Dicono di voler cambiare il mondo. Ma hanno davvero qualcosa da

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Dicono di voler cambiare il mondo. Ma hanno davvero qualcosa da
Marò Svelato
il tranello
fotografia Tano D'Amico,
il mio sguardo sulla storia
settimanale left avvenimenti
poste italiane spa - SPED. abb.
Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l.
27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA
1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN
1594-123X
politica Col fiato
sul Colle
avvenimenti
N. 14 | 13 aprile
2013 left +
l’unità 2 euro
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da vendersi
obbligatoriamente insieme
al numero di sabato
13 aprile de l’Unità.
Nei giorni successivi
euro 0,80+il prezzo
del quotidiano
intellettualE
a chi
Dicono di voler cambiare il mondo.
Ma hanno davvero qualcosa da dire
agli italiani e alla politica?
di F. Barone, M. Bonaccorsi, F. La Porta, S. Maggiorelli
la settimanaccia
2
left.it
13 aprile 2013
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left.it
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DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
left 13 aprile 2013
la nota di
Manuele Bonaccorsi
L’informazione
a doppia velocità
A
vete mai passato un pomeriggio in compagnia di un’agenzia stampa? Una giornata premendo
il tasto refresh su Repubblica.it? Una
nottata in attesa che si aprano le porte di un vertice politico? A noi, che di
mestiere facciamo i giornalisti, capita spesso e vi garantiamo che è un duro lavoro. Alla fine si va a letto con un
cerchio alla testa, pieni di informazioni, ma con le idee confuse. Chiedendosi che senso ha il proprio lavoro. Non
parliamo, poi, di cosa succede in questi periodi di babele politica: il rincorrersi di dichiarazioni, smentite, retroscena, distinguo diventa una catena
di montaggio a pieno ritmo, un Tempi
moderni dell’industria dell’informazione. Senza moralismi: funziona così,
e probabilmente ciò è un bene. Ma noi,
che fabbrichiamo un settimanale, che
andiamo in stampa a metà della settimana per allietare con le nostre notizie
il vostro weekend, quel torpedone di
notizie abbiamo deciso di non seguirlo. La nostra scelta è netta: vogliamo
un’informazione lenta, profonda. Vogliamo offrirvi l’occasione di staccare
per un po’ il cavo di rete e fermarvi a ragionare. È il senso che vogliamo dare
al nostro modo di fare informazione.
Non siamo luddisti, sia chiaro. Né
quelli che, tra un tweet e l’altro, snobbano e maledicono la Rete. Il mondo
delle breaking news è senz’altro la
moderna frontiera dell’informazione. Noi non vogliamo restarne fuori.
Per questo, stiamo lavorando da qual-
che mese a un nuovo progetto di informazione digitale, che siamo certi vi stupirà per modernità e completezza, ma su cui per ora preferiamo
mantenere un certo riserbo. Anche
per non rovinare l’effetto sorpresa.
In attesa che arrivi l’armaggeddon
della carta stampata - quell’ultima copia del New York Times che da anni
fa perdere le notti a tecnici e studiosi
dell’informazione - alla carta abbiamo
deciso di dare un altro senso. Vogliamo che il nostro giornale sia un gioiello, quasi un oggetto da collezione.
Uno spazio che rifugga dall’attualità
stringente e veloce. Un luogo per fermarsi e riflettere. Se la Rete è il luogo
della velocità, la carta è oggi lo spazio
della lentezza.
Anche per questo non ci siamo spaventati a dedicare questo numero a un tema che secondo i criteri di notiziabilità vingenti - e imposti chissà da chi ha certo scarso appeal. Il rapporto tra
politica e cultura. A partire da un’utile provocazione del nostro critico letterario Filippo La Porta abbiamo indagato la perdita dell’aura degli intellettuali. Il loro difficile rapporto col mondo dei partiti, coi media, col senso comune dominante. Abbiamo chiesto a
intellettuali giovani e anziani di raccontarsi e aiutarci a capire. In un’epoca dove urlare è più facile che pensare,
noi ci fermiamo a pensare. Se ci sarà
da urlare - e ce ne sono validi motivi non ci tireremo certo indietro. Ma preferiamo farlo a ragion veduta.
3
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spigolature
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Restiamo umani, ancora una volta
© lapresse
Sarà in Italia fino al 15 aprile il convoglio Vik Gaza to Italy, dedicato alla memoria di Vittorio Arrigoni (nella foto), l’attivista ucciso il 14 aprile di due anni fa a Gaza. Saranno così i ragazzi palestinesi che ne fanno parte a testimoniare il suo impegno, facendo conoscere quella parte di Gaza fatta di arti figurative, musica, danza, parkour, comunicazione, cinema che sopravvive all’occupazione, alla guerra e al proprio governo. Tutte le iniziative su http://www.freedomflotilla.it/
gli irriducibili del muos
Niscemi, c’è un gran via vai di ruspe e operai nel cantiere dell’impianto satellitare Muos. Lo stop ai lavori stabilito da Crocetta il
29 marzo scorso non è bastato agli americani per interrompere le
attività. Le immagini registrate da un documentarista, insieme ai
fotogrammi ripresi dall’emittente Antenna Sicilia, sono chiare e
mostrano che la costruzione del sistema antiradar prosegue. Ma i
comitati locali non demordono, forti della vittoria ottenuta con la
s.g
revoca delle autorizzazioni al Muos da parte della Regione.
682
Le condanne a
morte eseguite
nel 2012, secondo
i dati di Amnesty
international. Tra i
21 Paesi che hanno
comminato pene
capitali spiccano
Cina, Iran, Iraq,
Arabia Saudita
e Stati Uniti
4
ok
Linux sbarca a Pechino. Il governo cinese ha scelto l’open
source per creare
un proprio software di
riferimento, dicendo
addio a Microsoft.
La prima versione cinese - Ubuntu Kylin - sarà
rilasciata ad aprile.
Libertà o giustizia
I dati sui conti offshore diffusi da Wikileaks fanno gola al governo francese. Il ministro delle Finanze Cazeneuve ha chiesto a Le Monde, partner francese dell’operazione, di consegnare i documenti in suo possesso
«per permettere alla giustizia di fare il suo corso». Secca la risposta del
quotidiano: «A ciascuno il suo ruolo.
Farlo significherebbe attentare alla
libertà stessa di esercitare il nostro
mestiere, in democrazia».
Non è la prima volta che
la accusano di “abuso di
posizione dominante”.
Però Google comincia a
essere recidiva se, come
dicono alla Ue Microsoft
e Nokia, continua
ad approfittare del
“quasi monopolio”
nei sistemi operativi
per smartphone.
ko
13 aprile 2013
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left.it
left.it
sommario
ianno XXV, nuova serie n. 14 / 13 APRILE 2013
copertina
compravendita
Siria
Gli intellettuali si interrogano sul
proprio ruolo nell’era di internet e
dei social network. Da una parte
i pensatori perdono la sacralità
del passato, dall’altra rivendicano la voglia di
cambiare il mondo. E spunta l’intellettuale a
5 stelle, che influenza il “pubblico” dal web.
L’avvocato Bruno Turrà, sodale
dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio, viene citato dal pentito Gaetano Vassallo. Gaia Morace, moglie
del legale, in società nelle aziende del politico,
è nipote di un pregiudicato. Che in passato è
stato ai vertici della camorra partenopea.
Era una meraviglia della Siria.
Oggi Aleppo è prigioniera di
due eserciti che si fronteggiano quartiere per quartiere. Un
cumulo di rovine su cui governano armi
e malattie e dove si resiste come si può,
aspettando la battaglia finale.
intellettualE a chi
14
la settimana
02 La settimanaccia
03 La nota
04 Spigolature
l’incontro
10 Marino: Roma, io ti salverò
di Donatella Coccoli
copertina
14 Gli intellettuali servono ancora?
di Filippo La Porta
15 Sì. Non rinunciamo all’impegno
di Simona Maggiorelli
18 Digito ergo sum
di Filippo Barone
20 Tronti: liberi e schierati
di Manuele Bonaccorsi
società
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26
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Col fiato sul Colle
a cura di redazione interni
De Gregorio, il suo socio e l’ombra dei clan di Nello Trocchia
I boss che stanno fuori
di Corrado De Rosa e Laura Galesi
i soci occulti di de gregorio
28
Aleppo sotto tiro
40
IDEE
di Adriano Prosperi
30 diario della carovana
06 Il taccuino
07 altrapolitica
di Andrea Ranieri
08 la locomotiva
di Sergio Cofferati
09 Ti riconosco
di Francesca Merloni
56 TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
a cura di Arci
di Emanuele Santi
a cura della redazione Interni
a cura della redazione Esteri
31 Calcio Mancino
32 Cose dell’Altritalia
44 newsglobal
58 puntocritico
mondo
34 Marò, eroi per sbaglio
di Matteo Miavaldi
37 Nei guai per conto Terzi
di Cecilia Tosi
40 Aleppo sotto tiro
di Giacomo Cuscunà
RUBRICHE
cinema di Morando Morandini
arte di Simona Maggiorelli
libri di Filippo La Porta
60 bazar
il personaggio, buonvivere,
tendenze, junior
61 in fondo di Bebo Storti
62 appuntamenti
a cura della redazione Cultura
cultura e scienza
48 Tano D’Amico: Belli, sporchi e cattivi
di A. Catania e E. Galgani
52 Viaggio al termine del Sudafrica
di Adriaan van Dis
Chiuso in tipografia il 10 aprile 2013
Foto di copertina: 123rf
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il taccuino
di Adriano Prosperi
il taccuino
La democrazia è morta
Il liberismo economico al servizio di una politica conservatrice ha travolto le difese sociali
che permettevano a un muratore e a una pensionata di condurre una vita normale
U
n filo unisce Margaret Thatcher, scomparsa l’8 aprile, e Romeo Dionisi, muratore disoccupato di Civitanova Marche, sua moglie Maria Sopranzi artigiana in pensione e il
fratello di lei Giuseppe. Non troppo distanti per età né per origini sociali (la Thatcher era figlia di un droghiere), li ha uniti la politica del “thatcherismo”: il liberismo economico al servizio di una politica conservatrice è quello che, dopo aver trionfato contro le dure resistenze sociali inglesi, ha fatto scuola in tutta Europa e ha travolto le difese sociali che permettevano a un muratore e a una pensionata di condurre una vita normale. Naturalmente tra la
responsabilità politica e quella giuridica c’è una differenza sostanziale. Chi ha chiamato in
causa la ministra Elsa Fornero e si è chiesto se è capace di dormire sonni tranquilli ha imboccato la scorciatoia emotiva che, se diventa di massa, porta alle sentenze capitali emesse da “tribunali del popolo” e alle stragi di quei cataclismi che sono state le rivoluzioni sociali del passato. Ma nell’Italia di oggi non si sente nemmeno in lontananza il brontolio sordo
che annuncia la rivoluzione: si avverte invece il senso di una disfatta sociale, di un chiudersi
delle vite nel gelo della solitudine. E questo accade oggi perfino in un piccolo centro di quelle Marche dove la campagna e la città convivono senza scosse e le relazioni di vicinato sono
esperienza quotidiana di condivisione tranquilla di fatti della vita. E invece proprio perché
in quella realtà l’individuo ha ancora una identità sociale a cui tiene e una faccia da mostrare tutti i giorni agli altri, ecco che l’impossibilità di pagare le tasse e l’affitto, l’allontanarsi all’infinito della speranza di poter restituire un giorno i prestiti e ricambiare gli aiuti, lascia aperta alla fine una sola via di uscita: è con la morte che si pagherà la vergogna dell’esser poveri. Quello che colpisce nella vicenda dei tre
marchigiani è proprio il senso di una vergogna schiacciante, il
peso di una barriera di silenzio e di solitudine. è così che giorno
dopo giorno ha preso corpo la scelta di morire. In una famiglia di
anziani l’uomo perde il lavoro e non ha nessuna possibilità di trovarne un altro; non ha pensione e nessuno gliela darà. “Mi prenderanno l’auto?” - si chiedeva angosciata Anna Maria
pensando alla sua vecchia Panda vecchia. I loro debiti non erano quelli impersonali e giganteschi delle banche e delle grandi aziende che lo Stato un giorno o l’altro finisce col cancellare. Erano debiti piccoli ma pesavano come un macigno al collo di chi si sentiva affogare
giorno dopo giorno. In quei debiti si è materializzata nella loro vita una politica finanziaria
decisa a Bruxelles e attuata con tagli ciechi. Quei tagli, quella cancellazione di diritti erano
stati varati da un governo privo di ogni delega popolare, privo anche di potere perché obbligato a eseguire ricette decise altrove. Ma le vittime non potevano più uscire di casa e cercare una istituzione che difendesse il loro diritto alla vita e alla tutela sociale. In questa nostra
Italia non ci sono più né partiti né sindacati che aspettano fuori di casa per dare forza alla richiesta di diritti . La democrazia è morta. Il potere è una realtà senza corpo, una voce che arriva dalla televisione. Rimane solo la carità antica, quella della Chiesa, quella delle persone
caritatevoli: ma questo aumenta la vergogna di chi vuole diritti, non elemosine. Oggi la vergogna loro è finita. Resta a noi cittadini italiani un’altra vergogna: non aver visto ai loro funerali i rappresentanti dello Stato. Dovevano essere lì: ma ancora una volta hanno perso l’occasione di rappresentare il Paese. Dobbiamo essere grati a Laura Boldrini, la presidente della Camera, per aver deciso di andarci. Lei che meno di chiunque altro ha la responsabilità di
quelle morti ha mostrato il coraggio, la semplicità e la dignità umana necessari.
In Italia il potere è una realtà
senza corpo. Rimane solo
la carità antica. Che aumenta
la vergogna di chi vuole
diritti. Non elemosine
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altrapolitica
di Andrea Ranieri
il taccuino
Rappresentare il cambiamento
Il paragone con gli anni 70 non regge più. Il compromesso storico si è materializzato nel Pd,
che però non ha colto il nuovo. L’unica scelta possibile oggi è quella proposta da Bersani
N
on so quanto corrisponda alle intenzioni del Presidente la lettura che molti
organi di informazione e molti politici danno del suo bel discorso in ricordo
di un appassionato e lucido riformista come Gerardo Chiaromonte. Quanto sia trasferibile “il coraggio” che il Pci dimostrò nel permettere il varo del governo Andreotti nel ’76 al “coraggio” che ci vorrebbe oggi per varare un governo di grandi intese col centrodestra. E questo al di là delle diversità di giudizio che allora si diede di
quella svolta. C’era allora una volontà di cambiamento reale, a partire dal superamento della «democrazia bloccata», che maturava all’interno delle due grandi forze politiche che rappresentavano la maggioranza degli italiani, la Dc e il Pci, e alla loro testa due personalità, Berlinguer e Moro, che di questa volontà si fecero coraggiosamente interpreti. Uno dei due quel coraggio lo pagò con la vita. È difficile
scorgere nelle attuali forze in campo qualcosa che possa dare quel carattere “storico” alle grandi intese di oggi. In particolare che sia leggibile nei due dei tre grandi blocchi in cui si divide il Parlamento e l’elettorato qualcosa che abbia a che fare con le due grandi culture - il popolarismo cattolico, il comunismo costituzionale
italiano - che diedero vita a quelle intese. I morotei di oggi e i berlingueriani di oggi
- e anche i riformisti non proprio berlingueriani che furono parte attiva di quel “coraggio” - sono tutti nel Pd. E sono il 30 per cento del Paese. Il “compromesso storico” si è materializzato in un partito a vocazione maggioritaria che non riesce a essere maggioranza. Questo dovrebbe far
riflettere casomai sui limiti di fondo del Pd, che è proprio quello di
essersi limitato alla sintesi fra culture storiche diverse e di non aver
colto il nuovo che sul terreno economico, sociale, culturale rendeva
quelle due culture - un tempo egemoni - una parzialità non più maggioritaria nel Paese. Quello che è cresciuto in questi decenni non è più riconducibile a quelle culture, che impregnavano di sé l’insieme delle organizzazioni di rappresentanza. Abbiamo assistito al crescere impetuoso di un soggettivismo non più
rinchiudibile nelle forme tradizionali di delega, sia nella forma di un individualismo consumista e massificato, irresponsabile rispetto al bene comune, sia in una
crescente voglia di essere protagonisti in prima persona dei cambiamenti, a partire
dal proprio lavoro e dai propri ambiti di vita. Dentro la crisi dello Stato nazione che
era l’alfa e l’omega del riformismo degli anni 70. E al presente non sostituito, e forse non sostituibile, dalla dimensione europea.
La via d’uscita proposta da Bersani - quella cioè di assumere come leva di un cambiamento possibile la volontà di protagonismo che pure in modo confuso e contraddittorio si è espressa nel grillismo - mi pare l’unica scelta “storica” oggi possibile, al di là dei modi in cui si risolverà nel breve l’impasse politico.
Diffido come il Presidente del “fanatismo moralizzatore”. Ma continuo a credere
che l’immoralità sia male peggiore del moralismo, e che se la credibilità della rappresentanza democratica è in crisi è responsabilità, più che dei moralisti, degli
abusi, delle pratiche corruttive, del trattare la cosa pubblica come cosa propria, di
una parte consistente dei rappresentanti. E da cui qualsiasi ipotesi di cambiamento non può che prendere risolutamente le distanze.
Continuo a credere
che l’immoralità
sia un male peggiore
del moralismo
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la locomotiva
di Sergio Cofferati
il taccuino
Un reddito per tutti
L’Italia è l’unico Paese della zona euro assieme a Grecia e Ungheria a non prevedere uno
strumento di contrasto alla povertà. Raccolte oltre 50mila firme per una proposta di legge
L
o scorso giugno, mentre l’attenzione dei più era concentrata su ben altre priorità, è iniziata la campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito. Lunedì prossimo saranno ufficialmente consegnate alle Camere le oltre 50mila firme raccolte in questi mesi, fornendo ai deputati da poco eletti la possibilità di lavorare, con un consenso parlamentare probabilmente diverso rispetto alle legislature precedenti, su un tema di importanza sempre maggiore vista
soprattutto la situazione nella quale versa il nostro Paese. Gli effetti sociali della crisi stanno diventando sempre più acuti e il disagio sociale sta coinvolgendo fasce sempre più ampie della popolazione. I dati sono allarmanti: l’ultimo indice di povertà relativa delle famiglie italiane secondo l’Istat è all’11,1 per cento, i dati Eurostat evidenziano che il 24,5 per cento degli italiani rischia di cadere in povertà. A rendere ancora più
critico il quadro è la progressiva perdita di posti di lavoro e un livello drammatico di disoccupazione giovanile nella totale assenza di ammortizzatori e protezioni sociali.
Se è vero che gli effetti sociali della crisi non hanno una portata nazionale ma sono
diffusi in tutta Europa, bisogna notare la grande differenza negli strumenti di contrasto, sui quali il nostro Paese sconta un ritardo notevole: l’Italia è infatti, insieme a Grecia e Ungheria, l’unico Paese della zona euro a non prevedere nessuna forma nazionale di reddito minimo. Questo è innanzitutto uno strumento indispensabile per contrastare concretamente il fenomeno della povertà, il cui emergere è stato per troppo tempo ignorato e sottovalutato, ma è anche allo stesso tempo un’azione chiave di
quelle politiche di distribuzione della ricchezza indispensabili per ridimensionare differenze sociali crescenti e inaccettabili, consentire un livello minimo di vita dignitosa per tutti i cittadini e, non da ultimo, aumentare la possibilità di spesa di molte famiglie con evidenti benefici per il sostegno alla domanda interna ridotta ormai all’osso. È evidente che il welfare italiano risulta inadeguato ad affrontare la situazione esistente, lasciando senza alcuna protezione una grossa parte di cittadini. Il nostro sistema,
infatti, storicamente costruito attorno al lavoro, non solo lascia oggi
scoperto chi il lavoro non ce l’ha, ma è anche stato progressivamente
indebolito da vent’anni di politiche di destrutturazione di quei diritti
che al lavoro sono connessi. Un welfare moderno ed efficace, piuttosto che teorizzarne il superamento, deve riuscire a combinare questi
diritti con una copertura universalistica che garantisca a tutti una vita dignitosa.
Il reddito minimo non deve essere considerato come una forma di mero aiuto assistenziale, ma deve essere costruito mirando all’inserimento in un mercato del lavoro meno selvaggio e deve trovare la fonte principale del proprio finanziamento nel risparmio dato dal superamento dei tanti piccoli rivoli di una sicurezza sociale frantumata e inefficace. Questa proposta può essere un grosso elemento di discontinuità rispetto al recente passato e darebbe una risposta rapida a problemi drammatici e crescenti. Lo sarà ovviamente se inserita in un progetto di cambiamento di cui un governo si possa far carico. La confusa situazione del momento non ci consente di essere
positivi, ma questa proposta, come diverse altre, sono occasioni concrete per cambiare in meglio il Paese che questo Parlamento non dovrebbe lasciarsi sfuggire.
Un sussidio che non
è un mero aiuto assistenziale ma permette l’inserimento in un
mercato del lavoro
meno selvaggio
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ti riconosco
di Francesca Merloni
il taccuino
Senza dire una parola
Maria, Romeo e Giuseppe se ne sono andati in silenzio e per dignità. Se ne va un intero
Paese con loro. La gente laboriosa e schiva. Quella che ha fatto l’Italia che non c’è più
S
e ne vanno senza dire una parola, senza fare un fiato, se ne
vanno senza rumore, così come hanno vissuto. E senza disturbare e senza parlare hanno tessuto la trama di un Paese che
scompare con loro. Quello dei contadini, degli artigiani, dei muratori e dei fabbri, dei calzolai e dei pescatori. Se ne va chi aspettava
il sabato per andare dalla parrucchiera, chi tirava fuori la macchina dal telone la domenica. L’Italia dei centrini di pizzo e del mobile
bar, della lambretta su cui le femmine siedono dietro e di lato. L’Italia dei paesi che respirano diverso il sabato. Quella dei “vociaroli”,
ossia gli accordatori di organi. E dei “cantamaggio”, che in gruppo
con le fisarmoniche e gli organetti e le chitarre, la sera del 30 aprile
vanno per le case a salutare il mese che arriva, improvvisando stornelli in rima. L’Italia che ha fatto l’Italia che non c’è più. Non posso
non parlare questa settimana di Maria, di Romeo, di Giuseppe, che
vivevano a Civitanova Marche, che se ne sono andati in silenzio e
per dignità. Amo quella terra e quella gente. Anche io vengo da lì.
La fibra dei marchigiani è mia e mi è cara. La riconosco. E vado oltre qualsiasi parola. La sento. E piango. La terra è gentile, ma aspra.
Ci si fa poco. Il paesaggio è di monti azzurri e di lontano mare. Le
colline la notte scintillano del nastro dei paesi illuminati. La gente
è laboriosa e schiva. Abituata ad andarsene, fino a qualche decennio fa. Abituata a pagare debiti mai contratti. Eppure a fare con poco. Eppure pronta ad aprirsi, a provare, a cominciare. Credo ci sia
qualcosa di profondamente perbene nell’aria, come in molte regioni d’Italia, ma qui espresso con pudore. Forse nemmeno riconosciuto. È così e da sempre. E basta. Ecco il tirarsi
indietro sempre di un passo. Arrivare sì, ma con i
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
fatti. Ecco il senso dei gesti. Ricordo i miei nonni,
e questa siepe, che da tanta parte
tutto quello che mi hanno insegnato, senza dire
dell’ultimo
orizzonte il guardo esclude.
una parola. Ricordo e ritrovo gente abituata a proMa
sedendo
e mirando, interminati
nunciare parole come “composta” e “custodire”.
spazi di là da quella, e sovrumani
Ricordo e ritrovo spesso la carezza ruvida nelsilenzi, e profondissima quiete
la stretta di mani che conoscono bene i segreti e i
io nel pensier mi fingo; ove per poco
tempi della terra. Gente che ha vissuto le stagioil cor non si spaura. E come il vento
ni, sa che esistono e il suono che portano. E ricoodo stormir tra queste piante, io quello
nosco ciò che corre tra le persone, se di questo si
infinito silenzio a questa voce
tratta. Ritrovo gli occhi. Li ho ritrovati, come cervo comparando: e mi sovvien l’eterno,
ti profumi che ci arrivano addosso all’improvviso,
e le morte stagioni, e la presente
dalle foto sui giornali. Li tengo nel cuore. E pree viva e il suon di lei. Così tra questa
go che adesso sia “dolce e chiara la notte e senza
immensità s’annega il pensier mio:
vento”. Che la loro anima sia finalmente spoglia.
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
E la loro pietà sia più perfetta.
[email protected]
Giacomo Leopardi, L’infinito
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l’incontro
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l’incontro
left.it
Roma,
io ti salverò
di Donatella Coccoli
Illustrazione di Alessandro Ferraro
Ignazio Marino. Il chirurgo di fama internazionale, senatore Pd, è il candidato sindaco
per il centrosinistra. Dalla passione per la scienza a quella per la politica, ecco il ritratto di
colui che si propone di far diventare la Capitale «una città dove tutti vorrebbero vivere»
U
n “marziano”, l’ha definito Gianni Alemanno. L’aggettivo è subito piaciuto a
Ignazio Marino, il candidato sindaco di
Roma per il centrosinistra. «Io sono il marziano
che cambierà questa città», ha detto dopo la vittoria alle primarie. Nato a Genova 58 anni fa, chirurgo di fama internazionale, senatore dal 2006
(prima indipendente Ds e poi Pd), presidente della Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, ha ottenuto oltre il 50 per cento
delle preferenze. Formazione cattolica, credente e difensore dei diritti civili, criticato perché
«schiacciato a sinistra», ha sbaragliato avversari più favoriti ai nastri di partenza. Come David
Sassoli, sostenuto da gran parte del Pd romano,
e il veltroniano Paolo Gentiloni, che aveva ricevuto l’endorsement di Matteo Renzi. Adesso l’ex
senatore (si è subito dimesso) se la vedrà con lo
stesso Alemanno, l’imprenditore Alfio Marchini,
il candidato di M5s Marcello De Vito e l’esponente della sinistra radicale Sandro Medici.
«Vorrei una città che tutti invidiano e dove vorremmo far crescere i nostri figli», ha detto Marino. Per
far ripartire la Capitale propone l’arte e l’archeologia, la ricerca e l’innovazione e il settore agroalimentare. I costruttori devono ristrutturare il patrimonio edilizio esistente e inutilizzato, basta consumo di suolo. E ancora: mobilità su ferro, piste ciclabili, discarica di Malagrotta da chiudere. In giorni concitati, mentre ritiene impossibile un governo
«con chi si è reso responsabile del declino morale
ed economico del Paese negli ultimi vent’anni», il
candidato sindaco di Roma si racconta a left.
Professor Marino è riuscito a dormire la notte dopo la vittoria alle primarie?
Sì. E molto bene. Sono abituato a dormire in ogni
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luogo e in ogni momento. Per oltre 25 anni mi sono
dedicato alla chirurgia del trapianto del fegato, un
lavoro complesso, gratificante ma stressante che
spesso si deve eseguire nelle ore notturne. E allora
bisogna cogliere ogni attimo per riposarsi.
E ha fatto anche un bel sogno?
Quella notte ho sognato un bel viaggio in mare, che
amo molto. Quel mare che a Roma c’è, anche se in
tanti lo dimenticano.
Roma, dunque. Dove si è trasferito a 14 anni.
Come ha vissuto l’adolescenza?
Sono arrivato nel 1969, mi sono iscritto al liceo
classico Tasso, poi ho frequentato l’università Cattolica dove mi sono laureato in Medicina e chirurgia per specializzarmi in Chirurgia generale e vascolare. In quegli anni avevo un sogno. All’epoca noi ragazzi eravamo colpiti dai progressi della
tecnologia: il primo trapianto di cuore nel ’67 eseguito da Christian Barnard così come i primi passi
dell’uomo sulla Luna nel ’69. Furono anni di grande
esplosione della conoscenza.
Fu allora che decise di iscriversi a Medicina?
Sì e poiché per temperamento sono impaziente e
amo la sfida, volevo occuparmi di chirurgia dei trapianti. C’erano solo due uomini che si occupavano
di trapianto del fegato, quello più difficile. Erano
considerati dei visionari ma io volevo dedicarmi a
quella chirurgia. Passai alcuni anni al Policlinico
Gemelli, in tempi di particolare intensità (c’era il
terrorismo) in cui mi è accaduto diverse volte, nelle guardie al pronto soccorso, di curare persone
ferite in conflitti a fuoco. Poi andai a Cambridge e a
Pittsburgh, unici centri in Europa e negli Usa dedicati a questa tecnica di trapianto. In seguito ne ho
diretto uno negli Stati Uniti e ne ho fondato un altro in Italia, in Sicilia.
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l’incontro
left.it
Negli anni di piombo che rapporto aveva con
la politica?
Il mio impegno sociale si rivolgeva soprattutto allo scoutismo. Erano anni di grande cambiamento.
Esistevano due associazioni: una era l’Agi, associazione guide italiane, delle ragazze, e l’altra degli scout italiani. Il nostro fu tra i primi gruppi che
si orientarono verso la coeducazione, che all’inizio
non venne accolta molto bene dalla Chiesa e che
poi invece fu uno straordinario successo. Oggi infatti l’associazione si chiama Agesci, associazione
guide e scout italiani. Al di là dello scoutismo, conservo però immagini nitide di certi momenti della storia del nostro Paese. Ricordo che ero nel reparto di Emodialisi del Policlinico Gemelli con pazienti con rene artificiale il giorno in cui, a poche
centinaia di metri da lì, ci fu il rapimento di Moro.
Nel 2006 scelse di candidarsi come indipendente nei Ds. Qual è stata la molla?
È stata una decisione molto contrastata, soprattutto nella mia famiglia (ride) da cui ho avuto allora e
anche adesso zero incoraggiamenti. Quello che mi
ha portato a decidere è il senso della sfida a voler
cambiare le cose. Un’idea che c’è già nel mio lavoro di chirurgo: trapiantare un organo sano al posto
di uno malato. L’idea di cambiare le cose nella nostra società è anche un grande onore. Ricordo come una grande soddisfazione, da senatore insediato da poco, quando nel 2007 riuscii a far votare una
legge che stanziava una somma molto importante, 180 milioni di euro all’anno per dieci anni, per
indennizzare i pazienti vittime di una trasfusione
di sangue infetto da cui avevano contratto malattie come l’epatite C, l’epatite B o addirittura l’Aids.
Oppure l’inchiesta sugli ospedali psichiatrici giudiziari che ha portato alla loro chiusura, di cui proprio adesso verranno definiti i tempi e le modalità.
Non ho alcun timore a dire che sono credente
né che il mio metodo di lavoro è laico
A febbraio è stato eletto senatore e il 18 marzo ha depositato le firme per poter correre per le primarie a sindaco di Roma. Perché
questo cambiamento repentino?
Nessun cambiamento repentino. In realtà quello che è accaduto è legato allo spirito di servizio
che ho avuto sia come chirurgo sia nella mia attività politica. C’era un processo iniziato già durante
la campagna elettorale. Durante quei mesi in mol12
ti mi chiedevano l’impegno alla candidatura a sindaco di Roma. Poi dopo le elezioni, le pressioni sono state davvero più che quotidiane e in tantissimi
mi hanno chiesto di candidarmi. Le firme sono state depositate l’ultimo giorno perché su questa candidatura ho riflettuto tanto.
Per quale motivo?
Mi chiedevo se io fossi una persona adatta, o riconosciuto dai romani adatto, a questo ruolo. Poi alla
fine sono stato richiamato a un senso di responsabilità da tantissimi cittadini e anche da singole autorevoli personalità. Quello è stato l’elemento che
mi ha fatto cedere.
Chi sono le persone molto autorevoli?
Persone non del partito, di cui non voglio dire i nomi così, per riservatezza. Intellettuali. Alcuni, come Stefano Rodotà, con cui ne parlai a lungo, hanno sostenuto il mio nome pubblicamente.
Dietro alla sua candidatura c’è anche Goffredo Bettini, una sorta di deus ex machina, il cui
nome è legato anche alle precedenti amministrazioni di Rutelli e di Veltroni.
Goffredo Bettini è una persona che conosce Roma ed è uno degli uomini, come lei ha detto, che è
stato punto di riferimento di sindaci come Rutelli
e Veltroni. Non ho subìto pressioni da Bettini. Solo
che, quando decisi di candidarmi, ne parlai anche
con lui dal momento che aveva indicato lui stesso
la possibilità di candidarsi.
Lei è consapevole di tutto quello che accade a
Roma, che si potrebbe definire un magma della sinistra in ebollizione?
Le racconto qualcosa che secondo me mi protegge
da quello che lei definisce un “magma”. Nella mia
formazione di chirurgo in sala operatoria ero capace di eliminare completamente dalla mia mente qualunque altro pensiero che non fosse quello
di salvare in quel momento una vita umana. Ora mi
comporto nello stesso modo. Posso sembrare forse un ingenuo ma non ho la più pallida idea di quello che si muove nel mondo delle correnti del parti13 aprile 2013
left
l’incontro
© LaPresse (2)
left.it
to, a Roma o in Italia. Non saprei neanche a chi fare
riferimento se volessi delle informazioni. In questi
anni passati come presidente della commissione
d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale mi sono sempre mosso con estrema indipendenza e libertà di pensiero.
Veniamo ai suoi avversari. Lei teme di più Alfio Marchini o il sindaco uscente Alemanno?
Sono molto interessato a incontrare Alfio Marchini che non conosco personalmente. Non lo temo.
Perché sinceramente non temo nessuno. Penso
che il sindaco in carica abbia certamente una visibilità che lo rende un competitore più importante rispetto ad Alfio Marchini, ma credo che sia anche molto indebolito dalla squadra che lo ha circondato. Il fatto che ci siano stati molti scandali e
di recente addirittura l’arresto del tesoriere della
sua campagna elettorale del 2008, è una ferita molto grave. Comunque è inopportuno che il sindaco,
nel momento in cui lei ed io parliamo, abbia in corso un lungo consiglio comunale - l’ultimo - dedicato a decisioni che potrebbero portare a una nuova cementificazione dell’agro romano. Esattamente l’opposto di quello che prevedo io. Altrettanto
inopportuno che nei prossimi giorni Alemanno voglia disattendere la volontà popolare sull’acqua
pubblica - ricordo che sono stato il primo a difendere il sì al referendum, seguito dal mio partito - e
consegnare la maggioranza nel Consiglio di amministrazione ai privati.
Non c’è ancora una squadra per il Campidoglio anche se lei ha annunciato la novità di
una giunta paritaria, stesso numero di donne e uomini. Cosa risponde a chi sostiene che
non ha molta esperienza da amministratore?
Rispondo che ho diretto istituti per il trapianto
e per la ricerca con un bilancio annuale di alcune centinaia di milioni di euro. Certo, non sono le
stesse somme che deve gestire il sindaco di Roma.
Però se alla fine dell’anno non avessi portato i risultati, l’università americana avrebbe potuto dir-
left 13 aprile 2013
mi «è stato un piacere, ma lei ha sbagliato le proprie scelte» e salutarmi così. Forse mi aiutano anche le origini genovesi (ride). Ogni anno ai bambini in prima elementare veniva regalato un salvadanaio della cassa di Risparmio…
Si dice che l’inquilino del Campidoglio debba
essere gradito Oltretevere. Come vede il suo
rapporto, se sarà sindaco, con il Vaticano?
Le dico qualcosa di non personale e di personale.
Nel primo caso io credo che Roma, oltre all’orgoglio di essere una capitale internazionale, deve essere pienamente consapevole di essere al centro
della cristianità. E i pellegrini devono essere accolti meglio di quanto non abbia fatto Alemanno.
E a livello personale?
A un certo punto della mia vita ho deciso di fare
delle riflessioni anche di carattere etico, medico,
sui diritti delle persone. Ho avuto la fortuna di avere come interlocutore il cardinal Carlo Maria Martini, con cui ho scritto l’anno scorso il libro Credere e conoscere. Sapere che ora è pontefice un gesuita di cui lui aveva una grandissima stima in qualche modo mi fa gioire di questa nuova fase della
storia della Chiesa. Il sindaco di Roma, oltre a essere consapevole che la Capitale è al centro della cristianità, deve però basare il suo lavoro sui principi
di laicità. E sul fatto che la città ospita la comunità
ebraica più antica d’Italia, la moschea più grande
d’Italia e il centro buddista più grande d’Europa.
Insomma Roma è un centro multireligioso, multietnico e multiculturale e così deve essere.
Dove la laicità deve esprimersi al massimo?
Non ho alcun timore a dire che sono un credente
né che il metodo di lavoro di chi governa una città come Roma deve essere improntato alla laicità.
Lei si è definito una persona libera. Ma in concreto cosa significa?
Significa concentrarsi sui problemi, ascoltare
l’opinione di tutti e poi decidere. Non sulla base di
interessi personali né di gruppi o di partiti. Anzi:
adesso il partito che vorrei veder crescere è Roma.
Da sinistra, Ignazio
Marino con una
paziente in una clinica
a Pittsburgh; Roma,
6 aprile all’iniziativa
“Roma in Bici”;
con Nicola Zingaretti
durante
i festeggiamenti per
la vittoria alle regionali
del Lazio; 7 aprile,
si reca con la mamma
a votare alle primarie
del centrosinistra
per il candidato
sindaco di Roma
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copertina
copertina
left.it
Gli
intellettuali
servono
ancora
di Filippo La Porta
?
Si può anche condividere nella sostanza l’appello degli intellettuali su Repubblica rivolto
al M5S, ma temo che riproponga, anche involontariamente,
un modo vecchio di concepire il
ruolo dell’intellettuale e l’idea di
impegno.
A tratti mi sembra perfino sfiorare
un kitsch dell’impegno. La lettera è infatti intitolata,
con qualche improntitudine, Se non ora quando?,
citando il titolo di un romanzo di Primo Levi (già utilizzato da una associazione femminista) che parla
di partigiani ebrei nel 1943, ai quali forse i firmatari pensano di potersi assimilare. Un po’ come Santoro che canta in diretta “Bella ciao”. Ma soprattutto
mi chiedo: perché Grillo avrebbe dovuto stare a sentirli? Su quale autorità si appoggiano? Si sentono i legittimi portavoce del ceto riflessivo, le icone eterne
della sinistra perbene? Non hanno capito che, quasi mezzo secolo dopo Sartre, non è più il tempo degli intellettuali come coscienza critica del Paese? In
uno dei tanti blog sparsi per la Rete mi capita di leggere questo pungente commento (di Claudio Messora): «Che significa “intellettuale”? Dov’è che ci si
laurea in “intellettualità”? La categoria degli intellettuali è tutta italiana. è un’altra casta, con le sue baronie, i suoi intoccabili, quasi sempre schierati, che
mangiano alla tavola dei privilegiati, che vanno alle prime, che scrivono prefazioni, che si invitano reciprocamente ai convegni, che hanno un’interpretazione per ogni cosa, quasi sempre consona al mantenimento del loro status...». Va bene, sarà pure esagerato ma coglie una verità, e ci dà la misura di un
senso comune oggi assai diffuso. Chiediamoci allora, di nuovo: che significa intellettuale?
Ci sono due aspetti della questione. Anzitutto
l’intellettuale come figura pubblica, come opinionista, come voce critica più o meno autorevole nel dibattito pubblico. Generalmente si tratta di un umanista che interviene su questioni relative al costume, all’etica, alle trasformazioni della società. Forse
le ultime grandi incarnazioni di questa figura, nel nostro Paese, sono stati Pasolini e Calvino. L’intellettuale profetico, apocalittico e l’intellettuale scettico, problematico. Dopo di loro è venuto meno qualsiasi status privilegiato dell’intellettuale stesso. A
nessuno viene riconosciuta una autorità aprioristi-
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left
copertina
left.it
ca. Non ci sono più modelli né caste. E in Rete viene
sancito il principio democratico che uno vale uno,
l’opinione di Magris vale quanto quella di un blogger
quindicenne. Per Edward Said l’intellettuale deve
essere un outsider, un amateur o dilettante, senza alcuna aspettativa di potere: un emarginato e in quanto tale capace di rappresentare tutte le marginalità
sociali. In ciò non fa che riprendere una antica, nobile tradizione, che in Occidente associa l’intellettuale al dissidente, a chi è inorganico, non appartenente, eretico: da Montaigne fino a Marcuse. Su questo
mi limito a suggerire ai nostri maitre-à-penser non
una conversione al pauperismo ma un elementare
dovere di trasparenza: ci mostrino più spesso la relazione tra ciò che dicono e ciò che fanno, tra privilegi materiali e scelte etico-politiche.
Poi c’è l’intellettualità diffusa, il cosiddetto “cognitariato”. Se le forze produttive oggi sono soprattutto l’intelligenza, la cultura, l’interazione linguistica (come previsto da Marx nei Grundrisse) tutti, o
quasi, siamo intellettuali, nel senso che in ciascuno
di noi c’è una funzione critica, riflessiva che perfino
il capitalismo intende valorizzare. E allora ci ricolleghiamo al primo punto. Proprio perciò non viene più accettata la posizione dell’intellettuale come
guida morale, dotata di un sapere superiore. Bauman ha registrato il passaggio da intellettuali legislatori (modernità) a intellettuali interpreti (postmodernità), che cioè mettono la loro competenza
professionale al servizio della comunicazione tra
soggetti sovrani (non più solo l’umanista ma il matematico, il biologo, l’ingegnere). Dall’universalismo
al relativismo. Dwight Macdonald però stigmatizzava l’appiattimento cui porta la democrazia sul piano
culturale, la mancanza di discernimento: «La cultura di massa è molto, molto democratica; rifiuta assolutamente di discriminare contro, o tra, qualsiasi cosa o persona». E allora forse, nella frammentazione
del postmoderno, nel relativismo delle opinioni, torna il bisogno di discernimento critico, di una autorità fondata sull’argomentazione, insomma di potenziali “legislatori”. La figura storica dell’intellettuale è
tramontata (con i suoi privilegi e la sua posizione di
rendita), non la funzione dell’intellettuale, legata al
pensiero critico, almeno da Socrate in poi. Potrebbe essere che la figura prossima sarà quella dell’intellettuale-massa dilettante e a suo modo legislatore: restio a firmare appelli, disperso nella folla del
web, ma capace di una visione complessiva e portavoce di qualche marginalità.
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Sì. Non
rinunciamo
all’impegno
di Simona Maggiorelli
Da Montanari a Lagioia. Da Marchesini a Di Consoli. Le voci più
autorevoli della critica letteraria e d’arte della generazione dei
quarantenni tornano a rivendicare il valore del pensiero critico
«L’
unica capacità che ancora oggi dovrebbe contraddistinguere l’intellettuale è il fiuto avanguardistico
per ciò che conta. Ciò richiede virtù tutt’altro che
eroiche: il senso per quel che non va e che potrebbe
andare diversamente; un pizzico di fantasia per progettare alternative, un poco di coraggio un’asserzione forte e provocatoria per un pamphlet». Così scrive Jurgen Habermas ne Il ruolo dell’intellettuale e
la causa dell’Europa (Laterza, 2010). Salvo aggiungere: «Più facile a dirlo che a farlo. E lo è sempre stato». E ancor più difficile è oggi, con il restringersi
degli spazi per un dibattito pubblico di alto livello.
A cominciare dai giornali che offrono sempre meno approfondimento e riflessione critica. Come ci
raccontano in queste pagine alcuni degli intellettuali più autorevoli della generazione intorno ai quarant’anni. Intanto la politica latita e le amministrazioni locali spendono i pochi soldi che hanno a disposizione per eventi che danno un immediato ritorno d’immagine invece di investire in biblioteche
e musei sul territorio. Ma c’è chi non si arrende. E
dagli appelli pubblici, ai circoli di lettura, dalle proposte ad alto tasso di creatività di piccoli editori, alle occupazioni dei teatri, fioriscono le iniziative dal
basso. Ed è un miracolo tutto italiano visto che, come scrive Roberto Ippolito in Ignoranti (Chiarelettere) l’investimento in cultura in Italia è pari allo
0,19 per cento del bilancio pubblico.
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copertina
copertina
Intellettuale
organico
Schierato con una
parte e un partito.
Ma con difficoltà
e tante domande.
Mario Tronti.
Intellettuale
digitale
Poche idee
e urlate.
Claudio Messora
e il mondo grillino.
Intellettuale
star
Un tempo Pasolini, oggi Saviano.
La persona dell’intellettuale è uno
scandalo in sé.
Chiede
un’adesione totale
e convinta.
Intellettuale
pubblicitario
Da Baricco
ad Ammanniti.
Slogan a uso dei
media e vendite
da capogiro.
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Sporcarsi le mani
Non ci sta Tomaso Montanari a svalutare l’impegno
civile che, a suo avviso, dovrebbe procedere di pari
passo al lavoro accademico. Quarantatre anni, docente di storia dell’arte all’Università di Napoli, lo
studioso fiorentino è stato appena nominato da Napolitano commendatore dell’ordine al merito della
Repubblica per il suo impegno in difesa di beni culturali. Promotore dell’adunata di storici dell’arte
che si terrà a L’Aquila il 5 maggio, Montanari interviene nel nostro dibattito sul ruolo degli intellettuali cominciando con una precisazione: «Non credo
che abbia molto senso parlare oggi di “intellettuali”, come categoria astratta. Ha senso, invece, parlare di comunità della conoscenza e della ricerca.
Beninteso, io stesso ho scritto un libro (A cosa serve Michelangelo?, Einaudi 2011, ndr) sul tradimento etico, scientifico e politico della mia comunità,
quella degli storici dell’arte italiani. Ma credo che
chi ha il privilegio di lavorare nella ricerca abbia anche un dovere: far entrare il metodo e, se possibile, anche i risultati della ricerca nel discorso pubblico generale: dobbiamo restituire il più possibile alla comunità civile che ci paga lo stipendio». Un
esempio? «Una delle cause della progressiva rovina del patrimonio storico e artistico della nazione
- spiega Montanari - è proprio l’incapacità degli storici dell’arte di parlare ai cittadini. Ora dobbiamo
chiederci: abbiamo fatto tutto ciò che potevamo
per spiegare «quanti e quali valori si trattava di proteggere», come scrisse Roberto Longhi nel 1944 dopo il bombardamento di Genova? Abbiamo provato ad essere davvero “popolari”, per farci capire dai
cittadini che del patrimonio d’arte sono gli unici padroni? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte
non serva solo agli storici dell’arte? Senza una nuova alfabetizzazione figurativa degli italiani, il patrimonio non si salva, e l’articolo 9 della Costituzione non si applica». Ma c’è anche un altro dovere
che gli intellettuali non possono trascurare secondo Montanari: «Ogni ricercatore è anche, e prima di
tutto, un cittadino. E oggi è il momento in cui ogni
cittadino che ne è capace deve prendere la parola
in pubblico, deve agire in prima persona “politicamente”: il che non vuol dire candidarsi a qualcosa,
ma contribuire a costruire la “polis” con le proprie
idee. Chi fa ricerca lo farà, si spera, condividendo
con gli altri un modo meno conformista di guardare
al mondo. Non perché è un “intellettuale”, ma perché come ricercatore è pagato per cambiare il mon-
do con la conoscenza». Da qui la sua scelta di firmare l’appello di Settis, Bodei e altri? «Quando Barbara Spinelli mi ha chiesto se volessi firmare un appello al Movimento 5 Stelle perché si impegnasse a formare un governo ho detto sì. Io pensavo a un governo a termine guidato da una personalità come Stefano Rodotà, che mi pare ancora l’unica via d’uscita». Paolo Mieli, però, ha detto che voi firmatari eravate degli ingenui. «Certo rispetto a Mieli, lo sono»,
dice Montanari. «Mi chiedo, però, se in un Paese distrutto anche dal cinismo di alcuni squali navigatissimi sia proprio un gran difetto essere ingenuo. Ma
la questione è un’altra. E chiedo a Mieli: per capire
ciò che sarebbe successo alle elezioni era più utile leggere gli editoriali dei principali giornali italiani
o leggere un libro come Azione popolare di Settis?
Chi ha oggi strumenti migliori per capire il Paese?
Dopo di che, ognuno deve fare il suo mestiere, e un
appello non ha l’ambizione di produrre direttamente effetti in politica: ha il fine di spingere al pensiero
critico, di fare “un graffio sulle coscienze”».
La miopia della politica
«D’accordo Settis, Montanari, Rodotà. Difficile non
concordare con quanto propongono», chiosa Nicola Lagioia, scrittore, blogger, conduttore di Radiotre ed editore per conto di Minimum Fax. «Quando
con il sito Minima et Moralia abbiamo proposto
Rodotà come Presidente della Repubblica abbiamo avuto un’infinità di contatti. Ma sono pochissimi gli intellettuali come lui che parlano direttamente a tutti noi». Futuro gramo per gli intellettuali italiani? «Devo dire che sono piuttosto pessimista»,
ammette Lagioia. «Quando gli intellettuali scendono nell’agone pubblico si prestano a farlo secondo i
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copertina
left.it
codici di comunicazione della tv e dei grandi media;
volente o nolente si trovano a parlare il linguaggio
del potere. è successo anche a Cacciari con Sgarbi a Servizio pubblico. Anche se dicevano cose diverse, alla fine il linguaggio era lo stesso, quello della baruffa televisiva. Anch’io quando sono andato
in Tv mi sono accorto che alla fine ero costretto a
parlare la lingua della comunicazione che non ha
niente a che fare con la letteratura e con la cultura,
perché sei costretto a parlare per slogan». E allora
cosa resta? Scrivere la propria opera, fare un blog?
«Sì, anche se in Italia è difficilissimo bucare il cono
d’ombra degli addetti ai lavori». E non dipende solo dagli intellettuali: il problema più grosso in Italia,
dice Lagioia, è la mancanza di interlocutori politici.
«Se non ora quando, il movimento TQ, il Valle occupato c’è stato nell’ultimo anno un bel fermento dal
basso, ma non c’è stata risposta politica». E se allarghiamo lo sguardo vediamo che «in Europa i Paesi
che sul piano dello sviluppo riescono ancora a tenere sono quelli che più hanno investito in cultura
e ricerca. Hanno politici che sono dei veri statisti,
fanno investimenti di lungo periodo, guardando alle generazioni future, non alle prossime elezioni».
Al contrario di quanto accade in Italia. «Da elettore di sinistra noto purtroppo che questi partiti non
sanno neanche dove mettere le mani quando si tratta di scommettere sulla cultura»,
constata Lagioia. «Credono che la
cultura siano i talk show, i programmi tv di Fazio, di Saviano, della Dandini, i pezzi di Scalfari. Ma la cultura è molto più vasta. Non c’è solo
Muti per la musica, non c’è solo Eco
per la letteratura». C’è un distacco
fra intellettuali e politica? «C’è uno iato enorme. I
partiti, Pd compreso, hanno perso del tutto il polso della situazione, si accontentano della spettacolarizzazione. Allora ecco Lidia Ravera alla Regione Lazio e non importa quanto ne sappia di politica locale. Ecco Moretti che alla chiusura della campagna elettorale urla “da lunedì gli italiani non saranno più ostaggio di Berlusconi”. E poi sappiamo
com’è andata...».
Nostalgia del Novecento
Se nell’800 e nel ’900 almeno fino alla Resistenza si
poteva parlare di una élite di intellettuali che erano
riconosciuti come tali da un pubblico, in rapporto a
un’impresa di portata più ampia, che era poi quella
della società in generale, oggi questo patto è venuto meno, come dice il filosofo Rino Genovese nel
suo nuovo libro Il Destino dell’intellettuale (Il Manifesto libri): ora a prevalere sono perlopiù l’esperto e il comunicatore di massa, mentre i meccanismi
dell’industria culturale si fanno sempre più pervasivi e si riduce lo spazio per la dissidenza. Un’analisi su cui in parte sembra concordare anche il più
giovane dei nostri interlocutori, lo scrittore e critico Matteo Marchesini, classe 1979, che in libri come Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012) non nasconde una certa nostalgia per tipi intellettuali come Fortini, come Bianciardi o come
il poeta Noventa. «Gli appelli vanno
anche bene, purché liberi dalla retorica e linguisticamente sorvegliati»,
dice Marchesini. «Ma prima di tutto bisogna capire come si configura
la scena pubblica oggi e cosa significa essere reclutati come intellettuali: dagli anni 50 in poi con la crescita dell’industria culturale significa in primis essere esaltati dal potere mediatico, a prescindere dalla
qualità e consistenza del proprio lavoro intellettuale. Per questo - spiega lo scrittore bolognese - mi è
molto cara la distinzione che faceva Fortini fra funzione intellettuale (che hanno tutti universalmente
dal momento che fanno un lavoro intellettuale) e intellettuale come ruolo, che dà l’idea di un notabilato». Chi sono oggi gli intellettuali di “ruolo”? «Quegli autori che accettano di essere ridotti a divi tv,
quelli che sui giornali fingono di fare critica ma fanno pubblicità editoriale, quelli che ti offrono analisi
da bar appena un po’ più raffinate invece di tentare
una disamina dei meccanismi patologici del merca-
Dai TQ al Valle
occupato. Tante
le iniziative dal
basso. Ma la
politica latita
left 13 aprile 2013
Intellettuale
profeta
Da Cacciari a
Severino. Usano
sempre il verbo
essere all’infinito. Si sentono
contemporanei
di Parmenide e di
Alberto Magno.
Intellettuale
salottiero
Nei salotti tv non
manca mai.
La lista sarebbe
troppo lunga.
Aldo Busi docet.
Intellettuale
tardofuturista
Sgarbi su tutti: il
turpiloquio e le
scazzottata verbale è la sua arma
di guerra.
L’intellettuale
impegnato
Da Settis a Rodotà, fra lavoro
accademico e
impegno civile,
ma senza tessere
di partito.
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copertina
left.it
to editoriale. Più che invenzioni dei media, come i
Baricco o gli Ammanniti - approfondisce Marchesini - mi colpiscono i tipi alla Michele Serra, che mentre denunciano giustamente la corruzione morale
e intellettuale dell’era berlusconiana accettano di
scrivere certe trasmissioni tv e non si preoccupano di questa palese contraddizione. Molti di loro
sono di provenienza marxista e dovrebbero aver
sentito parlare di critica dell’ideologia. Ma non dicono niente sui compromessi del loro lavoro. Se
penso ai tipi alla Fazio e Saviano, poi, mi sembra
davvero che sulla linea di Fortini abbia vinto quella del suo amico e avversario Pasolini, che puntava sulla mitizzazione della propria figura e chiedeva adesione totale o rifiuto. E allora come uscire
da questo impasse? Dedicandosi con impegno al
proprio lavoro di scrittura, torna a dire Marchesini, ma anche ricominciando a incontrarsi fuori da i riflettori. «La letteratura non è spettacolo.
Intanto gli enti pubblici spendono per festival ed
eventi cifre che basterebbero per dieci anni alle
biblioteche di quartiere. Con questo non demo-
Digito
ergo sum
di Filippo Barone
Claudio Messora, intellettuale a 5 stelle, è il simbolo
del pensatore 2.0. Influenzando il pubblico del web
si fa largo nei salotti tv. E a ogni click ci guadagna
Q
uando Beppe Grillo ha nominato Claudio
Messora responsabile della comunicazione
dei parlamentari 5Stelle, le definizioni del personaggio sono state: video blogger, giornalista di inchiesta,
esperto di comunicazione, influencer. Un libero pensatore di successo che si esprime su internet e che
è in grado di influenzare il pubblico del web. Secondo Messora, i nuovi intellettuali 2.0 - quelli emersi
sulla rete e finora bistrattati - si stanno liberando dei
vecchi, una casta interessata a mantenere lo status
quo. Così il maitre-à-penser a 5 stelle si è lanciato
tra le poltrone dei tanto vituperati salotti tv, portando il verbo di Grillo. Ma in cosa consiste il lavoro cul-
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nizzo i festival ma a me piacciono le iniziative in
cui le persone si incontrano a mani nude per parlare di libri. Qui a Bologna l’Associazione dell’elefante, per esempio, organizzava serate di lettura
in cui chiunque poteva proporre un testo, poi lo si
discuteva tutti assieme».
Viva la perdita di aura
«Chi sono, oggi, gli intellettuali? Sono la somma
degli scrittori, architetti, filosofi, musicisti, registi,
artisti, teologi, blogger, giornalisti, storici, docenti
universitari, direttori di istituzioni culturali, antropologi, ecc. cioè la somma di tutti coloro che maneggiano quotidianamente idee, ideologie, pensieri, parole, materiali dell’immaginario, del pensiero, della cultura» dice lo scrittore e critico letterario Andrea Di Consoli. «Dunque - continua - sono
intellettuali tutti coloro che pensano in senso lato,
che lo fanno in maniera sistematica e non episodica». E svolgono il loro lavoro in uno scenario sempre più allargato. «Di fatto il benessere moderno
ha comportato una straordinaria proliferazione
turale di Messora? Il nuovo intellettuale è presente
su internet con numerosi articoli e videointerviste. Il
principale strumento di lavoro è un sito che si chiama Byoblu. L’autoritratto, quello che per ora consegna Messora alla storia, recita: «Le mie posizioni critiche sulle relazioni tra le grandi banche d’affari, la speculazione internazionale e le lobby che
hanno portato al rovesciamento del governo italiano con l’insediamento di Monti hanno suscitato un
acceso dibattito che ha travalicato i limiti della rete e
che è approdato nei salotti televisivi». Per sfogliare
la copiosa produzione di videoinchieste, descritte
come “informazione basata sui fatti”, occorre spostarsi sull’omonima pagina di youtube. Qui si trova
un vasto repertorio di commenti politici dell’autore,
che spaziano dalle ipotesi di complotto globale alla critica dei politici che non distinguono twitter da
facebook. Poi, una sequela di interviste a opinionisti rigorosamente patentati, da Magdi Allam a Paolo Guzzanti. Colloqui infinitamente lunghi e rigorosamente comodi, senza uno straccio di domanda
che possa mettere in difficoltà l’interlocutore: quelle che in gergo si chiamano marchette. Infine, ci si
imbatte nelle inchieste, non proprio sue, visto che
spesso si tratta di collage di video estratti da lavo13 aprile 2013
left
copertina
left.it
ri televisivi altrui, riproposti con commenti dell’autore. Su tutti i servizi trionfa l’icona di Messora in versione “giornalista d’assalto”, armato di telecamera
a spalla. Non mancano vistosi banner pubblicitari:
si va dall’onnipresente Compro oro - triste simbolo
della crisi - ai finti sondaggi online, quelli che con un
click ti rifilano un abbonamento settimanale a messaggi sms dal costo di 5 euro, versione attualizzata
dell’ 1.4.4. denunciato da Beppe Grillo (sic!).
A queste vanno aggiunte le richieste di aiuto al
pubblico: il crowdfunding. Per l’intrepida intervista a Loretta Napoleoni, economista schierata col
M5s, Messora incassa 516 euro, quella all’economista Nino Galloni, ripresa in un convegno, vale 550 euro. Per un’irripetibile scoop, l’intervista al
sindaco 5stelle Federico Pizzarotti, la raccolta raggiunge i 759 euro. Il successo di Messora è nei numeri. Youtube riporta 25 milioni di visualizzazioni,
un’enormità. Ma la maggior parte del pubblico riguarda servizi estratti dalla tv: Berlusconi su Sky,
lo scontro Sgarbi-Barbacetto, poi Santanchè, La
Russa, Di Pietro. Insomma, i numeri della rivoluzione digitale di Messora li fanno i soliti protagonisti della tv. Brutta, sporca e cattiva. Ma sempre
redditizia.
left 13 aprile 2013
Lagioia: « La cultura non ha nulla
a che fare con la tv di Fazio e Saviano»
del proprio lavoro». Ma esiste uno spazio per gli
intellettuali in Italia? «Sì a condizione che non si
abbia in testa il dominante modello del successo mediatico. Gli intellettuali devono immaginare il loro lavoro e il loro impegno come tasselli di
un infinito mosaico che tutti gli intellettuali concorrono a creare. Poi, certo, ci sono quelli che riescono a piazzare cento tasselli, oppure tasselli
bellissimi, e quelli che ne riescono a piazzare pochi, e magari poco cruciali per il disegno. Ma, una
volta accettata fino in fondo questa umiltà e questa solitudine - rifiutando il pessimismo del “non
contiamo nulla”, “la gente non legge”, “i giornali
non ci cercano mai” - io credo che ciascun intellettuale possa fare con dignità e serietà la propria
parte all’interno di un processo culturale che comunque è collettivo, corale».
Claudio Messora,
intellettuale 5 stelle
© SCUDIERI / imagoeconomica
numerica degli intellettuali, perché la principale
caratteristica delle società avanzate è la possibilità, da parte della massa, di abbandonare il lavoro manuale per il lavoro intellettuale». E cosa porta questo ampliamento della cerchia degli intellettuali in Italia? «Comporta orizzontalità, pluralismo, frammentazione, affollamento. Ma perché
dovrebbe essere un male? A mio avviso la perdita
dell’alone ieratico e solenne che un tempo circondava alcuni intellettuali non è affatto da deprecare. Secondo me è un bene che in una società ci sia
ricchezza di punti di vista, di argomenti e discipline, e pluralismo delle idee. Certo, questo comporta l’esperienza della solitudine per quasi tutti
gli intellettuali (a parte per le poche figure superstiti di tipo novecentesco: come Eco, Magris, Saviano, Fo, Asor Rosa). Ecco - rilancia Di Consoli - è bello e liberatorio che ci sia tutta questa ricchezza intellettuale, ma sarebbe un errore, per
invidia o per rancore, far passare l’idea ingenerosa e improduttiva che tutti gli intellettuali hanno lo stesso peso. Cambia in base alla caratura
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copertina
left.it
di Manuele Bonaccorsi
Dai Quaderni
di Gramsci alla Casta
di Rizzo e Stella.
Dall’intellettuale
organico a quello
integrato. Parla
il filosofo Mario Tronti:
«Senza conoscenza
la politica diventa
un mestieraccio»
© Carino / imagoeconomica
Liberi e
schierati
S
e l’epoca degli “intellettuali organici” è ormai finita, di quel mondo antico
Mario Tronti è tra i più illustri testimoni. Lo incontriamo nei corridoi urlanti e affollati del Senato, dove è stato appena eletto, nelle fila del Pd. Teorico marxista, padre nobile dell’operaismo, filosofo politico, in poche parole riassume il senso di 70 anni di storia della nostra cultura politica. Con idee forti, chiare, delineate. Netto
nella difesa del suo mondo e della sua storia. Ma
uno sguardo problematico e critico sul presente.
C’è chi dice: gli intellettuali sono una casta.
Casta è una parola di moda applicabile a piacimento in vari settori. Ma c’è una giustificazione a
questa polemica. C’è una oggettiva perdita di funzione della cultura, che è molto legata alla crisi
della politica. L’Italia nel secondo dopoguerra è
stata un luogo privilegiato nel rapporto tra politica e cultura. Specie nel Pci, in seguito alla scelta
togliattiana di costruire un rapporto organico con
20
gli intellettuali. Dietro c’era una bella tradizione: il
pianeta Gramsci. La tradizione gramsciana aveva
capito ciò che oggi non si intende più: la politica ha
bisogno della cultura, o diventa un mestieriaccio
quotidiano, si impoverisce. E la cultura ha bisogno
della politica o diventa semplice accademia.
L’intellettuale organico di Gramsci, quindi.
Per molti ha un accento negativo: significa
mancanza di libertà e autonomia di giudizio.
L’intellettuale organico è qualcosa di più dell’intellettuale impegnato. Quello organico si impadronisce e assume una missione politica, un’appartenenza. L’elaborazione gramsciana e togliattiana era diversa da quella sovietica, dove si chiamavano gli intellettuali a collaborare alla costruzione socialismo: lì era un impegno che piegava la libertà. È lo zdanovismo, l’idea che il partito dovesse dirigere dall’alto la cultura. In Italia il rapporto
era più mediato. D’altronde non è vero che l’intellettuale che sceglie un’appartenenza diventa me13 aprile 2013
left
copertina
left.it
no libero, se quella scelta è vera, profonda, motivata. Certo, chi si schiera può farlo per opportunismo. Ma è molto più pericoloso non avere appartenenza, perché si diventa buoni per tutto, esposti
alla servitù volontaria. Si perde autonomia.
Lei si ritiene ancora un intellettuale organico?
Mi sono sempre riconosciuto in questa categoria,
ma l’ho declinata in modo diverso. Per il Pci l’intellettuale doveva avere un rapporto col partito. Io
invece mi ritenevo organico al movimento operaio. Questo ampliava la libertà di movimento. Col
Pci non mancarono le frizioni: la nostra posizione,
quella degli operaisti, veniva vista come estremistica. Specie quando cominciammo a fare noi stessi politica, a rivolgerci direttamente alla classe.
Una cosa non ammessa dal partito. Ancora oggi io
ritengo - ed è una scelta di vita - che bisogna essere intellettuali di parte. Al contrario di Bobbio, il
quale contro Togliatti sosteneva la posizione degli
intellettuali che si occupano di politica, ma senza
appartenenza, senza essere di parte.
L’intellettuale oggi è forse un consigliere del
principe. O un personaggio mediatico, che comunica le posizioni di quel principe.
L’intellettuale organico è un mediatore, costruisce
un senso comune popolare e traduce le posizioni politiche. Non può ridursi a un consigliere. Ma
questo riguarda il com’eravamo, che nulla a che
vedere col come siamo. Oggi queste cose non si dicono più, sembrano discorsi d’altri tempi.
Perché?
Perché si è dissolta la figura della parte. La fase
dell’intellettuale organico, iniziata nel ‘45, è finita negli anni 70, un trentennio. Poi c’è stata la deriva. Dagli anni 80 è iniziato il nuovo trentennio.
La polemica contro gli intellettuali di oggi è come al solita esagitata nelle parole, perché dalla violenza bruta della P38 si è passati alla violenza delle parole, meno pericolose certo, ma sempre di violenza si tratta. Ma c’è una giustificazione. L’intellettualità di oggi, come tutte le figure sociali è frantumata, dispersa. Non c’è più un Pasolini, grande interprete del suo tempo e nello stesso
tempo grande comunicatore. Spesso di idee contrapposte a quelle dominanti, ma sempre centrali nel dibattito. È caduto ogni riconoscimento del
conflitto: il movimento operaio si è impallidito.
Qual è l’intellettuale tipico di oggi?
Questa è l’epoca dell’intellettuale integrato. Che
ha molte forme: il comunicatore, l’accademico,
left 13 aprile 2013
lo specialista. Gli intellettuali oggi sono
emarginati ma sono anch’essi in fondo
organici. Organici non a una parte, ma
a un sistema: occupano posizioni subalterne, a volte ben remunerate, come gli
editorialisti dei grandi giornali. Svolgono una funzione di organizzazione del
senso comune, senza alcuna carica di
cambiamento. Oggi c’è magari lo studioso che fa ricerca sul campo, ma non
è più la voce di una parte che parla a un popolo.
Oggi la cultura parla solo al ceto politico: il costituzionalista, il sociologo, il politologo, l’analista dei
flussi elettorali, ognuno con un pezzetto di sapere,
a cui manca un sapere totale. È tipico di quest’epoca, in cui s’è rotta la generalità del discorso.
Da cosa deriva questa frantumazione?
È la conseguenza di un mutamento di logica del sistema, del passaggio dall’economia reale a quella
virtuale. E della globalizzazione: l’intellettuale organico era molto nazionale. Oggi è difficile trovare
una collocazione a livello mondo. Solo pochi ci riescono: Chomsky, ad esempio, o Bauman.
Cambia lo spazio dell’intellettuale. Prima i libri, i giornali, i partiti. Oggi i media.
Dal potere dei mass media è venuta fuori una
nuova figura, l’intellettuale della comunicazione.
Quelli che vediamo alla tv, quelli che partecipano
e dirigono i talk show. Anche gli intellettuali organici avevano una funzione comunicativa, ma a differenza di quelli, questi comunicano un’opinione
generica, che ricavano dal senso comune. Rizzo e
Stella, gli autori de La casta, ad esempio. Hanno
favorito l’avanzata dell’antipolitica. Hanno avuto
una funzione fondamentalmente regressiva.
Lei, però, non si è arreso. A 81 anni fa il senatore, dirige il Crs, partecipa e organizza convegni. Spesso anche con giovani studiosi.
Voglio capire se c’è ancora spazio per una figura
di intellettuale critico, che si ponga davanti a queste maree di vento che vengono dal basso, senza
cavalcarle. Io penso che la figura dell’intellettuale critico sia ancora attuale. E credo che tornerà
in campo, man mano che le contraddizioni diventeranno più difficili da risolvere. Credo che nelle
nuove generazioni sorgerà una leva di studiosi critici. È un compito che il vecchio intellettuale organico deve porsi, dando l’ultimo o penultimo contributo al suo impegno politico. Restituendo un
fiato di ottimismo.
Oggi la cultura si
limita a organizzare il senso comune. Manca un
sapere totale,
generale
Nella pagina accanto,
Mario Tronti
21
società
left.it
Col fiato
sul Colle
Prodi, D’Alema, Letta, Cancellieri,
Rodotà, Amato, Bonino, Marini.
Il nuovo Presidente della
Repubblica potrebbe essere
uno di loro. Ma le sorprese sono
dietro l’angolo. Col rischio che
il Quirinale diventi una merce
di scambio tra partiti.
E un prezzo da pagare
per non far torto al Caimano
ono ufficialmente aperti i giochi per il
conclave laico che, votazione dopo votazione, porterà all’elezione del prossimo “pastore” del Quirinale da cui dipenderanno
le sorti del Paese. Perché se il Parlamento è incapace di esprimere una maggioranza, la Presidenza della Repubblica diventa l’unica carica dello
Stato in grado di prendere una decisione. Il pericolo è che il prossimo inquilino del Colle non
sia espressione di una mediazione tra le parti,
ma che si trasformi in merce di scambio tra partiti. Da un lato il Pd, che non ha vinto le elezioni
ma non vuole perdere l’occasione di governare. E
dall’altro il Pdl, che ha perso le elezioni ma vuole garanzie sull’impunità del proprio capo. Nulla di nuovo. Pensavamo di dare il benvenuto alla Terza Repubblica, e invece siamo impantanati nei meccanismi della Prima con i protagonisti
della Seconda. E dietro al senso di responsabilità di tutti - in nome del supremo interesse nazionale - si aggira lo spettro dell’inciucio. È vero, «il
capo dello Stato deve rappresentare l’unità nazionale e non può essere, e neanche apparire, ostile
a una parte significativa del popolo italiano», co-
me dice Alfano. Ma è altrettanto vero che il futuro
Presidente non potrà essere, e neanche apparire,
ostile alla maggioranza del popolo italiano che alle urne si è espresso per il cambiamento. Che passa attraverso l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Chi ha votato Pd e Movimento 5 stelle non è
di certo sospettabile di filoberlusconismo. Non si
era mai visto, negli ultimi 20 anni, un Parlamento così ostile al Cavaliere. Di questo bisogna tener conto. Se non vogliamo morire democristiani. Molto dipenderà anche dagli equilibri interni al
Pd e dalla fronda che avrà la meglio dentro il partito. E dai franchi tiratori di ogni schieramento.
left ha stilato una lista di papabili che va da Prodi,
col possibile sostegno dei 5 stelle, a D’Alema che
gode delle simpatie del Cavaliere. Passando
attraverso il sempreverde Gianni Letta,
e la combattente Emma Bonino. Non ci
siamo dimenticati di vecchie volpi come
Giuliano Amato e Franco Marini, le cui quotazioni sono date in aumento. Con un occhio anche agli outsider Anna Maria Cancellieri e Stefano Rodotà. Sempre che non
spunti qualche altra sorpresa.
r.v.
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13 aprile 2013
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left 13 aprile 2013
© STEFANINI /Imagoeconomica
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società
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società
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«Chi è senza visione, al massimo,
può reggere un Consiglio d’amministrazione»
Emma Bonino Il 15 marzo del 1999 la Swg poneva a un campione rappresentativo di italiani una domanda secca: «Lei, come Presidente della Repubblica,
chi eleggerebbe?». Il 31 per cento degli interpellati rispondeva: Emma Bonino.
Quattordici anni dopo la leader Radicale, nata a Bra nel 1948, laureata alla
Bocconi, deputato europeo, Commissario Ue per gli aiuti umanitari,
ministro per il Commercio internazionale e le politiche europee e vicepresidente del Senato fino al 15 marzo scorso, è di nuovo ai blocchi
della stessa partenza. Il profilo alto e internazionale del suo lungo
e inesauribile impegno politico la fanno apparire, rispetto a i suoi
colleghi, donna di un altro pianeta. Pro: indiscussa paladina dei
diritti civili. Contro: ha fama di liberista e mercatista. i.b.g.
«Non bucherò lo schermo.
Ma almeno voglio bucare il cervello»
Romano Prodi È l’unico ad aver sconfitto due volte Berlusconi, nel
1996 e nel 2006. Senza charme, senza tv. E senza un partito. Difettuccio che lo ha reso facilmente impallinabile dal fuoco amico:
D’Alema (con Bertinotti) la prima volta; Veltroni (con
Mastella) la seconda. Lo chiamavano il professore, ma
prima di essere premier ha fatto cose ben più importanti dell’insegnamento nella sua Bologna: ha smontato
e privatizzato l’Iri, di cui è stato due volte presidente.
Salvando l’Italia dalla bancarotta, ma anche devastando
il suo sistema industriale. Cattolico “maturo”, si
è autodefinito. Sicuro appeal internazionale,
dopo la presidenza della Commissione
Ue e gli incarichi Onu in Africa. Pro:
piace ai grillini. Contro: non piace a
D’Alema e Berlusconi. m.b.
«Nella mia vita sono stato un avvocato
mancato e un giornalista perduto»
Gianni Letta L’uomo della crostata, al Quirinale. Ipotesi tante volte
caldeggiata dal Cavaliere, e forse stavolta più vicina stando almeno ai bookmakers stranieri. L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giano
Bifronte, negli ultimi 25 anni si è alternato tra i vertici dell’azienda Fininvest
e i ruoli istituzionali. Mai candidato, mai tesserato eppure da sempre longa
manus del Cavaliere negli ambienti più insidiosi della Capitale. Vaticano incluso, con il ruolo di Gentiluomo di Sua Santità. A sua
moglie si deve la Crostata della Storia, servita alla cena dell’inciucio tra D’Alema e Berlusconi per il varo della Bicamerale
nel 1997. L’uomo degli amici influenti e discussi. E indagati.
Da Bertolaso a Bisignani, passando per Angelo Balducci. Il
suo nome resta miracolosamente immacolato. Pro: piace a
tanti. Contro: troppo vicino a Berlusconi.
g.a.
«Io l’abolirei l’8 marzo,
la donna non deve
sentirsi razza a parte
perché siamo molto
meglio degli uomini»
Anna Maria Cancellieri «Solo
chiacchiere», dice della sua candidatura al
Colle. Eppure la “prefetta di ferro” è la donna dei momenti delicati. Nel 2007 a Catania
dopo l’uccisione dell’ispettore di polizia
Filippo Raciti. Sempre in Sicilia presiede la
commissione rifiuti. Nel 2010 traghetta il
Comune di Bologna dopo il Cinziagate, lo
scandalo che travolge il sindaco Delbono.
Piace così tanto che molto bolognesi propongono di eleggerla, per il centrodestra.
Lei dice di no: «Non posso essere di parte». E l’anno dopo è commissario prefettizio a Parma. Nasce
a Roma da emigrati italiani
in Libia. Dei suoi 69 anni, ne
trascorre 40 al Viminale. Fino a
diventare ministro, nel novembre 2011, col governo Monti.
È la seconda donna a
ricoprire quel ruolo
dopo Rosa Russo
Jervolino, ma l’unica a sciogliere per
mafia un Comune capoluogo,
quello di Reggio Calabria.
Pro: è una
lady. Contro:
di ferro. t.b.
13 aprile 2013
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società
left.it
«La sinistra è un male che solo
la presenza della destra rende sopportabile»
Massimo D’Alema La carriera politica di Massimo D’Alema inizia da bambino. A nove
anni, fazzoletto rosso al collo, stupisce un attonito Togliatti portando i saluti dei pionieri al
congresso del Pci. Il ragazzo ha la stoffa del leader e a 26 anni diventa segretario della Fgci.
Nel 1988 gli viene affidata la direzione dell’Unità. Ma nel 1990 lascia per dare una mano ad Occhetto a far nascere il Pds, di cui diviene segretario nel 1994 battendo l’eterno avversario Walter
Veltroni. Nel 1997 guida una disastrosa Commissione bicamerale per le riforme e un anno dopo
è tra i maggiori indiziati della congiura contro Prodi che lo porta alla Presidenza del consiglio.
E con algida precisione bombarda la Serbia. Nel 2006 è un ottimo ministro degli Esteri
del secondo governo Prodi. Oggi, il presidente del Copasir torna in pista per la
corsa al Colle. Pro: sul suo nome potrebbe convergere anche Silvio Berlusconi.
r.v.
Contro: sul suo nome potrebbe convergere anche Silvio Berlusconi.
«Marini uccide col silenziatore»
«Viviamo nella notte
ma la libertà ci ascolta»
(canzone partigiana, citazione preferita)
Stefano Rodotà Nelle votazioni
online sul nuovo capo dello Stato è
sempre ai primi posti. Perché Stefano
Rodotà, quasi 80 anni, costituzionalista,
raccoglie consensi trasversali, dalle aule
universitarie ai movimenti. Da sempre
sostenitore dei beni comuni e dei diritti
civili, è stato parlamentare Pci/Pds per
15 anni, vicepresidente della Camera,
garante per la privacy e coautore della
Carta dei diritti Ue. Con una bussola
fissa: la Costituzione italiana e la sua attenzione alla
dignità delle persone. Vicino
ad alcune tematiche grilline,
come il conflitto d’interessi
e il reddito di cittadinanza,
potrebbe rappresentare un
ponte tra Pd e Cinque stelle.
Ma è sgradito a Berlusconi perché ne ha
sempre bacchettato l’insofferenza
alle regole. Pro:
netta cesura col
passato (ma non
con la Carta del
1948). Contro:
per qualcuno è
troppo di sinistra... s.b.
left 13 aprile 2013
(Carlo Donat-Cattin, suo maestro nella Dc)
Franco Marini Fuma la pipa come Pertini, ma è democristiano. Abruzzese e montanaro, ha appena compiuto 80 anni. Sindacalista, capo della
Cisl fino al ’91, quando diventa ministro del Lavoro per il VII
governo Andreotti. Da politico, Dc prima e Ppi poi, partecipa alla nascita del Pd e ne rappresenta l’anima cristianosociale. Figlio di un operaio e una sarta, persa a 11 anni,
è il primo di 7 fratelli. Una vita di trattative, ma anche di
ciclismo. Tifava Bartali, da buon cattolico. E questo potrebbe giocare a suo favore, dopo due Presidenti “laici”. A
sostenerlo sono i popolari, ma non dispiace nemmeno
al Cavaliere. Nel 2008 riceve il mandato
esplorativo dopo la caduta di Prodi.
Nel ’99 è in ballo per il Colle ma cede
a Ciampi. Pro: è una certezza.
t.b.
Contro: troppo.
«Amato è poco amato» (Romano Prodi)
Giuliano Amato Ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica, sopravvivendo a Tangentopoli e al crollo del Psi. E adesso potrebbe
diventare il garante della Terza. Docente di Diritto costituzionale, 75 anni,
Giuliano Amato è stato consigliere di Bettino Craxi, due volte presidente del
Consiglio (nel 1992 e nel 2000) e sei volte ministro (dal governo De Mita a
quello D’Alema). Ed è sempre riuscito a combinare le poltrone
con l’alto profilo. Da qui il suo tentativo di presentarsi come
esterno alla casta e «modello di mobilità sociale» (suo nonno era muratore). Di tradizione riformista, il dottor Sottile è
noto agli italiani soprattutto per il prelievo forzoso dai conti
correnti e la finanziaria lacrime e sangue del 1992. Ha
destato scandalo la sua pensione d’oro. Pro: cita Marx.
Contro: Berlusconi «si fida» di lui.
s.b.
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società
© scrobogna/la presse
left.it
De Gregorio
Il suo socio
e l’ombra
dei clan
C’
è l’ombra della camorra tra i soci
delle aziende riconducibili all’ex
senatore Sergio De Gregorio. Un filone nuovo che emerge dall’analisi che left ha realizzato sulla galassia societaria dell’ex Idv. Un’inchiesta parallela alle indagini della procura di Napoli che vuole far luce sulla compravendita del
senatore. De Gregorio è indagato insieme a Walter Lavitola e Silvio Berlusconi. L’ex Idv ha confessato di aver preso 3 milioni di euro dal Cavaliere per passare tra le fila del centrodestra. Secondo gli inquirenti, la destinazione ultima dei
soldi sarebbero «soggetti vicini a un’associazio-
26
L’avvocato Bruno Turrà,
sodale dell’ex senatore
indagato, viene
citato dal pentito
Gaetano Vassallo:
«è in affari coi Mallardo»
La moglie è nipote
di un pregiudicato
in passato ai vertici
della camorra
partenopea
di Nello Trocchia
ne camorristica operante nell’area napoletana».
Le indagini puntano soprattutto ai soldi per individuare reti di appoggio e sodali vicini ai clan.
left, invece, si è soffermata sullo scacchiere societario riconducibile all’ex senatore. E anche seguendo questo filo spunta l’ombra della camorra.
Il bandolo della matassa parte dall’avvocato Bruno Turrà che ha avuto ruoli nell’assetto di
diverse società della galassia De Gregorio (Italia
nel mondo servizi immobiliari e Italia nel mondo channel srl). La moglie di Turrà, Gaia Morace
è socia nella Italiani nel mondo channel srl. Tan13 aprile 2013
left
società
left.it
to che il legale viene citato, non indagato, in un’ordinanza di custodia cautelare a carico di presunti riciclatori del clan Polverino. Su Turrà pesano
le parole del pentito Gaetano Vassallo riportate
nell’ordinanza, eseguita lo scorso anno, e anche
in una informativa dei carabinieri del Noe del febbraio 2009. Vassallo riferisce di un incontro con
l’avvocato nel quale si parlò della compravendita delle quote di una società che gestisce un parco di divertimenti. «Mi ricordo che verso la fine
del 2006, inizio 2007, presso il mio albergo Vassallo Park Hotel in Castel Volturno si presentò
Gaetano Cerci, cugino dell’omonimo imprenditore dei rifiuti (…) e l’avvocato Turrà, proprietario del Magic World di Licola, parco giochi nautico (…)», ha raccontato il pentito. «In quella sede l’avv. Turrà, nel parlare con Cerci disse che lui
aveva una parte delle quote del Magic World mentre la restane parte era di proprietà dei Mallardo
(clan di camorra, ndr) tramite prestanome ingegneri di Giugliano». Turrà, secondo Vassallo, sarebbe stato in affari con il clan Mallardo e lo avrebbe confidato a Cerci, cugino dell’omonimo imprenditore che per conto del boss Francesco Bidognetti ha messo in piedi il traffico illecito di rifiuti che ha distrutto la Campania. Ma l’avvocato
Turrà, non indagato, è anche padre di Ilaria e Alessandra, azioniste della Magic World spa, azienda che oggi risulta cancellata, di cui Turrà è stato amministratore fino al 2005. Inoltre ha ricoperto l’incarico di rappresentante in cda della Carousel investiments sa, società svizzera che ha avuto,
in passato, una parte delle quote di Magic World.
«Il Magic? Ho venduto e non conosco questo Vassallo» spiega Bruno Turrà, raggiunto telefonicamente da left. «L’incontro non è mai avvenuto.
Cerci? Mica chiedo la carta di identità alla gente».
Per capire chi sono i Mallardo, da sempre in
buoni rapporti di vicinato con i Casalesi, basti pensare al livello di penetrazione nell’economia legale, dal controllo di marchi di caffè, settori della ristorazione, comparto edilizio. In due anni la procura di Napoli, distrettuale antimafia, ha messo
sotto chiave beni per oltre due miliardi e mezzo di euro. Un patrimonio sconfinato grazie ad
una rete di sodali, professionisti e protezioni.
Ma Turrà prende le distanze da Vassallo, ma anche da De Gregorio: «Sono stato consigliere per
3 anni fino al 2008, ma solo sulla carta. Era la mo-
left 13 aprile 2013
glie di De Gregorio che aveva pieni poteri. L’immobiliare? È una società che non ha mai operato». L’avvocato è stato anche candidato prima alle comunali a Napoli con l’Idv, nel 2006, e poi alle regionali 2010, con il movimento Italiani nel
mondo. «Non mi vedo con De Gregorio da un
sacco di anni da quando fui candidato alle comunali». In realtà nel 2010 Turrà fece le campagna
elettorale per le regionali con De Gregorio come
sponsor, come si evince dal materiale elettorale
presente tuttora sul sito brunoturra.wordpress.
com e dai comunicati stampa dell’epoca.
L’informativa dei Noe del febbraio 2009, approfondisce anche il ruolo di Bruno Turrà e di
sua moglie nelle aziende della galassia De Gregorio. «Turrà Bruno, è stato accertato che lo
stesso sia convivente di Gaia Morace (la moglie,
ndr). La donna ha rapporti d’affari anche
con alcune aziende riconducibili al Turrà. Morace è proprietaria di quote della Italiani nel mondo channel srl, di cui
il Turrà è consigliere (fino al 2008, ndr)».
«Morace - continua l’informativa - è figlia
di Annamaria Cavalcanti, sorella di Giacomo Cavalcanti, quest’ultimo è notissimo pregiudicato partenopeo gravato da
importanti precedenti penali e pregiudizi di polizia». Seguono cinque pagine che
ricostruiscono i precedenti di Cavalcanti, detto
o poeta, personaggio di spessore dello scacchiere criminale campano degli anni ottanta. Cavalcanti vive da anni a Verona dove coltiva la sua
passione per i versi e scrive libri. «È vero - replica Turrà - è lo zio di mia moglie, ma io non l’ho
mai incontrato. Mai visto, vive fuori Napoli».
Insomma sia Turrà che l’allora compagna hanno ricoperto ruoli nella galassia di sigle di De
Gregorio. Il legale è stato citato in una ordinanza cautelare che ha riportato le parole di Gaetano Vassallo sul suo conto e anche in una informativa dei carabinieri che ne ha descritto i soci,
le frequentazioni e le parentele acquisite. L’ombra dei clan più potenti si allunga tra i soci di De
Gregorio. Un filone inedito mentre gli inquirenti sono a caccia di soldi, assegni e del flusso di
denaro per capire se i “piccioli” della compravendita che ha cambiato lo scenario politico del
nostro paese siano finiti o passati nelle tasche
dei malacarne partenopei.
L’ex senatore dell’Idv,
Sergio De Gregorio,
finito nell’inchiesta
della procura di Napoli
per la compravendita
di parlamentari nel 2006
Il legale
partecipa
ai Cda delle
imprese del
“responsabile”
27
società
left.it
i boss che stanno f
Bernardo Provenzano e Michele Senese. Due storie che s’incrociano
sulla via della follia. e spiegano perché i padrini ricorrono alle malattie mentali:
per sfuggire ai processi
F
Foto segnaletiche
di Bernardo
Provenzano, scattate
dopo l’arresto
dalla Squadra mobile
di Palermo
28
orse non sarebbe cambiato nulla. Avrebbe partecipato al processo senza dire una
parola, annuendo o scuotendo il capo con
i movimenti lenti che il Parkinson gli avrebbe consentito. Del resto, Bernardo Provenzano è uno
che non ha mai parlato e, se ha parlato con qualcuno, l’ha fatto preferendo i fari spenti e il sottobosco alla collaborazione chiara nelle aule di tribunale. Il 5 marzo 2013, però, alla luce dell’ennesima
perizia il suo processo si è fermato per “momentanea incapacità” di partecipavi coscientemente.
Significa che il padrino non è in grado di provvedere materialmente alla sua difesa. E così, mentre
il Gup Piergiorgio Morosini rinvia a giudizio dieci
persone per la trattativa Stato-mafia, la posizione
di Provenzano è sospesa fino al prossimo 16 aprile, quando è probabile che sarà disposta una nuova perizia sulle sue capacità mentali. Il virus della
follia sta infettando i boss di mezza Italia. Perché
se non stupisce la sospensione del processo per il
padrino corleonese, a Roma si aggira un altro boss
che delle perizie psichiatriche ha fatto man bas-
sa. Dovevano notificargli la data dell’udienza, ma
Michele Senese non si è fatto trovare e da qualche
giorno è irreperibile, scomparso. Lo chiamano “o’
pazzo”, da trent’anni entra, esce (e qualche volta
scappa) dagli Ospedali psichiatrici giudiziari grazie a una diagnosi complicata: «Schizofrenia paranoide in disturbo della personalità antisociale
e ritardo mentale», che però non gli impedisce di
essere considerato un pezzo da novanta della malavita romana. Senese si inabissa pochi giorni dopo che la Squadra mobile di Roma smaschera un
traffico di perizie false che consentono ad alcuni
malviventi, indagati per droga e omicidio, di soggiornare comodamente in cliniche romane di lusso. Perché scappa? Non si sa. Certo, è curioso che
il principale indagato di quel traffico di perizie sia
il suo avvocato, Marco Cavaliere. Forse il boss teme che in futuro la pantomima della follia possa
non funzionare più, perché negli anni “o’ pazzo” ha
fatto tanto bene il pazzo da essere considerato semi-infermo di mente e incompatibile col carcere.
Senese e Provenzano. Due storie che s’incrocia13 aprile 2013
left
società
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Un libro sui mafiosi “impazziti”
con lucidità
o fuori
di Corrado
De Rosa
e Laura Galesi
no sulla via della follia, che spiegano perché i boss
rincorrono le malattie mentali per ottenere benefìci di giustizia e riescono, così, a difendersi dai
processi. Quando l’avvocato di un boss invoca una
perizia psichiatrica, lo fa perché il giudice chieda
a un medico di valutare se quel boss è capace di
intendere e di volere, se è in grado di partecipare
coscientemente a un processo, e se è compatibile con il carcere. Da ciascuna di queste richieste,
possono derivare vantaggi enormi. Perché se quel
boss è considerato incapace di intendere e di volere, otterrà il proscioglimento per il reato di cui è
imputato, se poi sarà considerato incapace di stare in giudizio, il suo processo sarà sospeso finché
non recupererà questa capacità. E se le sue condizioni di salute sono così gravi da non poter essere curate in carcere, quel boss dalla cella dovrà
uscire rapidamente. Salvo poi evadere da manicomi criminali, cliniche e ospedali. Per questo non
c’è processo di mafia che non abbia i suoi finti pazzi che inscenano pateticamente quello che pensano sia la vera sofferenza psichica: dal maxiprocesso di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a quello sulle Stragi del ’92, dai processi sulla faida tra
Cutolo e gli anticutoliani in Campania al processo
Spartacus sui Casalesi, fino a quelli sui boss della
Locride e sui capi della Banda della Magliana.
left 13 aprile 2013
Di boss eccellenti che usano
la follia per fini giudiziari Cosa
nostra è piena. Mafia da legare
(Sperling & Kupfer) scardina
l’antico codice d’onore di Cosa
nostra, l’affidabilità dei suoi capi,
e ripercorre le storie dei boss siciliani dall’angolo di visuale delle
loro finte malattie. Mafiosi che
dichiarano di essere Napoleone,
gregari che si fingono matti e si
mettono a pescare in cella, affiliati che entrano in aule di tribunale in camicia di forza.
Di questo e altro racconta il libro.
Già alla fine degli anni Ottanta, il giudice Falcone per
spiegare il muro di omertà degli uomini d’onore dice:
«C’è il mafioso che si barrica in cella e quello che si
finge pazzo. Poi c’è anche quello che è costretto dalla
mafia a fingersi pazzo». Tommaso Buscetta, invece,
racconta che già ai suoi tempi gli uomini d’onore si
lasciavano andare a rappresentazioni grottesche della
follia per sfuggire a una condanna.
Mafia da legare fa i nomi di boss noti e meno noti che
si sono finti pazzi: Bernardo Provenzano e il suo tentato suicidio discutibile e discusso; Nino Santapaola
che per trent’anni ha usato la follia anti 41 bis; Angelo
Bottaro ucciso nel reparto di psichiatria dell’ospedale
di Siracusa; Silvio Balsamo che muore dopo un tentato
suicidio simulato; Luciano Liggio, i fratelli Marchese,
Agostino Badalamenti, Masino Spadaro e molti altri. E
spiega l’uso della follia e dei manicomi criminali: una
storia antica per Cosa nostra, che secondo un meccanismo che capovolge ogni riferimento giudiziario e
mette le mani sui medici e sulle malattie per mantenere
il controllo dei processi. I clan, infatti, pagano bene
e non temono la concorrenza. Per visitare un uomo
d’onore al 41 bis, per esempio, lo Stato paga circa
400 euro lordi, i clan almeno dieci volte tanto. E i medici dei clan producono una mole gigantesca di certificati e consulenze forzate che riescono a confondere
giudici e periti finché non capisce più chi è veramente
pazzo e chi invece recita la parte.
29
diario della carovana
società
left.it
In Sicilia l’incontro dei volontari antimafia con gli studenti e gli operai in crisi
A scuola di legalità
I
l 3 aprile la Carovana antimafie ha
raggiunto Palermo. Ad accoglierla
sono gli studenti dell’Istituto Duca
degli Abruzzi. Vengono letti i nomi delle vittime di mafia. È un momento toccante. «La Carovana è un viaggio di libertà», spiega Alfio Foti, coordinatore
regionale di Un’altra storia. «Quando
l’abbiamo creata non pensavamo durasse così a lungo, che ce ne sarebbe
stato ancora bisogno». Secondo Rita Borsellino, invece, «una volta saliti non si scende. Un viaggio di libertà
non ha termine». Da Palermo si prosegue per il paesino di Caltavuturo. Sono i giovani di lì a raccontarci la storia della strage di San Sebastiano del
1893, quando l’esercito aprì il fuoco
sui contadini in rivolta uccidendone
undici. Ancora una volta una storia di
lavoro e di violenza, ma narrata con
la determinazione di chi si batte per il
cambiamento. Il 4 aprile, uno splendido corteo di ragazzi ha accolto la Carovana al suo arrivo a Mazzarino. Dopo aver sfilato lungo la via principale,
hanno assaggiato le “pizze della legalità” realizzate dagli ospiti dell’associazione Il Girasole, richiedenti asilo impegnati in un progetto di integrazione
e lotta a ogni forma di sfruttamento.
È stata poi la volta di Niscemi, dove
la Carovana si è unita ai cittadini che
si oppongono al Muos, mentre Lidia
Menapace (partigiana e scrittrice) ha
parlato sulla necessità di portare questa protesta anche oltre lo Stretto.
Il 5 aprile siamo arrivati a Catania. La
Carovana ha fatto tappa davanti a tre
aziende - Aligrup, Riela e Almaviva - emblematiche della crisi che attraversa il
mondo del lavoro. In particolare, il caso della Riela rappresenta una sconfitta
dello Stato. La ditta è stata infatti confi30
La locandina della Carovana Antimafie 2013
scata nel ’99 e messa in liquidazione un
anno fa, nonostante i lavoratori avessero provato a costituirsi in cooperativa e riattivarla. «Se un’azienda confiscata chiude, è un messaggio devastante», ci dicono, oramai stanchi e sfiduciati i dipendenti di Riela. La Carovana
ha poi proseguito per il quartiere Librino, uno dei più difficili di Catania. Qui
un gruppo di ragazzi, che del rugby ha
fatto strumento di aggregazione, ha ripristinato e restituito agli abitanti una
struttura sportiva realizzata per le Universiadi del 1996 e mai utilizzata. «Oggi
tutte le nostre squadre giovanili si alle-
nano qui - ci dice uno di loro
- e a gennaio si è svolta la prima partita in casa».
Il borgo di Giardini Naxos,
in provincia di Messina, è
una delle prime colonie greche in Sicilia. Vive soprattutto di turismo. La Carovana si è fermata qui il 6 aprile per raccogliere la protesta
dei cittadini contro il progetto del porto turistico che rischia di metterne in pericolo fisionomia e ambiente. Lo
hanno ribadito nel corso di
una splendida manifestazione all’interno del parco archeologico che sorge proprio a pochi metri dal mare.
Proseguendo verso nord, la
Carovana ha incontrato anche gli attivisti del teatro Pinelli che per circa due mesi
hanno occupato la struttura e poi sono stati sgombrati. «Chiudere un teatro - racconta uno di loro - per noi è
cultura della mafia».
Alcune tappe calabresi,
poi la Carovana fino al 14 aprile è in
Puglia. Dopo Bari e Brindisi (con una
manifestazione in ricordo di Melissa,
la ragazzina uccisa nell’attentato alla
scuola Morvillo-Falcone) il 13 tocca
Lecce e il 14 Foggia.
(a cura di Carmen Valisano,
I Siciliani giovani-CTzen)
Ogni settimana left ospita il diario
di bordo della Carovana internazionale antimafie (promossa da Arci,
Libera e Avviso Pubblico) che termina il 6 giugno.
www.carovanaantimafie.eu
13 aprile 2013
left
calcio mancino
società
left.it
Nello stadio di Limassol nel 1983 la qualificazione per gli Europei di Francia
Cipro-Italia e
le guerre vicine
da un grave infortunio al
ginocchio e gettato nella mischia da Bearzot
al posto di Oriali, sbrana la fascia destra alla
sua maniera e pennella
un cross al bacio sul secondo palo per Ciccio
Graziani che sfida di testa il difensore Patikkis.
Il tocco decisivo è proprio del numero 2 in maglia blu che infila maldestramente la propria porta: 1-1. In tribuna possono esultare tantissimi tifosi azzurri: i militari della missione di pace in Libano. Erano partiti a settembre dell’anno precedente dopo i massacri di quasi 3mila
palestinesi nei campi di Sabra e Chatila ad opera dei miliziani cristiani. Era
stata una bella idea del governo Spadolini e del ministro Lagorio mandare i soldati, nel Libano invaso da Israele, a difendere la popolazione civile
con regole di ingaggio che impedivano di rispondere al fuoco. Era l’occasione per apparire al mondo come una
“media potenza”. Un mese dopo, morì
il ventenne di leva Filippo Montesi e,
a fine anno, il contingente venne fatto
rientrare. Il girone degli azzurri fu vinto dalla Romania e la nostra Nazionale, campione del mondo in carica, rimase fuori dal campionato d’Europa.
Il titolo andò alla fortissima Francia
di Michel Platini e di François Mitterrand che, in Libano, di soldati ne aveva
visti morire molti di più.
[email protected]
L’allenatore azzurro
Enzo Bearzot
©LaPresse
I
l 1983 si aprì con la
promulgazione da
parte di papa Wojtyla dell’anno santo, subito travolto da una ventata di... secolarizzazione,
con la nascita, a Napoli,
della prima bimba concepita in provetta. L’Italia campione del mondo
rischiava seriamente di
rimanere fuori dagli Europei previsti per l’estate 1984 in una Francia
appena scossa dall’arresto in Bolivia del nazista Klaus Barbie: il boia di Lione. Il nostro era
un girone di ferro con un
solo posto utile da contendere a Romania, Cecoslovacchia,
Svezia e alla cenerentola Cipro il cui
territorio era ancora diviso in due dopo l’invasione dell’esercito turco di
nove anni prima. La gara d’esordio
contro la Cecoslovacchia, in autunno
a San Siro, aveva lasciato l’amaro in
bocca per il 2-2 finale e il sorriso per
gli errori di Nando Martellini il quale,
confuso dalla marcatura di Jakubec
su Altobelli, aveva ribattezzato l’interista: “Jacobelli”. Il secondo match fu
uno 0-0 dicembrino con la Romania
a Firenze. A febbraio ’83, si gioca in
trasferta a Cipro, a Limassol, seconda città dell’isola nello stadio Tsirion
le cui tribune, gonfie di 25mila spettatori, sembrano essere state lasciate
a metà e il cui manto erboso non presenta neanche un filo d’erba. L’arbitro è il bulgaro Dotchev. La formazione casalinga in completo blu è una li-
di Emanuele Santi
Un pareggio sudato tra l’entusiasmo
dei nostri soldati reduci
dalla missione di pace in Libano
left 13 aprile 2013
sta di semiprofessionisti tutti di etnia
greca. I nostri, invece, in livrea bianca e calzettoni azzurri, sono gli stessi
della finale di Madrid tranne lo squalificato Bruno Conti sostituito da Causio e il giovane Bergomi rimasto in
panchina data la disponibilità di Antognoni e l’inutilità del difensore in
più. Il primo tempo finisce 0-0 grazie
alle parate del portiere Kostantinou
che si oppone alle confuse conclusioni ospiti. Al secondo minuto della ripresa, Collovati ribatte di testa un
cross nell’area grande, l’attacco cipriota insiste e la palla carambola sul
numero 7 Mavris lasciato troppo solo
da Cabrini. Il tiro d’esterno è perfetto. L’ala destra infila Zoff in diagonale
e poi corre ad abbracciare tutti i compagni impazziti in panchina. L’incubo, per fortuna, dura solo dieci minuti. Carlo Ancelotti, infatti, al rientro
31
cose dell’altritalia
società
left.it
1 TARANTO
Neanche i morti riposano in pace
nei terreni inquinati dall’Ilva
Ritornare tra le braccia della terra, dopo una vita di sacrifici? A Taranto non si può. E ai morti è negata persino la sepoltura. Il sindaco Ippazio Stefàno ha infatti vietato
di seppellire i defunti nel cimitero San Brunone, che sorge del quartiere Tamburi. Proprio a
due passi dall’Ilva. Le analisi richieste dal Comune lo scorso ottobre e consegnate dall’Arpa a febbraio parlano chiaro: nei terreni intorno all’Ilva è presente un mix letale di diossina,
benzoapirene, berillio, mercurio e nichel. Il rischio di contaminazione per le persone è altissimo. Tradotto: l’area va urgentemente bonificata. Se ne occuperà il commissario straordinario nominato dal Governo, Alfio Pini, ma non si sa né quando né come. Nel frattempo è necessario che la società cooperativa L’ancora, che gestisce i servizi cimiteriali, corra ai ripari
dotandosi dei necessari dispositivi di sicurezza, ad esempio fornendo al personale abbigliamento in grado di impedire ogni contatto con il terreno contaminato. Alle famiglie dei defunti, intanto, resta la scelta: far sostare il caro estinto nelle celle frigorifere al costo di 6 euro al
giorno o farlo emigrare verso altri camposanti. Ma la disposizione municipale è solo l’ultima
di questo genere in ordine di tempo. Nel 2010 e nel 2012, anche allora in seguito ad indagini
dell’Arpa, Stefàno ha vietato l’accesso alla aree verdi “non pavimentate” del rione.
2
2 BOLOGNA
Un lavoro
per evadere
«In carcere come fuori il lavoro aiuta a prevenire i suicidi». Le parole sono della garante dei detenuti
dell’Emilia Romagna, Desi Bruno, a commento
dei molti suicidi nei penitenziari della regione.
Sono stati 32 i carcerati emiliani che si sono
tolti la vita dal 2002, 4 solo nell’ultimo anno. Su
3.400 detenuti emiliani, soltanto 812 lavorano
in carcere e la maggior parte di loro, 587, sono
alle dipendenze dell’amministrazione interna:
si occupano di lavori brevi e poco qualificanti
nel penitenziario. E nonostante le richieste, le
imprese private hanno molte difficoltà ad entrare nelle carceri. A livello nazionale non va
meglio: su circa 65mila detenuti lavorano in
13.800, di cui 9.763 alle dipendenze del penitenziario. Armando Reho, direttore dell’ufficio
trattamento del provveditorato dell’Emilia Romagna, conferma gli effetti positivi del lavoro:
«L’impiego permette di abbattere la recidiva
anche del 70-80 per cento».
32
3
3 CAGLIARI
Cappellacci sbaglia destinatario
«Grazie per le sue lettere, ma noi con l’istituzione delle zone franche non abbiamo nulla a che fare». È questo, a grandi linee, il senso della risposta che Heinz Zourek, capo della direzione generale Fiscalità e unione doganale della Commissione europea, ha inviato al presidente della Regione Ugo Cappellacci
in merito all’istituzione della zona franca in Sardegna. Cappellacci
ha sbagliato mira e ha inviato due missive alla persona sbagliata. «La
Commissione non ha la facoltà di trattare le richieste di modifica del
campo di applicazione della legislazione doganale dell’Unione», scrive Zourek. «In effetti le zone franche possono essere designate dagli
Stati membri senza l’intervento della Commissione». L’euroburocrate, che seppur divertito mantiene uno stile compassato, aggiunge in
chiusura dei link per chiarire le idee al presidente Cappellacci.
13 aprile 2013
left
cose dell’altritalia
left.it
società
4 REGGIO CALABRIA
Rimborsateci gli sprechi
Gli scandali dei rimborsi regionali scendono lungo lo Stivale. Dopo Lombardia e Lazio,
ora sotto i riflettori c’è la Calabria. Nei giorni scorsi è scoppiata la polemica su dei presunti
rimborsi che dieci consiglieri regionali - ora indagati - avrebbero percepito indebitamente. Tra cui gratta
e vinci, spettacoli a luci rosse e semplici caffè. Così martedì 9 aprile davanti a Palazzo Campanella, sede
del Consiglio regionale, si è consumata la protesta dei cittadini di Reggio. Al grido di “Rimborsateci la
Calabria”, i reggini si sono riuniti davanti la sede del Consiglio in una protesta con striscioni, ma anche
“fantocci simbolici”: una bambola gonfiabile, simbolo degli spettacoli di lap dance che sarebbero stati
pagati con i soldi dei cittadini; e dei “gratta e vinci” usati che i cittadini vorrebbero avere rimborsati
dal Consiglio, proprio come avrebbero fatto i consiglieri. I manifestanti hanno chiesto inoltre le
dimissioni dell’intera giunta regionale. Sull’identità dei dieci consiglieri vige uno stringente
riserbo da parte degli inquirenti.
6
5 PALERMO
Date a Crocetta ciò che è di Crocetta
«Da oggi le imprese che operano in Sicilia pagheranno
le tasse nell’Isola». Ad annunciarlo sono il presidente
della Regione Rosario Crocetta e l’assessore all’Economia Luca Bianchi,
che spiegano: «Uno dei sogni dei padri dello Statuto siciliano e degli
autonomisti trova attuazione». È appena arrivato infatti il via libera
all’applicazione dell’articolo 37 dello Statuto speciale siciliano. Sulla
base del quale all’Isola spettano le imposte pagate dalle imprese con
stabilimenti nel suo territorio, anche se con sede legale altrove. «Il
governo nazionale - aggiunge Crocetta - ha approvato all’unanimità
il provvedimento sulla base delle buone prassi di bilancio che il
governo siciliano ha avviato. Utilizzeremo nel miglior modo
possibile la fiducia che ci viene data». Il presidente
sottolinea poi l’importanza storica dell’avvenimento:
«Da oggi intraprendiamo la sfida a farcela da
soli, mettendo a posto i conti e sviluppando
1
l’economia. La Sicilia non vuole vivere di
assistenzialismo e parassitismo».
6 FERRARA
Arrestati i neonazisti del web
5
4
left 13 aprile 2013
Condannati con rito abbreviato gli attivisti del sito neonazista di Stormfront Italia. Lo scorso 16 novembre erano finiti in cella per incitamento alla discriminazione e alla violenza etnica, religiosa e razziale. Ora sono arrivate le condanne del Gup di Roma:
3 anni a Daniele Scarpino; 2 anni e sei mesi per Diego Masi e per Luca
Ciampaglia; 2 anni e 8 mesi per Mirko Viola. Il giudice ha disposto gli arresti domiciliari. Il caso era scoppiato nell’ottobre 2012, quando il gruppo aveva pubblicato in Rete una blacklist nella quale era finita anche la
docente dell’università di Ferrara, Marcella Ravenna. Stormfront era già
noto come «forum caratterizzato - secondo la definizione di wikipedia da posizioni di nazionalismo bianco, supremazia bianca, antisemitismo
e neonazismo. Il più grande sito d’odio del web».
33
mondo
Eroi
per sbaglio
di Matteo Miavaldi
34
13 aprile 2013
left
mondo
La petroliera spara ai
pescatori e poi si allontana.
E l’incidente non viene
subito denunciato
alle autorità marittime.
La versione italiana sul tranello indiano è piena di incongruenze. Non è Nuova Delhi
ad aver incastrato i due marò
Anticipiamo in esclusiva un brano
di I due marò di Matteo Miavaldi
(corrispondente in India di China Files),
che uscirà per Alegre il 17 aprile
L
a vulgata italiana ha consegnato all’opinione pubblica un resoconto dell’incidente dove i marò hanno ricoperto il ruolo dei
“buoni”, servitori dello Stato vittime di un madornale errore di valutazione. Hanno sparato, credevano fossero pirati, si sono sbagliati ma erano in
buona fede - Binki e Jelastine, le due vere vittime,
non rientrano più nel quadro - e sono cascati in un
tranello teso dalla Guardia costiera indiana, che
non ha mai smentito le accuse di furbizia arrivate dalla patria dichiarata dello stratagemma, culla dell’arte dell’arrangiarsi. Il ministro degli Esteri Terzi, in una lettera aperta pubblicata su L’Eco
di Bergamo lo scorso ottobre, scriveva: «L’ingresso della nave Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, che ha richiesto al comandante della nave di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati». Come già
hanno notato su Wikipedia, la dichiarazione stride non solo con la versione indiana dell’accaduto,
ma anche con la ricostruzione corrente del ritorno
al porto di Kochi dell’Enrica Lexie. Secondo larga
parte della stampa il ritorno della petroliera al porto di Kochi è stato un “segno di buona fede”, un gesto volontario per facilitare le indagini alle autorità indiane. In un’interessante intervista rilasciata al canale televisivo indiano Ibn live, il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura lo dice quasi con le stesse parole. Ma la dinamica dei fatti ricostruita dalla stampa indiana, basandosi sui dati
presentati al processo dall’accusa e sulle dichiarazioni degli ufficiali della Guardia costiera indiana,
racconta una storia diversa.
© Monaldo / LaPresse
I fatti
left 13 aprile 2013
In apertura,
la manifestazione
al Colosseo
organizzata dal Pdl
per chiedere la
liberazione di Latorre
e Girone. Sotto,
la copertina di I due
marò. Tutto quello che
non vi hanno detto
(Alegre)
1) Alle 16:30 del 15 febbraio qualcuno spara al peschereccio St. Antony.
2) La St. Antony lancia l’allarme alla Guardia costiera indiana, descrivendo grosso modo l’imbarcazione dalla quale provenivano gli spari.
3) La Guardia costiera inizia le indagini, cercando
di capire quali navi in quel momento si potevano
trovare nei pressi della St. Antony.
4) Intorno alle 19:00 la Guardia costiera restringe
35
mondo
© Rahi/ap/lapresse
left.it
Un pescatore al lavoro
nell’Oceano Indiano.
Sullo sfondo,
la petroliera
Enrica Lexie. A destra,
l’ex ministro degli
Esteri Giulio Terzi
il cerchio delle possibili navi coinvolte nella sparatoria a quattro imbarcazioni: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze. Le
raggiunge tutte via radio, chiedendo se erano state
coinvolte in un presunto attacco pirata.
5) L’unica nave a rispondere affermativamente
è l’Enrica Lexie (che aveva già infranto la procedura standard che prevede di fare immediato rapporto alle autorità nel caso di attacco pirata). Sono
le 19:30 e la petroliera italiana, senza aver detto niente a nessuno, aveva
proseguito nella propria rotta verso
l’Egitto per quasi tre ore, allontanandosi dalla “scena del delitto” di ben 39
miglia marittime, più o meno 70 km.
6) La Guardia costiera indiana intima
all’Enrica Lexie di tornare indietro e
probabilmente, vista la mancata denuncia dello scontro a fuoco da parte della petroliera italiana, ordina ai
due pattugliatori Shamar e Lakshmi
Bhai e all’aereo di sorveglianza marittima Dornier
228 di inseguire la nave italiana, intercettarla e riportarla in porto.
7) L’Enrica Lexie comunica all’armatore italiano
l’incidente e, contro gli ordini della Marina italiana, inverte la rotta e torna verso il porto di Kochi (e
ne aveva tutto il diritto).
dell’Enrica Lexie a Kochi come un gesto volontario di buona fede appare una conclusione abbastanza fantasiosa. Possiamo addirittura spingerci
a considerare la scelta del Capitano Vitielli come
un provvidenziale rinsavimento, un ritorno opportuno al senso di responsabilità. Se l’Enrica Lexie
si fosse rifiutata, il 16 febbraio i giornali indiani - e
internazionali - avrebbero titolato “Petroliera italiana spara contro pescatori indiani e fugge verso
l’Africa, caccia aperta». Eventualità che avrebbe complicato non
poco gli equilibrismi della diplomazia italiana davanti alla comunità internazionale. [...] Nell’argomento di difesa consegnato
alla Corte del Kerala da Latorre
e Girone nel febbraio 2012, citato tra gli altri anche dal Times of
India, si indica che: Il Capitano
ha anche attivato lo Ship alert
security system (Sass), mandando segnali all’Italian marine rescue and coordination centre (Mrcc). Il Capitano fece anche
rapporto dell’incidente alla mercury chart che
mette in contatto e trasmette informazioni alla comunità [navale], compresi i dipartimenti di
Marina del mondo impegnati nella lotta anti-pirateria, compreso il quartier generale della Marina indiana. È stato stilato anche un “Rapporto
militare”. Un altro rapporto è stato mandato al
Maritime security center Horn of Africa. Siccome l’attacco era stato respinto, l’imbarcazione
La nave
proseguiva
verso l’Egitto
quando gli
indiani l’hanno
intercettata e
condotta in porto
Grande assente: la buona fede
Alla luce di questi eventi, giudicati come “fatti” dalla giustizia indiana, descrivere il ritorno
36
13 aprile 2013
left
mondo
© Cito/ap/lapresse
left.it
ha continuato verso la rotta prestabilita.
Abbiamo controllato nel registro dell’Imo, database pubblico che contiene i rapporti di attacchi pirati trasmessi dalle imbarcazioni di tutto il mondo
alle autorità competenti, ma del rapporto dell’Enrica Lexie non vi è alcuna traccia. Anche Cyrus
Mody dell’Icc-Ccs, come abbiamo visto in precedenza, ha confermato che alla Camera di commercio internazionale non risulta nessun rapporto dell’Enrica Lexie, mentre hanno ricevuto e pubblicato un analogo rapporto di attacco da parte di
pirati redatto dall’Olympic Flair.
Anche le autorità indiane si erano mosse per rintracciare questo fantomatico documento. Il giudice dell’Alta Corte del Kerala P.S. Gopinathan,
respingendo gli argomenti della difesa dei marò,
ha spiegato: «È pertinente notare che non è stata
prodotta nessuna prova a testimonianza del fatto che i marò, prima di sparare ai pescatori, abbiano comunicato al Capitano dell’imbarcazione il pericolo di un attacco pirata, o che il Capitano ne abbia fatta menzione nel registro. Inoltre
non esiste nessun documento a supporto dell’argomentazione di difesa che sostiene il Capitano abbia attivato lo Ship alert security system
o che alcun segnale sia stato trasmesso al Marine rescue and coordination centre, alla Mercury chart o a qualsiasi Marina in tutto il mondo».
Ci sono abbastanza elementi per dubitare che il
rapporto sia mai stato trasmesso, dettaglio che
apre uno scenario inedito della dinamica del cosiddetto “tranello indiano”.
left 13 aprile 2013
Nei guai
per conto Terzi
di Cecilia Tosi
Quattro dicasteri in gara per dare la colpa a qualcun altro, ministri che pensano solo a salvare la faccia e un elenco di errori
facilmente prevedibili. Storia di una fuga dalle responsabilità
È
tutta colpa dell’India. La vicenda dei due
marò, a distanza di un anno, è un lungo
rimpallo di responsabilità che coinvolge almeno quattro ministeri italiani (Esteri, Difesa, Giustizia, Sviluppo economico), ciascuno impegnato a sciorinare una lista infinita di presunti
colpevoli: la compagnia armatrice, i giudici indiani, le autorità del Kerala e il governo di New Delhi.
Dopo i primi fallimenti diplomatici, i ministri hanno cominciato anche a darsi la colpa tra loro, scegliendo di combattere battaglie separate. Eppure,
ci racconta una fonte alla Farnesina, nelle miriadi
di riunioni interministeriali dedicate all’affaire marò nessuno dei vertici ha mai fatto la fatidica domanda: «Sono stati loro?». Perché le autorità italiane non lo vogliono appurare: i marò devono essere
giudicati dalla magistratura, e le autorità politiche
non devono lasciarsi fuorviare dalla verità..
37
mondo
left.it
Esteri
80 e che coinvolge un faccendiere italiano. Si chiama Ottavio Quattrocchi, accusato di aver fatto da
intermediario con il governo indiano per una partita di armi accompagnata da mazzette miliardarie.
Il faccendiere, intimo della famiglia Gandhi, viene usato da vent’anni per accusare Sonia di corruzione. Persino nel maggio 2012, in piena polemica
marò, un giornale indiano ha rivelato che «Ottavio
Quattrocchi visitò Sonia Gandhi 21 volte dopo la
morte di Rajiv (il marito, ndr)». Niente favoritismi
agli italiani, dunque, per la leader del Congress, anzi, linea dura sugli assassini dei pescatori. Perché
la categoria degli uomini di mare è già vessata dalla
Marina dello Sri Lanka, che arresta o spara a chiunque entri nelle sue acque territoriali. Non è un caso
che nel suo ultimo discorso al partito, Sonia Gandhi abbia esordito dichiarando il suo impegno a
frenare la violenza esercitata dallo Sri Lanka sui
pescatori di etnia tamil, per poi passare a condannare l’Italia «per il tradimento della promessa alla
Corte suprema» e proclamare che «nessun Paese
può dare l’India per scontata». Soprattutto l’Italia.
Difesa
La Difesa ha sempre negato di essere parte in cau-
© Quraishi/ap/lapresse
Nuova Delhi,
una manifestazione
chiede il rilascio
dei pescatori indiani
catturati dallo Sri Lanka
Nella gara allo scaricabarile vince senz’altro il ministro degli Esteri, che anche dopo essersi dimesso continua a combattere contro i mulini a vento.
Gli errori della Farnesina sono cominciati il 15 febbraio, giorno dell’incidente. Il ministero ha realizzato troppo tardi che c’era stato un arresto e il primo tentativo di contattare le autorità indiane è arrivato alle 19:30, che a Nuova Delhi significa le 23.
A quell’ora i colleghi dormivano. E la mattina dopo il patatrac era fatto, perché i media del Kerala
erano già informati e avevano dato risalto all’omicidio. La Farnesina avrebbe probabilmente potuto
riparare, porgendo subito le scuse del governo italiano, ma Terzi non l’ha fatto, perché era convinto
di non avere niente su cui fare ammenda. Ha difeso
i suoi connazionali pensando che tutelare gli interessi nazionali fosse indispensabile per non perdere la faccia. Avrebbe dovuto tener conto che anche
in India c’era qualcuno che non poteva perdere la
faccia. La leader del Congress, il partito di Gandhi,
nata in Italia e sempre biasimata dai partiti nazionalisti, non può permettersi accuse di contiguità.
Sonia Gandhi si porta già sulle spalle il peso dell’affare Bofors, uno scandalo che si trascina dagli anni
38
13 aprile 2013
left
mondo
left.it
sa nella cattura dei due militari, attribuendo al comandante della nave la responsabilità di averli
portati sulle coste del Kerala e alle autorità indiane di averlo attirato con un tranello. Eppure il ministro Giampaolo Di Paola ha così risposto nell’ottobre 2012 a un’interpellanza del Senato: «L’autorizzazione a procedere verso le acque territoriali indiane è stata data dalla compagnia armatrice, una
volta contattata dal comandante della nave. Ciò,
tuttavia, per la presenza del Nmp (nucleo di fucilieri) a bordo, è avvenuto a seguito di preventiva
informazione della catena di comando militare nazionale, che [...] non aveva ravvisato elementi che
potessero indurre a negare una doverosa attività di
collaborazione con uno Stato sovrano». Tradotto:
la Marina non si è opposta all’inversione di rotta,
e ha rispettato una catena di comando che vedeva
al suo vertice l’Ammiraglio Binelli Mantelli, ieri comandante delle operazioni navali, oggi promosso a
capo di Stato maggiore della Difesa.
Giustizia
La ministra della Giustizia Paola Severino ha dichiarato di essersi impegnata affinché «i nostri marò potessero essere processati da un tribunale che
si ispirasse ai principi della normativa internazionale». E ha affermato che il problema della giurisdizione «deve essere risolto secondo la normativa internazionale». Ma la normativa internazionale è composta da tanti accordi che a volte possono confliggere tra loro. E spesso gli Stati scelgono
quello da applicare a seconda della convenienza.
Gli indiani si appellano al concetto di spazio di interesse nazionale, mentre gli italiani chiedono di
considerare la Convenzione internazionale sul diritto del mare. Secondo la procura di Roma, a cui
sono affidate le indagini sull’incidente, in acque internazionali c’è una giurisdizione concorrente ed
entrambi i Paesi possono processare gli accusati. Il netto rifiuto della autorità italiane di far giudicare i marò dai tribunali indiani ha a dir poco indispettito Nuova Delhi. Le autorità giudiziarie hanno
chiuso ogni collaborazione con gli inquirenti italiani che oggi sono costretti a condurre un’indagine
separata senza disporre di nessuna prova o documento raccolto nel luogo del delitto.
Sviluppo economico
Anche il responsabile del dicastero dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ha tirato acqua
left 13 aprile 2013
La Difesa è stata consultata e non ha
fermato l’inversione di rotta verso l’India
al proprio mulino, spingendo il governo a rispettare gli accordi con la Corte suprema indiana.
Non avrebbe senso danneggiare i buoni rapporti commerciali con un Paese che ha un miliardo
e 200 milioni di abitanti, di cui circa 200 milioni
con buon potere d’acquisto. Nel 2012 l’Italia ha
registrato un certo calo delle esportazioni verso
l’India (10 per cento) ma a scendere di più sono
state le importazioni (21 per cento) con il risultato che il nostro deficit commerciale è diminuito. «Per l’Italia l’India è un mercato importantissimo», spiega Amedeo Scarpa, responsabile Ice
di Delhi e Mumbai. «Nuova Delhi ha l’obiettivo di
far passare il settore manifatturiero dal 15 al 25
per cento del suo Pil entro il 2015. In questo l’Italia può dare una mano fornendo prodotti del settore meccanico, quello in cui andiamo più forti».
Intanto è arrivata la nomina a ambasciatore in India di Daniele Mancini, ex consigliere diplomatico di Passera, e lo slogan adottato dall’Ice per favorire la cooperazione industriale tra i due Paesi
è: Made with Italy.
Parlamento
L’ultimo anello della catena di scaricabarile è a
Montecitorio. Neanche in Parlamento c’è qualcuno che accetta di avere sulla coscienza la vita di pescatori innocenti. Per evitare che lo Stato italiano
sia tirato in ballo in futuro, la Camera ha deciso di
emanare un nuovo regolamento (29 marzo) che
permetterà di salire a bordo anche alle guardie giurate, e cioè a dipendenti di istituti privati. D’altronde la privatizzazione della sicurezza in mare ha subito un boom gigantesco da quando imperversano
i pirati. L’Italia era uno dei pochi Paesi vergini per
aziende di questo tipo, che in alcuni Stati contano
lo stesso numero di dipendenti delle Forze armate. Affidare i compiti di sicurezza ai privati non implica però minori conflitti di attribuzione: «L’unica
cosa buona dell’incidente in India», ha commentato il direttore di una grande società di assicurazioni londinese. «È che hanno sparato dei militari e
non una compagnia privata. Altrimenti non posso
immaginare quali implicazioni sarebbero sorte».
Ma non è la lungimiranza il nostro faro.
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mondo
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Sotto tiro
di Giacomo Cuscunà da Aleppo
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13 aprile 2013
left
mondo
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S
© Lubacki /AP/lapresse
ono tornati a scuola, ma non c’è nessuno
che possa insegnare loro come sopravvivere. Non ci sono più cattedre in questo
agglomerato nel quartiere di al-Shaar, ad Aleppo,
diventata ora un riparo per sfollati. C’è solo gente
senza più un posto dove abitare. Non che qui la situazione sia tranquilla, no. Anche il complesso di
tre edifici è stato colpito più di una volta dalle forze del presidente Bashar al-Assad. Appoggiato allo stipite della porta Abu al-Nasser, disegnatore di
43 anni, racconta di vivere qui «con la mia famiglia
e altre 23 persone». «Gli aerei dell’aviazione hanno
sganciato sei bombe su quest’area. Abbiamo paura
che possa succedere di nuovo», dice Abu.
Nel cortile i segni dei colpi sono ben visibili. I crateri più piccoli sembrano quasi insignificanti in
confronto ai due buchi profondi più di due metri
e larghi quattro, causati dalle bombe a maggiore
potenziale. Il campo da basket pieno di calcinacci
e le due porte per le partite di calcetto ormai inutilizzabili contrastano con la frase scritta dal regime su quel che rimane di uno dei muri di cinta: «Lo
sport è importante per crescere sani». Attorno alla scuola, tra i condomini segnati dalle onde d’urto
delle esplosioni, la vita scorre: un commerciante
espone lungo il marciapiede scarpe, venditori ambulanti camminano con sulla testa vassoi pieni di
panini e dolcetti, il rumore del traffico chiassoso e
caotico tipico del medio oriente non si ferma. Anche se è in alcuni momenti è coperto dai colpi di
mortaio in lontananza.
Era una meraviglia della Siria.
Oggi Aleppo è prigioniera di
due eserciti che si fronteggiano. Un cumulo di rovine su
cui governano armi e malattie.
Dove si resiste come si può.
Aspettando la battaglia finale
left 13 aprile 2013
Saif al-Dawlah,
sobborgo di Aleppo,
gennaio 2013.
Un giovane miliziano
gioca a pallone nelle
strade del quartiere
Anche l’ospedale di Dar al-Shifa mostra le ferite del conflitto. «Ero al terzo piano quando lo scorso novembre il caccia del regime ha sparato il primo missile, colpendo la casa di fronte», racconta Mahmud, 24 anni, che all’inizio della rivolta ha
deciso di unirsi all’Esercito siriano libero (Esl).
«L’aereo è poi tornato altre due o tre volte centrando l’obiettivo. Ho perso 17 compagni. Sono fortunato a essere ancora vivo». La zona in cui si trova l’ospedale è per lo più residenziale, un quartiere composto da palazzoni affacciati su strade a più
corsie, con negozi ai piani terra. Alcuni dei quali con le serrande abbassate. «La zona nord, dove siamo ora, è stata tra le prime a essere liberata» continua Mahmud. «Qui l’Esl ha la sua base più
forte e il maggiore sostegno della popolazione, è
per questo che il regime non l’ha risparmiata». I segni sono su ogni palazzo: finestre rotte e balconi
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© Contreras /AP/lapresse
left.it
semicrollati, con ringhiere accartocciate qua e là.
Che i civili siano ormai uno dei bersagli preferiti
dalle forze governative è un pensiero comune tra i
siriani. «Ho perso mio figlio e mia figlia e non erano certo combattenti», conferma Umm Muhammad, una donna di 70 anni, con un lungo abito nero ingrigito dalla polvere che le lascia scoperto solo il volto segnato da rughe profonde. È a pochi
metri dalle macerie di almeno quattro palazzine
rase al suolo due mesi fa da alcuni missili nella zona di al-Ansari al-Sarqi. Dai calcinacci, dice, «solo
un bambino e una bambina sono stati estratti vivi.
Ora me ne prendo cura io». Per le altre 60 persone
non c’è stato nulla da fare.
Come a Sarajevo nel 1992, il pericolo
sono i cecchini. Ci sono strade
dove si può solo correre e sperare
Quando ci si avvicina al fronte che divide la
Aleppo controllata dall’Esl dalla Aleppo delle forze armate fedeli al regime, il pericolo sono i cecchini. Come nella Sarajevo assediata del 1992 ci sono
aree e strade da cui è meglio stare alla larga o dove bisogna correre e sperare. Il leader di una brigata di ribelli indica la collina da dove provengono i
colpi: «Dalle informazioni che abbiamo i cecchini
sono soldati iraniani e miliziani libanesi di Hezbol42
lah», spiega all’angolo di una via che si affaccia su
quella che chiamano «strada della morte». Cammina sicuro nel suo quartiere. Tuta da ginnastica, gilet nero con tasche lunghe e ricurve per i caricatori, bandana nera in testa. Il kalashnikov è ben saldo nella mano sinistra dove, sotto un orologio che
sembra d’oro, si intravede un piccolo cuore trapassato da una freccia, tatuato tra il pollice e l’indice.
Abu Ahmad, 36 anni, è di al-Marja, un quartiere di
Aleppo in passato duramente colpito dalle forze
del regime. Ci indica tre fagotti di coperte e lenzuola lungo il marciapiede. «Ci sono tre martiri là,
andate a vedere». I corpi sono proprio di fronte
all’ospedale Zahsur. Abu Ahmad ne scopre il volto e il petto. «Non sono militari, non sono combattenti dell’Esl, ma normali lavoratori», afferma
indicando i vestiti che hanno indosso. I corpi sono stati trasportati dal quartiere di Ramouse, nel
sud della città, dove il fuoco dei cecchini è costante. Le persone si fermano, alzano il lenzuolo per
vedere se conoscono i morti, se possono dar loro
un nome. «Una scena non inusuale qui», confessa
Maher, il traduttore. A pochi metri da lì Abu Islam,
che prima della guerra faceva il tassista, vende
spremute fresche di arance e mandarini come se
niente fosse. Come un bisogno di normalità.
«Le persone sono stanche del caos e della confusione», spiega Masim al-Sheik, 44enne responsabile della Polizia militare rivoluzionaria di Qa13 aprile 2013
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mondo
© LaPresse/Zuma
left.it
di Askar. «La nostra organizzazione fa parte della formazione Liwa al-Tawhid. Cerchiamo di tenere sotto controllo la corruzione e i comportamenti
scorretti dei combattenti, ma organizziamo anche
gruppi per dirigere il traffico e altri servizi alla cittadinanza». Nell’universo dell’opposizione questa sta diventando una pratica sempre più diffusa: riformare un tessuto istituzionale e assicurare alcuni servizi minimi alla popolazione che
abita nelle aree sotto il controllo dell’Esl e delle altre brigate. È il ruolo che si è dato il Consiglio della sharia, in cui sono presenti esponenti
dei gruppi islamisti di Jabhat al-Nusra, Liwa alTawhid e Ahrar al-Sham. «Abbiamo uffici in tutta
la città e ci occupiamo di sicurezza, scuole, amministrazione della giustizia ma anche della distribuzione e il commercio di abiti e pane», spiega Abu Yahir. «Ad Aleppo aiutiamo - e in parte gestiamo - 168 forni per la produzione di pane». Ma
senza un coordinamento o un’organizzazione,
vincono rivalità ed equilibri precari, che lasciano drammatica la situazione della popolazione.
«Con due dollari si compra giusto un chilo di pomodori», dice Umm Faris. «Vivevamo in un bellissimo Paese e ora siamo poveri. Riesco a malapena
a sfamare i miei bambini». Umm Faris ha 55 anni,
parla mentre cammina tra le macerie di un palazzo nel quartiere di Jabal Badro. «Era così bello qui,
ora le nostre case sono distrutte», aggiunge. L’as-
left 13 aprile 2013
«Che dio prenda Bashar e ci vendichi», dice
una donna camminando tra le macerie
senza di servizi di base e l’accumulo dei rifiuti lungo le strade rendono la situazione sanitaria difficile, i medicinali sono una merce preziosa. Umm
Faris alza la manica scura del suo abito, mostra gli
effetti della leishmaniosi sulla sua pelle. Un’infezione che chiamano anche «bottone d’Aleppo», tipica di alcune zone della Siria. «Che Dio prenda
Bashar e ci vendichi», dice lei.
In alto, Al Amryia,
quartiere di Aleppo,
miliziani del Free syrian
army. Nella pagina
accanto, sfollati in fuga
dagli scontri tra milizie
ed esercito regolare
L’area settentrionale del Paese è sotto il controllo dei ribelli dell’Esl, ma alcune aree rurali rimangono al centro di tensioni, con centinaia di
gruppi di ribelli che fronteggiano gli shabiha,i
miliziani fedeli a Assad. I rapimenti per scambio
prigionieri sono una realtà frequente in zone dove i gruppi opposti sono a contatto. Come a Nubl e Zahraa, le due cittadine sciite a nord di Aleppo nelle mani dell’esercito regolare, assediate dai
ribelli. Le due parti si confrontano con colpi di
mortaio e razzi e circa un centinano di prigionieri, da una parte e dall’altra, sono merce di scambio e ricatto. E non importa che siano militari o
civili, siriani o stranieri, come i 4 giornalisti italiani fermati al confine turco. Tanto qui ogni vita ha
un prezzo. E si paga giorno per giorno.
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newsglobal
mondo
© young-joon/ap/lapresse
left.it
La guerra di corea
Contro le esercitazioni militari congiunte tra Seul e Washington si schierano anche gli stessi sudcoreani, preoccupati per quella che definiscono
una “provocazione” nei confronti di Pyongyang. Il 9 aprile hanno manifestato davanti all’ambasciata americana, esponendo cartelli contro il
presidente Usa. Tra i motivi della protesta, l’annunciata chiusura del sito produttivo di Kaesong, al confine delle due Coree, ultimo simbolo del
tentativo di riavvicinamento tra i due Paesi.
1 rublo
Altro che voli low cost.
Per 1 rublo, cioè 2 centesimi di
euro, il miliardario russo Alexandre Lebedev ha venduto un’intera
compagnia aerea. La Red Wings
è stata ceduta a questa cifra
simbolica in polemica con la
decisione delle autorità di Mosca
di ritirare l’autorizzazione al volo
dopo un incidente aereo
«Mio padre è contento
perché vede che sono
più famoso di
Ban Ki-moon,
il segretario
delle
Nazioni
unite»
Il cantante coreano
Psy, ideatore
del tormentone
“Gangnam style”
Niente aiuti,
c’è l’austerity
Gli aiuti dei Paesi ricchi ai
Paesi poveri sono diminuiti
per il secondo anno consecutivo, secondo quanto rilevato
dall’Organizzazione per la
cooperazione economica e
lo sviluppo (Oecd). Nel 2012
il calo è stato del 4 per cento,
con punte del 49 per cento
in Grecia e del 38 per cento
in Italia. In controtendenza
invece la Corea del sud (+18)
e l’Australia (+9).
crisi della settimana Dopo giorni di tensione in Cisgiordania, i carri armati israeliani, supportati da
elicotteri da guerra e bulldozer, sono entrati nella West Bank e nella striscia di Gaza. Numerosi palestinesi
sono stati fermati e condotti nelle carceri israeliane. L’operazione avviene a un giorno di distanza dalla visita
del segretario di Stato Usa John Kerry, che il 7 aprile ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen.
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13 aprile 2013
left
mondo
left.it
© Cubillos/ap/lapresse
Dopo Marx, Capriles?
L’opposizione venezuelana ci spera ancora, anche se la maggior parte dei
sondaggi non lasciano spazio all’ottimismo. Il leader del centrodestra Henrique Capriles tenterà domenica 14 l’operazione impossibile: sconfiggere
alle presidenziali Nicolás Maduro, il delfino di Chávez designato successore
dallo stesso leader bolivariano. Dodici giorni appena di campagna elettorale
per una battaglia tra due ideologie: da un lato il socialismo latinoamericano incarnato da Maduro,
privo della caratura di Chávez ma
sostenuto da molti capi di Stato
del continente. Dall’altra il liberismo del miliardario amato dagli Usa, che può contare solo sul
sostegno della Colombia, ansiosa di costruire nuove alleanze.
la curiosità
Con le mani nella cioccolata
La Nutella fa gola a molti, persino ai ladri. Dietro al
furto di 5 tonnellate di Nutella potrebbe esserci la stessa
banda che due mesi fa ha rubato un carico di bevande
energetiche. È successo a Bad Hersfeld, cittadina
tedesca a 150 chilometri da Francoforte, dove il 7 aprile
una gang di rapinatori ha svuotato un intero camion,
portandosi via 16mila euro in cioccolata spalmabile.
Quando si dice fare la spesa all’ingrosso.
investimenti
Dove osano i cinesi
THATCHEREIDE
«La gente mi dice
che non dovrei
gongolare. Beh, io
sto gongolando»
Marzo 1985, dopo aver
vinto il braccio di ferro con
i sindacati dei minatori
«L’Anc di Nelson
Mandela è
un’organizzazione
terroristica»
Ottobre 1987, rifiutando
le sanzioni contro il regime
sudafricano, accusato di
apartheid
«Lei ha portato la
democrazia in Cile»
Marzo 1999, durante un
incontro con il dittatore
Augusto Pinochet
«Curare la malattia
britannica con
il socialismo
è come curare
la leucemia con
le sanguisughe»
Nonostante la crisi, gli investimenti cinesi crescono. La Heritage foundation ha fatto i
conti in tasca a Pechino, verificando dove, quanto e come spende la Cina nel mondo.
A sorpresa, il primo partner commerciale è l’Australia con le sue materie prime (58
miliardi di dollari nel 2012) seguita dagli Usa (54 miliardi, per lo più in titoli e azioni).
left 13 aprile 2013
Da Gli anni di Downing
street, l’autobiografia
uscita nel 1993
45
D’Amico
48Tano
si racconta
oggi
54Narrare
il Sudafrica
cultura
Giunge alla quarta edizione
la manifestazione d’approfondimento Giornate della Laicità, in
programma a Reggio Emilia dal
19 al 21 aprile. Ospiti di grande
spessore animeranno i 16
incontri, tra i più attesi il giurista
Stefano Rodotà, il ginecologo
Carlo Flamigni, il giornalista
Curzio Maltese e la sociologa
Chiara Saraceno. L’edizione di
quest’anno sarà incentrata sul
tema dei diritti.
cultura
Tano
D’Amico
belli, sporchi
e cattivi
di Arianna Catania ed Elisabetta Galgani
13 aprile 2013
left
Ragazza
e carabinieri (1977)
Dalle lotte contadine
a Occupy, dai funerali
di Fava al M5s.
Quarant’anni
di conflitti sociali
e movimenti.
Visti con lo sguardo
del fotografo
simbolo degli
anni Settanta
left 13 aprile 2013
In alto, Catania, funerali di Giuseppe Fava (1984). Sotto, Sulle barricate di Genova (2001).
Nella pagina accanto, dall’alto in senso orario: L’eterna lotta dei senza casa (1977); Tumulto per il pane, Napoli (1972);
Bambini di Scicli; una studentessa universitaria del movimento la pantera, Roma anni 90; Napoli, operai in piazza (1983)
13 aprile 2013
left
left 13 aprile 2013
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cultura
left.it
L
o hanno definito “il fotografo dei vinti”. Lui
nicchia, si schermisce, poi ammette: «Adesso sono vinti ma, in futuro, chi lo sa...». Tano D’Amico, 71 anni, è il fotografo delle più belle
immagini simbolo degli anni Settanta: il movimento studentesco, le donne in piazza, i conflitti sociali. È appena uscito il suo ultimo libro Anima e memoria (Postcart edizioni) che ne ripercorre la vita
professionale da “reporter di strada”. «Il regno delle immagini appartiene a loro, ai vinti. Il punto di vista si trasforma solo quando sono gli insoddisfatti
a farlo cambiare, non muta di certo grazie a chi detiene il potere. Chi è soddisfatto di come va il mondo è conforme al modo di vedere che già esiste».
Ha cominciato ad amare la fotografia dopo la
strage di contadini di Melissa, in provincia di
Crotone, nel 1949. Che cosa successe in lei?
Nell’Italia del Dopoguerra i militanti del Pci si alzavano presto e affiggevano l’Unità sulle rovine dei
bombardamenti. Un giorno vidi la prima pagina su
Melissa, andavo in seconda elementare a Milano, lessi i titoli e
i sottotitoli: oltre ad uccidere i
contadini che avevano occupato le terre incolte, i militari abbatterono tutti i muli e i cavalli. Uccidere gli animali significava dire chiaramente che per
loro era ormai impossibile vivere lì. Non misi in collegamento quell’evento con gli accordi dell’Europa sul carbone e l’acciaio. Mi fu chiaro
più tardi: nello scambio alcuni Paesi mettevano le
risorse, altri gli uomini che le estraevano. I contadini, quindi, erano già stati “venduti”: per ogni minatore che andava in Belgio, c’erano tonnellate di minerale che arrivavano in Italia.
Lei ha vissuto l’infanzia a Filicudi, nelle Isole
Eolie. Quale ricordo ha di allora?
Vivevo a Messina, e quando mia nonna seppe che
soffrivo di tosse compulsiva - avevo solo un anno decise di portarmi sull’isola di Filicudi dove son rimasto fino agli anni della scuola. Avevo una casa di
campagna, con gli animali e le viti. I miei compagni
di giochi erano le bestie. I veri valori mi sono stati
insegnati dagli animali, che non sono competitivi.
Ma un giorno capii che venivano venduti e uccisi e
mi trovai solo.
Quando ha cominciato a fotografare?
Ho iniziato giovanissimo, ma poiché era un lavoro
difficile, volevo tirarmi indietro e fare altro per vivere. Mi chiamò un occupante delle case, convinto
che avrei portato la realtà di quel movimento sulle
prime pagine dei giornali. Allora non avevo un soldo, sopravvivevo mangiando pane e bevendo tè.
«Non mi paga nessuno», gli dissi. I periodi di conflitto sono anche periodi di grande gentilezza: lui
mi chiese scusa e trovò i soldi per pagarmi. Presi
dei rulli e scappai a Casal Bruciato, a Roma. Da lì,
cominciò uno dei miei lavori più belli.
Le sue foto raccontano i conflitti e la vita reale. E sono intrise di bellezza.
Le mie foto rompevano con l’immaginario esistente, ma piacevano molto. All’epoca c’era una vera
e propria pornografia degli operai: rappresentati
con la bocca aperta, mostruosi, “brutti, sporchi e
cattivi”. Come dice Ken Loach: gli operai vengono
mostrati “o come dei miserabili, come dei vinti, o
come una minaccia”. Io ho rifiutato sempre questa
mentalità, che era uguale a quella della polizia. Alcuni critici più o meno affettuosi, nel corso della vita, mi hanno
detto che ho fotografato sempre
“i belli e le belle”. In realtà “i belli e le belle” sono i nostri compagni di scuola, i nostri nonni, il vicino sull’autobus. Sono stato
sempre cosciente che molti sorrisi, sguardi intensi mi sono stati
regalati. Come la ragazza con il
foulard che rimane una protagonista misteriosa della mia vita: lei non si è mai fatta
viva per dire “sono io quella della foto”. Come è apparsa, è scomparsa.
La “sua” ragazza con il foulard del ’77 è diventata un simbolo. Ed è molto simile alla
copertina del Time sull’uomo dell’anno del
2011: The protester, dedicato a Occupy e alla Primavera araba. Foto simili che raccontano mondi differenti?
Il movimento del ’77 era molto più consapevole
di Occupy. Dalla sua nascita in Occupy c’è sempre stata una schiavitù dell’immagine: si prestava
molta attenzione ai mezzi per diffondere le foto del
movimento in tempo reale. Ma questo nasconde
una completa incapacità di fare memoria di quelle immagini. È accaduto lo stesso con la Primavera araba: mi sembra che i ribelli si siano distrutti
con le loro immagini, perché molti scatti hanno
confermato gli stereotipi sugli arabi, come quello
Oggi le foto
non restano più
nella memoria.
Sulla stampa appare
solo un’immagine
mostruosa dei
movimenti sociali
A destra,
una sequenza
di ritratti
di Tano D’Amico
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13 aprile 2013
left
cultura
left.it
di un’umanità rabbiosa e sanguinaria. Mi ricordo
invece un lutto in Palestina: la ritualità del funerale assomigliava alla Deposizione di Cristo del Caravaggio. Riportato sui media, tutto si tramuta. Nel
periodo definito come “la civiltà delle immagini”, i
“vinti”, gli “ultimi” subiscono un furto di bellezza e
di dignità. Ai movimenti attuali interessa comparire sui media, sui giornali, non è importante “in che
modo” compaiono. E spesso i movimenti sono rappresentati come dei veri e propri “mostri”.
Ieri i movimenti sociali, oggi il Movimento 5
stelle...
Del M5s mi preoccupa il rispetto strenuo della legalità: chi ha avuto delle condanne non può andare in Parlamento, ad esempio. Hanno studiato poco la nostra storia: anche i militanti dell’M5s potrebbero andare in carcere perché esiste un potere che si difende e se lo minacci davvero. Così è stato anche per persone miti, come Turati ad
esempio, che entrava e usciva di galera. Durante
il fascismo la legalità ha significato denunciare il
tuo compagno di banco ebreo. La legalità ha avuto degli aspetti mostruosi. Questo culto della legalità mi spaventa: mi preoccupa che un certo tipo di sinistra cerchi un giudice che lo rappresenti.
Tra gli eventi che ha documentato, i funerali
di Pippo Fava, il giornalista ucciso dalla mafia nel 1984.
La7 sta realizzando uno sceneggiato tv su Pippo
Fava e mi ha comunicato che non esistono foto del
suo funerale. Io invece c’ero e ho fotografato. E ricordo che allora molti dicevano che Pippo Fava
era stato ucciso per “oscuri motivi”. Il mondo della “legalità” non partecipò al suo funerale. Dov’erano i giornalisti, i fotografi, le televisioni? Dov’erano i giudici?
Nelle sue fotografie c’è anche la nascita del
movimento femminista.
Negli anni 70 le donne uscivano insieme: durante
i loro cortei, Roma era deserta, con i negozi chiusi e si sentiva lo scalpiccio e il frusciare delle loro
vesti. Mi ricordo, un giorno, la voce sottile di una
ragazzina che urlava: «Donna, lo sai la forza che
hai». E in risposta la voce di centomila donne che
faceva tremare i muri: «Sì, lo so, la forza che ho».
Queste donne appartenevano a tutti i ceti, era emozionante. Non sono così le femministe di oggi. Ad
esempio non amo le mobilitazioni del movimento Se non ora quando: sono le donne perbene che
se la prendono contro le “puttane”. Alla loro ma-
left 13 aprile 2013
nifestazione, in piazza del Popolo, il 13 febbraio
2011, mi sembrava di assistere all’inizio di Ombre
rosse in cui una puttana viene cacciata con i cartelli dalle donne perbene. È un problema generale. Oggi tutti i movimenti lisciano il pelo alla politica e hanno perso la loro autonomia culturale: non
possiedono un approccio differente, alternativo.
Qual è il rapporto tra fotografia e memoria?
Se non si sta molto attenti a non rincorrere la velocità, le immagini non faranno mai memoria e si
perderanno nell’oblio. Per fortuna col tempo rimangono solo le belle immagini che scacciano
quelle che distorcono la realtà: costruite, urlate,
gridate. E una bella immagine colpisce anche i nemici ed è più forte di mille parole.
Lei è uno dei più noti fotografi italiani. Ma
non ha mai partecipato a un premio fotografico, al famosissimo World press photo, ad
esempio.
Siamo abituati a credere che il premio sia qualcosa di bello in sé: se studi e fai il bravo, vinci il trofeo.
Nella vita sappiamo che non è così. Dunque non
amo i premi. In particolare quelli che premiano solo i reporter di guerra. La mia domanda è questa:
se finiscono le guerre i reporter di guerra che faranno? L’ho detto scherzando, ma il problema è serio: dietro il mestiere di fotografo c’è la ricerca della morte degli altri, del dolore degli altri. Anch’io
ho fotografato la violenza e la morte, lo ammetto.
Ma non l’ho cercata, quello mai.
Ha avuto dei maestri?
Un maestro non è quello che ti dice quale obiettivo
usare: sarebbe come se un dattilografo insegnasse
letteratura. Il maestro è colui che ti dà il coraggio
della tua diversità. Ricordo due grandissimi maestri: uno è stato Franco Pinna, fotografo di scena di
Fellini. L’altro è stato Tazio Secchiaroli conosciuto come il reporter a cui il grande regista si è ispirato per La dolce vita. In realtà i suoi scatti parlavano della società dell’epoca. Amavo il modo in cui
Tazio entrava nelle storie che raccontava: una volta fu immortalato mentre si azzuffava con Walter
Chiari. Era protagonista dei suoi racconti.
Cosa consiglierebbe a un giovane fotografo?
Deve cercare, trovare e sviluppare la sua strada.
Quella che sarà solo sua. Io amo le fotografie per
questo: nel cinema, nell’editoria vince sempre il
più ricco, il più forte. Nelle immagini, invece, non
sempre vincono le lobby e il potere. Molte volte
può vincere la persona più bella.
© arianna catania
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cultura
left.it
I
l viaggio in treno da Le Cap a Stellenbosh è
un’avventura. Ogni giorno o quasi bande di
giovani salgono sui vagoni e, fra due stazioni,
derubano i passeggeri. Io questo treno l’ho preso.
Di proposito. In una tasca cento rand di monetine. Non bisogna mai deludere i rapinatori. Nell’altra un biglietto di prima classe. Una donna dei
servizi di pulizia, grossa e lenta, finiva di scopare
il vagone prima della partenza del treno. Recuperò da sotto il sedile un bastone che mi tese. «Take
care», mi dice... Tenendolo come una sciabola, attaccai il viaggio. Sul binario, centinaia di persone
passarono sotto il mio finestrino; nessuna salì nel
mio scompartimento, e mi spiacque. Due stazioni dopo, per essere meno vulnerabile, passai in un
vagone di seconda, strapieno. Ero l’unico bianco.
Senza dubbio l’unico bianco del treno.
Salirono alcuni giovani tatuati. Tipi sinistri, con
dei numeri sulle braccia: 26, 28. Ornamenti che
alludevano all’appartenenza a una banda di Città del Capo, The Numbers, ex detenuti di cui la
stampa parla spesso. Portare uno di quei numeri significa ostentare la propria vocazione: il crimine. Erano accompagnati da belle ragazze.
di Adriaan van Dis da Città del Capo
A quindici anni dalla fine dell’Apartheid la piaga del razzismo
è ancora aperta. Il j’accuse dello scrittore olandese
che riflette sui danni causati dal colonialismo dei boeri
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13 aprile 2012
left
© Farrell/ap/lapresse
Viaggio
altermine
delSudAfrica
cultura
left.it
© Farrell/ap/lapresse
Posarono uno sguardo sprezzante sul mio bastone, ma fu tutto. Forse quei tatuaggi non erano che
una sbruffonata, forse la presenza delle ragazze
li induceva a trattenersi. In quell’ora e mezzo di
viaggio da Le Cap a Stellenbosh nessun passeggero è stato rapinato. Ottima cosa per i miei compagni di viaggio. Peccato per me. Uno scrittore
ama l’imprevisto. Comunque posso estrarre da
quelle poche impressioni e dalla tensione provata
qualche elemento per nutrire il romanzo che sto
preparando (Tossico edito da Iperborea, ndr),
che si svolge in Sud Africa. Posso anche attingere ispirazione nel ricordo dei viaggi che ho fatto
sulla stessa linea nei miei precedenti soggiorni.
Nel 1973 studiavo a Stellenbosh. All’epoca neri
e bianchi viaggiavano separati. Le stazioni erano
molto più pulite e molto più sicure, per un Bianco.
Capitava che si incrociasse o si superasse un treno zeppo di neri - con le nostre finestre che sfioravano le loro. Potevamo guardarli, potevano guardarci. Non dimenticherò mai i loro occhi. Ci vedevo il disprezzo. L’odio. Ma forse era solo invidia o
ammirazione. O semplicemente lo sguardo vuoto di gente stanca. Oggi bisogna avere della merda negli occhi per non vedere che la società sudafricana è estremamente violenta. Quando al mattino aprite il giornale, il sangue vi schizza addosso... Il sangue di migliaia di uomini e donne violentati. Occorre uno stomaco di ferro per leggere i giornali sudafricani. Overdose di crimini? Voltiamo pagina e passiamo agli scandali finanziari
che coinvolgono gli uomini al potere, dilettiamoci con le loro menzogne, i loro intrallazzi?
In Sud Africa, quello che si è democratizzato
nei primi 15 anni di fragile democrazia è soprattutto la paura. Nei treni, in strada, nel centro delle grandi città... Oggi tutti hanno paura, i poveri
come i ricchi, qualunque sia il colore della pelle.
Ma perché insistere tanto su questa paura e questa violenza? Potrei anche sottolineare alcune
evoluzioni positive. Se ne parlo, è perché in queste storie spunta un pizzico di razzismo... Ora lo
constatiamo: le cose vanno male! Non andavano
meglio prima? Una domanda non del tutto politicamente corretta, ma che oggi si osa fare ad alta
voce. Se continua così, ciò che era politicamente
scorretto, diventerà politicamente corretto. Nessuna persona sensata desidera tornare all’epoca
left 13 aprile 2012
delle leggi razziali, l’uguaglianza dei diritti è acquistata. Ma tante sofferenze per mettere al potere gli
uomini corrotti? Per discriminare le minoranze?
Ecco le domande che oggi si pongono amaramente bianchi, neri, e meticci. Se la prima generazione
dei leader neri era colta, oggi emergono persone
senza istruzione, tanta è la richiesta di quadri. Un
terzo di membri eletti nei consigli municipali sa a
stento leggere e scrivere. Il Paese attraversa una
fase di transizione, il passaggio da una società oppressa a una società libera in cui si cerca a tastoni e con ruvidezza la propria convenienza. Dopo
la gabbia, la giungla. Il Sud Africa imbocca una fase piena di pericoli. Nuovi capi populisti, qui come
altrove, sfruttano la paura dei cambiamenti rapidi che fa vibrare la fibra conformista o fondamentalista. Nel frattempo i problemi sociali assumono
proporzioni gigantesche. Ed è possibile che le cose vadano di male in peggio: il movimento di liberazione trova molte difficoltà a diventare un partito di governo. Non si contano più, nell’Anp, gli
esempi di nepotismo e corruzione. Anche questo
fa parte della fase di transizione.
Ma anche se le strade si degradano perché il vicesindaco incaricato della manutenzione si mette in tasca i soldi, anche se si nomina nei ministeri
gente ignorante, anche se i politici corrotti si aiutano l’un l’altro a tenere la testa fuori dall’acqua...
Il cittadino sudafricano ha comunque la possibilità di migliorare le cose. Il popolo è libero. Libero
di accettare la decadenza. Libero di combatterla.
Ancora una volta nel Sud Africa c’è chi si oppone
al partito al potere. Scrittori e intellettuali di primo
piano, che hanno fatto sentire la loro voce in passato, si fanno sentire di nuovo. Le critiche più severe arrivano da pensatori, sindacati e movimenti
neri, per esempio la Treatment Action Campaign.
Se mai un giorno il governo impedirà la diffusione
delle cattive notizie, toccherà a noi lottare contro
questa censura. Che importa la distanza! Ciò che
conta è il nostro aiuto e la nostra vigilanza. Il nostro coinvolgimento! È un atteggiamento da privilegiati? Una ragione in più per esserci. Oggi che il
Sud Africa fa davvero parte dell’Africa, non possiamo abbandonarlo al suo destino. Per ciò che mi
riguarda, l’unica scelta è l’impegno.
Per gentile concessione di Iperborea,
traduzione di Gabriella Basso Ricci
Lo scrittore olandese
Adriaan van Dis.
Il 13 aprile presenta
il suo nuovo romanzo,
Tossico ( Iperborea)
al festival Incroci
di civiltà, a Venezia
55
trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
Prima del “padre” è necessario l’essere umano
senza scissione tra coscienza e pensiero senza coscienza
AMARE
non è identificazione ma identità
E
ra presente l’inverno. Ci siamo sentiti al
telefono con un vecchio amico e lui mi disse:
sta attento, una certa area culturale vuole
riproporre ed imporre la figura del padre.
Poi vidi una recensione che parlava di Telemaco e,
ovviamente, del padre Ulisse...che uccise tutti i Proci.
Poi un articolo di quindici anni fa: Il padre non c’è più
e il Paese è impaurito. “... è venuta meno la figura del
padre e che questa lacuna di paternità è una delle cause
non marginali delle perdita d’identità e della nevrosi
diffusa... Se il padre ha dimissionato non ci saranno
più neppure i figli, i fratelli, e cugini, mancano i punti
di riferimento... la gerarchia famigliare aveva il compito
di trasmettere l’identità, la memoria storica, ed il sapere
orale. Questo mondo è affondato ma, poiché la natura
non sopporta il vuoto, al posto del padre, della madre,
dei fratelli, si è insediata la cultura del branco”.
Poi ancora un articolo su il Manifesto “... creato
il mito del padre come colonna portante della nostra
civiltà. Questo mito opprime ugualmente il desiderio
femminile e quello maschile annullando la differenza tra
i sessi e la loro complementarità”.
È in libreria la nuova edizione di Bambino, donna e
trasformazione dell’uomo. Lo scrissi nel 1979 quando
ormai era certezza che l’Analisi collettiva, nelle sue
quattro sedute di psicoterapia di gruppo, si sarebbe
salvata continuando la cura e la ricerca.
Ora ho citato alcune righe di due articoli in cui il senso
del primo rivela una ideologia antica di migliaia di anni
e l’altro idee sul rapporto uomo-donna. Scrissi pensieri
simili nel ’79-’80, quando dominava incontrastato il mito
del padre.
Nel 1975, andai all’Istituto di psichiatria a fare
supervisioni ad un gruppo di aspiranti “psicoanalisti”. Si
trasformò ben presto in una massa di gente sconosciuta
quando, il 13 gennaio 1976, una ragazza raccontò un sogno
ed io risposi con parole che trasformavano la descrizione
delle immagini oniriche in linguaggio verbale.
Così ho raccontato tante volte ed ora posso usare
parole diverse per affrontare, di nuovo, la... figura del
padre. E ripenso alla lettera del 29 gennaio 1979 in cui si
intimava la cessazione dell’attività dell’Analisi collettiva.
Era il direttore, signore e padrone della cattedra di
psichiatria che diventò Mosè che uccise tutti gli adoratori
del vitello d’oro, oppure il dio che purifica il mondo dalla
“corruzione” di Sodoma e Gomorra.
Ho scritto l’eterna e tragica ripetizione del fratello che
uccide il fratello per trovare una identità di forza e potenza.
Ciò accade in Laio che abbandona Edipo sul monte Ida ed è
insieme al pensiero malato e criminale che, per la forza e la
potenza, è necessario che “Calcante uccida Ifigenia”.
Dopo tanti anni ho rivisto il film di Herzog Cuore di
vetro del 1976. In esso si può leggere una sensibilità nuova
rispetto agli antichi greci ed una intuizione dell’esistenza
di una realtà nascosta, pensata come sangue. Ed il sangue
di una donna giovane è il necessario cibo per sostenere il
morto che non riesce a morire.
Cambiando il movimento del linguaggio articolato
abbiamo raggiunto la conoscenza della realtà umana, mai
pensata. Ho scritto: a partire dalla fine del 1800, Dracula,
il vampiro, è il racconto fantastico dello schizoide che,
avendo perso vitalità e nascita, usa il rapporto sessuale
per annullare la vitalità della donna giovane.
Così il rapporto uomo-donna non è desiderio, ma
negazione. La sessualità, soltanto come fisiologia del
corpo, copre la realtà umana della “naturale violenza”
degli esseri umani tra di loro.
Nel 1975 erano stati pubblicati i tre libri in cui il
pensiero era sostenuto dalla certezza che la nascita umana
non era soltanto il fatto fisiologico del respiro e del vagito.
Non era uguale al parto animale come disse Heidegger
usando il termine Geworfenheit. E anche il vagito,
apparentemente simile al miagolio del gatto o al verso del
gabbiano, in verità è, non diverso, ma un’altra realtà.
Riuscii a pensare e vedere che la realtà biologica
umana aveva la potenzialità di generare la realtà non
Altrimenti il padre pensa che il neonato sia animale
56
13 aprile 2012
left
left.it
materiale del pensiero. Ed il fatto, incomprensibile e
mai pensato fu sintetizzato in poche parole: capacità di
reagire che diventa vitalità, capacità di immaginare che
diventa pensiero senza linguaggio articolato.
Dopo la pubblicazione del primo libro, mi diedero il
titolo onorifico di «Antifreud». E non fu soltanto perché
dissi: “Freud è un imbecille”, ma perché la teoria della
nascita umana rendeva obsoleto il pensiero che la nascita
umana era uguale a quella animale e che l’identità umana
stava nell’identificazione con il padre.
Pensai più volte che, rispetto all’identità religiosa che
procedeva verso un essere che era l’imitazione del Cristo,
il termine identificazione poteva essere un progresso
della ricerca sulla realtà umana non percepibile. Ma
rimasi impigliato nella mancata identificazione del
termine... identificazione.
Il significato nato come: identificarsi da, veniva
rovesciato nel significato: essere come l’altro. Il senso
del termine separazione veniva rovesciato nelle parole
essere per un rapporto di fusione con il padre. Essere la
copia del padre.
E venne il pensiero certo che simili idee si basavano
sull’annullamento della realtà della nascita umana basata
sulla separazione. E il termine verbale separazione
divenne trasformazione nello spostamento del corpo, dal
buio dell’essere nel ventre materno, alla luce dell’aria. E
non era: cadere nel vuoto.
Ed allora penso che non avevo più padre. Sapevo della
separazione da mia madre ed avevo compreso che era stata
realizzata nei primi anni di vita. Con il padre seppi, dopo
l’adolescenza, che era stata un’immagine ideale perché era
buono e bravo capace di fare il medico del corpo. Ma io
studiai la medicina del corpo perché volevo fare lo psichiatra.
C’era stata una separazione... dall’identificazione?
Non c’era identificazione perché non c’era rapporto
cannibalico detto introiezione, secondo l’idea di Ferenczi.
Era un’immagine ideale perché, senza rendermi conto,
sapevo che non era malato di mente.
Poi potei pensare: aveva salvato, dall’annullamento,
la sua nascita. Pensai che suo padre era architetto ma lui
fece il medico. Non ebbe bisogno dell’identificazione con il
padre per salvarsi dal cadere nel vuoto.
Ma la sanità mentale, aver salvato la propria nascita, non
mi sarebbe stata sufficiente per fare sessantotto anni di ricerca
sul pensiero senza coscienza proprio dell’essere umano.
Era necessaria la seconda separazione quella denominata:
svezzamento. Ovvero la separazione dal rapporto fisico con la
“madre” che nutre e protegge. Era necessario superare la terza
stazione della vita umana, ovvero l’identità sessuale definita.
Il neonato sente e pensa
senza linguaggio verbale.
L’Analisi collettiva
è un “branco” che,
senza contratto sociale,
è riuscito a ricreare
la nascita umana
che ci distingue
dall’animale,
nonostante la figura
del padre razionale
Vennero perché stavano male. Vennero perché
avevano udito che ero un bravo psichiatra. Vennero
perché avevo l’immagine del ribelle alla psicoanalisi.
Vennero perché non avevo l’immagine del buon
padre che assiste e consola. Una donna, dal fondo della
stanza affollata, disse: ho fatto un sogno: c’era...
Così, per mille e mille volte, la mia voce fece
parole che illuminavano il buio dell’impossibilità della
conoscenza. Non avevano compreso la teoria della
nascita umana, ma udirono la donna che aveva chiesto
l’interpretazione del sogno.
Qualche “maschio”, sui giornali, tentò sempre
di dominare, con la razionalità, la sensibilità della
donna che parlava e la capacità di immaginare di uno
psichiatra che rispondeva. Non volevano distruggere,
volevano con l’autorità del pater familias, annullare la
realtà dell’identità umana irrazionale.
Talvolta la separazione dal padre è tristezza, spesso
è l’angoscia dell’anaffettività e della dissociazione.
Fantasia di sparizione verso la propria realtà di
identificazione con l’altro, apre le porte al vaso di
Pandora di una carenza originaria diventata malattia.
Non sempre. Talora è depressione, la colpa di non
avere la vitalità necessaria per fare il rifiuto. Talora
è ricreazione continua del primo anno di vita senza
parola.
...la ragione è stupida perché anaffettiva nel rapporto interumano...
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57
puntocritico
cultura
left.it
arte di Simona Maggiorelli
Trubbiani, il
miglior fabbro
A sinistra, un fotogramma de Il principe abusivo e, a destra, uno di Ci vediamo domani
cinema di Morando Morandini
Sogni e desideri all’italiana
N
on tutti se ne sono accorti sui
giornali, anzi sui mass media:
il film italiano di maggiore successo
all’inizio del 2013 è Il principe abusivo,
prima regia dell’attore Alessandro Siani,
bel giovane tra i 30 e 40 anni che ha preso parte a film di grande richiamo come
Benvenuti al Sud, Benvenuti al Nord e
ai cinepanettoni Natale a New York, Natale in crociera. Prodotto da Cattleya/
Rai cinema e immesso sul mercato il 14
febbraio, Il principe abusivo è andato
benissimo nei Multiplex e in Campania,
soprattutto a Napoli dove ha toccato il
40% degli incassi. Ha chiamato pubblico
anche a Bari, Catania e Roma, meno bene in tutto il Nord padano, raccogliendo
oltre gli 11 milioni al botteghino. Si calcola che arriverà intorno a 14-15 milioni,
rimanendo a lungo il maggiore successo
commerciale della stagione.
Dopo sette film corti tra il 1990 e il 2011,
superpremiati e un mucchio di pubblicità, Andrea Zaccariello è passato al lungometraggio con Ci vediamo domani
che ha per protagonista il comico romano Enrico Brignano (1966). Gli fanno
compagnia Burt Young (1940) e Ricky
Tognazzi (1955) nella parte del cattivo.
Un matrimonio fallito, molti licenziamenti, investimenti sbagliati e ingenti
debiti, Marcello Santilli (Brignano) è la
(quasi) classica figura del perdente. Viene a sapere che tra i monti della Puglia
c’è un paese abitato in gran parte da ottuagenari non lontani dai cent’anni. Coerente con se stesso, gli viene un’idea
che considera “brillante” e soprattutto
redditizia: aprire nel paese, indebitandosi, un’agenzia di pompe funebri. Con
qualche difficoltà trova alloggio in una
stalla. Tra l’altro, poiché è anche afflit58
to dalla sfortuna, gli sbagliano la costruzione dell’insegna luminosa. Passano i
mesi, ma nessuno dei vecchietti muore.
Quando scopre che Camicioli (Tognazzi), avido direttore di banca, è diventato
il compagno della sua ex moglie (Inaudi), si ammala lui e sono gli ottuagenari a curarlo in vari modi, quasi tutti tradizionali e di incerta efficacia. Un colpo
di scena finale capovolge la situazione.
Date le premesse, una lieta fine era inevitabile. Prodotta da Movie Max group
e Smile Prod., scritta dal regista con un
certo Paolo Rossi (è soltanto un omonimo), è una commedia anomala, qua e là
divertente, un po’ prolissa (103 minuti)
che ha un torto di fondo. Interpretato da
un attore popolare come Brignano, questo Santilli è un personaggio tutt’altro
che comico. Tra l’altro è costretto ad assistere a un funerale, quello della nonna,
che non avrebbe voluto vedere tanto le
era affezionato. Quand’era giovane suo
padre gli dice: «La vita mica è un cameriere a tua disposizione... I sogni so’ desideri... Un sogno deve sta’ coi piedi per
terra... Pijate ’sto diploma e lascia sta’ i
sogni che devono sta’ chiusi a chiave nel
cassetto. E, se proprio non puoi smette’ di sogna’, fatti un cassetto più piccolo così quelli che pensavi sogni modesti, stretti dentro al cassettino, sembreranno sogni in grande e il cassetto non
ti sembrerà mai vuoto». Morale conclusiva: «Eternità è poter dire ogni giorno:
ci vediamo domani». Gran parte del film
è stata girata nell’antica Masseria Lupoli sul versante orientale dell’agro di Cripiano. A Nord dei fabbricati la collina
delle Murge sale sino a 399 metri di quota. È una delle bellezze delle Puglie, poco nota ai cinematografari.
S
trano e affascinante personaggio Valeriano Trubbiani che dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso porta avanti una sua ricerca personalissima nell’ambito dell’arte, infischiandosene delle mode e delle correnti, di ciò che si muove nel panorama internazionale ma anche in
casa nostra. Nelle sue appartate terre
marchigiane - prima a Macerata e poi
ad Ancona - l’anarchico e provocatorio Trubbiani coltiva con appassionata
ostinazione un proprio universo immaginifico, animato da bizzarre creature,
figure fantastiche, lucenti animali fusi
in bronzo con grande maestria artigianale, ancestrali segni e simboli di popoli scomparsi o forse esistiti solo nella sua mente. Un universo che da oltre
un cinquantennio sembra vivere di vita
propria, slegato dalla realtà. Ma che a
uno sguardo più attento rivela una inquieta e sferzante critica alla società e
alla cultura in cui viviamo. I suoi vessilli di potere medievale ridotti a grotteschi totem, le sue selvagge invasioni di «topacci» (come li chiamava Fellini), le sue macchine agricole trasformate in monumenti ci raccontano di
un indomito spirito d’artista, riottoso
ai concitati ritmi della vita contemporanea e irridente verso i suoi idola. Con
piglio corrosivo, che nasconde un fondo di pessimismo leopardiano, Trubbiani si presenta come moderno erede degli artisti rococò e barocchi nel
La mostra di Trubbiani
nella Mole Vanvitelliana (An)
13 aprile 2013
left
cultura
left.it
costruire mirabilia scintillanti di metalli nobili oppure, all’opposto, ricavati da materiali poveri come il legno.
Come la portentosa macchina scenica
che - con la complicità degli architetti
Massimo Di Matteo e Mauro Tarsetti Trubbiani ha realizzato nel ventre della Mole Vanvitelliana. Nell’imponente
costruzione realizzata al porto di Ancona dall’architetto Luigi Vanvitelli tra
il 1733 e il 1738, l’artista marchigiano
presenta sculture, ambientazioni, disegni realizzati tra il 1965 e il 2008 e che
in questo straordinario spazio acquistano un fortissimo impatto scenografico: capace di coinvolgere un pubblico anche molto lontano dalla sua estetica vagamente retrò. Prova ne è il fatto
che questa mostra intitolata De Rerum
Fabula, aperta dallo scorso ottobre, a
grande richiesta, è stata prorogata fino
al 5 maggio. Curata da Enrico Crispolti, l’esposizione presenta 160 opere,
fra le quali la serie di uccelli imbracati e appesi a testa in giù, la selva di barbariche aste di Stato d’assedio (197172), surreali marchingegni da artigiano. Antiretorica e irridente verso ogni
gigantismo, la scultura di Trubbiani si
fa beffe della scultura commemorativa
e allegorica e abolisce ogni sudditanza verso la committenza, cercando anche quando si tratta di opere per spazi pubblici di onorare la scultura come
creazione autonoma, imprevista e straniante. Ma non si tratta di solo ribellismo. «La scultura di Trubbiani contribuisce a costruire il fondamento di una
questione di “alternativa resistenziale”
italiana lungo il XX secolo ed oltre» sostiene il critico d’arte Enrico Crispolti
nel catalogo edito da Silvana Editoriale che accompagna questa rassegna,
perché lavora su «nessi antropologici
e sociali» e di «profondità memoriale».
Ma se è vero che nella sua opera affiorano ricreate in forme del tutto nuove
e inaspettate memorie d’infanzia trascorsa a Villapotenza, narrazioni per
immagini che evocano la vita di paese
nelle botteghe, non sempre - ci permetteremmo di dire - questa trasfigurazione riesce: talora l’accento sulla bizzarria sembra sovrastare tutti gli altri e in
quel caso la scultura rischia di scadere
a mero oggetto curioso.
left 13 aprile 2013
libri di Filippo La Porta
L’eleganza povera di Caproni
A
ccusare un poeta di narcisismo è insensato. Anche Leopardi o Baudelaire erano innamorati della propria dolente e privata affettività al punto di ritenere che fosse di interesse pubblico. Dal VII secolo a.C. i lirici greci si convincono che i loro umori sono così rilevanti, così esemplari che vale la pena cantarli per il pubblico con flauto e cetra. Insomma, i poeti egocentrici (anzi egocosmici, come osservò Saba:
si sentono, del tutto arbitrariamente, il centro del mondo).
Il punto è allora un altro: che uso fare del proprio naturale e
incorreggibile narcisismo? Leopardi e Baudelaire ne hanno
fatto un ottimo uso, dal punto di vista espressivo, traducendolo in versi immortali
che riguardano tutti. C’è una pagina illuminante delle Prose critiche di Giorgio Caproni (nella foto), nell’ultimo volume (1963-1989) pubblicato insieme agli altri 3 da
Aragno per la cura e introduzione di Raffaella Scarpa e prefato da Gian Luigi Beccaria. Si tratta di un acquisto impegnativo (150 euro) ma l’opera li vale. Raccoglie
ben 500 articoli militanti di Caproni, forse il più grande poeta italiano del secondo
’900 (antiermetico e antinovecentista in virtù della sua “eleganza povera”) dal ’34
all’89, pubblicati su quotidiani e riviste: scritti d’occasione, recensioni puntuali e
“di servizio”, ritratti smaglianti di autori, riflessioni sul suo “mestiere” di poeta, anzi di scrittore in versi, come umilmente precisava. Ma torniamo alla pagina cui accennavo, del 1985. Caproni definisce qui il poeta un minatore, capace di calarsi più
a fondo degli altri nel pozzo del proprio io, fino a trovare il noi. Dalla singolarità alla pluralità: «Ogni narcisismo cessa non appena il poeta... riesce a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi quei nodi di luce che non sono soltanto dell’io, ma
di tutta intera la tribù». Cercando la sua verità trova la verità di tutti. E, come diceva Proust, quando uno legge un poeta, in fondo, non fa che leggere se stesso. In ciò
consiste la funzione civile della poesia, e non nell’affrontare temi sociali. Ecco, in
queste poche righe Caproni, che era anche maestro elementare (e musicista) spiega con mirabile semplicità l’essenza del fare poetico, solo apparentemente intimistico o solipsistico. E di ciò, noi lettori appartenenti alla “tribù” gliene siamo grati.
A sud del
confine a
ovest del sole
di Murakami Haruki,
traduzione di
Antonietta Pastore,
Einaudi,
204 pagine
20 euro
IL cantiere
di Juan Carlos Onetti,
traduzione di
Ilde Carmignani,
Sur,
233 pagine
15 euro
Capelli blu
di Valerio Nardoni,
Edizioni E/O,
144 pagine
16 euro
scaffale
Un Murakami che farà innamorare anche i più strenui
detrattori. Grazie all’irresistibile dodicenne Hajime che
sente esplodere un sentimento nuovo stringendo la mano
della compagna di classe. L’incanto dell’infanzia, del primo
amore, al ritmo sincopato del jazz. Torna in libreria in nuova
traduzione uno dei libri migliori dello scrittore giapponese.
è stato uno dei nomi più importanti della letteratura sudamericana. Uruguaiano, giornalista, perseguitato dalla
dittatura Onetti (1909 -1994) è stato autore di romanzi
raffinati, inquieti, con il gusto del paradosso come questo suo secondo libro pubblicato da Sur che meritoriamente ne sta pubblicando l’opera completa in Italia.
Come un funambolo senza fune, allargando le braccia
per tenersi in equilibrio sul franante presente. Livorno.
Ma con i sottotitoli, come al cinema. Dalla città dove tutti
si sentono un po’ artisti un romanzo stralunato e seducente su giovane che non bussa più a nessuna porta.
Finché qualcuna, inaspettata, bussa alla sua.
59
bazar
cultura
left.it
buonvivere
di Giulia Ricci
Pedalare
e resistere
Il Personaggio di Camilla Benacchioni
Baliani: io, un “agitprop” P
ssere liberi è un lusso che
pochi artisti oggi si possono
permettere. Soprattutto in teatro.
Liberi di scegliere, di pensare, di
interpretare, di raccontare che c’è
un mondo oltre quello senza futuro e speranze, che suona tanto di
alibi per non cambiare mai niente. Marco Baliani è uno di questi.
Artista coerente e appassionato,
una vita tra cinema, teatro e letteratura, continua a credere nel ruolo della parola, scritta, parlata o recitata. E nel valore dell’individuo
punto di partenza e d’arrivo di tutto il suo percorso artistico dall’ormai classico Kohlhaas (1989), alla continua ricerca di forme nuove
di narrazione. In attesa dell’uscita,
a maggio, del suo nuovo romanzo
L’occasione (Rizzoli) è in tournée
con lo spettacolo Identità con Maria Maglietta e a giugno tornerà in
scena con Stefano Accorsi, dopo il
Furioso Orlando, per una inedita
rilettura del poema di Ariosto.
Perché ha scelto di affrontare il
tema dell’identità?
Oggi è un argomento che è diventato motivo di conflitto, esaltata o
negata. In passato è stata al centro
di guerre, stermini e campi di concentramento. Invitiamo lo spettatore a fare un viaggio intorno ai vari significati della parola identità
osservandola da punti di vista diversi: non diamo giudizi. Rappresentiamo dei frammenti: il giovane universitario inglese che improvvisamente decide che la sua
identità è quella del martire e si
fa esplodere nella metropolitana.
Oppure prendiamo una donna la
cui l’identità è negata da un uomo
che la maltratta fino al pestaggio.
Oppure 4 poliziotti contro un tossicodipendente, un altro annullamento dell’identità.
Anche in questo caso dunque
contamina generi, stili.
60
Marco Baliani
Ora mi interessa di più lavorare sul
dialogo, sul blitz, sui cambi di registro linguistico molto forti. Stiamo vivendo in un tempo contratto,
a volte penso che siamo nell’era di
Beckett, un tempo ovattato in attesa non si sa di cosa, una condizione
in cui ci hanno costretti questi ultimi 20 anni. Inutile continuare a dire che i giovani non hanno futuro,
il problema è che si è negato loro
la percezione del rapporto tra passato, presente e futuro. Per questo
oggi mi sembra importante creare
delle parole che rompano questo
senso di contrazione, lo spiazzino.
Per questo servono dei blitz, bisogna tornare all’“agitprop” del teatro di propaganda.
A luglio sarà a Marsiglia, unico italiano presente ai 50 ateliers de la Méditerranée. Quanto conta la formazione?
Mi piace molto insegnare e trovarmi con giovani attori. Scrivo testi,
romanzi, racconti, dall’altra però
mi piace lavorare in gruppo e vedere cosa viene fuori da un’autorialità corale. In giro ci sono tanti giovani ed energie. Si può fare. Anche
senza spendere capitali, ma nessuno ne parla. Certo, la situazione a livello sociale è cupa ma vanno anche trovate soluzioni. Bisogna risvegliare il sentire della gente dopo
che ci hanno costretti a una sorta di
sonno, un valium collettivo...
© Alessandro Moggi
E
edala pedala, qualcosa cambierà. Perché attorno alla bicicletta si muove tutto un universo, dai mille significati. Uno stile di vita slow,
controcorrente, ecologico e sostenibile. L’ Italia, complice anche la crisi, sta recuperando il gap culturale rispetto ad altri Paesi europei. Provate
a conoscere le mille attività della Fiab
(Federazione italiana amici della bicicletta), per comprendere la “ciclorivoluzione” in atto nel nostro Paese. Il
25 aprile gli eventi dal titolo Resistere,
pedalare, resistere. Poi il 4 maggio la
manifestazione a Milano Pedoni, pedali, pendolari porterà all’attenzione
di tutti la necessità di una nuova politica dei trasporti su due
ruote. Infine mille iniziative per regolamentare e aumentare la rete
di Bicitalia. E naturalmente per divertirsi con biciclettate collettive (info su www.fiabonlus.it).
Tendenze di Sara Fanelli
Stile in noir
S
e siete a Milano in questo inizio di primavera, non potete perdervi la mostra alla Rotonda della Besana. Nel palazzo
barocco sono esposte alcune delle 100 foto
pubblicate nel libro The little black jacket,
Chanel’s classic revisited by Karl Lagerfeld and Carine Roitfeld. L’evento è giunto a Milano dopo varie tappe in giro per il
mondo; tra queste Tokyo, New York, Hong
Kong, Londra, Mosca, Parigi, Berlino e l’ultima città che toccherà sarà Dubai il prossimo 27 aprile. Alcuni indumenti non vanno mai fuori moda: i jeans, la camicia bian-
13 aprile 2013
left
cultura
left.it
di
Bebo Storti
il taccuino
Junior di Martina Fotia
In fondo.
Automi per gioco
«U
na piccola visione del mondo in
un giro di manovella», così
possono essere definiti gli
automi del Modern Automata Museum di Montopoli di Sabina, esposti a Roma
nella mostra Il segreto del
movimento alla Sala santa
Rita fino al 27 aprile 2013.
Si tratta di 57 piccole sculture meccaniche, realizzate da artisti di tutto il mondo in carta, legno o metallo
che, attraverso il movimento, diventano piccoli racconti, spesso ironici. Il suggestivo spazio barocco si
anima con Circo, il più piccolo circo del mondo: due
tigri acrobate, un gatto giocoliere, un leone che salva
il suo domatore, un coniglietto sul filo teso che beffa un coccodrillo, un bradipo e un orso che giocano a
palla, un acrobata che corre sull’uniciclo coi piedi
per aria, un clown in equilibrio su una sedia a sua vol-
ta in equilibrio su una palla. In mostra anche una selezione delle opere più significative del Modern Automata Museum con creazioni di artisti come Peter Markey, Paul Spooner e
Keith Newstead, creatore,
tra l’altro, dell’automa del
film La migliore offerta di
Giuseppe Tornatore. I moderni costruttori lasciano
ampio spazio a semplicità
e forza espressiva creando
così un rapporto stretto tra la parte razionale e quella
fantastica della
mente umana,
tra invenzione
meccanica e intuizione creativa. Che si manifesta nelle opere
stesse, in cui
la parte inferiore è in genere costituita dalla
meccanica - leve,
ingranaggi, ruote
ca e la giacca Chanel. La piccola giacca nera fu creata negli anni Cinquanta da Coco
Chanel, che si ispirò alle divise dello staff di
un hotel austriaco a Salisburgo. Oggi questo pezzo di storia ha assunto
un ruolo di fondamentale importanza nel mondo della moda e nel guardaroba di ogni donna, tanto che, dal 1983 è sempre
stata re-interpretata e ri-proposta in ogni collezione di Chanel.
In questo progetto, realizzato in
collaborazione con Carine Roitfeld, Karl Lagerfeld ha scelto
di fare indossare la petite robe noir a oltre
cento modelli e celebrities, fotografandoli poi nel suo studio di Parigi, New York e
left 13 aprile 2013
dentate, catene - mentre la
parte superiore è una piccola opera d’arte che racconta una storia. In questo
senso un automa può essere paragonato a un haiku giapponese. Una piccola visione del mondo là
in tre brevi versi, qui in un
giro di ingranaggi. Il museo di Montopoli di Sabina,
l’unico del genere nell’Europa continentale, realizza anche progetti Europei
per introdurre nelle scuole
la costruzione degli automi come veicolo di integrazione culturale e di
attivazione di competenze letterarie, artistiche e ingegneristiche.
Cannes. L’obiettivo era quello di captare e
immortalare la contemporaneità, l’eleganza, ma soprattutto la versatilità della giacca, che si adatta perfettamente allo stile e
alla personalità di chiunque la
indossi. Ecco allora, tra le donne, Sarah Jessica Parker, Georgia May Jagger, Charlotte Casiraghi, la top model Freja Beha,
che pare una monaca seducente e Laetitia Casta, dal look più
formale. E poi ancora Poppy
Delevingne, Elisabeth Olsen,
Keira Knightley, Diane Kruger,
Carla Bruni, Carole Bouquet, Hilary Swank.
Tra gli uomini, il ballerino Roberto Bolle e
l’attore Edgard Ramirez.
Eravamo tanti quel giorno a Roma. Marciavamo
compatti e in file ordinate.
Neanche una parola, un grido, uno slogan, uno sfottò.
Silenziosi e con lo sguardo
fisso davanti pieno di minacce. Un milione! Così i
giornali impauriti di regime
ci descrissero! Un milione di
lavoratori che chissà cosa
faranno!? Cosa vorranno!
In questo bel Paese dove
tutto andrebbe bene se non
scioperassero e non avanzassero assurde richieste
che abbiamo pure un papa
buono e dei politici che si
sono tagliati del 6,9 per
cento lo stipendio e allora
cosa volete?! Ma noi non li
ascoltavamo. Marciavamo
in silenzio e questo, faceva
più paura che se avessimo,
nel nostro cammino urlato e
spaccato tutto. Ci eravamo
trovati sul web, dove ottusamente certi politici, per
nostra fortuna, non sapevano andare, miopi loro nel
non dare ai giovani la libera
circolazione nella Rete.
Fateci caso, se appare la
parola libera, ai politici gli
si rizza il pelo sulla schiena,
come a certi predatori! Ci
eravamo trovati e avevamo
parlato, poco invero, e deciso di vederci tutti a Roma.
E ci eravamo arrivati. Avevamo trovato la forza nello
sguardo deluso dei nostri
figli.Tutti insieme adesso
dopo aver raggiunto la
Capitale marciavamo uniti.
Un solo cartello davanti
a tutti enorme e retto dai
primi 20 con scritto DIGNITÀ.
Con la polizia ci eravamo
messi pasolinianamente
d’accordo “siete lavoratori
come noi dai!”. Ed eravamo
entrati in Parlamento, tutti.
Un milione di persone fra
Camera e Senato. Lì avevamo gridato: «CE LA POTETE
RIDARE?!». «Cosa?», avevano squittito i non votati dal
popolo. «LA DIGNITÀ!».
Al loro no avevamo cominciato sì, a spaccare tutto...
e va come va!!
61
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cultura
Palermo
OSTIA
Occhio
siciliano
Il jazz
si fa in
quattro
La Galleria X3, associazione culturale
specializzata in fotografia contemporanea,
presenta a palazzo
Ziino l’esposizione
Geografie e storie di
transizioni #1-#2. La
mostra accoglie 95
opere di trentacinque
fotografi che testimoniano i cambiamenti
antropologici e sociali
degli ultimi due decenni. Fino al 18 maggio.
Milano
Quattro jazzisti italiani
di fama internazionale
si ritrovano insieme
al Pequod di Ostia.
Venerdì 19 aprile
Enrico Pieranunzi,
Roberto Gatto, Maurizio
Giammarco e Giuseppe
Bassi presenteranno
per l’occasione il
loro Italian jazz quartet,
quattro brillanti carriere
riunite in una serata di
grande musica.
GENOVA
TREVISO
Sessualità e cultura
Quarto appuntamento per la rassegna La storia
in piazza. In palazzo Ducale dal 18 al 21 aprile, il
tema è l’identità sessuale, il rapporto tra i sessi
e come è cambiato nel tempo. Tra i molti nomi
anche: Erica Jong, Alain Touraine, Adriano Prosperi, Renato Mannheimer. In contemporanea la
mostra Geishe e Samurai. Esotismi e fotografia
nel Giappone dell’800.
Roma
MILANO
Ricordi di viaggio
La valigia del signor Luciano è il titolo della mostra
ospitata dalla Fondazione Benetton negli spazi
Bomben di Treviso. L’esposizione, aperta dal 13
aprile al 5 maggio, presenta i dipinti che Luciano
Benetton raccolse da ogni parte del mondo. Le
757 opere provengono dal Sud America, dall’ex
Urss e dalla Cina. L’unico limite è il 10x15, il formato più comodo da portare in viaggio.
REGGIO EMILIA
Cracking Italian
Art
design
Con una Pienadirane torna il gruppo
Cracking Art. Dopo la
storica installazione
di chiocciole azzurre
sul Duomo, l’autunno
scorso, Cracking Art
propone fino al 20
maggio una spettacolare performance
con il lancio di rane in
plastica colorata nelle
acque del Naviglio.
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In anteprima al Salone
del Mobile aperto fino
al 14 aprile la nuova
lounge chair ZanottaMaserati racchiude in
sé il design tipico dei
due marchi. Le linee
della Maserati sono
state reinterpretate
per dar forma alla
lounge chair, firmata
da Ludovica e Roberto
Palomba.
Il canto di Montale
Arte solidale
Un appuntamento speciale quello di martedì 16
aprile all’Auditorium di Roma. Giovanna Marini
metterà in musica gli scritti di Montale con un
Oratorio dal titolo Spesso il male di vivere ho
incontrato. I testi del poeta ligure si fonderanno
con frammenti della tradizione greca. Poi, con
La terra del sacro, la Marini ripercorrerà i canti
sacri della tradizione orale. Direzione musicale
di Xavier Rebut.
È un progetto d’arte e di solidarietà quello legato
alla mostra Novanta artisti per una bandiera presso
i chiostri di San Domenico a Reggio Emilia. L’iniziativa, in programma sino al 25 aprile, propone le opere
di 90 artisti italiani e stranieri sul tema del tricolore.
L’esposizione e la vendita di alcune opere garantiranno i proventi necessari alla costruzione, sempre
a Reggio Emilia, dell’Ospedale della Donna e del
Bambino. In foto un’opera di Tullio Pericoli.
13 aprile 2013
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