Dicono di voler cambiare il mondo. Ma hanno davvero qualcosa da
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Dicono di voler cambiare il mondo. Ma hanno davvero qualcosa da
Marò Svelato il tranello fotografia Tano D'Amico, il mio sguardo sulla storia settimanale left avvenimenti poste italiane spa - SPED. abb. Post. - D.L. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) ART. 1, COMMA 1 DCB roma - ann0 XXv - ISSN 1594-123X politica Col fiato sul Colle avvenimenti N. 14 | 13 aprile 2013 left + l’unità 2 euro (0,80+1,20) da vendersi obbligatoriamente insieme al numero di sabato 13 aprile de l’Unità. Nei giorni successivi euro 0,80+il prezzo del quotidiano intellettualE a chi Dicono di voler cambiare il mondo. Ma hanno davvero qualcosa da dire agli italiani e alla politica? di F. Barone, M. Bonaccorsi, F. La Porta, S. Maggiorelli la settimanaccia 2 left.it 13 aprile 2013 left left.it left Direttore editoriale e responsabile Donatella Coccoli [email protected] vicedirettore Manuele Bonaccorsi [email protected] caporedattore cultura e scienza Simona Maggiorelli [email protected] Redazione Via Luigi Turchi 17, 00153 - Roma Sofia Basso [email protected], Paola Mirenda [email protected], Cecilia Tosi [email protected], Rocco Vazzana [email protected] Tiziana Barillà (segreteria di redazione) [email protected] progetto grafico Newton21 Roma Lorenzo Tamaro [email protected] GrAFICA Gianluca Rivolta [email protected] photoeditor Arianna Catania [email protected] INFORMATION DESIGNER Martina Fiore [email protected] Editrice DElL’altritalia soc. coop. Presidente CdA: Ilaria Bonaccorsi Gardini Consiglieri: Manuele Bonaccorsi, Donatella Coccoli Via Luigi Turchi 17, 00153 - Roma Tel. 06 57289406 - Fax 06 44267008 www.left.it [email protected] pubblicità [email protected] stampa PuntoWeb srl Via Var. di Cancelliera snc 00040 - Ariccia (Rm) Distribuzione SO.DI.P. “Angelo Patuzzi” S.p.A. Via Bettola 18, 20092 Cinisello Balsamo (MiI) Registrazione al Tribunale di Roma n. 357/88 del 13/6/88 LA TESTATA FRUISCE DEI CONTRIBUTI DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250 left 13 aprile 2013 la nota di Manuele Bonaccorsi L’informazione a doppia velocità A vete mai passato un pomeriggio in compagnia di un’agenzia stampa? Una giornata premendo il tasto refresh su Repubblica.it? Una nottata in attesa che si aprano le porte di un vertice politico? A noi, che di mestiere facciamo i giornalisti, capita spesso e vi garantiamo che è un duro lavoro. Alla fine si va a letto con un cerchio alla testa, pieni di informazioni, ma con le idee confuse. Chiedendosi che senso ha il proprio lavoro. Non parliamo, poi, di cosa succede in questi periodi di babele politica: il rincorrersi di dichiarazioni, smentite, retroscena, distinguo diventa una catena di montaggio a pieno ritmo, un Tempi moderni dell’industria dell’informazione. Senza moralismi: funziona così, e probabilmente ciò è un bene. Ma noi, che fabbrichiamo un settimanale, che andiamo in stampa a metà della settimana per allietare con le nostre notizie il vostro weekend, quel torpedone di notizie abbiamo deciso di non seguirlo. La nostra scelta è netta: vogliamo un’informazione lenta, profonda. Vogliamo offrirvi l’occasione di staccare per un po’ il cavo di rete e fermarvi a ragionare. È il senso che vogliamo dare al nostro modo di fare informazione. Non siamo luddisti, sia chiaro. Né quelli che, tra un tweet e l’altro, snobbano e maledicono la Rete. Il mondo delle breaking news è senz’altro la moderna frontiera dell’informazione. Noi non vogliamo restarne fuori. Per questo, stiamo lavorando da qual- che mese a un nuovo progetto di informazione digitale, che siamo certi vi stupirà per modernità e completezza, ma su cui per ora preferiamo mantenere un certo riserbo. Anche per non rovinare l’effetto sorpresa. In attesa che arrivi l’armaggeddon della carta stampata - quell’ultima copia del New York Times che da anni fa perdere le notti a tecnici e studiosi dell’informazione - alla carta abbiamo deciso di dare un altro senso. Vogliamo che il nostro giornale sia un gioiello, quasi un oggetto da collezione. Uno spazio che rifugga dall’attualità stringente e veloce. Un luogo per fermarsi e riflettere. Se la Rete è il luogo della velocità, la carta è oggi lo spazio della lentezza. Anche per questo non ci siamo spaventati a dedicare questo numero a un tema che secondo i criteri di notiziabilità vingenti - e imposti chissà da chi ha certo scarso appeal. Il rapporto tra politica e cultura. A partire da un’utile provocazione del nostro critico letterario Filippo La Porta abbiamo indagato la perdita dell’aura degli intellettuali. Il loro difficile rapporto col mondo dei partiti, coi media, col senso comune dominante. Abbiamo chiesto a intellettuali giovani e anziani di raccontarsi e aiutarci a capire. In un’epoca dove urlare è più facile che pensare, noi ci fermiamo a pensare. Se ci sarà da urlare - e ce ne sono validi motivi non ci tireremo certo indietro. Ma preferiamo farlo a ragion veduta. 3 [email protected] spigolature left.it Restiamo umani, ancora una volta © lapresse Sarà in Italia fino al 15 aprile il convoglio Vik Gaza to Italy, dedicato alla memoria di Vittorio Arrigoni (nella foto), l’attivista ucciso il 14 aprile di due anni fa a Gaza. Saranno così i ragazzi palestinesi che ne fanno parte a testimoniare il suo impegno, facendo conoscere quella parte di Gaza fatta di arti figurative, musica, danza, parkour, comunicazione, cinema che sopravvive all’occupazione, alla guerra e al proprio governo. Tutte le iniziative su http://www.freedomflotilla.it/ gli irriducibili del muos Niscemi, c’è un gran via vai di ruspe e operai nel cantiere dell’impianto satellitare Muos. Lo stop ai lavori stabilito da Crocetta il 29 marzo scorso non è bastato agli americani per interrompere le attività. Le immagini registrate da un documentarista, insieme ai fotogrammi ripresi dall’emittente Antenna Sicilia, sono chiare e mostrano che la costruzione del sistema antiradar prosegue. Ma i comitati locali non demordono, forti della vittoria ottenuta con la s.g revoca delle autorizzazioni al Muos da parte della Regione. 682 Le condanne a morte eseguite nel 2012, secondo i dati di Amnesty international. Tra i 21 Paesi che hanno comminato pene capitali spiccano Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita e Stati Uniti 4 ok Linux sbarca a Pechino. Il governo cinese ha scelto l’open source per creare un proprio software di riferimento, dicendo addio a Microsoft. La prima versione cinese - Ubuntu Kylin - sarà rilasciata ad aprile. Libertà o giustizia I dati sui conti offshore diffusi da Wikileaks fanno gola al governo francese. Il ministro delle Finanze Cazeneuve ha chiesto a Le Monde, partner francese dell’operazione, di consegnare i documenti in suo possesso «per permettere alla giustizia di fare il suo corso». Secca la risposta del quotidiano: «A ciascuno il suo ruolo. Farlo significherebbe attentare alla libertà stessa di esercitare il nostro mestiere, in democrazia». Non è la prima volta che la accusano di “abuso di posizione dominante”. Però Google comincia a essere recidiva se, come dicono alla Ue Microsoft e Nokia, continua ad approfittare del “quasi monopolio” nei sistemi operativi per smartphone. ko 13 aprile 2013 left left.it left.it sommario ianno XXV, nuova serie n. 14 / 13 APRILE 2013 copertina compravendita Siria Gli intellettuali si interrogano sul proprio ruolo nell’era di internet e dei social network. Da una parte i pensatori perdono la sacralità del passato, dall’altra rivendicano la voglia di cambiare il mondo. E spunta l’intellettuale a 5 stelle, che influenza il “pubblico” dal web. L’avvocato Bruno Turrà, sodale dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio, viene citato dal pentito Gaetano Vassallo. Gaia Morace, moglie del legale, in società nelle aziende del politico, è nipote di un pregiudicato. Che in passato è stato ai vertici della camorra partenopea. Era una meraviglia della Siria. Oggi Aleppo è prigioniera di due eserciti che si fronteggiano quartiere per quartiere. Un cumulo di rovine su cui governano armi e malattie e dove si resiste come si può, aspettando la battaglia finale. intellettualE a chi 14 la settimana 02 La settimanaccia 03 La nota 04 Spigolature l’incontro 10 Marino: Roma, io ti salverò di Donatella Coccoli copertina 14 Gli intellettuali servono ancora? di Filippo La Porta 15 Sì. Non rinunciamo all’impegno di Simona Maggiorelli 18 Digito ergo sum di Filippo Barone 20 Tronti: liberi e schierati di Manuele Bonaccorsi società 22 26 28 Col fiato sul Colle a cura di redazione interni De Gregorio, il suo socio e l’ombra dei clan di Nello Trocchia I boss che stanno fuori di Corrado De Rosa e Laura Galesi i soci occulti di de gregorio 28 Aleppo sotto tiro 40 IDEE di Adriano Prosperi 30 diario della carovana 06 Il taccuino 07 altrapolitica di Andrea Ranieri 08 la locomotiva di Sergio Cofferati 09 Ti riconosco di Francesca Merloni 56 TRASFORMAZIONE di Massimo Fagioli a cura di Arci di Emanuele Santi a cura della redazione Interni a cura della redazione Esteri 31 Calcio Mancino 32 Cose dell’Altritalia 44 newsglobal 58 puntocritico mondo 34 Marò, eroi per sbaglio di Matteo Miavaldi 37 Nei guai per conto Terzi di Cecilia Tosi 40 Aleppo sotto tiro di Giacomo Cuscunà RUBRICHE cinema di Morando Morandini arte di Simona Maggiorelli libri di Filippo La Porta 60 bazar il personaggio, buonvivere, tendenze, junior 61 in fondo di Bebo Storti 62 appuntamenti a cura della redazione Cultura cultura e scienza 48 Tano D’Amico: Belli, sporchi e cattivi di A. Catania e E. Galgani 52 Viaggio al termine del Sudafrica di Adriaan van Dis Chiuso in tipografia il 10 aprile 2013 Foto di copertina: 123rf left 13 aprile 2013 5 il taccuino di Adriano Prosperi il taccuino La democrazia è morta Il liberismo economico al servizio di una politica conservatrice ha travolto le difese sociali che permettevano a un muratore e a una pensionata di condurre una vita normale U n filo unisce Margaret Thatcher, scomparsa l’8 aprile, e Romeo Dionisi, muratore disoccupato di Civitanova Marche, sua moglie Maria Sopranzi artigiana in pensione e il fratello di lei Giuseppe. Non troppo distanti per età né per origini sociali (la Thatcher era figlia di un droghiere), li ha uniti la politica del “thatcherismo”: il liberismo economico al servizio di una politica conservatrice è quello che, dopo aver trionfato contro le dure resistenze sociali inglesi, ha fatto scuola in tutta Europa e ha travolto le difese sociali che permettevano a un muratore e a una pensionata di condurre una vita normale. Naturalmente tra la responsabilità politica e quella giuridica c’è una differenza sostanziale. Chi ha chiamato in causa la ministra Elsa Fornero e si è chiesto se è capace di dormire sonni tranquilli ha imboccato la scorciatoia emotiva che, se diventa di massa, porta alle sentenze capitali emesse da “tribunali del popolo” e alle stragi di quei cataclismi che sono state le rivoluzioni sociali del passato. Ma nell’Italia di oggi non si sente nemmeno in lontananza il brontolio sordo che annuncia la rivoluzione: si avverte invece il senso di una disfatta sociale, di un chiudersi delle vite nel gelo della solitudine. E questo accade oggi perfino in un piccolo centro di quelle Marche dove la campagna e la città convivono senza scosse e le relazioni di vicinato sono esperienza quotidiana di condivisione tranquilla di fatti della vita. E invece proprio perché in quella realtà l’individuo ha ancora una identità sociale a cui tiene e una faccia da mostrare tutti i giorni agli altri, ecco che l’impossibilità di pagare le tasse e l’affitto, l’allontanarsi all’infinito della speranza di poter restituire un giorno i prestiti e ricambiare gli aiuti, lascia aperta alla fine una sola via di uscita: è con la morte che si pagherà la vergogna dell’esser poveri. Quello che colpisce nella vicenda dei tre marchigiani è proprio il senso di una vergogna schiacciante, il peso di una barriera di silenzio e di solitudine. è così che giorno dopo giorno ha preso corpo la scelta di morire. In una famiglia di anziani l’uomo perde il lavoro e non ha nessuna possibilità di trovarne un altro; non ha pensione e nessuno gliela darà. “Mi prenderanno l’auto?” - si chiedeva angosciata Anna Maria pensando alla sua vecchia Panda vecchia. I loro debiti non erano quelli impersonali e giganteschi delle banche e delle grandi aziende che lo Stato un giorno o l’altro finisce col cancellare. Erano debiti piccoli ma pesavano come un macigno al collo di chi si sentiva affogare giorno dopo giorno. In quei debiti si è materializzata nella loro vita una politica finanziaria decisa a Bruxelles e attuata con tagli ciechi. Quei tagli, quella cancellazione di diritti erano stati varati da un governo privo di ogni delega popolare, privo anche di potere perché obbligato a eseguire ricette decise altrove. Ma le vittime non potevano più uscire di casa e cercare una istituzione che difendesse il loro diritto alla vita e alla tutela sociale. In questa nostra Italia non ci sono più né partiti né sindacati che aspettano fuori di casa per dare forza alla richiesta di diritti . La democrazia è morta. Il potere è una realtà senza corpo, una voce che arriva dalla televisione. Rimane solo la carità antica, quella della Chiesa, quella delle persone caritatevoli: ma questo aumenta la vergogna di chi vuole diritti, non elemosine. Oggi la vergogna loro è finita. Resta a noi cittadini italiani un’altra vergogna: non aver visto ai loro funerali i rappresentanti dello Stato. Dovevano essere lì: ma ancora una volta hanno perso l’occasione di rappresentare il Paese. Dobbiamo essere grati a Laura Boldrini, la presidente della Camera, per aver deciso di andarci. Lei che meno di chiunque altro ha la responsabilità di quelle morti ha mostrato il coraggio, la semplicità e la dignità umana necessari. In Italia il potere è una realtà senza corpo. Rimane solo la carità antica. Che aumenta la vergogna di chi vuole diritti. Non elemosine 6 13 aprile 2013 left altrapolitica di Andrea Ranieri il taccuino Rappresentare il cambiamento Il paragone con gli anni 70 non regge più. Il compromesso storico si è materializzato nel Pd, che però non ha colto il nuovo. L’unica scelta possibile oggi è quella proposta da Bersani N on so quanto corrisponda alle intenzioni del Presidente la lettura che molti organi di informazione e molti politici danno del suo bel discorso in ricordo di un appassionato e lucido riformista come Gerardo Chiaromonte. Quanto sia trasferibile “il coraggio” che il Pci dimostrò nel permettere il varo del governo Andreotti nel ’76 al “coraggio” che ci vorrebbe oggi per varare un governo di grandi intese col centrodestra. E questo al di là delle diversità di giudizio che allora si diede di quella svolta. C’era allora una volontà di cambiamento reale, a partire dal superamento della «democrazia bloccata», che maturava all’interno delle due grandi forze politiche che rappresentavano la maggioranza degli italiani, la Dc e il Pci, e alla loro testa due personalità, Berlinguer e Moro, che di questa volontà si fecero coraggiosamente interpreti. Uno dei due quel coraggio lo pagò con la vita. È difficile scorgere nelle attuali forze in campo qualcosa che possa dare quel carattere “storico” alle grandi intese di oggi. In particolare che sia leggibile nei due dei tre grandi blocchi in cui si divide il Parlamento e l’elettorato qualcosa che abbia a che fare con le due grandi culture - il popolarismo cattolico, il comunismo costituzionale italiano - che diedero vita a quelle intese. I morotei di oggi e i berlingueriani di oggi - e anche i riformisti non proprio berlingueriani che furono parte attiva di quel “coraggio” - sono tutti nel Pd. E sono il 30 per cento del Paese. Il “compromesso storico” si è materializzato in un partito a vocazione maggioritaria che non riesce a essere maggioranza. Questo dovrebbe far riflettere casomai sui limiti di fondo del Pd, che è proprio quello di essersi limitato alla sintesi fra culture storiche diverse e di non aver colto il nuovo che sul terreno economico, sociale, culturale rendeva quelle due culture - un tempo egemoni - una parzialità non più maggioritaria nel Paese. Quello che è cresciuto in questi decenni non è più riconducibile a quelle culture, che impregnavano di sé l’insieme delle organizzazioni di rappresentanza. Abbiamo assistito al crescere impetuoso di un soggettivismo non più rinchiudibile nelle forme tradizionali di delega, sia nella forma di un individualismo consumista e massificato, irresponsabile rispetto al bene comune, sia in una crescente voglia di essere protagonisti in prima persona dei cambiamenti, a partire dal proprio lavoro e dai propri ambiti di vita. Dentro la crisi dello Stato nazione che era l’alfa e l’omega del riformismo degli anni 70. E al presente non sostituito, e forse non sostituibile, dalla dimensione europea. La via d’uscita proposta da Bersani - quella cioè di assumere come leva di un cambiamento possibile la volontà di protagonismo che pure in modo confuso e contraddittorio si è espressa nel grillismo - mi pare l’unica scelta “storica” oggi possibile, al di là dei modi in cui si risolverà nel breve l’impasse politico. Diffido come il Presidente del “fanatismo moralizzatore”. Ma continuo a credere che l’immoralità sia male peggiore del moralismo, e che se la credibilità della rappresentanza democratica è in crisi è responsabilità, più che dei moralisti, degli abusi, delle pratiche corruttive, del trattare la cosa pubblica come cosa propria, di una parte consistente dei rappresentanti. E da cui qualsiasi ipotesi di cambiamento non può che prendere risolutamente le distanze. Continuo a credere che l’immoralità sia un male peggiore del moralismo left 13 aprile 2013 7 la locomotiva di Sergio Cofferati il taccuino Un reddito per tutti L’Italia è l’unico Paese della zona euro assieme a Grecia e Ungheria a non prevedere uno strumento di contrasto alla povertà. Raccolte oltre 50mila firme per una proposta di legge L o scorso giugno, mentre l’attenzione dei più era concentrata su ben altre priorità, è iniziata la campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito. Lunedì prossimo saranno ufficialmente consegnate alle Camere le oltre 50mila firme raccolte in questi mesi, fornendo ai deputati da poco eletti la possibilità di lavorare, con un consenso parlamentare probabilmente diverso rispetto alle legislature precedenti, su un tema di importanza sempre maggiore vista soprattutto la situazione nella quale versa il nostro Paese. Gli effetti sociali della crisi stanno diventando sempre più acuti e il disagio sociale sta coinvolgendo fasce sempre più ampie della popolazione. I dati sono allarmanti: l’ultimo indice di povertà relativa delle famiglie italiane secondo l’Istat è all’11,1 per cento, i dati Eurostat evidenziano che il 24,5 per cento degli italiani rischia di cadere in povertà. A rendere ancora più critico il quadro è la progressiva perdita di posti di lavoro e un livello drammatico di disoccupazione giovanile nella totale assenza di ammortizzatori e protezioni sociali. Se è vero che gli effetti sociali della crisi non hanno una portata nazionale ma sono diffusi in tutta Europa, bisogna notare la grande differenza negli strumenti di contrasto, sui quali il nostro Paese sconta un ritardo notevole: l’Italia è infatti, insieme a Grecia e Ungheria, l’unico Paese della zona euro a non prevedere nessuna forma nazionale di reddito minimo. Questo è innanzitutto uno strumento indispensabile per contrastare concretamente il fenomeno della povertà, il cui emergere è stato per troppo tempo ignorato e sottovalutato, ma è anche allo stesso tempo un’azione chiave di quelle politiche di distribuzione della ricchezza indispensabili per ridimensionare differenze sociali crescenti e inaccettabili, consentire un livello minimo di vita dignitosa per tutti i cittadini e, non da ultimo, aumentare la possibilità di spesa di molte famiglie con evidenti benefici per il sostegno alla domanda interna ridotta ormai all’osso. È evidente che il welfare italiano risulta inadeguato ad affrontare la situazione esistente, lasciando senza alcuna protezione una grossa parte di cittadini. Il nostro sistema, infatti, storicamente costruito attorno al lavoro, non solo lascia oggi scoperto chi il lavoro non ce l’ha, ma è anche stato progressivamente indebolito da vent’anni di politiche di destrutturazione di quei diritti che al lavoro sono connessi. Un welfare moderno ed efficace, piuttosto che teorizzarne il superamento, deve riuscire a combinare questi diritti con una copertura universalistica che garantisca a tutti una vita dignitosa. Il reddito minimo non deve essere considerato come una forma di mero aiuto assistenziale, ma deve essere costruito mirando all’inserimento in un mercato del lavoro meno selvaggio e deve trovare la fonte principale del proprio finanziamento nel risparmio dato dal superamento dei tanti piccoli rivoli di una sicurezza sociale frantumata e inefficace. Questa proposta può essere un grosso elemento di discontinuità rispetto al recente passato e darebbe una risposta rapida a problemi drammatici e crescenti. Lo sarà ovviamente se inserita in un progetto di cambiamento di cui un governo si possa far carico. La confusa situazione del momento non ci consente di essere positivi, ma questa proposta, come diverse altre, sono occasioni concrete per cambiare in meglio il Paese che questo Parlamento non dovrebbe lasciarsi sfuggire. Un sussidio che non è un mero aiuto assistenziale ma permette l’inserimento in un mercato del lavoro meno selvaggio 8 13 aprile 2013 left ti riconosco di Francesca Merloni il taccuino Senza dire una parola Maria, Romeo e Giuseppe se ne sono andati in silenzio e per dignità. Se ne va un intero Paese con loro. La gente laboriosa e schiva. Quella che ha fatto l’Italia che non c’è più S e ne vanno senza dire una parola, senza fare un fiato, se ne vanno senza rumore, così come hanno vissuto. E senza disturbare e senza parlare hanno tessuto la trama di un Paese che scompare con loro. Quello dei contadini, degli artigiani, dei muratori e dei fabbri, dei calzolai e dei pescatori. Se ne va chi aspettava il sabato per andare dalla parrucchiera, chi tirava fuori la macchina dal telone la domenica. L’Italia dei centrini di pizzo e del mobile bar, della lambretta su cui le femmine siedono dietro e di lato. L’Italia dei paesi che respirano diverso il sabato. Quella dei “vociaroli”, ossia gli accordatori di organi. E dei “cantamaggio”, che in gruppo con le fisarmoniche e gli organetti e le chitarre, la sera del 30 aprile vanno per le case a salutare il mese che arriva, improvvisando stornelli in rima. L’Italia che ha fatto l’Italia che non c’è più. Non posso non parlare questa settimana di Maria, di Romeo, di Giuseppe, che vivevano a Civitanova Marche, che se ne sono andati in silenzio e per dignità. Amo quella terra e quella gente. Anche io vengo da lì. La fibra dei marchigiani è mia e mi è cara. La riconosco. E vado oltre qualsiasi parola. La sento. E piango. La terra è gentile, ma aspra. Ci si fa poco. Il paesaggio è di monti azzurri e di lontano mare. Le colline la notte scintillano del nastro dei paesi illuminati. La gente è laboriosa e schiva. Abituata ad andarsene, fino a qualche decennio fa. Abituata a pagare debiti mai contratti. Eppure a fare con poco. Eppure pronta ad aprirsi, a provare, a cominciare. Credo ci sia qualcosa di profondamente perbene nell’aria, come in molte regioni d’Italia, ma qui espresso con pudore. Forse nemmeno riconosciuto. È così e da sempre. E basta. Ecco il tirarsi indietro sempre di un passo. Arrivare sì, ma con i Sempre caro mi fu quest’ermo colle, fatti. Ecco il senso dei gesti. Ricordo i miei nonni, e questa siepe, che da tanta parte tutto quello che mi hanno insegnato, senza dire dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. una parola. Ricordo e ritrovo gente abituata a proMa sedendo e mirando, interminati nunciare parole come “composta” e “custodire”. spazi di là da quella, e sovrumani Ricordo e ritrovo spesso la carezza ruvida nelsilenzi, e profondissima quiete la stretta di mani che conoscono bene i segreti e i io nel pensier mi fingo; ove per poco tempi della terra. Gente che ha vissuto le stagioil cor non si spaura. E come il vento ni, sa che esistono e il suono che portano. E ricoodo stormir tra queste piante, io quello nosco ciò che corre tra le persone, se di questo si infinito silenzio a questa voce tratta. Ritrovo gli occhi. Li ho ritrovati, come cervo comparando: e mi sovvien l’eterno, ti profumi che ci arrivano addosso all’improvviso, e le morte stagioni, e la presente dalle foto sui giornali. Li tengo nel cuore. E pree viva e il suon di lei. Così tra questa go che adesso sia “dolce e chiara la notte e senza immensità s’annega il pensier mio: vento”. Che la loro anima sia finalmente spoglia. e il naufragar m’è dolce in questo mare. E la loro pietà sia più perfetta. [email protected] Giacomo Leopardi, L’infinito left 13 aprile 2013 9 l’incontro 10 13 aprile 2013 left l’incontro left.it Roma, io ti salverò di Donatella Coccoli Illustrazione di Alessandro Ferraro Ignazio Marino. Il chirurgo di fama internazionale, senatore Pd, è il candidato sindaco per il centrosinistra. Dalla passione per la scienza a quella per la politica, ecco il ritratto di colui che si propone di far diventare la Capitale «una città dove tutti vorrebbero vivere» U n “marziano”, l’ha definito Gianni Alemanno. L’aggettivo è subito piaciuto a Ignazio Marino, il candidato sindaco di Roma per il centrosinistra. «Io sono il marziano che cambierà questa città», ha detto dopo la vittoria alle primarie. Nato a Genova 58 anni fa, chirurgo di fama internazionale, senatore dal 2006 (prima indipendente Ds e poi Pd), presidente della Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, ha ottenuto oltre il 50 per cento delle preferenze. Formazione cattolica, credente e difensore dei diritti civili, criticato perché «schiacciato a sinistra», ha sbaragliato avversari più favoriti ai nastri di partenza. Come David Sassoli, sostenuto da gran parte del Pd romano, e il veltroniano Paolo Gentiloni, che aveva ricevuto l’endorsement di Matteo Renzi. Adesso l’ex senatore (si è subito dimesso) se la vedrà con lo stesso Alemanno, l’imprenditore Alfio Marchini, il candidato di M5s Marcello De Vito e l’esponente della sinistra radicale Sandro Medici. «Vorrei una città che tutti invidiano e dove vorremmo far crescere i nostri figli», ha detto Marino. Per far ripartire la Capitale propone l’arte e l’archeologia, la ricerca e l’innovazione e il settore agroalimentare. I costruttori devono ristrutturare il patrimonio edilizio esistente e inutilizzato, basta consumo di suolo. E ancora: mobilità su ferro, piste ciclabili, discarica di Malagrotta da chiudere. In giorni concitati, mentre ritiene impossibile un governo «con chi si è reso responsabile del declino morale ed economico del Paese negli ultimi vent’anni», il candidato sindaco di Roma si racconta a left. Professor Marino è riuscito a dormire la notte dopo la vittoria alle primarie? Sì. E molto bene. Sono abituato a dormire in ogni left 13 aprile 2013 luogo e in ogni momento. Per oltre 25 anni mi sono dedicato alla chirurgia del trapianto del fegato, un lavoro complesso, gratificante ma stressante che spesso si deve eseguire nelle ore notturne. E allora bisogna cogliere ogni attimo per riposarsi. E ha fatto anche un bel sogno? Quella notte ho sognato un bel viaggio in mare, che amo molto. Quel mare che a Roma c’è, anche se in tanti lo dimenticano. Roma, dunque. Dove si è trasferito a 14 anni. Come ha vissuto l’adolescenza? Sono arrivato nel 1969, mi sono iscritto al liceo classico Tasso, poi ho frequentato l’università Cattolica dove mi sono laureato in Medicina e chirurgia per specializzarmi in Chirurgia generale e vascolare. In quegli anni avevo un sogno. All’epoca noi ragazzi eravamo colpiti dai progressi della tecnologia: il primo trapianto di cuore nel ’67 eseguito da Christian Barnard così come i primi passi dell’uomo sulla Luna nel ’69. Furono anni di grande esplosione della conoscenza. Fu allora che decise di iscriversi a Medicina? Sì e poiché per temperamento sono impaziente e amo la sfida, volevo occuparmi di chirurgia dei trapianti. C’erano solo due uomini che si occupavano di trapianto del fegato, quello più difficile. Erano considerati dei visionari ma io volevo dedicarmi a quella chirurgia. Passai alcuni anni al Policlinico Gemelli, in tempi di particolare intensità (c’era il terrorismo) in cui mi è accaduto diverse volte, nelle guardie al pronto soccorso, di curare persone ferite in conflitti a fuoco. Poi andai a Cambridge e a Pittsburgh, unici centri in Europa e negli Usa dedicati a questa tecnica di trapianto. In seguito ne ho diretto uno negli Stati Uniti e ne ho fondato un altro in Italia, in Sicilia. 11 l’incontro left.it Negli anni di piombo che rapporto aveva con la politica? Il mio impegno sociale si rivolgeva soprattutto allo scoutismo. Erano anni di grande cambiamento. Esistevano due associazioni: una era l’Agi, associazione guide italiane, delle ragazze, e l’altra degli scout italiani. Il nostro fu tra i primi gruppi che si orientarono verso la coeducazione, che all’inizio non venne accolta molto bene dalla Chiesa e che poi invece fu uno straordinario successo. Oggi infatti l’associazione si chiama Agesci, associazione guide e scout italiani. Al di là dello scoutismo, conservo però immagini nitide di certi momenti della storia del nostro Paese. Ricordo che ero nel reparto di Emodialisi del Policlinico Gemelli con pazienti con rene artificiale il giorno in cui, a poche centinaia di metri da lì, ci fu il rapimento di Moro. Nel 2006 scelse di candidarsi come indipendente nei Ds. Qual è stata la molla? È stata una decisione molto contrastata, soprattutto nella mia famiglia (ride) da cui ho avuto allora e anche adesso zero incoraggiamenti. Quello che mi ha portato a decidere è il senso della sfida a voler cambiare le cose. Un’idea che c’è già nel mio lavoro di chirurgo: trapiantare un organo sano al posto di uno malato. L’idea di cambiare le cose nella nostra società è anche un grande onore. Ricordo come una grande soddisfazione, da senatore insediato da poco, quando nel 2007 riuscii a far votare una legge che stanziava una somma molto importante, 180 milioni di euro all’anno per dieci anni, per indennizzare i pazienti vittime di una trasfusione di sangue infetto da cui avevano contratto malattie come l’epatite C, l’epatite B o addirittura l’Aids. Oppure l’inchiesta sugli ospedali psichiatrici giudiziari che ha portato alla loro chiusura, di cui proprio adesso verranno definiti i tempi e le modalità. Non ho alcun timore a dire che sono credente né che il mio metodo di lavoro è laico A febbraio è stato eletto senatore e il 18 marzo ha depositato le firme per poter correre per le primarie a sindaco di Roma. Perché questo cambiamento repentino? Nessun cambiamento repentino. In realtà quello che è accaduto è legato allo spirito di servizio che ho avuto sia come chirurgo sia nella mia attività politica. C’era un processo iniziato già durante la campagna elettorale. Durante quei mesi in mol12 ti mi chiedevano l’impegno alla candidatura a sindaco di Roma. Poi dopo le elezioni, le pressioni sono state davvero più che quotidiane e in tantissimi mi hanno chiesto di candidarmi. Le firme sono state depositate l’ultimo giorno perché su questa candidatura ho riflettuto tanto. Per quale motivo? Mi chiedevo se io fossi una persona adatta, o riconosciuto dai romani adatto, a questo ruolo. Poi alla fine sono stato richiamato a un senso di responsabilità da tantissimi cittadini e anche da singole autorevoli personalità. Quello è stato l’elemento che mi ha fatto cedere. Chi sono le persone molto autorevoli? Persone non del partito, di cui non voglio dire i nomi così, per riservatezza. Intellettuali. Alcuni, come Stefano Rodotà, con cui ne parlai a lungo, hanno sostenuto il mio nome pubblicamente. Dietro alla sua candidatura c’è anche Goffredo Bettini, una sorta di deus ex machina, il cui nome è legato anche alle precedenti amministrazioni di Rutelli e di Veltroni. Goffredo Bettini è una persona che conosce Roma ed è uno degli uomini, come lei ha detto, che è stato punto di riferimento di sindaci come Rutelli e Veltroni. Non ho subìto pressioni da Bettini. Solo che, quando decisi di candidarmi, ne parlai anche con lui dal momento che aveva indicato lui stesso la possibilità di candidarsi. Lei è consapevole di tutto quello che accade a Roma, che si potrebbe definire un magma della sinistra in ebollizione? Le racconto qualcosa che secondo me mi protegge da quello che lei definisce un “magma”. Nella mia formazione di chirurgo in sala operatoria ero capace di eliminare completamente dalla mia mente qualunque altro pensiero che non fosse quello di salvare in quel momento una vita umana. Ora mi comporto nello stesso modo. Posso sembrare forse un ingenuo ma non ho la più pallida idea di quello che si muove nel mondo delle correnti del parti13 aprile 2013 left l’incontro © LaPresse (2) left.it to, a Roma o in Italia. Non saprei neanche a chi fare riferimento se volessi delle informazioni. In questi anni passati come presidente della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale mi sono sempre mosso con estrema indipendenza e libertà di pensiero. Veniamo ai suoi avversari. Lei teme di più Alfio Marchini o il sindaco uscente Alemanno? Sono molto interessato a incontrare Alfio Marchini che non conosco personalmente. Non lo temo. Perché sinceramente non temo nessuno. Penso che il sindaco in carica abbia certamente una visibilità che lo rende un competitore più importante rispetto ad Alfio Marchini, ma credo che sia anche molto indebolito dalla squadra che lo ha circondato. Il fatto che ci siano stati molti scandali e di recente addirittura l’arresto del tesoriere della sua campagna elettorale del 2008, è una ferita molto grave. Comunque è inopportuno che il sindaco, nel momento in cui lei ed io parliamo, abbia in corso un lungo consiglio comunale - l’ultimo - dedicato a decisioni che potrebbero portare a una nuova cementificazione dell’agro romano. Esattamente l’opposto di quello che prevedo io. Altrettanto inopportuno che nei prossimi giorni Alemanno voglia disattendere la volontà popolare sull’acqua pubblica - ricordo che sono stato il primo a difendere il sì al referendum, seguito dal mio partito - e consegnare la maggioranza nel Consiglio di amministrazione ai privati. Non c’è ancora una squadra per il Campidoglio anche se lei ha annunciato la novità di una giunta paritaria, stesso numero di donne e uomini. Cosa risponde a chi sostiene che non ha molta esperienza da amministratore? Rispondo che ho diretto istituti per il trapianto e per la ricerca con un bilancio annuale di alcune centinaia di milioni di euro. Certo, non sono le stesse somme che deve gestire il sindaco di Roma. Però se alla fine dell’anno non avessi portato i risultati, l’università americana avrebbe potuto dir- left 13 aprile 2013 mi «è stato un piacere, ma lei ha sbagliato le proprie scelte» e salutarmi così. Forse mi aiutano anche le origini genovesi (ride). Ogni anno ai bambini in prima elementare veniva regalato un salvadanaio della cassa di Risparmio… Si dice che l’inquilino del Campidoglio debba essere gradito Oltretevere. Come vede il suo rapporto, se sarà sindaco, con il Vaticano? Le dico qualcosa di non personale e di personale. Nel primo caso io credo che Roma, oltre all’orgoglio di essere una capitale internazionale, deve essere pienamente consapevole di essere al centro della cristianità. E i pellegrini devono essere accolti meglio di quanto non abbia fatto Alemanno. E a livello personale? A un certo punto della mia vita ho deciso di fare delle riflessioni anche di carattere etico, medico, sui diritti delle persone. Ho avuto la fortuna di avere come interlocutore il cardinal Carlo Maria Martini, con cui ho scritto l’anno scorso il libro Credere e conoscere. Sapere che ora è pontefice un gesuita di cui lui aveva una grandissima stima in qualche modo mi fa gioire di questa nuova fase della storia della Chiesa. Il sindaco di Roma, oltre a essere consapevole che la Capitale è al centro della cristianità, deve però basare il suo lavoro sui principi di laicità. E sul fatto che la città ospita la comunità ebraica più antica d’Italia, la moschea più grande d’Italia e il centro buddista più grande d’Europa. Insomma Roma è un centro multireligioso, multietnico e multiculturale e così deve essere. Dove la laicità deve esprimersi al massimo? Non ho alcun timore a dire che sono un credente né che il metodo di lavoro di chi governa una città come Roma deve essere improntato alla laicità. Lei si è definito una persona libera. Ma in concreto cosa significa? Significa concentrarsi sui problemi, ascoltare l’opinione di tutti e poi decidere. Non sulla base di interessi personali né di gruppi o di partiti. Anzi: adesso il partito che vorrei veder crescere è Roma. Da sinistra, Ignazio Marino con una paziente in una clinica a Pittsburgh; Roma, 6 aprile all’iniziativa “Roma in Bici”; con Nicola Zingaretti durante i festeggiamenti per la vittoria alle regionali del Lazio; 7 aprile, si reca con la mamma a votare alle primarie del centrosinistra per il candidato sindaco di Roma 13 copertina copertina left.it Gli intellettuali servono ancora di Filippo La Porta ? Si può anche condividere nella sostanza l’appello degli intellettuali su Repubblica rivolto al M5S, ma temo che riproponga, anche involontariamente, un modo vecchio di concepire il ruolo dell’intellettuale e l’idea di impegno. A tratti mi sembra perfino sfiorare un kitsch dell’impegno. La lettera è infatti intitolata, con qualche improntitudine, Se non ora quando?, citando il titolo di un romanzo di Primo Levi (già utilizzato da una associazione femminista) che parla di partigiani ebrei nel 1943, ai quali forse i firmatari pensano di potersi assimilare. Un po’ come Santoro che canta in diretta “Bella ciao”. Ma soprattutto mi chiedo: perché Grillo avrebbe dovuto stare a sentirli? Su quale autorità si appoggiano? Si sentono i legittimi portavoce del ceto riflessivo, le icone eterne della sinistra perbene? Non hanno capito che, quasi mezzo secolo dopo Sartre, non è più il tempo degli intellettuali come coscienza critica del Paese? In uno dei tanti blog sparsi per la Rete mi capita di leggere questo pungente commento (di Claudio Messora): «Che significa “intellettuale”? Dov’è che ci si laurea in “intellettualità”? La categoria degli intellettuali è tutta italiana. è un’altra casta, con le sue baronie, i suoi intoccabili, quasi sempre schierati, che mangiano alla tavola dei privilegiati, che vanno alle prime, che scrivono prefazioni, che si invitano reciprocamente ai convegni, che hanno un’interpretazione per ogni cosa, quasi sempre consona al mantenimento del loro status...». Va bene, sarà pure esagerato ma coglie una verità, e ci dà la misura di un senso comune oggi assai diffuso. Chiediamoci allora, di nuovo: che significa intellettuale? Ci sono due aspetti della questione. Anzitutto l’intellettuale come figura pubblica, come opinionista, come voce critica più o meno autorevole nel dibattito pubblico. Generalmente si tratta di un umanista che interviene su questioni relative al costume, all’etica, alle trasformazioni della società. Forse le ultime grandi incarnazioni di questa figura, nel nostro Paese, sono stati Pasolini e Calvino. L’intellettuale profetico, apocalittico e l’intellettuale scettico, problematico. Dopo di loro è venuto meno qualsiasi status privilegiato dell’intellettuale stesso. A nessuno viene riconosciuta una autorità aprioristi- 14 13 aprile 2013 left copertina left.it ca. Non ci sono più modelli né caste. E in Rete viene sancito il principio democratico che uno vale uno, l’opinione di Magris vale quanto quella di un blogger quindicenne. Per Edward Said l’intellettuale deve essere un outsider, un amateur o dilettante, senza alcuna aspettativa di potere: un emarginato e in quanto tale capace di rappresentare tutte le marginalità sociali. In ciò non fa che riprendere una antica, nobile tradizione, che in Occidente associa l’intellettuale al dissidente, a chi è inorganico, non appartenente, eretico: da Montaigne fino a Marcuse. Su questo mi limito a suggerire ai nostri maitre-à-penser non una conversione al pauperismo ma un elementare dovere di trasparenza: ci mostrino più spesso la relazione tra ciò che dicono e ciò che fanno, tra privilegi materiali e scelte etico-politiche. Poi c’è l’intellettualità diffusa, il cosiddetto “cognitariato”. Se le forze produttive oggi sono soprattutto l’intelligenza, la cultura, l’interazione linguistica (come previsto da Marx nei Grundrisse) tutti, o quasi, siamo intellettuali, nel senso che in ciascuno di noi c’è una funzione critica, riflessiva che perfino il capitalismo intende valorizzare. E allora ci ricolleghiamo al primo punto. Proprio perciò non viene più accettata la posizione dell’intellettuale come guida morale, dotata di un sapere superiore. Bauman ha registrato il passaggio da intellettuali legislatori (modernità) a intellettuali interpreti (postmodernità), che cioè mettono la loro competenza professionale al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani (non più solo l’umanista ma il matematico, il biologo, l’ingegnere). Dall’universalismo al relativismo. Dwight Macdonald però stigmatizzava l’appiattimento cui porta la democrazia sul piano culturale, la mancanza di discernimento: «La cultura di massa è molto, molto democratica; rifiuta assolutamente di discriminare contro, o tra, qualsiasi cosa o persona». E allora forse, nella frammentazione del postmoderno, nel relativismo delle opinioni, torna il bisogno di discernimento critico, di una autorità fondata sull’argomentazione, insomma di potenziali “legislatori”. La figura storica dell’intellettuale è tramontata (con i suoi privilegi e la sua posizione di rendita), non la funzione dell’intellettuale, legata al pensiero critico, almeno da Socrate in poi. Potrebbe essere che la figura prossima sarà quella dell’intellettuale-massa dilettante e a suo modo legislatore: restio a firmare appelli, disperso nella folla del web, ma capace di una visione complessiva e portavoce di qualche marginalità. left 13 aprile 2013 Sì. Non rinunciamo all’impegno di Simona Maggiorelli Da Montanari a Lagioia. Da Marchesini a Di Consoli. Le voci più autorevoli della critica letteraria e d’arte della generazione dei quarantenni tornano a rivendicare il valore del pensiero critico «L’ unica capacità che ancora oggi dovrebbe contraddistinguere l’intellettuale è il fiuto avanguardistico per ciò che conta. Ciò richiede virtù tutt’altro che eroiche: il senso per quel che non va e che potrebbe andare diversamente; un pizzico di fantasia per progettare alternative, un poco di coraggio un’asserzione forte e provocatoria per un pamphlet». Così scrive Jurgen Habermas ne Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa (Laterza, 2010). Salvo aggiungere: «Più facile a dirlo che a farlo. E lo è sempre stato». E ancor più difficile è oggi, con il restringersi degli spazi per un dibattito pubblico di alto livello. A cominciare dai giornali che offrono sempre meno approfondimento e riflessione critica. Come ci raccontano in queste pagine alcuni degli intellettuali più autorevoli della generazione intorno ai quarant’anni. Intanto la politica latita e le amministrazioni locali spendono i pochi soldi che hanno a disposizione per eventi che danno un immediato ritorno d’immagine invece di investire in biblioteche e musei sul territorio. Ma c’è chi non si arrende. E dagli appelli pubblici, ai circoli di lettura, dalle proposte ad alto tasso di creatività di piccoli editori, alle occupazioni dei teatri, fioriscono le iniziative dal basso. Ed è un miracolo tutto italiano visto che, come scrive Roberto Ippolito in Ignoranti (Chiarelettere) l’investimento in cultura in Italia è pari allo 0,19 per cento del bilancio pubblico. 15 copertina copertina Intellettuale organico Schierato con una parte e un partito. Ma con difficoltà e tante domande. Mario Tronti. Intellettuale digitale Poche idee e urlate. Claudio Messora e il mondo grillino. Intellettuale star Un tempo Pasolini, oggi Saviano. La persona dell’intellettuale è uno scandalo in sé. Chiede un’adesione totale e convinta. Intellettuale pubblicitario Da Baricco ad Ammanniti. Slogan a uso dei media e vendite da capogiro. 16 left.it Sporcarsi le mani Non ci sta Tomaso Montanari a svalutare l’impegno civile che, a suo avviso, dovrebbe procedere di pari passo al lavoro accademico. Quarantatre anni, docente di storia dell’arte all’Università di Napoli, lo studioso fiorentino è stato appena nominato da Napolitano commendatore dell’ordine al merito della Repubblica per il suo impegno in difesa di beni culturali. Promotore dell’adunata di storici dell’arte che si terrà a L’Aquila il 5 maggio, Montanari interviene nel nostro dibattito sul ruolo degli intellettuali cominciando con una precisazione: «Non credo che abbia molto senso parlare oggi di “intellettuali”, come categoria astratta. Ha senso, invece, parlare di comunità della conoscenza e della ricerca. Beninteso, io stesso ho scritto un libro (A cosa serve Michelangelo?, Einaudi 2011, ndr) sul tradimento etico, scientifico e politico della mia comunità, quella degli storici dell’arte italiani. Ma credo che chi ha il privilegio di lavorare nella ricerca abbia anche un dovere: far entrare il metodo e, se possibile, anche i risultati della ricerca nel discorso pubblico generale: dobbiamo restituire il più possibile alla comunità civile che ci paga lo stipendio». Un esempio? «Una delle cause della progressiva rovina del patrimonio storico e artistico della nazione - spiega Montanari - è proprio l’incapacità degli storici dell’arte di parlare ai cittadini. Ora dobbiamo chiederci: abbiamo fatto tutto ciò che potevamo per spiegare «quanti e quali valori si trattava di proteggere», come scrisse Roberto Longhi nel 1944 dopo il bombardamento di Genova? Abbiamo provato ad essere davvero “popolari”, per farci capire dai cittadini che del patrimonio d’arte sono gli unici padroni? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte non serva solo agli storici dell’arte? Senza una nuova alfabetizzazione figurativa degli italiani, il patrimonio non si salva, e l’articolo 9 della Costituzione non si applica». Ma c’è anche un altro dovere che gli intellettuali non possono trascurare secondo Montanari: «Ogni ricercatore è anche, e prima di tutto, un cittadino. E oggi è il momento in cui ogni cittadino che ne è capace deve prendere la parola in pubblico, deve agire in prima persona “politicamente”: il che non vuol dire candidarsi a qualcosa, ma contribuire a costruire la “polis” con le proprie idee. Chi fa ricerca lo farà, si spera, condividendo con gli altri un modo meno conformista di guardare al mondo. Non perché è un “intellettuale”, ma perché come ricercatore è pagato per cambiare il mon- do con la conoscenza». Da qui la sua scelta di firmare l’appello di Settis, Bodei e altri? «Quando Barbara Spinelli mi ha chiesto se volessi firmare un appello al Movimento 5 Stelle perché si impegnasse a formare un governo ho detto sì. Io pensavo a un governo a termine guidato da una personalità come Stefano Rodotà, che mi pare ancora l’unica via d’uscita». Paolo Mieli, però, ha detto che voi firmatari eravate degli ingenui. «Certo rispetto a Mieli, lo sono», dice Montanari. «Mi chiedo, però, se in un Paese distrutto anche dal cinismo di alcuni squali navigatissimi sia proprio un gran difetto essere ingenuo. Ma la questione è un’altra. E chiedo a Mieli: per capire ciò che sarebbe successo alle elezioni era più utile leggere gli editoriali dei principali giornali italiani o leggere un libro come Azione popolare di Settis? Chi ha oggi strumenti migliori per capire il Paese? Dopo di che, ognuno deve fare il suo mestiere, e un appello non ha l’ambizione di produrre direttamente effetti in politica: ha il fine di spingere al pensiero critico, di fare “un graffio sulle coscienze”». La miopia della politica «D’accordo Settis, Montanari, Rodotà. Difficile non concordare con quanto propongono», chiosa Nicola Lagioia, scrittore, blogger, conduttore di Radiotre ed editore per conto di Minimum Fax. «Quando con il sito Minima et Moralia abbiamo proposto Rodotà come Presidente della Repubblica abbiamo avuto un’infinità di contatti. Ma sono pochissimi gli intellettuali come lui che parlano direttamente a tutti noi». Futuro gramo per gli intellettuali italiani? «Devo dire che sono piuttosto pessimista», ammette Lagioia. «Quando gli intellettuali scendono nell’agone pubblico si prestano a farlo secondo i 13 aprile 2013 left copertina left.it codici di comunicazione della tv e dei grandi media; volente o nolente si trovano a parlare il linguaggio del potere. è successo anche a Cacciari con Sgarbi a Servizio pubblico. Anche se dicevano cose diverse, alla fine il linguaggio era lo stesso, quello della baruffa televisiva. Anch’io quando sono andato in Tv mi sono accorto che alla fine ero costretto a parlare la lingua della comunicazione che non ha niente a che fare con la letteratura e con la cultura, perché sei costretto a parlare per slogan». E allora cosa resta? Scrivere la propria opera, fare un blog? «Sì, anche se in Italia è difficilissimo bucare il cono d’ombra degli addetti ai lavori». E non dipende solo dagli intellettuali: il problema più grosso in Italia, dice Lagioia, è la mancanza di interlocutori politici. «Se non ora quando, il movimento TQ, il Valle occupato c’è stato nell’ultimo anno un bel fermento dal basso, ma non c’è stata risposta politica». E se allarghiamo lo sguardo vediamo che «in Europa i Paesi che sul piano dello sviluppo riescono ancora a tenere sono quelli che più hanno investito in cultura e ricerca. Hanno politici che sono dei veri statisti, fanno investimenti di lungo periodo, guardando alle generazioni future, non alle prossime elezioni». Al contrario di quanto accade in Italia. «Da elettore di sinistra noto purtroppo che questi partiti non sanno neanche dove mettere le mani quando si tratta di scommettere sulla cultura», constata Lagioia. «Credono che la cultura siano i talk show, i programmi tv di Fazio, di Saviano, della Dandini, i pezzi di Scalfari. Ma la cultura è molto più vasta. Non c’è solo Muti per la musica, non c’è solo Eco per la letteratura». C’è un distacco fra intellettuali e politica? «C’è uno iato enorme. I partiti, Pd compreso, hanno perso del tutto il polso della situazione, si accontentano della spettacolarizzazione. Allora ecco Lidia Ravera alla Regione Lazio e non importa quanto ne sappia di politica locale. Ecco Moretti che alla chiusura della campagna elettorale urla “da lunedì gli italiani non saranno più ostaggio di Berlusconi”. E poi sappiamo com’è andata...». Nostalgia del Novecento Se nell’800 e nel ’900 almeno fino alla Resistenza si poteva parlare di una élite di intellettuali che erano riconosciuti come tali da un pubblico, in rapporto a un’impresa di portata più ampia, che era poi quella della società in generale, oggi questo patto è venuto meno, come dice il filosofo Rino Genovese nel suo nuovo libro Il Destino dell’intellettuale (Il Manifesto libri): ora a prevalere sono perlopiù l’esperto e il comunicatore di massa, mentre i meccanismi dell’industria culturale si fanno sempre più pervasivi e si riduce lo spazio per la dissidenza. Un’analisi su cui in parte sembra concordare anche il più giovane dei nostri interlocutori, lo scrittore e critico Matteo Marchesini, classe 1979, che in libri come Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012) non nasconde una certa nostalgia per tipi intellettuali come Fortini, come Bianciardi o come il poeta Noventa. «Gli appelli vanno anche bene, purché liberi dalla retorica e linguisticamente sorvegliati», dice Marchesini. «Ma prima di tutto bisogna capire come si configura la scena pubblica oggi e cosa significa essere reclutati come intellettuali: dagli anni 50 in poi con la crescita dell’industria culturale significa in primis essere esaltati dal potere mediatico, a prescindere dalla qualità e consistenza del proprio lavoro intellettuale. Per questo - spiega lo scrittore bolognese - mi è molto cara la distinzione che faceva Fortini fra funzione intellettuale (che hanno tutti universalmente dal momento che fanno un lavoro intellettuale) e intellettuale come ruolo, che dà l’idea di un notabilato». Chi sono oggi gli intellettuali di “ruolo”? «Quegli autori che accettano di essere ridotti a divi tv, quelli che sui giornali fingono di fare critica ma fanno pubblicità editoriale, quelli che ti offrono analisi da bar appena un po’ più raffinate invece di tentare una disamina dei meccanismi patologici del merca- Dai TQ al Valle occupato. Tante le iniziative dal basso. Ma la politica latita left 13 aprile 2013 Intellettuale profeta Da Cacciari a Severino. Usano sempre il verbo essere all’infinito. Si sentono contemporanei di Parmenide e di Alberto Magno. Intellettuale salottiero Nei salotti tv non manca mai. La lista sarebbe troppo lunga. Aldo Busi docet. Intellettuale tardofuturista Sgarbi su tutti: il turpiloquio e le scazzottata verbale è la sua arma di guerra. L’intellettuale impegnato Da Settis a Rodotà, fra lavoro accademico e impegno civile, ma senza tessere di partito. 17 copertina left.it to editoriale. Più che invenzioni dei media, come i Baricco o gli Ammanniti - approfondisce Marchesini - mi colpiscono i tipi alla Michele Serra, che mentre denunciano giustamente la corruzione morale e intellettuale dell’era berlusconiana accettano di scrivere certe trasmissioni tv e non si preoccupano di questa palese contraddizione. Molti di loro sono di provenienza marxista e dovrebbero aver sentito parlare di critica dell’ideologia. Ma non dicono niente sui compromessi del loro lavoro. Se penso ai tipi alla Fazio e Saviano, poi, mi sembra davvero che sulla linea di Fortini abbia vinto quella del suo amico e avversario Pasolini, che puntava sulla mitizzazione della propria figura e chiedeva adesione totale o rifiuto. E allora come uscire da questo impasse? Dedicandosi con impegno al proprio lavoro di scrittura, torna a dire Marchesini, ma anche ricominciando a incontrarsi fuori da i riflettori. «La letteratura non è spettacolo. Intanto gli enti pubblici spendono per festival ed eventi cifre che basterebbero per dieci anni alle biblioteche di quartiere. Con questo non demo- Digito ergo sum di Filippo Barone Claudio Messora, intellettuale a 5 stelle, è il simbolo del pensatore 2.0. Influenzando il pubblico del web si fa largo nei salotti tv. E a ogni click ci guadagna Q uando Beppe Grillo ha nominato Claudio Messora responsabile della comunicazione dei parlamentari 5Stelle, le definizioni del personaggio sono state: video blogger, giornalista di inchiesta, esperto di comunicazione, influencer. Un libero pensatore di successo che si esprime su internet e che è in grado di influenzare il pubblico del web. Secondo Messora, i nuovi intellettuali 2.0 - quelli emersi sulla rete e finora bistrattati - si stanno liberando dei vecchi, una casta interessata a mantenere lo status quo. Così il maitre-à-penser a 5 stelle si è lanciato tra le poltrone dei tanto vituperati salotti tv, portando il verbo di Grillo. Ma in cosa consiste il lavoro cul- 18 nizzo i festival ma a me piacciono le iniziative in cui le persone si incontrano a mani nude per parlare di libri. Qui a Bologna l’Associazione dell’elefante, per esempio, organizzava serate di lettura in cui chiunque poteva proporre un testo, poi lo si discuteva tutti assieme». Viva la perdita di aura «Chi sono, oggi, gli intellettuali? Sono la somma degli scrittori, architetti, filosofi, musicisti, registi, artisti, teologi, blogger, giornalisti, storici, docenti universitari, direttori di istituzioni culturali, antropologi, ecc. cioè la somma di tutti coloro che maneggiano quotidianamente idee, ideologie, pensieri, parole, materiali dell’immaginario, del pensiero, della cultura» dice lo scrittore e critico letterario Andrea Di Consoli. «Dunque - continua - sono intellettuali tutti coloro che pensano in senso lato, che lo fanno in maniera sistematica e non episodica». E svolgono il loro lavoro in uno scenario sempre più allargato. «Di fatto il benessere moderno ha comportato una straordinaria proliferazione turale di Messora? Il nuovo intellettuale è presente su internet con numerosi articoli e videointerviste. Il principale strumento di lavoro è un sito che si chiama Byoblu. L’autoritratto, quello che per ora consegna Messora alla storia, recita: «Le mie posizioni critiche sulle relazioni tra le grandi banche d’affari, la speculazione internazionale e le lobby che hanno portato al rovesciamento del governo italiano con l’insediamento di Monti hanno suscitato un acceso dibattito che ha travalicato i limiti della rete e che è approdato nei salotti televisivi». Per sfogliare la copiosa produzione di videoinchieste, descritte come “informazione basata sui fatti”, occorre spostarsi sull’omonima pagina di youtube. Qui si trova un vasto repertorio di commenti politici dell’autore, che spaziano dalle ipotesi di complotto globale alla critica dei politici che non distinguono twitter da facebook. Poi, una sequela di interviste a opinionisti rigorosamente patentati, da Magdi Allam a Paolo Guzzanti. Colloqui infinitamente lunghi e rigorosamente comodi, senza uno straccio di domanda che possa mettere in difficoltà l’interlocutore: quelle che in gergo si chiamano marchette. Infine, ci si imbatte nelle inchieste, non proprio sue, visto che spesso si tratta di collage di video estratti da lavo13 aprile 2013 left copertina left.it ri televisivi altrui, riproposti con commenti dell’autore. Su tutti i servizi trionfa l’icona di Messora in versione “giornalista d’assalto”, armato di telecamera a spalla. Non mancano vistosi banner pubblicitari: si va dall’onnipresente Compro oro - triste simbolo della crisi - ai finti sondaggi online, quelli che con un click ti rifilano un abbonamento settimanale a messaggi sms dal costo di 5 euro, versione attualizzata dell’ 1.4.4. denunciato da Beppe Grillo (sic!). A queste vanno aggiunte le richieste di aiuto al pubblico: il crowdfunding. Per l’intrepida intervista a Loretta Napoleoni, economista schierata col M5s, Messora incassa 516 euro, quella all’economista Nino Galloni, ripresa in un convegno, vale 550 euro. Per un’irripetibile scoop, l’intervista al sindaco 5stelle Federico Pizzarotti, la raccolta raggiunge i 759 euro. Il successo di Messora è nei numeri. Youtube riporta 25 milioni di visualizzazioni, un’enormità. Ma la maggior parte del pubblico riguarda servizi estratti dalla tv: Berlusconi su Sky, lo scontro Sgarbi-Barbacetto, poi Santanchè, La Russa, Di Pietro. Insomma, i numeri della rivoluzione digitale di Messora li fanno i soliti protagonisti della tv. Brutta, sporca e cattiva. Ma sempre redditizia. left 13 aprile 2013 Lagioia: « La cultura non ha nulla a che fare con la tv di Fazio e Saviano» del proprio lavoro». Ma esiste uno spazio per gli intellettuali in Italia? «Sì a condizione che non si abbia in testa il dominante modello del successo mediatico. Gli intellettuali devono immaginare il loro lavoro e il loro impegno come tasselli di un infinito mosaico che tutti gli intellettuali concorrono a creare. Poi, certo, ci sono quelli che riescono a piazzare cento tasselli, oppure tasselli bellissimi, e quelli che ne riescono a piazzare pochi, e magari poco cruciali per il disegno. Ma, una volta accettata fino in fondo questa umiltà e questa solitudine - rifiutando il pessimismo del “non contiamo nulla”, “la gente non legge”, “i giornali non ci cercano mai” - io credo che ciascun intellettuale possa fare con dignità e serietà la propria parte all’interno di un processo culturale che comunque è collettivo, corale». Claudio Messora, intellettuale 5 stelle © SCUDIERI / imagoeconomica numerica degli intellettuali, perché la principale caratteristica delle società avanzate è la possibilità, da parte della massa, di abbandonare il lavoro manuale per il lavoro intellettuale». E cosa porta questo ampliamento della cerchia degli intellettuali in Italia? «Comporta orizzontalità, pluralismo, frammentazione, affollamento. Ma perché dovrebbe essere un male? A mio avviso la perdita dell’alone ieratico e solenne che un tempo circondava alcuni intellettuali non è affatto da deprecare. Secondo me è un bene che in una società ci sia ricchezza di punti di vista, di argomenti e discipline, e pluralismo delle idee. Certo, questo comporta l’esperienza della solitudine per quasi tutti gli intellettuali (a parte per le poche figure superstiti di tipo novecentesco: come Eco, Magris, Saviano, Fo, Asor Rosa). Ecco - rilancia Di Consoli - è bello e liberatorio che ci sia tutta questa ricchezza intellettuale, ma sarebbe un errore, per invidia o per rancore, far passare l’idea ingenerosa e improduttiva che tutti gli intellettuali hanno lo stesso peso. Cambia in base alla caratura 19 copertina left.it di Manuele Bonaccorsi Dai Quaderni di Gramsci alla Casta di Rizzo e Stella. Dall’intellettuale organico a quello integrato. Parla il filosofo Mario Tronti: «Senza conoscenza la politica diventa un mestieraccio» © Carino / imagoeconomica Liberi e schierati S e l’epoca degli “intellettuali organici” è ormai finita, di quel mondo antico Mario Tronti è tra i più illustri testimoni. Lo incontriamo nei corridoi urlanti e affollati del Senato, dove è stato appena eletto, nelle fila del Pd. Teorico marxista, padre nobile dell’operaismo, filosofo politico, in poche parole riassume il senso di 70 anni di storia della nostra cultura politica. Con idee forti, chiare, delineate. Netto nella difesa del suo mondo e della sua storia. Ma uno sguardo problematico e critico sul presente. C’è chi dice: gli intellettuali sono una casta. Casta è una parola di moda applicabile a piacimento in vari settori. Ma c’è una giustificazione a questa polemica. C’è una oggettiva perdita di funzione della cultura, che è molto legata alla crisi della politica. L’Italia nel secondo dopoguerra è stata un luogo privilegiato nel rapporto tra politica e cultura. Specie nel Pci, in seguito alla scelta togliattiana di costruire un rapporto organico con 20 gli intellettuali. Dietro c’era una bella tradizione: il pianeta Gramsci. La tradizione gramsciana aveva capito ciò che oggi non si intende più: la politica ha bisogno della cultura, o diventa un mestieriaccio quotidiano, si impoverisce. E la cultura ha bisogno della politica o diventa semplice accademia. L’intellettuale organico di Gramsci, quindi. Per molti ha un accento negativo: significa mancanza di libertà e autonomia di giudizio. L’intellettuale organico è qualcosa di più dell’intellettuale impegnato. Quello organico si impadronisce e assume una missione politica, un’appartenenza. L’elaborazione gramsciana e togliattiana era diversa da quella sovietica, dove si chiamavano gli intellettuali a collaborare alla costruzione socialismo: lì era un impegno che piegava la libertà. È lo zdanovismo, l’idea che il partito dovesse dirigere dall’alto la cultura. In Italia il rapporto era più mediato. D’altronde non è vero che l’intellettuale che sceglie un’appartenenza diventa me13 aprile 2013 left copertina left.it no libero, se quella scelta è vera, profonda, motivata. Certo, chi si schiera può farlo per opportunismo. Ma è molto più pericoloso non avere appartenenza, perché si diventa buoni per tutto, esposti alla servitù volontaria. Si perde autonomia. Lei si ritiene ancora un intellettuale organico? Mi sono sempre riconosciuto in questa categoria, ma l’ho declinata in modo diverso. Per il Pci l’intellettuale doveva avere un rapporto col partito. Io invece mi ritenevo organico al movimento operaio. Questo ampliava la libertà di movimento. Col Pci non mancarono le frizioni: la nostra posizione, quella degli operaisti, veniva vista come estremistica. Specie quando cominciammo a fare noi stessi politica, a rivolgerci direttamente alla classe. Una cosa non ammessa dal partito. Ancora oggi io ritengo - ed è una scelta di vita - che bisogna essere intellettuali di parte. Al contrario di Bobbio, il quale contro Togliatti sosteneva la posizione degli intellettuali che si occupano di politica, ma senza appartenenza, senza essere di parte. L’intellettuale oggi è forse un consigliere del principe. O un personaggio mediatico, che comunica le posizioni di quel principe. L’intellettuale organico è un mediatore, costruisce un senso comune popolare e traduce le posizioni politiche. Non può ridursi a un consigliere. Ma questo riguarda il com’eravamo, che nulla a che vedere col come siamo. Oggi queste cose non si dicono più, sembrano discorsi d’altri tempi. Perché? Perché si è dissolta la figura della parte. La fase dell’intellettuale organico, iniziata nel ‘45, è finita negli anni 70, un trentennio. Poi c’è stata la deriva. Dagli anni 80 è iniziato il nuovo trentennio. La polemica contro gli intellettuali di oggi è come al solita esagitata nelle parole, perché dalla violenza bruta della P38 si è passati alla violenza delle parole, meno pericolose certo, ma sempre di violenza si tratta. Ma c’è una giustificazione. L’intellettualità di oggi, come tutte le figure sociali è frantumata, dispersa. Non c’è più un Pasolini, grande interprete del suo tempo e nello stesso tempo grande comunicatore. Spesso di idee contrapposte a quelle dominanti, ma sempre centrali nel dibattito. È caduto ogni riconoscimento del conflitto: il movimento operaio si è impallidito. Qual è l’intellettuale tipico di oggi? Questa è l’epoca dell’intellettuale integrato. Che ha molte forme: il comunicatore, l’accademico, left 13 aprile 2013 lo specialista. Gli intellettuali oggi sono emarginati ma sono anch’essi in fondo organici. Organici non a una parte, ma a un sistema: occupano posizioni subalterne, a volte ben remunerate, come gli editorialisti dei grandi giornali. Svolgono una funzione di organizzazione del senso comune, senza alcuna carica di cambiamento. Oggi c’è magari lo studioso che fa ricerca sul campo, ma non è più la voce di una parte che parla a un popolo. Oggi la cultura parla solo al ceto politico: il costituzionalista, il sociologo, il politologo, l’analista dei flussi elettorali, ognuno con un pezzetto di sapere, a cui manca un sapere totale. È tipico di quest’epoca, in cui s’è rotta la generalità del discorso. Da cosa deriva questa frantumazione? È la conseguenza di un mutamento di logica del sistema, del passaggio dall’economia reale a quella virtuale. E della globalizzazione: l’intellettuale organico era molto nazionale. Oggi è difficile trovare una collocazione a livello mondo. Solo pochi ci riescono: Chomsky, ad esempio, o Bauman. Cambia lo spazio dell’intellettuale. Prima i libri, i giornali, i partiti. Oggi i media. Dal potere dei mass media è venuta fuori una nuova figura, l’intellettuale della comunicazione. Quelli che vediamo alla tv, quelli che partecipano e dirigono i talk show. Anche gli intellettuali organici avevano una funzione comunicativa, ma a differenza di quelli, questi comunicano un’opinione generica, che ricavano dal senso comune. Rizzo e Stella, gli autori de La casta, ad esempio. Hanno favorito l’avanzata dell’antipolitica. Hanno avuto una funzione fondamentalmente regressiva. Lei, però, non si è arreso. A 81 anni fa il senatore, dirige il Crs, partecipa e organizza convegni. Spesso anche con giovani studiosi. Voglio capire se c’è ancora spazio per una figura di intellettuale critico, che si ponga davanti a queste maree di vento che vengono dal basso, senza cavalcarle. Io penso che la figura dell’intellettuale critico sia ancora attuale. E credo che tornerà in campo, man mano che le contraddizioni diventeranno più difficili da risolvere. Credo che nelle nuove generazioni sorgerà una leva di studiosi critici. È un compito che il vecchio intellettuale organico deve porsi, dando l’ultimo o penultimo contributo al suo impegno politico. Restituendo un fiato di ottimismo. Oggi la cultura si limita a organizzare il senso comune. Manca un sapere totale, generale Nella pagina accanto, Mario Tronti 21 società left.it Col fiato sul Colle Prodi, D’Alema, Letta, Cancellieri, Rodotà, Amato, Bonino, Marini. Il nuovo Presidente della Repubblica potrebbe essere uno di loro. Ma le sorprese sono dietro l’angolo. Col rischio che il Quirinale diventi una merce di scambio tra partiti. E un prezzo da pagare per non far torto al Caimano ono ufficialmente aperti i giochi per il conclave laico che, votazione dopo votazione, porterà all’elezione del prossimo “pastore” del Quirinale da cui dipenderanno le sorti del Paese. Perché se il Parlamento è incapace di esprimere una maggioranza, la Presidenza della Repubblica diventa l’unica carica dello Stato in grado di prendere una decisione. Il pericolo è che il prossimo inquilino del Colle non sia espressione di una mediazione tra le parti, ma che si trasformi in merce di scambio tra partiti. Da un lato il Pd, che non ha vinto le elezioni ma non vuole perdere l’occasione di governare. E dall’altro il Pdl, che ha perso le elezioni ma vuole garanzie sull’impunità del proprio capo. Nulla di nuovo. Pensavamo di dare il benvenuto alla Terza Repubblica, e invece siamo impantanati nei meccanismi della Prima con i protagonisti della Seconda. E dietro al senso di responsabilità di tutti - in nome del supremo interesse nazionale - si aggira lo spettro dell’inciucio. È vero, «il capo dello Stato deve rappresentare l’unità nazionale e non può essere, e neanche apparire, ostile a una parte significativa del popolo italiano», co- me dice Alfano. Ma è altrettanto vero che il futuro Presidente non potrà essere, e neanche apparire, ostile alla maggioranza del popolo italiano che alle urne si è espresso per il cambiamento. Che passa attraverso l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Chi ha votato Pd e Movimento 5 stelle non è di certo sospettabile di filoberlusconismo. Non si era mai visto, negli ultimi 20 anni, un Parlamento così ostile al Cavaliere. Di questo bisogna tener conto. Se non vogliamo morire democristiani. Molto dipenderà anche dagli equilibri interni al Pd e dalla fronda che avrà la meglio dentro il partito. E dai franchi tiratori di ogni schieramento. left ha stilato una lista di papabili che va da Prodi, col possibile sostegno dei 5 stelle, a D’Alema che gode delle simpatie del Cavaliere. Passando attraverso il sempreverde Gianni Letta, e la combattente Emma Bonino. Non ci siamo dimenticati di vecchie volpi come Giuliano Amato e Franco Marini, le cui quotazioni sono date in aumento. Con un occhio anche agli outsider Anna Maria Cancellieri e Stefano Rodotà. Sempre che non spunti qualche altra sorpresa. r.v. S 22 13 aprile 2013 left left 13 aprile 2013 © STEFANINI /Imagoeconomica left.it società 23 società left.it «Chi è senza visione, al massimo, può reggere un Consiglio d’amministrazione» Emma Bonino Il 15 marzo del 1999 la Swg poneva a un campione rappresentativo di italiani una domanda secca: «Lei, come Presidente della Repubblica, chi eleggerebbe?». Il 31 per cento degli interpellati rispondeva: Emma Bonino. Quattordici anni dopo la leader Radicale, nata a Bra nel 1948, laureata alla Bocconi, deputato europeo, Commissario Ue per gli aiuti umanitari, ministro per il Commercio internazionale e le politiche europee e vicepresidente del Senato fino al 15 marzo scorso, è di nuovo ai blocchi della stessa partenza. Il profilo alto e internazionale del suo lungo e inesauribile impegno politico la fanno apparire, rispetto a i suoi colleghi, donna di un altro pianeta. Pro: indiscussa paladina dei diritti civili. Contro: ha fama di liberista e mercatista. i.b.g. «Non bucherò lo schermo. Ma almeno voglio bucare il cervello» Romano Prodi È l’unico ad aver sconfitto due volte Berlusconi, nel 1996 e nel 2006. Senza charme, senza tv. E senza un partito. Difettuccio che lo ha reso facilmente impallinabile dal fuoco amico: D’Alema (con Bertinotti) la prima volta; Veltroni (con Mastella) la seconda. Lo chiamavano il professore, ma prima di essere premier ha fatto cose ben più importanti dell’insegnamento nella sua Bologna: ha smontato e privatizzato l’Iri, di cui è stato due volte presidente. Salvando l’Italia dalla bancarotta, ma anche devastando il suo sistema industriale. Cattolico “maturo”, si è autodefinito. Sicuro appeal internazionale, dopo la presidenza della Commissione Ue e gli incarichi Onu in Africa. Pro: piace ai grillini. Contro: non piace a D’Alema e Berlusconi. m.b. «Nella mia vita sono stato un avvocato mancato e un giornalista perduto» Gianni Letta L’uomo della crostata, al Quirinale. Ipotesi tante volte caldeggiata dal Cavaliere, e forse stavolta più vicina stando almeno ai bookmakers stranieri. L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giano Bifronte, negli ultimi 25 anni si è alternato tra i vertici dell’azienda Fininvest e i ruoli istituzionali. Mai candidato, mai tesserato eppure da sempre longa manus del Cavaliere negli ambienti più insidiosi della Capitale. Vaticano incluso, con il ruolo di Gentiluomo di Sua Santità. A sua moglie si deve la Crostata della Storia, servita alla cena dell’inciucio tra D’Alema e Berlusconi per il varo della Bicamerale nel 1997. L’uomo degli amici influenti e discussi. E indagati. Da Bertolaso a Bisignani, passando per Angelo Balducci. Il suo nome resta miracolosamente immacolato. Pro: piace a tanti. Contro: troppo vicino a Berlusconi. g.a. «Io l’abolirei l’8 marzo, la donna non deve sentirsi razza a parte perché siamo molto meglio degli uomini» Anna Maria Cancellieri «Solo chiacchiere», dice della sua candidatura al Colle. Eppure la “prefetta di ferro” è la donna dei momenti delicati. Nel 2007 a Catania dopo l’uccisione dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. Sempre in Sicilia presiede la commissione rifiuti. Nel 2010 traghetta il Comune di Bologna dopo il Cinziagate, lo scandalo che travolge il sindaco Delbono. Piace così tanto che molto bolognesi propongono di eleggerla, per il centrodestra. Lei dice di no: «Non posso essere di parte». E l’anno dopo è commissario prefettizio a Parma. Nasce a Roma da emigrati italiani in Libia. Dei suoi 69 anni, ne trascorre 40 al Viminale. Fino a diventare ministro, nel novembre 2011, col governo Monti. È la seconda donna a ricoprire quel ruolo dopo Rosa Russo Jervolino, ma l’unica a sciogliere per mafia un Comune capoluogo, quello di Reggio Calabria. Pro: è una lady. Contro: di ferro. t.b. 13 aprile 2013 left società left.it «La sinistra è un male che solo la presenza della destra rende sopportabile» Massimo D’Alema La carriera politica di Massimo D’Alema inizia da bambino. A nove anni, fazzoletto rosso al collo, stupisce un attonito Togliatti portando i saluti dei pionieri al congresso del Pci. Il ragazzo ha la stoffa del leader e a 26 anni diventa segretario della Fgci. Nel 1988 gli viene affidata la direzione dell’Unità. Ma nel 1990 lascia per dare una mano ad Occhetto a far nascere il Pds, di cui diviene segretario nel 1994 battendo l’eterno avversario Walter Veltroni. Nel 1997 guida una disastrosa Commissione bicamerale per le riforme e un anno dopo è tra i maggiori indiziati della congiura contro Prodi che lo porta alla Presidenza del consiglio. E con algida precisione bombarda la Serbia. Nel 2006 è un ottimo ministro degli Esteri del secondo governo Prodi. Oggi, il presidente del Copasir torna in pista per la corsa al Colle. Pro: sul suo nome potrebbe convergere anche Silvio Berlusconi. r.v. Contro: sul suo nome potrebbe convergere anche Silvio Berlusconi. «Marini uccide col silenziatore» «Viviamo nella notte ma la libertà ci ascolta» (canzone partigiana, citazione preferita) Stefano Rodotà Nelle votazioni online sul nuovo capo dello Stato è sempre ai primi posti. Perché Stefano Rodotà, quasi 80 anni, costituzionalista, raccoglie consensi trasversali, dalle aule universitarie ai movimenti. Da sempre sostenitore dei beni comuni e dei diritti civili, è stato parlamentare Pci/Pds per 15 anni, vicepresidente della Camera, garante per la privacy e coautore della Carta dei diritti Ue. Con una bussola fissa: la Costituzione italiana e la sua attenzione alla dignità delle persone. Vicino ad alcune tematiche grilline, come il conflitto d’interessi e il reddito di cittadinanza, potrebbe rappresentare un ponte tra Pd e Cinque stelle. Ma è sgradito a Berlusconi perché ne ha sempre bacchettato l’insofferenza alle regole. Pro: netta cesura col passato (ma non con la Carta del 1948). Contro: per qualcuno è troppo di sinistra... s.b. left 13 aprile 2013 (Carlo Donat-Cattin, suo maestro nella Dc) Franco Marini Fuma la pipa come Pertini, ma è democristiano. Abruzzese e montanaro, ha appena compiuto 80 anni. Sindacalista, capo della Cisl fino al ’91, quando diventa ministro del Lavoro per il VII governo Andreotti. Da politico, Dc prima e Ppi poi, partecipa alla nascita del Pd e ne rappresenta l’anima cristianosociale. Figlio di un operaio e una sarta, persa a 11 anni, è il primo di 7 fratelli. Una vita di trattative, ma anche di ciclismo. Tifava Bartali, da buon cattolico. E questo potrebbe giocare a suo favore, dopo due Presidenti “laici”. A sostenerlo sono i popolari, ma non dispiace nemmeno al Cavaliere. Nel 2008 riceve il mandato esplorativo dopo la caduta di Prodi. Nel ’99 è in ballo per il Colle ma cede a Ciampi. Pro: è una certezza. t.b. Contro: troppo. «Amato è poco amato» (Romano Prodi) Giuliano Amato Ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica, sopravvivendo a Tangentopoli e al crollo del Psi. E adesso potrebbe diventare il garante della Terza. Docente di Diritto costituzionale, 75 anni, Giuliano Amato è stato consigliere di Bettino Craxi, due volte presidente del Consiglio (nel 1992 e nel 2000) e sei volte ministro (dal governo De Mita a quello D’Alema). Ed è sempre riuscito a combinare le poltrone con l’alto profilo. Da qui il suo tentativo di presentarsi come esterno alla casta e «modello di mobilità sociale» (suo nonno era muratore). Di tradizione riformista, il dottor Sottile è noto agli italiani soprattutto per il prelievo forzoso dai conti correnti e la finanziaria lacrime e sangue del 1992. Ha destato scandalo la sua pensione d’oro. Pro: cita Marx. Contro: Berlusconi «si fida» di lui. s.b. 25 società © scrobogna/la presse left.it De Gregorio Il suo socio e l’ombra dei clan C’ è l’ombra della camorra tra i soci delle aziende riconducibili all’ex senatore Sergio De Gregorio. Un filone nuovo che emerge dall’analisi che left ha realizzato sulla galassia societaria dell’ex Idv. Un’inchiesta parallela alle indagini della procura di Napoli che vuole far luce sulla compravendita del senatore. De Gregorio è indagato insieme a Walter Lavitola e Silvio Berlusconi. L’ex Idv ha confessato di aver preso 3 milioni di euro dal Cavaliere per passare tra le fila del centrodestra. Secondo gli inquirenti, la destinazione ultima dei soldi sarebbero «soggetti vicini a un’associazio- 26 L’avvocato Bruno Turrà, sodale dell’ex senatore indagato, viene citato dal pentito Gaetano Vassallo: «è in affari coi Mallardo» La moglie è nipote di un pregiudicato in passato ai vertici della camorra partenopea di Nello Trocchia ne camorristica operante nell’area napoletana». Le indagini puntano soprattutto ai soldi per individuare reti di appoggio e sodali vicini ai clan. left, invece, si è soffermata sullo scacchiere societario riconducibile all’ex senatore. E anche seguendo questo filo spunta l’ombra della camorra. Il bandolo della matassa parte dall’avvocato Bruno Turrà che ha avuto ruoli nell’assetto di diverse società della galassia De Gregorio (Italia nel mondo servizi immobiliari e Italia nel mondo channel srl). La moglie di Turrà, Gaia Morace è socia nella Italiani nel mondo channel srl. Tan13 aprile 2013 left società left.it to che il legale viene citato, non indagato, in un’ordinanza di custodia cautelare a carico di presunti riciclatori del clan Polverino. Su Turrà pesano le parole del pentito Gaetano Vassallo riportate nell’ordinanza, eseguita lo scorso anno, e anche in una informativa dei carabinieri del Noe del febbraio 2009. Vassallo riferisce di un incontro con l’avvocato nel quale si parlò della compravendita delle quote di una società che gestisce un parco di divertimenti. «Mi ricordo che verso la fine del 2006, inizio 2007, presso il mio albergo Vassallo Park Hotel in Castel Volturno si presentò Gaetano Cerci, cugino dell’omonimo imprenditore dei rifiuti (…) e l’avvocato Turrà, proprietario del Magic World di Licola, parco giochi nautico (…)», ha raccontato il pentito. «In quella sede l’avv. Turrà, nel parlare con Cerci disse che lui aveva una parte delle quote del Magic World mentre la restane parte era di proprietà dei Mallardo (clan di camorra, ndr) tramite prestanome ingegneri di Giugliano». Turrà, secondo Vassallo, sarebbe stato in affari con il clan Mallardo e lo avrebbe confidato a Cerci, cugino dell’omonimo imprenditore che per conto del boss Francesco Bidognetti ha messo in piedi il traffico illecito di rifiuti che ha distrutto la Campania. Ma l’avvocato Turrà, non indagato, è anche padre di Ilaria e Alessandra, azioniste della Magic World spa, azienda che oggi risulta cancellata, di cui Turrà è stato amministratore fino al 2005. Inoltre ha ricoperto l’incarico di rappresentante in cda della Carousel investiments sa, società svizzera che ha avuto, in passato, una parte delle quote di Magic World. «Il Magic? Ho venduto e non conosco questo Vassallo» spiega Bruno Turrà, raggiunto telefonicamente da left. «L’incontro non è mai avvenuto. Cerci? Mica chiedo la carta di identità alla gente». Per capire chi sono i Mallardo, da sempre in buoni rapporti di vicinato con i Casalesi, basti pensare al livello di penetrazione nell’economia legale, dal controllo di marchi di caffè, settori della ristorazione, comparto edilizio. In due anni la procura di Napoli, distrettuale antimafia, ha messo sotto chiave beni per oltre due miliardi e mezzo di euro. Un patrimonio sconfinato grazie ad una rete di sodali, professionisti e protezioni. Ma Turrà prende le distanze da Vassallo, ma anche da De Gregorio: «Sono stato consigliere per 3 anni fino al 2008, ma solo sulla carta. Era la mo- left 13 aprile 2013 glie di De Gregorio che aveva pieni poteri. L’immobiliare? È una società che non ha mai operato». L’avvocato è stato anche candidato prima alle comunali a Napoli con l’Idv, nel 2006, e poi alle regionali 2010, con il movimento Italiani nel mondo. «Non mi vedo con De Gregorio da un sacco di anni da quando fui candidato alle comunali». In realtà nel 2010 Turrà fece le campagna elettorale per le regionali con De Gregorio come sponsor, come si evince dal materiale elettorale presente tuttora sul sito brunoturra.wordpress. com e dai comunicati stampa dell’epoca. L’informativa dei Noe del febbraio 2009, approfondisce anche il ruolo di Bruno Turrà e di sua moglie nelle aziende della galassia De Gregorio. «Turrà Bruno, è stato accertato che lo stesso sia convivente di Gaia Morace (la moglie, ndr). La donna ha rapporti d’affari anche con alcune aziende riconducibili al Turrà. Morace è proprietaria di quote della Italiani nel mondo channel srl, di cui il Turrà è consigliere (fino al 2008, ndr)». «Morace - continua l’informativa - è figlia di Annamaria Cavalcanti, sorella di Giacomo Cavalcanti, quest’ultimo è notissimo pregiudicato partenopeo gravato da importanti precedenti penali e pregiudizi di polizia». Seguono cinque pagine che ricostruiscono i precedenti di Cavalcanti, detto o poeta, personaggio di spessore dello scacchiere criminale campano degli anni ottanta. Cavalcanti vive da anni a Verona dove coltiva la sua passione per i versi e scrive libri. «È vero - replica Turrà - è lo zio di mia moglie, ma io non l’ho mai incontrato. Mai visto, vive fuori Napoli». Insomma sia Turrà che l’allora compagna hanno ricoperto ruoli nella galassia di sigle di De Gregorio. Il legale è stato citato in una ordinanza cautelare che ha riportato le parole di Gaetano Vassallo sul suo conto e anche in una informativa dei carabinieri che ne ha descritto i soci, le frequentazioni e le parentele acquisite. L’ombra dei clan più potenti si allunga tra i soci di De Gregorio. Un filone inedito mentre gli inquirenti sono a caccia di soldi, assegni e del flusso di denaro per capire se i “piccioli” della compravendita che ha cambiato lo scenario politico del nostro paese siano finiti o passati nelle tasche dei malacarne partenopei. L’ex senatore dell’Idv, Sergio De Gregorio, finito nell’inchiesta della procura di Napoli per la compravendita di parlamentari nel 2006 Il legale partecipa ai Cda delle imprese del “responsabile” 27 società left.it i boss che stanno f Bernardo Provenzano e Michele Senese. Due storie che s’incrociano sulla via della follia. e spiegano perché i padrini ricorrono alle malattie mentali: per sfuggire ai processi F Foto segnaletiche di Bernardo Provenzano, scattate dopo l’arresto dalla Squadra mobile di Palermo 28 orse non sarebbe cambiato nulla. Avrebbe partecipato al processo senza dire una parola, annuendo o scuotendo il capo con i movimenti lenti che il Parkinson gli avrebbe consentito. Del resto, Bernardo Provenzano è uno che non ha mai parlato e, se ha parlato con qualcuno, l’ha fatto preferendo i fari spenti e il sottobosco alla collaborazione chiara nelle aule di tribunale. Il 5 marzo 2013, però, alla luce dell’ennesima perizia il suo processo si è fermato per “momentanea incapacità” di partecipavi coscientemente. Significa che il padrino non è in grado di provvedere materialmente alla sua difesa. E così, mentre il Gup Piergiorgio Morosini rinvia a giudizio dieci persone per la trattativa Stato-mafia, la posizione di Provenzano è sospesa fino al prossimo 16 aprile, quando è probabile che sarà disposta una nuova perizia sulle sue capacità mentali. Il virus della follia sta infettando i boss di mezza Italia. Perché se non stupisce la sospensione del processo per il padrino corleonese, a Roma si aggira un altro boss che delle perizie psichiatriche ha fatto man bas- sa. Dovevano notificargli la data dell’udienza, ma Michele Senese non si è fatto trovare e da qualche giorno è irreperibile, scomparso. Lo chiamano “o’ pazzo”, da trent’anni entra, esce (e qualche volta scappa) dagli Ospedali psichiatrici giudiziari grazie a una diagnosi complicata: «Schizofrenia paranoide in disturbo della personalità antisociale e ritardo mentale», che però non gli impedisce di essere considerato un pezzo da novanta della malavita romana. Senese si inabissa pochi giorni dopo che la Squadra mobile di Roma smaschera un traffico di perizie false che consentono ad alcuni malviventi, indagati per droga e omicidio, di soggiornare comodamente in cliniche romane di lusso. Perché scappa? Non si sa. Certo, è curioso che il principale indagato di quel traffico di perizie sia il suo avvocato, Marco Cavaliere. Forse il boss teme che in futuro la pantomima della follia possa non funzionare più, perché negli anni “o’ pazzo” ha fatto tanto bene il pazzo da essere considerato semi-infermo di mente e incompatibile col carcere. Senese e Provenzano. Due storie che s’incrocia13 aprile 2013 left società left.it Un libro sui mafiosi “impazziti” con lucidità o fuori di Corrado De Rosa e Laura Galesi no sulla via della follia, che spiegano perché i boss rincorrono le malattie mentali per ottenere benefìci di giustizia e riescono, così, a difendersi dai processi. Quando l’avvocato di un boss invoca una perizia psichiatrica, lo fa perché il giudice chieda a un medico di valutare se quel boss è capace di intendere e di volere, se è in grado di partecipare coscientemente a un processo, e se è compatibile con il carcere. Da ciascuna di queste richieste, possono derivare vantaggi enormi. Perché se quel boss è considerato incapace di intendere e di volere, otterrà il proscioglimento per il reato di cui è imputato, se poi sarà considerato incapace di stare in giudizio, il suo processo sarà sospeso finché non recupererà questa capacità. E se le sue condizioni di salute sono così gravi da non poter essere curate in carcere, quel boss dalla cella dovrà uscire rapidamente. Salvo poi evadere da manicomi criminali, cliniche e ospedali. Per questo non c’è processo di mafia che non abbia i suoi finti pazzi che inscenano pateticamente quello che pensano sia la vera sofferenza psichica: dal maxiprocesso di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a quello sulle Stragi del ’92, dai processi sulla faida tra Cutolo e gli anticutoliani in Campania al processo Spartacus sui Casalesi, fino a quelli sui boss della Locride e sui capi della Banda della Magliana. left 13 aprile 2013 Di boss eccellenti che usano la follia per fini giudiziari Cosa nostra è piena. Mafia da legare (Sperling & Kupfer) scardina l’antico codice d’onore di Cosa nostra, l’affidabilità dei suoi capi, e ripercorre le storie dei boss siciliani dall’angolo di visuale delle loro finte malattie. Mafiosi che dichiarano di essere Napoleone, gregari che si fingono matti e si mettono a pescare in cella, affiliati che entrano in aule di tribunale in camicia di forza. Di questo e altro racconta il libro. Già alla fine degli anni Ottanta, il giudice Falcone per spiegare il muro di omertà degli uomini d’onore dice: «C’è il mafioso che si barrica in cella e quello che si finge pazzo. Poi c’è anche quello che è costretto dalla mafia a fingersi pazzo». Tommaso Buscetta, invece, racconta che già ai suoi tempi gli uomini d’onore si lasciavano andare a rappresentazioni grottesche della follia per sfuggire a una condanna. Mafia da legare fa i nomi di boss noti e meno noti che si sono finti pazzi: Bernardo Provenzano e il suo tentato suicidio discutibile e discusso; Nino Santapaola che per trent’anni ha usato la follia anti 41 bis; Angelo Bottaro ucciso nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Siracusa; Silvio Balsamo che muore dopo un tentato suicidio simulato; Luciano Liggio, i fratelli Marchese, Agostino Badalamenti, Masino Spadaro e molti altri. E spiega l’uso della follia e dei manicomi criminali: una storia antica per Cosa nostra, che secondo un meccanismo che capovolge ogni riferimento giudiziario e mette le mani sui medici e sulle malattie per mantenere il controllo dei processi. I clan, infatti, pagano bene e non temono la concorrenza. Per visitare un uomo d’onore al 41 bis, per esempio, lo Stato paga circa 400 euro lordi, i clan almeno dieci volte tanto. E i medici dei clan producono una mole gigantesca di certificati e consulenze forzate che riescono a confondere giudici e periti finché non capisce più chi è veramente pazzo e chi invece recita la parte. 29 diario della carovana società left.it In Sicilia l’incontro dei volontari antimafia con gli studenti e gli operai in crisi A scuola di legalità I l 3 aprile la Carovana antimafie ha raggiunto Palermo. Ad accoglierla sono gli studenti dell’Istituto Duca degli Abruzzi. Vengono letti i nomi delle vittime di mafia. È un momento toccante. «La Carovana è un viaggio di libertà», spiega Alfio Foti, coordinatore regionale di Un’altra storia. «Quando l’abbiamo creata non pensavamo durasse così a lungo, che ce ne sarebbe stato ancora bisogno». Secondo Rita Borsellino, invece, «una volta saliti non si scende. Un viaggio di libertà non ha termine». Da Palermo si prosegue per il paesino di Caltavuturo. Sono i giovani di lì a raccontarci la storia della strage di San Sebastiano del 1893, quando l’esercito aprì il fuoco sui contadini in rivolta uccidendone undici. Ancora una volta una storia di lavoro e di violenza, ma narrata con la determinazione di chi si batte per il cambiamento. Il 4 aprile, uno splendido corteo di ragazzi ha accolto la Carovana al suo arrivo a Mazzarino. Dopo aver sfilato lungo la via principale, hanno assaggiato le “pizze della legalità” realizzate dagli ospiti dell’associazione Il Girasole, richiedenti asilo impegnati in un progetto di integrazione e lotta a ogni forma di sfruttamento. È stata poi la volta di Niscemi, dove la Carovana si è unita ai cittadini che si oppongono al Muos, mentre Lidia Menapace (partigiana e scrittrice) ha parlato sulla necessità di portare questa protesta anche oltre lo Stretto. Il 5 aprile siamo arrivati a Catania. La Carovana ha fatto tappa davanti a tre aziende - Aligrup, Riela e Almaviva - emblematiche della crisi che attraversa il mondo del lavoro. In particolare, il caso della Riela rappresenta una sconfitta dello Stato. La ditta è stata infatti confi30 La locandina della Carovana Antimafie 2013 scata nel ’99 e messa in liquidazione un anno fa, nonostante i lavoratori avessero provato a costituirsi in cooperativa e riattivarla. «Se un’azienda confiscata chiude, è un messaggio devastante», ci dicono, oramai stanchi e sfiduciati i dipendenti di Riela. La Carovana ha poi proseguito per il quartiere Librino, uno dei più difficili di Catania. Qui un gruppo di ragazzi, che del rugby ha fatto strumento di aggregazione, ha ripristinato e restituito agli abitanti una struttura sportiva realizzata per le Universiadi del 1996 e mai utilizzata. «Oggi tutte le nostre squadre giovanili si alle- nano qui - ci dice uno di loro - e a gennaio si è svolta la prima partita in casa». Il borgo di Giardini Naxos, in provincia di Messina, è una delle prime colonie greche in Sicilia. Vive soprattutto di turismo. La Carovana si è fermata qui il 6 aprile per raccogliere la protesta dei cittadini contro il progetto del porto turistico che rischia di metterne in pericolo fisionomia e ambiente. Lo hanno ribadito nel corso di una splendida manifestazione all’interno del parco archeologico che sorge proprio a pochi metri dal mare. Proseguendo verso nord, la Carovana ha incontrato anche gli attivisti del teatro Pinelli che per circa due mesi hanno occupato la struttura e poi sono stati sgombrati. «Chiudere un teatro - racconta uno di loro - per noi è cultura della mafia». Alcune tappe calabresi, poi la Carovana fino al 14 aprile è in Puglia. Dopo Bari e Brindisi (con una manifestazione in ricordo di Melissa, la ragazzina uccisa nell’attentato alla scuola Morvillo-Falcone) il 13 tocca Lecce e il 14 Foggia. (a cura di Carmen Valisano, I Siciliani giovani-CTzen) Ogni settimana left ospita il diario di bordo della Carovana internazionale antimafie (promossa da Arci, Libera e Avviso Pubblico) che termina il 6 giugno. www.carovanaantimafie.eu 13 aprile 2013 left calcio mancino società left.it Nello stadio di Limassol nel 1983 la qualificazione per gli Europei di Francia Cipro-Italia e le guerre vicine da un grave infortunio al ginocchio e gettato nella mischia da Bearzot al posto di Oriali, sbrana la fascia destra alla sua maniera e pennella un cross al bacio sul secondo palo per Ciccio Graziani che sfida di testa il difensore Patikkis. Il tocco decisivo è proprio del numero 2 in maglia blu che infila maldestramente la propria porta: 1-1. In tribuna possono esultare tantissimi tifosi azzurri: i militari della missione di pace in Libano. Erano partiti a settembre dell’anno precedente dopo i massacri di quasi 3mila palestinesi nei campi di Sabra e Chatila ad opera dei miliziani cristiani. Era stata una bella idea del governo Spadolini e del ministro Lagorio mandare i soldati, nel Libano invaso da Israele, a difendere la popolazione civile con regole di ingaggio che impedivano di rispondere al fuoco. Era l’occasione per apparire al mondo come una “media potenza”. Un mese dopo, morì il ventenne di leva Filippo Montesi e, a fine anno, il contingente venne fatto rientrare. Il girone degli azzurri fu vinto dalla Romania e la nostra Nazionale, campione del mondo in carica, rimase fuori dal campionato d’Europa. Il titolo andò alla fortissima Francia di Michel Platini e di François Mitterrand che, in Libano, di soldati ne aveva visti morire molti di più. [email protected] L’allenatore azzurro Enzo Bearzot ©LaPresse I l 1983 si aprì con la promulgazione da parte di papa Wojtyla dell’anno santo, subito travolto da una ventata di... secolarizzazione, con la nascita, a Napoli, della prima bimba concepita in provetta. L’Italia campione del mondo rischiava seriamente di rimanere fuori dagli Europei previsti per l’estate 1984 in una Francia appena scossa dall’arresto in Bolivia del nazista Klaus Barbie: il boia di Lione. Il nostro era un girone di ferro con un solo posto utile da contendere a Romania, Cecoslovacchia, Svezia e alla cenerentola Cipro il cui territorio era ancora diviso in due dopo l’invasione dell’esercito turco di nove anni prima. La gara d’esordio contro la Cecoslovacchia, in autunno a San Siro, aveva lasciato l’amaro in bocca per il 2-2 finale e il sorriso per gli errori di Nando Martellini il quale, confuso dalla marcatura di Jakubec su Altobelli, aveva ribattezzato l’interista: “Jacobelli”. Il secondo match fu uno 0-0 dicembrino con la Romania a Firenze. A febbraio ’83, si gioca in trasferta a Cipro, a Limassol, seconda città dell’isola nello stadio Tsirion le cui tribune, gonfie di 25mila spettatori, sembrano essere state lasciate a metà e il cui manto erboso non presenta neanche un filo d’erba. L’arbitro è il bulgaro Dotchev. La formazione casalinga in completo blu è una li- di Emanuele Santi Un pareggio sudato tra l’entusiasmo dei nostri soldati reduci dalla missione di pace in Libano left 13 aprile 2013 sta di semiprofessionisti tutti di etnia greca. I nostri, invece, in livrea bianca e calzettoni azzurri, sono gli stessi della finale di Madrid tranne lo squalificato Bruno Conti sostituito da Causio e il giovane Bergomi rimasto in panchina data la disponibilità di Antognoni e l’inutilità del difensore in più. Il primo tempo finisce 0-0 grazie alle parate del portiere Kostantinou che si oppone alle confuse conclusioni ospiti. Al secondo minuto della ripresa, Collovati ribatte di testa un cross nell’area grande, l’attacco cipriota insiste e la palla carambola sul numero 7 Mavris lasciato troppo solo da Cabrini. Il tiro d’esterno è perfetto. L’ala destra infila Zoff in diagonale e poi corre ad abbracciare tutti i compagni impazziti in panchina. L’incubo, per fortuna, dura solo dieci minuti. Carlo Ancelotti, infatti, al rientro 31 cose dell’altritalia società left.it 1 TARANTO Neanche i morti riposano in pace nei terreni inquinati dall’Ilva Ritornare tra le braccia della terra, dopo una vita di sacrifici? A Taranto non si può. E ai morti è negata persino la sepoltura. Il sindaco Ippazio Stefàno ha infatti vietato di seppellire i defunti nel cimitero San Brunone, che sorge del quartiere Tamburi. Proprio a due passi dall’Ilva. Le analisi richieste dal Comune lo scorso ottobre e consegnate dall’Arpa a febbraio parlano chiaro: nei terreni intorno all’Ilva è presente un mix letale di diossina, benzoapirene, berillio, mercurio e nichel. Il rischio di contaminazione per le persone è altissimo. Tradotto: l’area va urgentemente bonificata. Se ne occuperà il commissario straordinario nominato dal Governo, Alfio Pini, ma non si sa né quando né come. Nel frattempo è necessario che la società cooperativa L’ancora, che gestisce i servizi cimiteriali, corra ai ripari dotandosi dei necessari dispositivi di sicurezza, ad esempio fornendo al personale abbigliamento in grado di impedire ogni contatto con il terreno contaminato. Alle famiglie dei defunti, intanto, resta la scelta: far sostare il caro estinto nelle celle frigorifere al costo di 6 euro al giorno o farlo emigrare verso altri camposanti. Ma la disposizione municipale è solo l’ultima di questo genere in ordine di tempo. Nel 2010 e nel 2012, anche allora in seguito ad indagini dell’Arpa, Stefàno ha vietato l’accesso alla aree verdi “non pavimentate” del rione. 2 2 BOLOGNA Un lavoro per evadere «In carcere come fuori il lavoro aiuta a prevenire i suicidi». Le parole sono della garante dei detenuti dell’Emilia Romagna, Desi Bruno, a commento dei molti suicidi nei penitenziari della regione. Sono stati 32 i carcerati emiliani che si sono tolti la vita dal 2002, 4 solo nell’ultimo anno. Su 3.400 detenuti emiliani, soltanto 812 lavorano in carcere e la maggior parte di loro, 587, sono alle dipendenze dell’amministrazione interna: si occupano di lavori brevi e poco qualificanti nel penitenziario. E nonostante le richieste, le imprese private hanno molte difficoltà ad entrare nelle carceri. A livello nazionale non va meglio: su circa 65mila detenuti lavorano in 13.800, di cui 9.763 alle dipendenze del penitenziario. Armando Reho, direttore dell’ufficio trattamento del provveditorato dell’Emilia Romagna, conferma gli effetti positivi del lavoro: «L’impiego permette di abbattere la recidiva anche del 70-80 per cento». 32 3 3 CAGLIARI Cappellacci sbaglia destinatario «Grazie per le sue lettere, ma noi con l’istituzione delle zone franche non abbiamo nulla a che fare». È questo, a grandi linee, il senso della risposta che Heinz Zourek, capo della direzione generale Fiscalità e unione doganale della Commissione europea, ha inviato al presidente della Regione Ugo Cappellacci in merito all’istituzione della zona franca in Sardegna. Cappellacci ha sbagliato mira e ha inviato due missive alla persona sbagliata. «La Commissione non ha la facoltà di trattare le richieste di modifica del campo di applicazione della legislazione doganale dell’Unione», scrive Zourek. «In effetti le zone franche possono essere designate dagli Stati membri senza l’intervento della Commissione». L’euroburocrate, che seppur divertito mantiene uno stile compassato, aggiunge in chiusura dei link per chiarire le idee al presidente Cappellacci. 13 aprile 2013 left cose dell’altritalia left.it società 4 REGGIO CALABRIA Rimborsateci gli sprechi Gli scandali dei rimborsi regionali scendono lungo lo Stivale. Dopo Lombardia e Lazio, ora sotto i riflettori c’è la Calabria. Nei giorni scorsi è scoppiata la polemica su dei presunti rimborsi che dieci consiglieri regionali - ora indagati - avrebbero percepito indebitamente. Tra cui gratta e vinci, spettacoli a luci rosse e semplici caffè. Così martedì 9 aprile davanti a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale, si è consumata la protesta dei cittadini di Reggio. Al grido di “Rimborsateci la Calabria”, i reggini si sono riuniti davanti la sede del Consiglio in una protesta con striscioni, ma anche “fantocci simbolici”: una bambola gonfiabile, simbolo degli spettacoli di lap dance che sarebbero stati pagati con i soldi dei cittadini; e dei “gratta e vinci” usati che i cittadini vorrebbero avere rimborsati dal Consiglio, proprio come avrebbero fatto i consiglieri. I manifestanti hanno chiesto inoltre le dimissioni dell’intera giunta regionale. Sull’identità dei dieci consiglieri vige uno stringente riserbo da parte degli inquirenti. 6 5 PALERMO Date a Crocetta ciò che è di Crocetta «Da oggi le imprese che operano in Sicilia pagheranno le tasse nell’Isola». Ad annunciarlo sono il presidente della Regione Rosario Crocetta e l’assessore all’Economia Luca Bianchi, che spiegano: «Uno dei sogni dei padri dello Statuto siciliano e degli autonomisti trova attuazione». È appena arrivato infatti il via libera all’applicazione dell’articolo 37 dello Statuto speciale siciliano. Sulla base del quale all’Isola spettano le imposte pagate dalle imprese con stabilimenti nel suo territorio, anche se con sede legale altrove. «Il governo nazionale - aggiunge Crocetta - ha approvato all’unanimità il provvedimento sulla base delle buone prassi di bilancio che il governo siciliano ha avviato. Utilizzeremo nel miglior modo possibile la fiducia che ci viene data». Il presidente sottolinea poi l’importanza storica dell’avvenimento: «Da oggi intraprendiamo la sfida a farcela da soli, mettendo a posto i conti e sviluppando 1 l’economia. La Sicilia non vuole vivere di assistenzialismo e parassitismo». 6 FERRARA Arrestati i neonazisti del web 5 4 left 13 aprile 2013 Condannati con rito abbreviato gli attivisti del sito neonazista di Stormfront Italia. Lo scorso 16 novembre erano finiti in cella per incitamento alla discriminazione e alla violenza etnica, religiosa e razziale. Ora sono arrivate le condanne del Gup di Roma: 3 anni a Daniele Scarpino; 2 anni e sei mesi per Diego Masi e per Luca Ciampaglia; 2 anni e 8 mesi per Mirko Viola. Il giudice ha disposto gli arresti domiciliari. Il caso era scoppiato nell’ottobre 2012, quando il gruppo aveva pubblicato in Rete una blacklist nella quale era finita anche la docente dell’università di Ferrara, Marcella Ravenna. Stormfront era già noto come «forum caratterizzato - secondo la definizione di wikipedia da posizioni di nazionalismo bianco, supremazia bianca, antisemitismo e neonazismo. Il più grande sito d’odio del web». 33 mondo Eroi per sbaglio di Matteo Miavaldi 34 13 aprile 2013 left mondo La petroliera spara ai pescatori e poi si allontana. E l’incidente non viene subito denunciato alle autorità marittime. La versione italiana sul tranello indiano è piena di incongruenze. Non è Nuova Delhi ad aver incastrato i due marò Anticipiamo in esclusiva un brano di I due marò di Matteo Miavaldi (corrispondente in India di China Files), che uscirà per Alegre il 17 aprile L a vulgata italiana ha consegnato all’opinione pubblica un resoconto dell’incidente dove i marò hanno ricoperto il ruolo dei “buoni”, servitori dello Stato vittime di un madornale errore di valutazione. Hanno sparato, credevano fossero pirati, si sono sbagliati ma erano in buona fede - Binki e Jelastine, le due vere vittime, non rientrano più nel quadro - e sono cascati in un tranello teso dalla Guardia costiera indiana, che non ha mai smentito le accuse di furbizia arrivate dalla patria dichiarata dello stratagemma, culla dell’arte dell’arrangiarsi. Il ministro degli Esteri Terzi, in una lettera aperta pubblicata su L’Eco di Bergamo lo scorso ottobre, scriveva: «L’ingresso della nave Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, che ha richiesto al comandante della nave di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati». Come già hanno notato su Wikipedia, la dichiarazione stride non solo con la versione indiana dell’accaduto, ma anche con la ricostruzione corrente del ritorno al porto di Kochi dell’Enrica Lexie. Secondo larga parte della stampa il ritorno della petroliera al porto di Kochi è stato un “segno di buona fede”, un gesto volontario per facilitare le indagini alle autorità indiane. In un’interessante intervista rilasciata al canale televisivo indiano Ibn live, il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura lo dice quasi con le stesse parole. Ma la dinamica dei fatti ricostruita dalla stampa indiana, basandosi sui dati presentati al processo dall’accusa e sulle dichiarazioni degli ufficiali della Guardia costiera indiana, racconta una storia diversa. © Monaldo / LaPresse I fatti left 13 aprile 2013 In apertura, la manifestazione al Colosseo organizzata dal Pdl per chiedere la liberazione di Latorre e Girone. Sotto, la copertina di I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto (Alegre) 1) Alle 16:30 del 15 febbraio qualcuno spara al peschereccio St. Antony. 2) La St. Antony lancia l’allarme alla Guardia costiera indiana, descrivendo grosso modo l’imbarcazione dalla quale provenivano gli spari. 3) La Guardia costiera inizia le indagini, cercando di capire quali navi in quel momento si potevano trovare nei pressi della St. Antony. 4) Intorno alle 19:00 la Guardia costiera restringe 35 mondo © Rahi/ap/lapresse left.it Un pescatore al lavoro nell’Oceano Indiano. Sullo sfondo, la petroliera Enrica Lexie. A destra, l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi il cerchio delle possibili navi coinvolte nella sparatoria a quattro imbarcazioni: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze. Le raggiunge tutte via radio, chiedendo se erano state coinvolte in un presunto attacco pirata. 5) L’unica nave a rispondere affermativamente è l’Enrica Lexie (che aveva già infranto la procedura standard che prevede di fare immediato rapporto alle autorità nel caso di attacco pirata). Sono le 19:30 e la petroliera italiana, senza aver detto niente a nessuno, aveva proseguito nella propria rotta verso l’Egitto per quasi tre ore, allontanandosi dalla “scena del delitto” di ben 39 miglia marittime, più o meno 70 km. 6) La Guardia costiera indiana intima all’Enrica Lexie di tornare indietro e probabilmente, vista la mancata denuncia dello scontro a fuoco da parte della petroliera italiana, ordina ai due pattugliatori Shamar e Lakshmi Bhai e all’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228 di inseguire la nave italiana, intercettarla e riportarla in porto. 7) L’Enrica Lexie comunica all’armatore italiano l’incidente e, contro gli ordini della Marina italiana, inverte la rotta e torna verso il porto di Kochi (e ne aveva tutto il diritto). dell’Enrica Lexie a Kochi come un gesto volontario di buona fede appare una conclusione abbastanza fantasiosa. Possiamo addirittura spingerci a considerare la scelta del Capitano Vitielli come un provvidenziale rinsavimento, un ritorno opportuno al senso di responsabilità. Se l’Enrica Lexie si fosse rifiutata, il 16 febbraio i giornali indiani - e internazionali - avrebbero titolato “Petroliera italiana spara contro pescatori indiani e fugge verso l’Africa, caccia aperta». Eventualità che avrebbe complicato non poco gli equilibrismi della diplomazia italiana davanti alla comunità internazionale. [...] Nell’argomento di difesa consegnato alla Corte del Kerala da Latorre e Girone nel febbraio 2012, citato tra gli altri anche dal Times of India, si indica che: Il Capitano ha anche attivato lo Ship alert security system (Sass), mandando segnali all’Italian marine rescue and coordination centre (Mrcc). Il Capitano fece anche rapporto dell’incidente alla mercury chart che mette in contatto e trasmette informazioni alla comunità [navale], compresi i dipartimenti di Marina del mondo impegnati nella lotta anti-pirateria, compreso il quartier generale della Marina indiana. È stato stilato anche un “Rapporto militare”. Un altro rapporto è stato mandato al Maritime security center Horn of Africa. Siccome l’attacco era stato respinto, l’imbarcazione La nave proseguiva verso l’Egitto quando gli indiani l’hanno intercettata e condotta in porto Grande assente: la buona fede Alla luce di questi eventi, giudicati come “fatti” dalla giustizia indiana, descrivere il ritorno 36 13 aprile 2013 left mondo © Cito/ap/lapresse left.it ha continuato verso la rotta prestabilita. Abbiamo controllato nel registro dell’Imo, database pubblico che contiene i rapporti di attacchi pirati trasmessi dalle imbarcazioni di tutto il mondo alle autorità competenti, ma del rapporto dell’Enrica Lexie non vi è alcuna traccia. Anche Cyrus Mody dell’Icc-Ccs, come abbiamo visto in precedenza, ha confermato che alla Camera di commercio internazionale non risulta nessun rapporto dell’Enrica Lexie, mentre hanno ricevuto e pubblicato un analogo rapporto di attacco da parte di pirati redatto dall’Olympic Flair. Anche le autorità indiane si erano mosse per rintracciare questo fantomatico documento. Il giudice dell’Alta Corte del Kerala P.S. Gopinathan, respingendo gli argomenti della difesa dei marò, ha spiegato: «È pertinente notare che non è stata prodotta nessuna prova a testimonianza del fatto che i marò, prima di sparare ai pescatori, abbiano comunicato al Capitano dell’imbarcazione il pericolo di un attacco pirata, o che il Capitano ne abbia fatta menzione nel registro. Inoltre non esiste nessun documento a supporto dell’argomentazione di difesa che sostiene il Capitano abbia attivato lo Ship alert security system o che alcun segnale sia stato trasmesso al Marine rescue and coordination centre, alla Mercury chart o a qualsiasi Marina in tutto il mondo». Ci sono abbastanza elementi per dubitare che il rapporto sia mai stato trasmesso, dettaglio che apre uno scenario inedito della dinamica del cosiddetto “tranello indiano”. left 13 aprile 2013 Nei guai per conto Terzi di Cecilia Tosi Quattro dicasteri in gara per dare la colpa a qualcun altro, ministri che pensano solo a salvare la faccia e un elenco di errori facilmente prevedibili. Storia di una fuga dalle responsabilità È tutta colpa dell’India. La vicenda dei due marò, a distanza di un anno, è un lungo rimpallo di responsabilità che coinvolge almeno quattro ministeri italiani (Esteri, Difesa, Giustizia, Sviluppo economico), ciascuno impegnato a sciorinare una lista infinita di presunti colpevoli: la compagnia armatrice, i giudici indiani, le autorità del Kerala e il governo di New Delhi. Dopo i primi fallimenti diplomatici, i ministri hanno cominciato anche a darsi la colpa tra loro, scegliendo di combattere battaglie separate. Eppure, ci racconta una fonte alla Farnesina, nelle miriadi di riunioni interministeriali dedicate all’affaire marò nessuno dei vertici ha mai fatto la fatidica domanda: «Sono stati loro?». Perché le autorità italiane non lo vogliono appurare: i marò devono essere giudicati dalla magistratura, e le autorità politiche non devono lasciarsi fuorviare dalla verità.. 37 mondo left.it Esteri 80 e che coinvolge un faccendiere italiano. Si chiama Ottavio Quattrocchi, accusato di aver fatto da intermediario con il governo indiano per una partita di armi accompagnata da mazzette miliardarie. Il faccendiere, intimo della famiglia Gandhi, viene usato da vent’anni per accusare Sonia di corruzione. Persino nel maggio 2012, in piena polemica marò, un giornale indiano ha rivelato che «Ottavio Quattrocchi visitò Sonia Gandhi 21 volte dopo la morte di Rajiv (il marito, ndr)». Niente favoritismi agli italiani, dunque, per la leader del Congress, anzi, linea dura sugli assassini dei pescatori. Perché la categoria degli uomini di mare è già vessata dalla Marina dello Sri Lanka, che arresta o spara a chiunque entri nelle sue acque territoriali. Non è un caso che nel suo ultimo discorso al partito, Sonia Gandhi abbia esordito dichiarando il suo impegno a frenare la violenza esercitata dallo Sri Lanka sui pescatori di etnia tamil, per poi passare a condannare l’Italia «per il tradimento della promessa alla Corte suprema» e proclamare che «nessun Paese può dare l’India per scontata». Soprattutto l’Italia. Difesa La Difesa ha sempre negato di essere parte in cau- © Quraishi/ap/lapresse Nuova Delhi, una manifestazione chiede il rilascio dei pescatori indiani catturati dallo Sri Lanka Nella gara allo scaricabarile vince senz’altro il ministro degli Esteri, che anche dopo essersi dimesso continua a combattere contro i mulini a vento. Gli errori della Farnesina sono cominciati il 15 febbraio, giorno dell’incidente. Il ministero ha realizzato troppo tardi che c’era stato un arresto e il primo tentativo di contattare le autorità indiane è arrivato alle 19:30, che a Nuova Delhi significa le 23. A quell’ora i colleghi dormivano. E la mattina dopo il patatrac era fatto, perché i media del Kerala erano già informati e avevano dato risalto all’omicidio. La Farnesina avrebbe probabilmente potuto riparare, porgendo subito le scuse del governo italiano, ma Terzi non l’ha fatto, perché era convinto di non avere niente su cui fare ammenda. Ha difeso i suoi connazionali pensando che tutelare gli interessi nazionali fosse indispensabile per non perdere la faccia. Avrebbe dovuto tener conto che anche in India c’era qualcuno che non poteva perdere la faccia. La leader del Congress, il partito di Gandhi, nata in Italia e sempre biasimata dai partiti nazionalisti, non può permettersi accuse di contiguità. Sonia Gandhi si porta già sulle spalle il peso dell’affare Bofors, uno scandalo che si trascina dagli anni 38 13 aprile 2013 left mondo left.it sa nella cattura dei due militari, attribuendo al comandante della nave la responsabilità di averli portati sulle coste del Kerala e alle autorità indiane di averlo attirato con un tranello. Eppure il ministro Giampaolo Di Paola ha così risposto nell’ottobre 2012 a un’interpellanza del Senato: «L’autorizzazione a procedere verso le acque territoriali indiane è stata data dalla compagnia armatrice, una volta contattata dal comandante della nave. Ciò, tuttavia, per la presenza del Nmp (nucleo di fucilieri) a bordo, è avvenuto a seguito di preventiva informazione della catena di comando militare nazionale, che [...] non aveva ravvisato elementi che potessero indurre a negare una doverosa attività di collaborazione con uno Stato sovrano». Tradotto: la Marina non si è opposta all’inversione di rotta, e ha rispettato una catena di comando che vedeva al suo vertice l’Ammiraglio Binelli Mantelli, ieri comandante delle operazioni navali, oggi promosso a capo di Stato maggiore della Difesa. Giustizia La ministra della Giustizia Paola Severino ha dichiarato di essersi impegnata affinché «i nostri marò potessero essere processati da un tribunale che si ispirasse ai principi della normativa internazionale». E ha affermato che il problema della giurisdizione «deve essere risolto secondo la normativa internazionale». Ma la normativa internazionale è composta da tanti accordi che a volte possono confliggere tra loro. E spesso gli Stati scelgono quello da applicare a seconda della convenienza. Gli indiani si appellano al concetto di spazio di interesse nazionale, mentre gli italiani chiedono di considerare la Convenzione internazionale sul diritto del mare. Secondo la procura di Roma, a cui sono affidate le indagini sull’incidente, in acque internazionali c’è una giurisdizione concorrente ed entrambi i Paesi possono processare gli accusati. Il netto rifiuto della autorità italiane di far giudicare i marò dai tribunali indiani ha a dir poco indispettito Nuova Delhi. Le autorità giudiziarie hanno chiuso ogni collaborazione con gli inquirenti italiani che oggi sono costretti a condurre un’indagine separata senza disporre di nessuna prova o documento raccolto nel luogo del delitto. Sviluppo economico Anche il responsabile del dicastero dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ha tirato acqua left 13 aprile 2013 La Difesa è stata consultata e non ha fermato l’inversione di rotta verso l’India al proprio mulino, spingendo il governo a rispettare gli accordi con la Corte suprema indiana. Non avrebbe senso danneggiare i buoni rapporti commerciali con un Paese che ha un miliardo e 200 milioni di abitanti, di cui circa 200 milioni con buon potere d’acquisto. Nel 2012 l’Italia ha registrato un certo calo delle esportazioni verso l’India (10 per cento) ma a scendere di più sono state le importazioni (21 per cento) con il risultato che il nostro deficit commerciale è diminuito. «Per l’Italia l’India è un mercato importantissimo», spiega Amedeo Scarpa, responsabile Ice di Delhi e Mumbai. «Nuova Delhi ha l’obiettivo di far passare il settore manifatturiero dal 15 al 25 per cento del suo Pil entro il 2015. In questo l’Italia può dare una mano fornendo prodotti del settore meccanico, quello in cui andiamo più forti». Intanto è arrivata la nomina a ambasciatore in India di Daniele Mancini, ex consigliere diplomatico di Passera, e lo slogan adottato dall’Ice per favorire la cooperazione industriale tra i due Paesi è: Made with Italy. Parlamento L’ultimo anello della catena di scaricabarile è a Montecitorio. Neanche in Parlamento c’è qualcuno che accetta di avere sulla coscienza la vita di pescatori innocenti. Per evitare che lo Stato italiano sia tirato in ballo in futuro, la Camera ha deciso di emanare un nuovo regolamento (29 marzo) che permetterà di salire a bordo anche alle guardie giurate, e cioè a dipendenti di istituti privati. D’altronde la privatizzazione della sicurezza in mare ha subito un boom gigantesco da quando imperversano i pirati. L’Italia era uno dei pochi Paesi vergini per aziende di questo tipo, che in alcuni Stati contano lo stesso numero di dipendenti delle Forze armate. Affidare i compiti di sicurezza ai privati non implica però minori conflitti di attribuzione: «L’unica cosa buona dell’incidente in India», ha commentato il direttore di una grande società di assicurazioni londinese. «È che hanno sparato dei militari e non una compagnia privata. Altrimenti non posso immaginare quali implicazioni sarebbero sorte». Ma non è la lungimiranza il nostro faro. 39 mondo left.it Sotto tiro di Giacomo Cuscunà da Aleppo 40 13 aprile 2013 left mondo left.it S © Lubacki /AP/lapresse ono tornati a scuola, ma non c’è nessuno che possa insegnare loro come sopravvivere. Non ci sono più cattedre in questo agglomerato nel quartiere di al-Shaar, ad Aleppo, diventata ora un riparo per sfollati. C’è solo gente senza più un posto dove abitare. Non che qui la situazione sia tranquilla, no. Anche il complesso di tre edifici è stato colpito più di una volta dalle forze del presidente Bashar al-Assad. Appoggiato allo stipite della porta Abu al-Nasser, disegnatore di 43 anni, racconta di vivere qui «con la mia famiglia e altre 23 persone». «Gli aerei dell’aviazione hanno sganciato sei bombe su quest’area. Abbiamo paura che possa succedere di nuovo», dice Abu. Nel cortile i segni dei colpi sono ben visibili. I crateri più piccoli sembrano quasi insignificanti in confronto ai due buchi profondi più di due metri e larghi quattro, causati dalle bombe a maggiore potenziale. Il campo da basket pieno di calcinacci e le due porte per le partite di calcetto ormai inutilizzabili contrastano con la frase scritta dal regime su quel che rimane di uno dei muri di cinta: «Lo sport è importante per crescere sani». Attorno alla scuola, tra i condomini segnati dalle onde d’urto delle esplosioni, la vita scorre: un commerciante espone lungo il marciapiede scarpe, venditori ambulanti camminano con sulla testa vassoi pieni di panini e dolcetti, il rumore del traffico chiassoso e caotico tipico del medio oriente non si ferma. Anche se è in alcuni momenti è coperto dai colpi di mortaio in lontananza. Era una meraviglia della Siria. Oggi Aleppo è prigioniera di due eserciti che si fronteggiano. Un cumulo di rovine su cui governano armi e malattie. Dove si resiste come si può. Aspettando la battaglia finale left 13 aprile 2013 Saif al-Dawlah, sobborgo di Aleppo, gennaio 2013. Un giovane miliziano gioca a pallone nelle strade del quartiere Anche l’ospedale di Dar al-Shifa mostra le ferite del conflitto. «Ero al terzo piano quando lo scorso novembre il caccia del regime ha sparato il primo missile, colpendo la casa di fronte», racconta Mahmud, 24 anni, che all’inizio della rivolta ha deciso di unirsi all’Esercito siriano libero (Esl). «L’aereo è poi tornato altre due o tre volte centrando l’obiettivo. Ho perso 17 compagni. Sono fortunato a essere ancora vivo». La zona in cui si trova l’ospedale è per lo più residenziale, un quartiere composto da palazzoni affacciati su strade a più corsie, con negozi ai piani terra. Alcuni dei quali con le serrande abbassate. «La zona nord, dove siamo ora, è stata tra le prime a essere liberata» continua Mahmud. «Qui l’Esl ha la sua base più forte e il maggiore sostegno della popolazione, è per questo che il regime non l’ha risparmiata». I segni sono su ogni palazzo: finestre rotte e balconi 41 mondo © Contreras /AP/lapresse left.it semicrollati, con ringhiere accartocciate qua e là. Che i civili siano ormai uno dei bersagli preferiti dalle forze governative è un pensiero comune tra i siriani. «Ho perso mio figlio e mia figlia e non erano certo combattenti», conferma Umm Muhammad, una donna di 70 anni, con un lungo abito nero ingrigito dalla polvere che le lascia scoperto solo il volto segnato da rughe profonde. È a pochi metri dalle macerie di almeno quattro palazzine rase al suolo due mesi fa da alcuni missili nella zona di al-Ansari al-Sarqi. Dai calcinacci, dice, «solo un bambino e una bambina sono stati estratti vivi. Ora me ne prendo cura io». Per le altre 60 persone non c’è stato nulla da fare. Come a Sarajevo nel 1992, il pericolo sono i cecchini. Ci sono strade dove si può solo correre e sperare Quando ci si avvicina al fronte che divide la Aleppo controllata dall’Esl dalla Aleppo delle forze armate fedeli al regime, il pericolo sono i cecchini. Come nella Sarajevo assediata del 1992 ci sono aree e strade da cui è meglio stare alla larga o dove bisogna correre e sperare. Il leader di una brigata di ribelli indica la collina da dove provengono i colpi: «Dalle informazioni che abbiamo i cecchini sono soldati iraniani e miliziani libanesi di Hezbol42 lah», spiega all’angolo di una via che si affaccia su quella che chiamano «strada della morte». Cammina sicuro nel suo quartiere. Tuta da ginnastica, gilet nero con tasche lunghe e ricurve per i caricatori, bandana nera in testa. Il kalashnikov è ben saldo nella mano sinistra dove, sotto un orologio che sembra d’oro, si intravede un piccolo cuore trapassato da una freccia, tatuato tra il pollice e l’indice. Abu Ahmad, 36 anni, è di al-Marja, un quartiere di Aleppo in passato duramente colpito dalle forze del regime. Ci indica tre fagotti di coperte e lenzuola lungo il marciapiede. «Ci sono tre martiri là, andate a vedere». I corpi sono proprio di fronte all’ospedale Zahsur. Abu Ahmad ne scopre il volto e il petto. «Non sono militari, non sono combattenti dell’Esl, ma normali lavoratori», afferma indicando i vestiti che hanno indosso. I corpi sono stati trasportati dal quartiere di Ramouse, nel sud della città, dove il fuoco dei cecchini è costante. Le persone si fermano, alzano il lenzuolo per vedere se conoscono i morti, se possono dar loro un nome. «Una scena non inusuale qui», confessa Maher, il traduttore. A pochi metri da lì Abu Islam, che prima della guerra faceva il tassista, vende spremute fresche di arance e mandarini come se niente fosse. Come un bisogno di normalità. «Le persone sono stanche del caos e della confusione», spiega Masim al-Sheik, 44enne responsabile della Polizia militare rivoluzionaria di Qa13 aprile 2013 left mondo © LaPresse/Zuma left.it di Askar. «La nostra organizzazione fa parte della formazione Liwa al-Tawhid. Cerchiamo di tenere sotto controllo la corruzione e i comportamenti scorretti dei combattenti, ma organizziamo anche gruppi per dirigere il traffico e altri servizi alla cittadinanza». Nell’universo dell’opposizione questa sta diventando una pratica sempre più diffusa: riformare un tessuto istituzionale e assicurare alcuni servizi minimi alla popolazione che abita nelle aree sotto il controllo dell’Esl e delle altre brigate. È il ruolo che si è dato il Consiglio della sharia, in cui sono presenti esponenti dei gruppi islamisti di Jabhat al-Nusra, Liwa alTawhid e Ahrar al-Sham. «Abbiamo uffici in tutta la città e ci occupiamo di sicurezza, scuole, amministrazione della giustizia ma anche della distribuzione e il commercio di abiti e pane», spiega Abu Yahir. «Ad Aleppo aiutiamo - e in parte gestiamo - 168 forni per la produzione di pane». Ma senza un coordinamento o un’organizzazione, vincono rivalità ed equilibri precari, che lasciano drammatica la situazione della popolazione. «Con due dollari si compra giusto un chilo di pomodori», dice Umm Faris. «Vivevamo in un bellissimo Paese e ora siamo poveri. Riesco a malapena a sfamare i miei bambini». Umm Faris ha 55 anni, parla mentre cammina tra le macerie di un palazzo nel quartiere di Jabal Badro. «Era così bello qui, ora le nostre case sono distrutte», aggiunge. L’as- left 13 aprile 2013 «Che dio prenda Bashar e ci vendichi», dice una donna camminando tra le macerie senza di servizi di base e l’accumulo dei rifiuti lungo le strade rendono la situazione sanitaria difficile, i medicinali sono una merce preziosa. Umm Faris alza la manica scura del suo abito, mostra gli effetti della leishmaniosi sulla sua pelle. Un’infezione che chiamano anche «bottone d’Aleppo», tipica di alcune zone della Siria. «Che Dio prenda Bashar e ci vendichi», dice lei. In alto, Al Amryia, quartiere di Aleppo, miliziani del Free syrian army. Nella pagina accanto, sfollati in fuga dagli scontri tra milizie ed esercito regolare L’area settentrionale del Paese è sotto il controllo dei ribelli dell’Esl, ma alcune aree rurali rimangono al centro di tensioni, con centinaia di gruppi di ribelli che fronteggiano gli shabiha,i miliziani fedeli a Assad. I rapimenti per scambio prigionieri sono una realtà frequente in zone dove i gruppi opposti sono a contatto. Come a Nubl e Zahraa, le due cittadine sciite a nord di Aleppo nelle mani dell’esercito regolare, assediate dai ribelli. Le due parti si confrontano con colpi di mortaio e razzi e circa un centinano di prigionieri, da una parte e dall’altra, sono merce di scambio e ricatto. E non importa che siano militari o civili, siriani o stranieri, come i 4 giornalisti italiani fermati al confine turco. Tanto qui ogni vita ha un prezzo. E si paga giorno per giorno. 43 newsglobal mondo © young-joon/ap/lapresse left.it La guerra di corea Contro le esercitazioni militari congiunte tra Seul e Washington si schierano anche gli stessi sudcoreani, preoccupati per quella che definiscono una “provocazione” nei confronti di Pyongyang. Il 9 aprile hanno manifestato davanti all’ambasciata americana, esponendo cartelli contro il presidente Usa. Tra i motivi della protesta, l’annunciata chiusura del sito produttivo di Kaesong, al confine delle due Coree, ultimo simbolo del tentativo di riavvicinamento tra i due Paesi. 1 rublo Altro che voli low cost. Per 1 rublo, cioè 2 centesimi di euro, il miliardario russo Alexandre Lebedev ha venduto un’intera compagnia aerea. La Red Wings è stata ceduta a questa cifra simbolica in polemica con la decisione delle autorità di Mosca di ritirare l’autorizzazione al volo dopo un incidente aereo «Mio padre è contento perché vede che sono più famoso di Ban Ki-moon, il segretario delle Nazioni unite» Il cantante coreano Psy, ideatore del tormentone “Gangnam style” Niente aiuti, c’è l’austerity Gli aiuti dei Paesi ricchi ai Paesi poveri sono diminuiti per il secondo anno consecutivo, secondo quanto rilevato dall’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Oecd). Nel 2012 il calo è stato del 4 per cento, con punte del 49 per cento in Grecia e del 38 per cento in Italia. In controtendenza invece la Corea del sud (+18) e l’Australia (+9). crisi della settimana Dopo giorni di tensione in Cisgiordania, i carri armati israeliani, supportati da elicotteri da guerra e bulldozer, sono entrati nella West Bank e nella striscia di Gaza. Numerosi palestinesi sono stati fermati e condotti nelle carceri israeliane. L’operazione avviene a un giorno di distanza dalla visita del segretario di Stato Usa John Kerry, che il 7 aprile ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen. 44 13 aprile 2013 left mondo left.it © Cubillos/ap/lapresse Dopo Marx, Capriles? L’opposizione venezuelana ci spera ancora, anche se la maggior parte dei sondaggi non lasciano spazio all’ottimismo. Il leader del centrodestra Henrique Capriles tenterà domenica 14 l’operazione impossibile: sconfiggere alle presidenziali Nicolás Maduro, il delfino di Chávez designato successore dallo stesso leader bolivariano. Dodici giorni appena di campagna elettorale per una battaglia tra due ideologie: da un lato il socialismo latinoamericano incarnato da Maduro, privo della caratura di Chávez ma sostenuto da molti capi di Stato del continente. Dall’altra il liberismo del miliardario amato dagli Usa, che può contare solo sul sostegno della Colombia, ansiosa di costruire nuove alleanze. la curiosità Con le mani nella cioccolata La Nutella fa gola a molti, persino ai ladri. Dietro al furto di 5 tonnellate di Nutella potrebbe esserci la stessa banda che due mesi fa ha rubato un carico di bevande energetiche. È successo a Bad Hersfeld, cittadina tedesca a 150 chilometri da Francoforte, dove il 7 aprile una gang di rapinatori ha svuotato un intero camion, portandosi via 16mila euro in cioccolata spalmabile. Quando si dice fare la spesa all’ingrosso. investimenti Dove osano i cinesi THATCHEREIDE «La gente mi dice che non dovrei gongolare. Beh, io sto gongolando» Marzo 1985, dopo aver vinto il braccio di ferro con i sindacati dei minatori «L’Anc di Nelson Mandela è un’organizzazione terroristica» Ottobre 1987, rifiutando le sanzioni contro il regime sudafricano, accusato di apartheid «Lei ha portato la democrazia in Cile» Marzo 1999, durante un incontro con il dittatore Augusto Pinochet «Curare la malattia britannica con il socialismo è come curare la leucemia con le sanguisughe» Nonostante la crisi, gli investimenti cinesi crescono. La Heritage foundation ha fatto i conti in tasca a Pechino, verificando dove, quanto e come spende la Cina nel mondo. A sorpresa, il primo partner commerciale è l’Australia con le sue materie prime (58 miliardi di dollari nel 2012) seguita dagli Usa (54 miliardi, per lo più in titoli e azioni). left 13 aprile 2013 Da Gli anni di Downing street, l’autobiografia uscita nel 1993 45 D’Amico 48Tano si racconta oggi 54Narrare il Sudafrica cultura Giunge alla quarta edizione la manifestazione d’approfondimento Giornate della Laicità, in programma a Reggio Emilia dal 19 al 21 aprile. Ospiti di grande spessore animeranno i 16 incontri, tra i più attesi il giurista Stefano Rodotà, il ginecologo Carlo Flamigni, il giornalista Curzio Maltese e la sociologa Chiara Saraceno. L’edizione di quest’anno sarà incentrata sul tema dei diritti. cultura Tano D’Amico belli, sporchi e cattivi di Arianna Catania ed Elisabetta Galgani 13 aprile 2013 left Ragazza e carabinieri (1977) Dalle lotte contadine a Occupy, dai funerali di Fava al M5s. Quarant’anni di conflitti sociali e movimenti. Visti con lo sguardo del fotografo simbolo degli anni Settanta left 13 aprile 2013 In alto, Catania, funerali di Giuseppe Fava (1984). Sotto, Sulle barricate di Genova (2001). Nella pagina accanto, dall’alto in senso orario: L’eterna lotta dei senza casa (1977); Tumulto per il pane, Napoli (1972); Bambini di Scicli; una studentessa universitaria del movimento la pantera, Roma anni 90; Napoli, operai in piazza (1983) 13 aprile 2013 left left 13 aprile 2013 51 cultura left.it L o hanno definito “il fotografo dei vinti”. Lui nicchia, si schermisce, poi ammette: «Adesso sono vinti ma, in futuro, chi lo sa...». Tano D’Amico, 71 anni, è il fotografo delle più belle immagini simbolo degli anni Settanta: il movimento studentesco, le donne in piazza, i conflitti sociali. È appena uscito il suo ultimo libro Anima e memoria (Postcart edizioni) che ne ripercorre la vita professionale da “reporter di strada”. «Il regno delle immagini appartiene a loro, ai vinti. Il punto di vista si trasforma solo quando sono gli insoddisfatti a farlo cambiare, non muta di certo grazie a chi detiene il potere. Chi è soddisfatto di come va il mondo è conforme al modo di vedere che già esiste». Ha cominciato ad amare la fotografia dopo la strage di contadini di Melissa, in provincia di Crotone, nel 1949. Che cosa successe in lei? Nell’Italia del Dopoguerra i militanti del Pci si alzavano presto e affiggevano l’Unità sulle rovine dei bombardamenti. Un giorno vidi la prima pagina su Melissa, andavo in seconda elementare a Milano, lessi i titoli e i sottotitoli: oltre ad uccidere i contadini che avevano occupato le terre incolte, i militari abbatterono tutti i muli e i cavalli. Uccidere gli animali significava dire chiaramente che per loro era ormai impossibile vivere lì. Non misi in collegamento quell’evento con gli accordi dell’Europa sul carbone e l’acciaio. Mi fu chiaro più tardi: nello scambio alcuni Paesi mettevano le risorse, altri gli uomini che le estraevano. I contadini, quindi, erano già stati “venduti”: per ogni minatore che andava in Belgio, c’erano tonnellate di minerale che arrivavano in Italia. Lei ha vissuto l’infanzia a Filicudi, nelle Isole Eolie. Quale ricordo ha di allora? Vivevo a Messina, e quando mia nonna seppe che soffrivo di tosse compulsiva - avevo solo un anno decise di portarmi sull’isola di Filicudi dove son rimasto fino agli anni della scuola. Avevo una casa di campagna, con gli animali e le viti. I miei compagni di giochi erano le bestie. I veri valori mi sono stati insegnati dagli animali, che non sono competitivi. Ma un giorno capii che venivano venduti e uccisi e mi trovai solo. Quando ha cominciato a fotografare? Ho iniziato giovanissimo, ma poiché era un lavoro difficile, volevo tirarmi indietro e fare altro per vivere. Mi chiamò un occupante delle case, convinto che avrei portato la realtà di quel movimento sulle prime pagine dei giornali. Allora non avevo un soldo, sopravvivevo mangiando pane e bevendo tè. «Non mi paga nessuno», gli dissi. I periodi di conflitto sono anche periodi di grande gentilezza: lui mi chiese scusa e trovò i soldi per pagarmi. Presi dei rulli e scappai a Casal Bruciato, a Roma. Da lì, cominciò uno dei miei lavori più belli. Le sue foto raccontano i conflitti e la vita reale. E sono intrise di bellezza. Le mie foto rompevano con l’immaginario esistente, ma piacevano molto. All’epoca c’era una vera e propria pornografia degli operai: rappresentati con la bocca aperta, mostruosi, “brutti, sporchi e cattivi”. Come dice Ken Loach: gli operai vengono mostrati “o come dei miserabili, come dei vinti, o come una minaccia”. Io ho rifiutato sempre questa mentalità, che era uguale a quella della polizia. Alcuni critici più o meno affettuosi, nel corso della vita, mi hanno detto che ho fotografato sempre “i belli e le belle”. In realtà “i belli e le belle” sono i nostri compagni di scuola, i nostri nonni, il vicino sull’autobus. Sono stato sempre cosciente che molti sorrisi, sguardi intensi mi sono stati regalati. Come la ragazza con il foulard che rimane una protagonista misteriosa della mia vita: lei non si è mai fatta viva per dire “sono io quella della foto”. Come è apparsa, è scomparsa. La “sua” ragazza con il foulard del ’77 è diventata un simbolo. Ed è molto simile alla copertina del Time sull’uomo dell’anno del 2011: The protester, dedicato a Occupy e alla Primavera araba. Foto simili che raccontano mondi differenti? Il movimento del ’77 era molto più consapevole di Occupy. Dalla sua nascita in Occupy c’è sempre stata una schiavitù dell’immagine: si prestava molta attenzione ai mezzi per diffondere le foto del movimento in tempo reale. Ma questo nasconde una completa incapacità di fare memoria di quelle immagini. È accaduto lo stesso con la Primavera araba: mi sembra che i ribelli si siano distrutti con le loro immagini, perché molti scatti hanno confermato gli stereotipi sugli arabi, come quello Oggi le foto non restano più nella memoria. Sulla stampa appare solo un’immagine mostruosa dei movimenti sociali A destra, una sequenza di ritratti di Tano D’Amico 52 13 aprile 2013 left cultura left.it di un’umanità rabbiosa e sanguinaria. Mi ricordo invece un lutto in Palestina: la ritualità del funerale assomigliava alla Deposizione di Cristo del Caravaggio. Riportato sui media, tutto si tramuta. Nel periodo definito come “la civiltà delle immagini”, i “vinti”, gli “ultimi” subiscono un furto di bellezza e di dignità. Ai movimenti attuali interessa comparire sui media, sui giornali, non è importante “in che modo” compaiono. E spesso i movimenti sono rappresentati come dei veri e propri “mostri”. Ieri i movimenti sociali, oggi il Movimento 5 stelle... Del M5s mi preoccupa il rispetto strenuo della legalità: chi ha avuto delle condanne non può andare in Parlamento, ad esempio. Hanno studiato poco la nostra storia: anche i militanti dell’M5s potrebbero andare in carcere perché esiste un potere che si difende e se lo minacci davvero. Così è stato anche per persone miti, come Turati ad esempio, che entrava e usciva di galera. Durante il fascismo la legalità ha significato denunciare il tuo compagno di banco ebreo. La legalità ha avuto degli aspetti mostruosi. Questo culto della legalità mi spaventa: mi preoccupa che un certo tipo di sinistra cerchi un giudice che lo rappresenti. Tra gli eventi che ha documentato, i funerali di Pippo Fava, il giornalista ucciso dalla mafia nel 1984. La7 sta realizzando uno sceneggiato tv su Pippo Fava e mi ha comunicato che non esistono foto del suo funerale. Io invece c’ero e ho fotografato. E ricordo che allora molti dicevano che Pippo Fava era stato ucciso per “oscuri motivi”. Il mondo della “legalità” non partecipò al suo funerale. Dov’erano i giornalisti, i fotografi, le televisioni? Dov’erano i giudici? Nelle sue fotografie c’è anche la nascita del movimento femminista. Negli anni 70 le donne uscivano insieme: durante i loro cortei, Roma era deserta, con i negozi chiusi e si sentiva lo scalpiccio e il frusciare delle loro vesti. Mi ricordo, un giorno, la voce sottile di una ragazzina che urlava: «Donna, lo sai la forza che hai». E in risposta la voce di centomila donne che faceva tremare i muri: «Sì, lo so, la forza che ho». Queste donne appartenevano a tutti i ceti, era emozionante. Non sono così le femministe di oggi. Ad esempio non amo le mobilitazioni del movimento Se non ora quando: sono le donne perbene che se la prendono contro le “puttane”. Alla loro ma- left 13 aprile 2013 nifestazione, in piazza del Popolo, il 13 febbraio 2011, mi sembrava di assistere all’inizio di Ombre rosse in cui una puttana viene cacciata con i cartelli dalle donne perbene. È un problema generale. Oggi tutti i movimenti lisciano il pelo alla politica e hanno perso la loro autonomia culturale: non possiedono un approccio differente, alternativo. Qual è il rapporto tra fotografia e memoria? Se non si sta molto attenti a non rincorrere la velocità, le immagini non faranno mai memoria e si perderanno nell’oblio. Per fortuna col tempo rimangono solo le belle immagini che scacciano quelle che distorcono la realtà: costruite, urlate, gridate. E una bella immagine colpisce anche i nemici ed è più forte di mille parole. Lei è uno dei più noti fotografi italiani. Ma non ha mai partecipato a un premio fotografico, al famosissimo World press photo, ad esempio. Siamo abituati a credere che il premio sia qualcosa di bello in sé: se studi e fai il bravo, vinci il trofeo. Nella vita sappiamo che non è così. Dunque non amo i premi. In particolare quelli che premiano solo i reporter di guerra. La mia domanda è questa: se finiscono le guerre i reporter di guerra che faranno? L’ho detto scherzando, ma il problema è serio: dietro il mestiere di fotografo c’è la ricerca della morte degli altri, del dolore degli altri. Anch’io ho fotografato la violenza e la morte, lo ammetto. Ma non l’ho cercata, quello mai. Ha avuto dei maestri? Un maestro non è quello che ti dice quale obiettivo usare: sarebbe come se un dattilografo insegnasse letteratura. Il maestro è colui che ti dà il coraggio della tua diversità. Ricordo due grandissimi maestri: uno è stato Franco Pinna, fotografo di scena di Fellini. L’altro è stato Tazio Secchiaroli conosciuto come il reporter a cui il grande regista si è ispirato per La dolce vita. In realtà i suoi scatti parlavano della società dell’epoca. Amavo il modo in cui Tazio entrava nelle storie che raccontava: una volta fu immortalato mentre si azzuffava con Walter Chiari. Era protagonista dei suoi racconti. Cosa consiglierebbe a un giovane fotografo? Deve cercare, trovare e sviluppare la sua strada. Quella che sarà solo sua. Io amo le fotografie per questo: nel cinema, nell’editoria vince sempre il più ricco, il più forte. Nelle immagini, invece, non sempre vincono le lobby e il potere. Molte volte può vincere la persona più bella. © arianna catania 53 cultura left.it I l viaggio in treno da Le Cap a Stellenbosh è un’avventura. Ogni giorno o quasi bande di giovani salgono sui vagoni e, fra due stazioni, derubano i passeggeri. Io questo treno l’ho preso. Di proposito. In una tasca cento rand di monetine. Non bisogna mai deludere i rapinatori. Nell’altra un biglietto di prima classe. Una donna dei servizi di pulizia, grossa e lenta, finiva di scopare il vagone prima della partenza del treno. Recuperò da sotto il sedile un bastone che mi tese. «Take care», mi dice... Tenendolo come una sciabola, attaccai il viaggio. Sul binario, centinaia di persone passarono sotto il mio finestrino; nessuna salì nel mio scompartimento, e mi spiacque. Due stazioni dopo, per essere meno vulnerabile, passai in un vagone di seconda, strapieno. Ero l’unico bianco. Senza dubbio l’unico bianco del treno. Salirono alcuni giovani tatuati. Tipi sinistri, con dei numeri sulle braccia: 26, 28. Ornamenti che alludevano all’appartenenza a una banda di Città del Capo, The Numbers, ex detenuti di cui la stampa parla spesso. Portare uno di quei numeri significa ostentare la propria vocazione: il crimine. Erano accompagnati da belle ragazze. di Adriaan van Dis da Città del Capo A quindici anni dalla fine dell’Apartheid la piaga del razzismo è ancora aperta. Il j’accuse dello scrittore olandese che riflette sui danni causati dal colonialismo dei boeri 54 13 aprile 2012 left © Farrell/ap/lapresse Viaggio altermine delSudAfrica cultura left.it © Farrell/ap/lapresse Posarono uno sguardo sprezzante sul mio bastone, ma fu tutto. Forse quei tatuaggi non erano che una sbruffonata, forse la presenza delle ragazze li induceva a trattenersi. In quell’ora e mezzo di viaggio da Le Cap a Stellenbosh nessun passeggero è stato rapinato. Ottima cosa per i miei compagni di viaggio. Peccato per me. Uno scrittore ama l’imprevisto. Comunque posso estrarre da quelle poche impressioni e dalla tensione provata qualche elemento per nutrire il romanzo che sto preparando (Tossico edito da Iperborea, ndr), che si svolge in Sud Africa. Posso anche attingere ispirazione nel ricordo dei viaggi che ho fatto sulla stessa linea nei miei precedenti soggiorni. Nel 1973 studiavo a Stellenbosh. All’epoca neri e bianchi viaggiavano separati. Le stazioni erano molto più pulite e molto più sicure, per un Bianco. Capitava che si incrociasse o si superasse un treno zeppo di neri - con le nostre finestre che sfioravano le loro. Potevamo guardarli, potevano guardarci. Non dimenticherò mai i loro occhi. Ci vedevo il disprezzo. L’odio. Ma forse era solo invidia o ammirazione. O semplicemente lo sguardo vuoto di gente stanca. Oggi bisogna avere della merda negli occhi per non vedere che la società sudafricana è estremamente violenta. Quando al mattino aprite il giornale, il sangue vi schizza addosso... Il sangue di migliaia di uomini e donne violentati. Occorre uno stomaco di ferro per leggere i giornali sudafricani. Overdose di crimini? Voltiamo pagina e passiamo agli scandali finanziari che coinvolgono gli uomini al potere, dilettiamoci con le loro menzogne, i loro intrallazzi? In Sud Africa, quello che si è democratizzato nei primi 15 anni di fragile democrazia è soprattutto la paura. Nei treni, in strada, nel centro delle grandi città... Oggi tutti hanno paura, i poveri come i ricchi, qualunque sia il colore della pelle. Ma perché insistere tanto su questa paura e questa violenza? Potrei anche sottolineare alcune evoluzioni positive. Se ne parlo, è perché in queste storie spunta un pizzico di razzismo... Ora lo constatiamo: le cose vanno male! Non andavano meglio prima? Una domanda non del tutto politicamente corretta, ma che oggi si osa fare ad alta voce. Se continua così, ciò che era politicamente scorretto, diventerà politicamente corretto. Nessuna persona sensata desidera tornare all’epoca left 13 aprile 2012 delle leggi razziali, l’uguaglianza dei diritti è acquistata. Ma tante sofferenze per mettere al potere gli uomini corrotti? Per discriminare le minoranze? Ecco le domande che oggi si pongono amaramente bianchi, neri, e meticci. Se la prima generazione dei leader neri era colta, oggi emergono persone senza istruzione, tanta è la richiesta di quadri. Un terzo di membri eletti nei consigli municipali sa a stento leggere e scrivere. Il Paese attraversa una fase di transizione, il passaggio da una società oppressa a una società libera in cui si cerca a tastoni e con ruvidezza la propria convenienza. Dopo la gabbia, la giungla. Il Sud Africa imbocca una fase piena di pericoli. Nuovi capi populisti, qui come altrove, sfruttano la paura dei cambiamenti rapidi che fa vibrare la fibra conformista o fondamentalista. Nel frattempo i problemi sociali assumono proporzioni gigantesche. Ed è possibile che le cose vadano di male in peggio: il movimento di liberazione trova molte difficoltà a diventare un partito di governo. Non si contano più, nell’Anp, gli esempi di nepotismo e corruzione. Anche questo fa parte della fase di transizione. Ma anche se le strade si degradano perché il vicesindaco incaricato della manutenzione si mette in tasca i soldi, anche se si nomina nei ministeri gente ignorante, anche se i politici corrotti si aiutano l’un l’altro a tenere la testa fuori dall’acqua... Il cittadino sudafricano ha comunque la possibilità di migliorare le cose. Il popolo è libero. Libero di accettare la decadenza. Libero di combatterla. Ancora una volta nel Sud Africa c’è chi si oppone al partito al potere. Scrittori e intellettuali di primo piano, che hanno fatto sentire la loro voce in passato, si fanno sentire di nuovo. Le critiche più severe arrivano da pensatori, sindacati e movimenti neri, per esempio la Treatment Action Campaign. Se mai un giorno il governo impedirà la diffusione delle cattive notizie, toccherà a noi lottare contro questa censura. Che importa la distanza! Ciò che conta è il nostro aiuto e la nostra vigilanza. Il nostro coinvolgimento! È un atteggiamento da privilegiati? Una ragione in più per esserci. Oggi che il Sud Africa fa davvero parte dell’Africa, non possiamo abbandonarlo al suo destino. Per ciò che mi riguarda, l’unica scelta è l’impegno. Per gentile concessione di Iperborea, traduzione di Gabriella Basso Ricci Lo scrittore olandese Adriaan van Dis. Il 13 aprile presenta il suo nuovo romanzo, Tossico ( Iperborea) al festival Incroci di civiltà, a Venezia 55 trasformazione Massimo Fagioli, psichiatra Prima del “padre” è necessario l’essere umano senza scissione tra coscienza e pensiero senza coscienza AMARE non è identificazione ma identità E ra presente l’inverno. Ci siamo sentiti al telefono con un vecchio amico e lui mi disse: sta attento, una certa area culturale vuole riproporre ed imporre la figura del padre. Poi vidi una recensione che parlava di Telemaco e, ovviamente, del padre Ulisse...che uccise tutti i Proci. Poi un articolo di quindici anni fa: Il padre non c’è più e il Paese è impaurito. “... è venuta meno la figura del padre e che questa lacuna di paternità è una delle cause non marginali delle perdita d’identità e della nevrosi diffusa... Se il padre ha dimissionato non ci saranno più neppure i figli, i fratelli, e cugini, mancano i punti di riferimento... la gerarchia famigliare aveva il compito di trasmettere l’identità, la memoria storica, ed il sapere orale. Questo mondo è affondato ma, poiché la natura non sopporta il vuoto, al posto del padre, della madre, dei fratelli, si è insediata la cultura del branco”. Poi ancora un articolo su il Manifesto “... creato il mito del padre come colonna portante della nostra civiltà. Questo mito opprime ugualmente il desiderio femminile e quello maschile annullando la differenza tra i sessi e la loro complementarità”. È in libreria la nuova edizione di Bambino, donna e trasformazione dell’uomo. Lo scrissi nel 1979 quando ormai era certezza che l’Analisi collettiva, nelle sue quattro sedute di psicoterapia di gruppo, si sarebbe salvata continuando la cura e la ricerca. Ora ho citato alcune righe di due articoli in cui il senso del primo rivela una ideologia antica di migliaia di anni e l’altro idee sul rapporto uomo-donna. Scrissi pensieri simili nel ’79-’80, quando dominava incontrastato il mito del padre. Nel 1975, andai all’Istituto di psichiatria a fare supervisioni ad un gruppo di aspiranti “psicoanalisti”. Si trasformò ben presto in una massa di gente sconosciuta quando, il 13 gennaio 1976, una ragazza raccontò un sogno ed io risposi con parole che trasformavano la descrizione delle immagini oniriche in linguaggio verbale. Così ho raccontato tante volte ed ora posso usare parole diverse per affrontare, di nuovo, la... figura del padre. E ripenso alla lettera del 29 gennaio 1979 in cui si intimava la cessazione dell’attività dell’Analisi collettiva. Era il direttore, signore e padrone della cattedra di psichiatria che diventò Mosè che uccise tutti gli adoratori del vitello d’oro, oppure il dio che purifica il mondo dalla “corruzione” di Sodoma e Gomorra. Ho scritto l’eterna e tragica ripetizione del fratello che uccide il fratello per trovare una identità di forza e potenza. Ciò accade in Laio che abbandona Edipo sul monte Ida ed è insieme al pensiero malato e criminale che, per la forza e la potenza, è necessario che “Calcante uccida Ifigenia”. Dopo tanti anni ho rivisto il film di Herzog Cuore di vetro del 1976. In esso si può leggere una sensibilità nuova rispetto agli antichi greci ed una intuizione dell’esistenza di una realtà nascosta, pensata come sangue. Ed il sangue di una donna giovane è il necessario cibo per sostenere il morto che non riesce a morire. Cambiando il movimento del linguaggio articolato abbiamo raggiunto la conoscenza della realtà umana, mai pensata. Ho scritto: a partire dalla fine del 1800, Dracula, il vampiro, è il racconto fantastico dello schizoide che, avendo perso vitalità e nascita, usa il rapporto sessuale per annullare la vitalità della donna giovane. Così il rapporto uomo-donna non è desiderio, ma negazione. La sessualità, soltanto come fisiologia del corpo, copre la realtà umana della “naturale violenza” degli esseri umani tra di loro. Nel 1975 erano stati pubblicati i tre libri in cui il pensiero era sostenuto dalla certezza che la nascita umana non era soltanto il fatto fisiologico del respiro e del vagito. Non era uguale al parto animale come disse Heidegger usando il termine Geworfenheit. E anche il vagito, apparentemente simile al miagolio del gatto o al verso del gabbiano, in verità è, non diverso, ma un’altra realtà. Riuscii a pensare e vedere che la realtà biologica umana aveva la potenzialità di generare la realtà non Altrimenti il padre pensa che il neonato sia animale 56 13 aprile 2012 left left.it materiale del pensiero. Ed il fatto, incomprensibile e mai pensato fu sintetizzato in poche parole: capacità di reagire che diventa vitalità, capacità di immaginare che diventa pensiero senza linguaggio articolato. Dopo la pubblicazione del primo libro, mi diedero il titolo onorifico di «Antifreud». E non fu soltanto perché dissi: “Freud è un imbecille”, ma perché la teoria della nascita umana rendeva obsoleto il pensiero che la nascita umana era uguale a quella animale e che l’identità umana stava nell’identificazione con il padre. Pensai più volte che, rispetto all’identità religiosa che procedeva verso un essere che era l’imitazione del Cristo, il termine identificazione poteva essere un progresso della ricerca sulla realtà umana non percepibile. Ma rimasi impigliato nella mancata identificazione del termine... identificazione. Il significato nato come: identificarsi da, veniva rovesciato nel significato: essere come l’altro. Il senso del termine separazione veniva rovesciato nelle parole essere per un rapporto di fusione con il padre. Essere la copia del padre. E venne il pensiero certo che simili idee si basavano sull’annullamento della realtà della nascita umana basata sulla separazione. E il termine verbale separazione divenne trasformazione nello spostamento del corpo, dal buio dell’essere nel ventre materno, alla luce dell’aria. E non era: cadere nel vuoto. Ed allora penso che non avevo più padre. Sapevo della separazione da mia madre ed avevo compreso che era stata realizzata nei primi anni di vita. Con il padre seppi, dopo l’adolescenza, che era stata un’immagine ideale perché era buono e bravo capace di fare il medico del corpo. Ma io studiai la medicina del corpo perché volevo fare lo psichiatra. C’era stata una separazione... dall’identificazione? Non c’era identificazione perché non c’era rapporto cannibalico detto introiezione, secondo l’idea di Ferenczi. Era un’immagine ideale perché, senza rendermi conto, sapevo che non era malato di mente. Poi potei pensare: aveva salvato, dall’annullamento, la sua nascita. Pensai che suo padre era architetto ma lui fece il medico. Non ebbe bisogno dell’identificazione con il padre per salvarsi dal cadere nel vuoto. Ma la sanità mentale, aver salvato la propria nascita, non mi sarebbe stata sufficiente per fare sessantotto anni di ricerca sul pensiero senza coscienza proprio dell’essere umano. Era necessaria la seconda separazione quella denominata: svezzamento. Ovvero la separazione dal rapporto fisico con la “madre” che nutre e protegge. Era necessario superare la terza stazione della vita umana, ovvero l’identità sessuale definita. Il neonato sente e pensa senza linguaggio verbale. L’Analisi collettiva è un “branco” che, senza contratto sociale, è riuscito a ricreare la nascita umana che ci distingue dall’animale, nonostante la figura del padre razionale Vennero perché stavano male. Vennero perché avevano udito che ero un bravo psichiatra. Vennero perché avevo l’immagine del ribelle alla psicoanalisi. Vennero perché non avevo l’immagine del buon padre che assiste e consola. Una donna, dal fondo della stanza affollata, disse: ho fatto un sogno: c’era... Così, per mille e mille volte, la mia voce fece parole che illuminavano il buio dell’impossibilità della conoscenza. Non avevano compreso la teoria della nascita umana, ma udirono la donna che aveva chiesto l’interpretazione del sogno. Qualche “maschio”, sui giornali, tentò sempre di dominare, con la razionalità, la sensibilità della donna che parlava e la capacità di immaginare di uno psichiatra che rispondeva. Non volevano distruggere, volevano con l’autorità del pater familias, annullare la realtà dell’identità umana irrazionale. Talvolta la separazione dal padre è tristezza, spesso è l’angoscia dell’anaffettività e della dissociazione. Fantasia di sparizione verso la propria realtà di identificazione con l’altro, apre le porte al vaso di Pandora di una carenza originaria diventata malattia. Non sempre. Talora è depressione, la colpa di non avere la vitalità necessaria per fare il rifiuto. Talora è ricreazione continua del primo anno di vita senza parola. ...la ragione è stupida perché anaffettiva nel rapporto interumano... left 13 aprile 2012 57 puntocritico cultura left.it arte di Simona Maggiorelli Trubbiani, il miglior fabbro A sinistra, un fotogramma de Il principe abusivo e, a destra, uno di Ci vediamo domani cinema di Morando Morandini Sogni e desideri all’italiana N on tutti se ne sono accorti sui giornali, anzi sui mass media: il film italiano di maggiore successo all’inizio del 2013 è Il principe abusivo, prima regia dell’attore Alessandro Siani, bel giovane tra i 30 e 40 anni che ha preso parte a film di grande richiamo come Benvenuti al Sud, Benvenuti al Nord e ai cinepanettoni Natale a New York, Natale in crociera. Prodotto da Cattleya/ Rai cinema e immesso sul mercato il 14 febbraio, Il principe abusivo è andato benissimo nei Multiplex e in Campania, soprattutto a Napoli dove ha toccato il 40% degli incassi. Ha chiamato pubblico anche a Bari, Catania e Roma, meno bene in tutto il Nord padano, raccogliendo oltre gli 11 milioni al botteghino. Si calcola che arriverà intorno a 14-15 milioni, rimanendo a lungo il maggiore successo commerciale della stagione. Dopo sette film corti tra il 1990 e il 2011, superpremiati e un mucchio di pubblicità, Andrea Zaccariello è passato al lungometraggio con Ci vediamo domani che ha per protagonista il comico romano Enrico Brignano (1966). Gli fanno compagnia Burt Young (1940) e Ricky Tognazzi (1955) nella parte del cattivo. Un matrimonio fallito, molti licenziamenti, investimenti sbagliati e ingenti debiti, Marcello Santilli (Brignano) è la (quasi) classica figura del perdente. Viene a sapere che tra i monti della Puglia c’è un paese abitato in gran parte da ottuagenari non lontani dai cent’anni. Coerente con se stesso, gli viene un’idea che considera “brillante” e soprattutto redditizia: aprire nel paese, indebitandosi, un’agenzia di pompe funebri. Con qualche difficoltà trova alloggio in una stalla. Tra l’altro, poiché è anche afflit58 to dalla sfortuna, gli sbagliano la costruzione dell’insegna luminosa. Passano i mesi, ma nessuno dei vecchietti muore. Quando scopre che Camicioli (Tognazzi), avido direttore di banca, è diventato il compagno della sua ex moglie (Inaudi), si ammala lui e sono gli ottuagenari a curarlo in vari modi, quasi tutti tradizionali e di incerta efficacia. Un colpo di scena finale capovolge la situazione. Date le premesse, una lieta fine era inevitabile. Prodotta da Movie Max group e Smile Prod., scritta dal regista con un certo Paolo Rossi (è soltanto un omonimo), è una commedia anomala, qua e là divertente, un po’ prolissa (103 minuti) che ha un torto di fondo. Interpretato da un attore popolare come Brignano, questo Santilli è un personaggio tutt’altro che comico. Tra l’altro è costretto ad assistere a un funerale, quello della nonna, che non avrebbe voluto vedere tanto le era affezionato. Quand’era giovane suo padre gli dice: «La vita mica è un cameriere a tua disposizione... I sogni so’ desideri... Un sogno deve sta’ coi piedi per terra... Pijate ’sto diploma e lascia sta’ i sogni che devono sta’ chiusi a chiave nel cassetto. E, se proprio non puoi smette’ di sogna’, fatti un cassetto più piccolo così quelli che pensavi sogni modesti, stretti dentro al cassettino, sembreranno sogni in grande e il cassetto non ti sembrerà mai vuoto». Morale conclusiva: «Eternità è poter dire ogni giorno: ci vediamo domani». Gran parte del film è stata girata nell’antica Masseria Lupoli sul versante orientale dell’agro di Cripiano. A Nord dei fabbricati la collina delle Murge sale sino a 399 metri di quota. È una delle bellezze delle Puglie, poco nota ai cinematografari. S trano e affascinante personaggio Valeriano Trubbiani che dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso porta avanti una sua ricerca personalissima nell’ambito dell’arte, infischiandosene delle mode e delle correnti, di ciò che si muove nel panorama internazionale ma anche in casa nostra. Nelle sue appartate terre marchigiane - prima a Macerata e poi ad Ancona - l’anarchico e provocatorio Trubbiani coltiva con appassionata ostinazione un proprio universo immaginifico, animato da bizzarre creature, figure fantastiche, lucenti animali fusi in bronzo con grande maestria artigianale, ancestrali segni e simboli di popoli scomparsi o forse esistiti solo nella sua mente. Un universo che da oltre un cinquantennio sembra vivere di vita propria, slegato dalla realtà. Ma che a uno sguardo più attento rivela una inquieta e sferzante critica alla società e alla cultura in cui viviamo. I suoi vessilli di potere medievale ridotti a grotteschi totem, le sue selvagge invasioni di «topacci» (come li chiamava Fellini), le sue macchine agricole trasformate in monumenti ci raccontano di un indomito spirito d’artista, riottoso ai concitati ritmi della vita contemporanea e irridente verso i suoi idola. Con piglio corrosivo, che nasconde un fondo di pessimismo leopardiano, Trubbiani si presenta come moderno erede degli artisti rococò e barocchi nel La mostra di Trubbiani nella Mole Vanvitelliana (An) 13 aprile 2013 left cultura left.it costruire mirabilia scintillanti di metalli nobili oppure, all’opposto, ricavati da materiali poveri come il legno. Come la portentosa macchina scenica che - con la complicità degli architetti Massimo Di Matteo e Mauro Tarsetti Trubbiani ha realizzato nel ventre della Mole Vanvitelliana. Nell’imponente costruzione realizzata al porto di Ancona dall’architetto Luigi Vanvitelli tra il 1733 e il 1738, l’artista marchigiano presenta sculture, ambientazioni, disegni realizzati tra il 1965 e il 2008 e che in questo straordinario spazio acquistano un fortissimo impatto scenografico: capace di coinvolgere un pubblico anche molto lontano dalla sua estetica vagamente retrò. Prova ne è il fatto che questa mostra intitolata De Rerum Fabula, aperta dallo scorso ottobre, a grande richiesta, è stata prorogata fino al 5 maggio. Curata da Enrico Crispolti, l’esposizione presenta 160 opere, fra le quali la serie di uccelli imbracati e appesi a testa in giù, la selva di barbariche aste di Stato d’assedio (197172), surreali marchingegni da artigiano. Antiretorica e irridente verso ogni gigantismo, la scultura di Trubbiani si fa beffe della scultura commemorativa e allegorica e abolisce ogni sudditanza verso la committenza, cercando anche quando si tratta di opere per spazi pubblici di onorare la scultura come creazione autonoma, imprevista e straniante. Ma non si tratta di solo ribellismo. «La scultura di Trubbiani contribuisce a costruire il fondamento di una questione di “alternativa resistenziale” italiana lungo il XX secolo ed oltre» sostiene il critico d’arte Enrico Crispolti nel catalogo edito da Silvana Editoriale che accompagna questa rassegna, perché lavora su «nessi antropologici e sociali» e di «profondità memoriale». Ma se è vero che nella sua opera affiorano ricreate in forme del tutto nuove e inaspettate memorie d’infanzia trascorsa a Villapotenza, narrazioni per immagini che evocano la vita di paese nelle botteghe, non sempre - ci permetteremmo di dire - questa trasfigurazione riesce: talora l’accento sulla bizzarria sembra sovrastare tutti gli altri e in quel caso la scultura rischia di scadere a mero oggetto curioso. left 13 aprile 2013 libri di Filippo La Porta L’eleganza povera di Caproni A ccusare un poeta di narcisismo è insensato. Anche Leopardi o Baudelaire erano innamorati della propria dolente e privata affettività al punto di ritenere che fosse di interesse pubblico. Dal VII secolo a.C. i lirici greci si convincono che i loro umori sono così rilevanti, così esemplari che vale la pena cantarli per il pubblico con flauto e cetra. Insomma, i poeti egocentrici (anzi egocosmici, come osservò Saba: si sentono, del tutto arbitrariamente, il centro del mondo). Il punto è allora un altro: che uso fare del proprio naturale e incorreggibile narcisismo? Leopardi e Baudelaire ne hanno fatto un ottimo uso, dal punto di vista espressivo, traducendolo in versi immortali che riguardano tutti. C’è una pagina illuminante delle Prose critiche di Giorgio Caproni (nella foto), nell’ultimo volume (1963-1989) pubblicato insieme agli altri 3 da Aragno per la cura e introduzione di Raffaella Scarpa e prefato da Gian Luigi Beccaria. Si tratta di un acquisto impegnativo (150 euro) ma l’opera li vale. Raccoglie ben 500 articoli militanti di Caproni, forse il più grande poeta italiano del secondo ’900 (antiermetico e antinovecentista in virtù della sua “eleganza povera”) dal ’34 all’89, pubblicati su quotidiani e riviste: scritti d’occasione, recensioni puntuali e “di servizio”, ritratti smaglianti di autori, riflessioni sul suo “mestiere” di poeta, anzi di scrittore in versi, come umilmente precisava. Ma torniamo alla pagina cui accennavo, del 1985. Caproni definisce qui il poeta un minatore, capace di calarsi più a fondo degli altri nel pozzo del proprio io, fino a trovare il noi. Dalla singolarità alla pluralità: «Ogni narcisismo cessa non appena il poeta... riesce a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi quei nodi di luce che non sono soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù». Cercando la sua verità trova la verità di tutti. E, come diceva Proust, quando uno legge un poeta, in fondo, non fa che leggere se stesso. In ciò consiste la funzione civile della poesia, e non nell’affrontare temi sociali. Ecco, in queste poche righe Caproni, che era anche maestro elementare (e musicista) spiega con mirabile semplicità l’essenza del fare poetico, solo apparentemente intimistico o solipsistico. E di ciò, noi lettori appartenenti alla “tribù” gliene siamo grati. A sud del confine a ovest del sole di Murakami Haruki, traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi, 204 pagine 20 euro IL cantiere di Juan Carlos Onetti, traduzione di Ilde Carmignani, Sur, 233 pagine 15 euro Capelli blu di Valerio Nardoni, Edizioni E/O, 144 pagine 16 euro scaffale Un Murakami che farà innamorare anche i più strenui detrattori. Grazie all’irresistibile dodicenne Hajime che sente esplodere un sentimento nuovo stringendo la mano della compagna di classe. L’incanto dell’infanzia, del primo amore, al ritmo sincopato del jazz. Torna in libreria in nuova traduzione uno dei libri migliori dello scrittore giapponese. è stato uno dei nomi più importanti della letteratura sudamericana. Uruguaiano, giornalista, perseguitato dalla dittatura Onetti (1909 -1994) è stato autore di romanzi raffinati, inquieti, con il gusto del paradosso come questo suo secondo libro pubblicato da Sur che meritoriamente ne sta pubblicando l’opera completa in Italia. Come un funambolo senza fune, allargando le braccia per tenersi in equilibrio sul franante presente. Livorno. Ma con i sottotitoli, come al cinema. Dalla città dove tutti si sentono un po’ artisti un romanzo stralunato e seducente su giovane che non bussa più a nessuna porta. Finché qualcuna, inaspettata, bussa alla sua. 59 bazar cultura left.it buonvivere di Giulia Ricci Pedalare e resistere Il Personaggio di Camilla Benacchioni Baliani: io, un “agitprop” P ssere liberi è un lusso che pochi artisti oggi si possono permettere. Soprattutto in teatro. Liberi di scegliere, di pensare, di interpretare, di raccontare che c’è un mondo oltre quello senza futuro e speranze, che suona tanto di alibi per non cambiare mai niente. Marco Baliani è uno di questi. Artista coerente e appassionato, una vita tra cinema, teatro e letteratura, continua a credere nel ruolo della parola, scritta, parlata o recitata. E nel valore dell’individuo punto di partenza e d’arrivo di tutto il suo percorso artistico dall’ormai classico Kohlhaas (1989), alla continua ricerca di forme nuove di narrazione. In attesa dell’uscita, a maggio, del suo nuovo romanzo L’occasione (Rizzoli) è in tournée con lo spettacolo Identità con Maria Maglietta e a giugno tornerà in scena con Stefano Accorsi, dopo il Furioso Orlando, per una inedita rilettura del poema di Ariosto. Perché ha scelto di affrontare il tema dell’identità? Oggi è un argomento che è diventato motivo di conflitto, esaltata o negata. In passato è stata al centro di guerre, stermini e campi di concentramento. Invitiamo lo spettatore a fare un viaggio intorno ai vari significati della parola identità osservandola da punti di vista diversi: non diamo giudizi. Rappresentiamo dei frammenti: il giovane universitario inglese che improvvisamente decide che la sua identità è quella del martire e si fa esplodere nella metropolitana. Oppure prendiamo una donna la cui l’identità è negata da un uomo che la maltratta fino al pestaggio. Oppure 4 poliziotti contro un tossicodipendente, un altro annullamento dell’identità. Anche in questo caso dunque contamina generi, stili. 60 Marco Baliani Ora mi interessa di più lavorare sul dialogo, sul blitz, sui cambi di registro linguistico molto forti. Stiamo vivendo in un tempo contratto, a volte penso che siamo nell’era di Beckett, un tempo ovattato in attesa non si sa di cosa, una condizione in cui ci hanno costretti questi ultimi 20 anni. Inutile continuare a dire che i giovani non hanno futuro, il problema è che si è negato loro la percezione del rapporto tra passato, presente e futuro. Per questo oggi mi sembra importante creare delle parole che rompano questo senso di contrazione, lo spiazzino. Per questo servono dei blitz, bisogna tornare all’“agitprop” del teatro di propaganda. A luglio sarà a Marsiglia, unico italiano presente ai 50 ateliers de la Méditerranée. Quanto conta la formazione? Mi piace molto insegnare e trovarmi con giovani attori. Scrivo testi, romanzi, racconti, dall’altra però mi piace lavorare in gruppo e vedere cosa viene fuori da un’autorialità corale. In giro ci sono tanti giovani ed energie. Si può fare. Anche senza spendere capitali, ma nessuno ne parla. Certo, la situazione a livello sociale è cupa ma vanno anche trovate soluzioni. Bisogna risvegliare il sentire della gente dopo che ci hanno costretti a una sorta di sonno, un valium collettivo... © Alessandro Moggi E edala pedala, qualcosa cambierà. Perché attorno alla bicicletta si muove tutto un universo, dai mille significati. Uno stile di vita slow, controcorrente, ecologico e sostenibile. L’ Italia, complice anche la crisi, sta recuperando il gap culturale rispetto ad altri Paesi europei. Provate a conoscere le mille attività della Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta), per comprendere la “ciclorivoluzione” in atto nel nostro Paese. Il 25 aprile gli eventi dal titolo Resistere, pedalare, resistere. Poi il 4 maggio la manifestazione a Milano Pedoni, pedali, pendolari porterà all’attenzione di tutti la necessità di una nuova politica dei trasporti su due ruote. Infine mille iniziative per regolamentare e aumentare la rete di Bicitalia. E naturalmente per divertirsi con biciclettate collettive (info su www.fiabonlus.it). Tendenze di Sara Fanelli Stile in noir S e siete a Milano in questo inizio di primavera, non potete perdervi la mostra alla Rotonda della Besana. Nel palazzo barocco sono esposte alcune delle 100 foto pubblicate nel libro The little black jacket, Chanel’s classic revisited by Karl Lagerfeld and Carine Roitfeld. L’evento è giunto a Milano dopo varie tappe in giro per il mondo; tra queste Tokyo, New York, Hong Kong, Londra, Mosca, Parigi, Berlino e l’ultima città che toccherà sarà Dubai il prossimo 27 aprile. Alcuni indumenti non vanno mai fuori moda: i jeans, la camicia bian- 13 aprile 2013 left cultura left.it di Bebo Storti il taccuino Junior di Martina Fotia In fondo. Automi per gioco «U na piccola visione del mondo in un giro di manovella», così possono essere definiti gli automi del Modern Automata Museum di Montopoli di Sabina, esposti a Roma nella mostra Il segreto del movimento alla Sala santa Rita fino al 27 aprile 2013. Si tratta di 57 piccole sculture meccaniche, realizzate da artisti di tutto il mondo in carta, legno o metallo che, attraverso il movimento, diventano piccoli racconti, spesso ironici. Il suggestivo spazio barocco si anima con Circo, il più piccolo circo del mondo: due tigri acrobate, un gatto giocoliere, un leone che salva il suo domatore, un coniglietto sul filo teso che beffa un coccodrillo, un bradipo e un orso che giocano a palla, un acrobata che corre sull’uniciclo coi piedi per aria, un clown in equilibrio su una sedia a sua vol- ta in equilibrio su una palla. In mostra anche una selezione delle opere più significative del Modern Automata Museum con creazioni di artisti come Peter Markey, Paul Spooner e Keith Newstead, creatore, tra l’altro, dell’automa del film La migliore offerta di Giuseppe Tornatore. I moderni costruttori lasciano ampio spazio a semplicità e forza espressiva creando così un rapporto stretto tra la parte razionale e quella fantastica della mente umana, tra invenzione meccanica e intuizione creativa. Che si manifesta nelle opere stesse, in cui la parte inferiore è in genere costituita dalla meccanica - leve, ingranaggi, ruote ca e la giacca Chanel. La piccola giacca nera fu creata negli anni Cinquanta da Coco Chanel, che si ispirò alle divise dello staff di un hotel austriaco a Salisburgo. Oggi questo pezzo di storia ha assunto un ruolo di fondamentale importanza nel mondo della moda e nel guardaroba di ogni donna, tanto che, dal 1983 è sempre stata re-interpretata e ri-proposta in ogni collezione di Chanel. In questo progetto, realizzato in collaborazione con Carine Roitfeld, Karl Lagerfeld ha scelto di fare indossare la petite robe noir a oltre cento modelli e celebrities, fotografandoli poi nel suo studio di Parigi, New York e left 13 aprile 2013 dentate, catene - mentre la parte superiore è una piccola opera d’arte che racconta una storia. In questo senso un automa può essere paragonato a un haiku giapponese. Una piccola visione del mondo là in tre brevi versi, qui in un giro di ingranaggi. Il museo di Montopoli di Sabina, l’unico del genere nell’Europa continentale, realizza anche progetti Europei per introdurre nelle scuole la costruzione degli automi come veicolo di integrazione culturale e di attivazione di competenze letterarie, artistiche e ingegneristiche. Cannes. L’obiettivo era quello di captare e immortalare la contemporaneità, l’eleganza, ma soprattutto la versatilità della giacca, che si adatta perfettamente allo stile e alla personalità di chiunque la indossi. Ecco allora, tra le donne, Sarah Jessica Parker, Georgia May Jagger, Charlotte Casiraghi, la top model Freja Beha, che pare una monaca seducente e Laetitia Casta, dal look più formale. E poi ancora Poppy Delevingne, Elisabeth Olsen, Keira Knightley, Diane Kruger, Carla Bruni, Carole Bouquet, Hilary Swank. Tra gli uomini, il ballerino Roberto Bolle e l’attore Edgard Ramirez. Eravamo tanti quel giorno a Roma. Marciavamo compatti e in file ordinate. Neanche una parola, un grido, uno slogan, uno sfottò. Silenziosi e con lo sguardo fisso davanti pieno di minacce. Un milione! Così i giornali impauriti di regime ci descrissero! Un milione di lavoratori che chissà cosa faranno!? Cosa vorranno! In questo bel Paese dove tutto andrebbe bene se non scioperassero e non avanzassero assurde richieste che abbiamo pure un papa buono e dei politici che si sono tagliati del 6,9 per cento lo stipendio e allora cosa volete?! Ma noi non li ascoltavamo. Marciavamo in silenzio e questo, faceva più paura che se avessimo, nel nostro cammino urlato e spaccato tutto. Ci eravamo trovati sul web, dove ottusamente certi politici, per nostra fortuna, non sapevano andare, miopi loro nel non dare ai giovani la libera circolazione nella Rete. Fateci caso, se appare la parola libera, ai politici gli si rizza il pelo sulla schiena, come a certi predatori! Ci eravamo trovati e avevamo parlato, poco invero, e deciso di vederci tutti a Roma. E ci eravamo arrivati. Avevamo trovato la forza nello sguardo deluso dei nostri figli.Tutti insieme adesso dopo aver raggiunto la Capitale marciavamo uniti. Un solo cartello davanti a tutti enorme e retto dai primi 20 con scritto DIGNITÀ. Con la polizia ci eravamo messi pasolinianamente d’accordo “siete lavoratori come noi dai!”. Ed eravamo entrati in Parlamento, tutti. Un milione di persone fra Camera e Senato. Lì avevamo gridato: «CE LA POTETE RIDARE?!». «Cosa?», avevano squittito i non votati dal popolo. «LA DIGNITÀ!». Al loro no avevamo cominciato sì, a spaccare tutto... e va come va!! 61 [email protected] cultura Palermo OSTIA Occhio siciliano Il jazz si fa in quattro La Galleria X3, associazione culturale specializzata in fotografia contemporanea, presenta a palazzo Ziino l’esposizione Geografie e storie di transizioni #1-#2. La mostra accoglie 95 opere di trentacinque fotografi che testimoniano i cambiamenti antropologici e sociali degli ultimi due decenni. Fino al 18 maggio. Milano Quattro jazzisti italiani di fama internazionale si ritrovano insieme al Pequod di Ostia. Venerdì 19 aprile Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto, Maurizio Giammarco e Giuseppe Bassi presenteranno per l’occasione il loro Italian jazz quartet, quattro brillanti carriere riunite in una serata di grande musica. GENOVA TREVISO Sessualità e cultura Quarto appuntamento per la rassegna La storia in piazza. In palazzo Ducale dal 18 al 21 aprile, il tema è l’identità sessuale, il rapporto tra i sessi e come è cambiato nel tempo. Tra i molti nomi anche: Erica Jong, Alain Touraine, Adriano Prosperi, Renato Mannheimer. In contemporanea la mostra Geishe e Samurai. Esotismi e fotografia nel Giappone dell’800. Roma MILANO Ricordi di viaggio La valigia del signor Luciano è il titolo della mostra ospitata dalla Fondazione Benetton negli spazi Bomben di Treviso. L’esposizione, aperta dal 13 aprile al 5 maggio, presenta i dipinti che Luciano Benetton raccolse da ogni parte del mondo. Le 757 opere provengono dal Sud America, dall’ex Urss e dalla Cina. L’unico limite è il 10x15, il formato più comodo da portare in viaggio. REGGIO EMILIA Cracking Italian Art design Con una Pienadirane torna il gruppo Cracking Art. Dopo la storica installazione di chiocciole azzurre sul Duomo, l’autunno scorso, Cracking Art propone fino al 20 maggio una spettacolare performance con il lancio di rane in plastica colorata nelle acque del Naviglio. 62 In anteprima al Salone del Mobile aperto fino al 14 aprile la nuova lounge chair ZanottaMaserati racchiude in sé il design tipico dei due marchi. Le linee della Maserati sono state reinterpretate per dar forma alla lounge chair, firmata da Ludovica e Roberto Palomba. Il canto di Montale Arte solidale Un appuntamento speciale quello di martedì 16 aprile all’Auditorium di Roma. Giovanna Marini metterà in musica gli scritti di Montale con un Oratorio dal titolo Spesso il male di vivere ho incontrato. I testi del poeta ligure si fonderanno con frammenti della tradizione greca. Poi, con La terra del sacro, la Marini ripercorrerà i canti sacri della tradizione orale. Direzione musicale di Xavier Rebut. È un progetto d’arte e di solidarietà quello legato alla mostra Novanta artisti per una bandiera presso i chiostri di San Domenico a Reggio Emilia. L’iniziativa, in programma sino al 25 aprile, propone le opere di 90 artisti italiani e stranieri sul tema del tricolore. L’esposizione e la vendita di alcune opere garantiranno i proventi necessari alla costruzione, sempre a Reggio Emilia, dell’Ospedale della Donna e del Bambino. In foto un’opera di Tullio Pericoli. 13 aprile 2013 left left 7 giorni su 7 ©2012 thewashingmachine.it ww.unita.it Abituati a #voleredipiù Dal 7 maggio Dal 7L’Unità maggio L’Unità torna grande: formato, tornanuovo grande: nuovo format più pagine, rubriche piùinserti, pagine, inserti, rubriche e approfondimenti. e approfondimenti. Ogni sabato left+l’Unità 2 euro. Nei giorni successivi euro 0,80 + il prezzo del quotidiano www.left.it www.unita.it