franco Calamandrei, Piero Calamandrei, paternal
model, family patterns, sentimental education.
Las huellas de la vida subversiva.
Franco y Piero Calamandrei
Incluso los padres más atentos no pueden evitar las crisis de sus
hijos adolescentes. Está en la “naturaleza” del nuevo joven la
representación de una oposición creciente que al viejo le parece un
exceso. No es una excepción la relación entre Franco y su padre
Piero Calamandrei. En los años cuarenta del siglo XX, las
opciones de vida de Franco chocan amargamente con la
mentalidad y la formación de su padre. Piero parece representar el
modelo de padre antiguo, tradicional, rígido, autoritario que no
puede “ver” a su hijo como distinto a él.
Palabras clave: Franco Calamandrei, Piero Calamandrei, modelo
paternal, los modelos familiares, la educación sentimental.
Francesco Mattei
About Bonhoeffer as educator
Bonhoeffer’s short life can be interpreted in many ways. In this article Bonhoeffer is intended as a model of educator, examining
also his own educational process. The main themes that this German minister tried to build in his ánthropos téleios model are also
presented, especially during his tenure at the Predigerseminar of
Finkenwalde and in his later writings from prison, where he highlights the concept of parrhesia and of “telling the truth”.
Keywords: education, parrhesia, witness, responsibility, ánthropos
téleios.
Acerca de Bonhoeffer educador
La corta vida de Bonhoeffer ofrece muchos puntos de vista.
Bonhoeffer se presenta como modelo de educador, examinando los
procesos de su propia educación. También trata de identificar
algunas cuestiones que le permitieron construir su modelo de
hombre perfecto, especialmente durante su permanencia en el
Predigerseminar de Finkenwalde y en sus últimos escritos desde
125
Abstracts
la cárcel, donde destaca el concepto de parresía y “decir la
verdad”.
Palabras clave: educación, parrhesia, testigo, responsabilidad,
ánthropos téleios.
126
Indice
Editoriale
La pedagogia post-scientifica
Peer review: alle origini di una procedura
Gabriella Agrusti
1
11
Roma 1566.
I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco
Cristiano Casalini, Luana Salvarani
29
Martin Buber: l’insegnamento ne I racconti
dei Chassidim
Cosimo Costa
53
Tracce di vita sovversiva.
Franco e Piero Calamandrei
Maria Cristina Leuzzi
75
Su Bonhoeffer educatore
Francesco Mattei
Abstracts
95
121
127
Finito di stampare
nel mese di giugno 2013
per conto di Editoriale Anicia
da Finsol S.r.l. - www.finsol.it
EDIZIONI ANICIA
Collana Teoria e storia dell’educazione
138. M. de MONTAIGNE, L’Educazione. Essais 25-29, trad. di Girolamo Canini (1633), a cura di C. Casalini e L. Salvarani
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