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Anna Casella Paltrinieri
SAPORI & SAPERI
CIBI, RICETTE E CULTURE DEL MONDO
prefazione di Carlo
editpress
Petrini
Illustrazioni: Irene Paltrinieri
Progetto grafico e impaginazione: ed.it
Copyright © 2012 ed.it
Via L. Viani 74, 50142 Firenze
www.editpress.it
[email protected]
Tutti i diritti riservati
Prima edizione: ottobre 2012
ISBN: 978-88-97826-09-5
Printed in Italy
SOMMARIO
Prefazione, di Carlo Petrini
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Nota dell’autrice
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Raccogliere, conservare, trasformare
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Miele, tra mito e storia (Paesi Arabi)
La noce “ricca” degli aborigeni (Australia)
Le piadine di sago (Papua Nuova Guinea)
Ulivo, dono degli dei al Mediterraneo (Grecia)
Mela: dal mito alla cucina (Tirolo austriaco)
Il “tofu” del Benin (Benin)
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Dalla terra e dal lavoro dell’uomo
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Bouillabaisse (Francia)
Il re dei cereali (Indonesia)
Quel legume sintesi di povertà e ricchezza (Sri Lanka)
Riso, cuxá e gamberi (Brasile)
La pianta povera che fa ricca la dieta (Uganda)
Niente cavoli a merenda ma a pranzo e cena sì (Ungheria)
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Uomini e animali
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Sajji o coscia di agnello arrosto (Pakistan)
Dal latte la forza dei popoli nordici (Islanda)
Lapponi, 500 modi di dire renna (Lapponia finlandese)
Zuppa di gallina (Zanzibar)
Aringa, il pesce che arricchì i nordici (Norvegia)
L’Andalusia araba rivive nei gurullos (Andalusia-Spagna)
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Crudo, cotto, bruciato: tecniche e società
Asado argentino con chimichurri (Argentina)
Pollo tandoori (India)
Bannock, il pane dei nativi americani (Artico canadese)
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Pesce fermentato, passione iperborea (Groenlandia)
Tempura, l’arte del friggere (Giappone)
Ceviche, la marinatura precolombiana (Perù)
Durante l’anno: cibo quotidiano e cibo rituale
Verità e bugie del tacchino (Stati Uniti)
Tagin Marrâkish (Marocco)
La santa più dolce (Svezia)
Fuul medames (Egitto)
Romania, a Natale involtini turchi (Romania)
La civiltà dell’igname (Costa d’Avorio)
Mangiare, parlare, scrivere
Baccalà alla portoghese (Portogallo)
Cuốn diép (Vietnam)
Carciofo, il guerriero che stregò Neruda (Cile)
Nel dolce di noci la creatività rom (Balcani)
Zucca, dura ma buona (Inghilterra)
In cucina la memoria dell’Afghanistan scomparso (Afghanistan)
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In pace e in guerra: cibo e vicende umane
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Patata: il tubero democratico (Irlanda)
L’islam senegalese che ama le arachidi (Senegal)
Cupuaçu, ovvero il superfrutto (Amazzonia Brasiliana)
Quando il mercato non è solo affari (Mozambico)
La guerra della Pavlova (Nuova Zelanda)
Cholent (Ebrei europei)
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Conclusioni: cibo è cultura?
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Bibliografia
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PREFAZIONE
di Carlo Petrini
eggere questo libro di Anna Casella Paltrinieri è un
pò come ripercorrere molti dei miei viaggi e rivivere
altrettanti incontri. Sono piccole pillole di mondo, e di
un mondo fatto di sapori e culture, raccontate con leggerezza e al tempo stesso profondità.
Certo, ormai non c’è testata o rivista che oggi non si
fregi di rubriche dedicate all’enogastronomia. Sia inteso,
questo non è un male, anzi, è anche il frutto di una
nuova consapevolezza. Talvolta però è più il cavalcare
l’onda di una tendenza. È assodato l’assioma che cibo è
cultura, e molti si riempiono la bocca (anche metaforicamente, e questo la dice lunga) con questo concetto,
portato talvolta alla banalizzazione.
Detto questo, spesso tra un approccio autentico e uno
meramente strumentale al cibo quale fattore culturale,
corre un abisso. L’attenzione alle culture altre, che di
questi tempi lo sono sempre meno e, anzi, diventano
sempre più vicine e “nostre”, è una caratteristica che ritrovo nel lavoro di Anna Casella Paltrinieri.
Un conto, infatti, è fare del folklore e del colore con una
ricettistica fine a se stessa, un altro è narrare in modo divulgativo, con un metodo antropologico, la storia, l’origine,
la diffusione di piatti e cibi. Il discorso parte quindi da più
lontano: dal rapporto imprescindibile tra cibo – inteso
non solo come nutrimento e carburante, ma come trasformazione di prodotti della natura – conoscenza e uomo.
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Sapori & Saperi
Infatti in questo volume si parte proprio da questo
punto: cibo come conoscenza, cibo come saper fare, cibo
come lavoro dell’uomo (e soprattutto della donna).
Il libro approfondisce poi la forte manualità legata
alla produzione alimentare, che passa attraverso il ruolo
maschile e femminile, alla capacità di riconoscere, raccogliere e utilizzare i prodotti della terra; analizza poi
lo sviluppo delle tecniche di trasformazione che nei
secoli si sono inventate, acquisite, perfezionate, codificate,
per toccare il rapporto tra uomo e natura (i cicli stagionali, la ritualità collegata, la precettistica religiosa e
così via).
Ogni popolo, in ogni regione del pianeta, ha elaborato
una propria tradizione culinaria: e come ogni tradizione
culturale, c’è chi l’ha impugnata e la impugna per
farne una bandiera identitaria, di tipicità, omettendo il
fatto che ogni tradizione è raramente pura, incontaminata, e senza connessioni con il mondo. È stato così in
passato, ed è così oggi.
Quello che è il piatto italiano per eccellenza è frutto di
un meticciato antico: spaghetti al pomodoro, con la
pasta che ha origini in Cina e il pomodoro portato dalle
Americhe.
Questo è vero per noi oggi, ma non sarà anche vero
per nuovi piatti e nuovi prodotti in futuro?
In un mondo che è sempre più piccolo, sempre più
fluido, sempre più comunicante, ha ancora senso parlare
di tipicità locali?
Alla luce dell’esperienza dell’associazione che presiedo,
posso dire di sì, ma con un occhio di riguardo verso
l’apertura, lo scambio, la trasfusione di conoscenze.
Negli anni Slow Food ha evidenziato fortemente l’importanza del territorio, dell’idea di Presidio di un
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Prefazione
prodotto, del saper fare e di interconnessione con l’ambiente che questo prodotto genera. Sono nati e rinati
spunti e progetti di rilancio di luoghi e professionalità
in via di estinzione. Sono anche stati rinforzati orgoglio
e amore per la propria terra, così come la consapevolezza
dell’essere contadini e artigiani del cibo.
Tutto questo, però, sarebbe sterile e ottuso se non si
fosse aperti all’altro. E se non si fosse coscienti di
quanto l’ibridazione culturale sia un processo tanto
ineluttabile quanto arricchente.
Per chiarire maggiormente questo concetto, può essere
utile rifarsi all’analisi dell’antropologo sociale indoamericano Arjun Appadurai, che meglio di tutti ha
saputo tratteggiare la modernità e la globalizzazione.
Appadurai ha elaborato, come è noto, 5 nuovi concetti
– definiti “etnorami” globali – per descrivere le dimensioni
e i flussi culturali globali che contraddistinguono il
nostro mondo odierno: ethnoscapes, mediascapes, technoscapes, financescapes e ideoscapes, dove “-scape”
sta per “-orama” da panorama.
L’etnorama definisce il flusso di persone – siano migranti, turisti, lavoratori – che si muovono costantemente
tra gli stati e sempre più influenzano le politiche
nazionali e internazionali; il mediorama è il flusso delle
immagini veicolate dai mass media; il tecnorama, invece,
riguarda il flusso della tecnologia attraverso confini
sempre meno definibili; il finanziorama è il flusso di denaro in tutte le sue forme; infine, l’ideorama è il flusso
delle idee e delle ideologie. Questi flussi sono disgiunti,
ma ognuno di loro influenza l’altro.
Sulla scia di questa analisi, che trovo appassionante
ed efficace, nel campo dei food studies si sono adattati
nuovi –scapes, i foodscapes, che fotografano le abitudini
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Sapori & Saperi
e gli stili alimentari alla luce dei processi di globalizzazione che riguardano la nostra società.
Quello che è infatti applicabile ai diversi paesaggi
culturali emersi con la globalizzazione, può essere a
buon diritto anche applicabile al mondo del cibo. Che
pure è sempre più fluido, per dirla alla Baumann, ma
che per converso può cristallizzarsi sempre più in compartimenti stagni identitari di forma difensiva.
Ecco che quindi, nell’ottica di ethnoscapes sempre
più ampi, anche i foodscapes, i paesaggi alimentari, diventano un nuovo paradigma che non possiamo non tenere in considerazione.
La dimensione transnazionale che riguarda non solo
i migranti, i quali gestiscono e conducono vite a cavallo
tra paese d’origine e paese d’immigrazione, ma sempre
più larghe fasce nella popolazione italiana (vuoi per
studio, vuoi per motivi di lavoro o altro ancora), ci
porta a incorporare in quella che noi rivendichiamo
come cultura alimentare italiana, nuovi foodscapes,
nuovi sapori, nuovi saper fare.
Le pillole di cultura alimentare che Anna Casella Paltrinieri, ogni mese, distilla su Popoli e che qui sono
raccolte, ci aiutano a vedere e a capire quel che sta dietro
ad un piatto, le connessioni che ci sono tra consuetudini
che pensavamo lontane, il rapporto tra tradizione culinaria
e ambiente, l’influenza che il cibo ha sulla cultura, sulla
lingua e sul patrimonio materiale e immateriale di un popolo, suggerendo anche a chi vuole cimentarsi, una versione accessibile della preparazione del piatto stesso.
Buona lettura a tutti i palati curiosi.
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NOTA DELL’AUTRICE
na delle libertà che offre il viaggio è quella di poter
uscire, per un poco, dai confini del gusto. Vale a
dire del proprio gusto, quello socialmente costruito, da
quei sapori e odori domestici che ci accompagnano fin
dall’infanzia ma anche dagli imperativi culinari e del
“buon gusto”. Quelli, per capirci, che ci impongono gli
abbinamenti, le scansioni del pasto, la distinzione tra
cibi pregiati e cibi ordinari. Fuori dai confini del nostro
mondo quotidiano, nella libertà azzardata e pericolosa
che accompagna il turista e il viaggiatore, lo straniero,
si possono sperimentare gli accostamenti più arditi, si
possono forzare i limiti del gusto e del disgusto. Si può,
prima di tutto, accorgersi della incredibile inventiva
dell’uomo (e della donna) che ha saputo rendere commestibile quasi tutto e che ha trovato tecniche, modi,
formule per preparare il cibo ma anche per farne uno
strumento per dare significato alla vita.
Questo libro, che raccoglie i pezzi della rubrica “Sapori
& Saperi” da me tenuta sulla rivista “Popoli”, è il frutto
di sperimentazioni fatte durante numerosi viaggi. Ai
margini di un lavoro spesso impegnativo e faticoso
come quello dell’antropologa, intenta a cercare di catturare lo spirito di un popolo, il senso di pratiche inconsuete, o più semplicemente, intenta a cercare di capire
la comune umanità, spesso la scoperta di un frutto, dell’uso di un’erba, di una tecnica e di un procedimento
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Sapori & Saperi
che non conoscevo ha avuto l’effetto di rinnovare l’entusiasmo e la sorpresa, di rendermi consapevole della
enorme ricchezza rivelata dalla cucina. E molte volte
non c’è neppure stato bisogno di fare migliaia di chilometri per acquistare questo sapere: è bastato lasciare
spazio nella cucina di casa a persone venute da lontano,
per poco tempo o per restare tra di noi. Perché, in
questo Occidente multiforme, una delle vie della conoscenza e della convivenza passa attraverso il cibo e lo
stare a tavola. Solo in pochi casi mi è capitato di sperimentare la fatica di un gusto nuovo, la difficoltà di rendermelo gradito. Quasi sempre, invece, ho vissuto il
sentimento piacevole di una esperienza imprevista.
Molte delle ricette che qui ho raccolto e commentato
appariranno inconsuete al lettore, difficili. Alcune sembreranno approssimative. Succede, quando non è un ricettario a trasmetterle ma vengono raccolte su un quaderno, spesso un foglietto ritrovato per caso, scritte di
corsa e in condizioni precarie. Succede quando chi te le
trasmette ti vuole far partecipe della sua esperienza,
della sua pratica. Altre, scovate sui libri e sui siti di
cucina ormai diffusi in tutto il mondo, sono state oggetto
di allegre sperimentazioni familiari, anche per renderle
meno improbabili e più adatte alle nostre cucine frettolose.
Il mio intento non è quello di offrire un nuovo volume
di cucina. È piuttosto quello di “forzare” i confini dell’etnocentrismo culinario, di offrire, con le ricette, un approccio significativo alla cucina e alla cultura degli
altri. Un esercizio di relativismo per uscire dalle convinzioni stereotipate e granitiche riferite al cibo. Mi auguro
che chi legge possa ricordare, allo stesso modo, proprie
esperienze, proprie scoperte, propri viaggi. E che questo,
oltre alla nostalgia, porti con sé il desiderio di condividere
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Nota dell’autrice
sempre di più quella straordinaria capacità di stare al
mondo che è la preparazione del cibo.
Per questo i miei commenti scivolano fuori dalla cucina
e cercano di raccontare il presente (e, a volte, il passato)
di quei popoli che ho avuto la fortuna di incontrare. Cercano anche di saldare la conoscenza pratica della cucina,
fatta spesso di tentativi, a volte di insuccessi, sempre di
grande umiltà, con quel sapere teorico, filosofico, quel
“dire” delle cose della vita che la scienza antropologica
continua a consegnarci. Per questi motivi, devo riconoscere
il mio debito con quegli autori (i classici ma anche i contemporanei) che hanno dimostrato come si possa, parlando
di frivolezze culinarie, fare un discorso sull’umanità.
Dietro queste ricette ci sono dei volti e delle storie. Ci
sono delle donne (a volte, degli uomini) che ho visto
lavorare, con le quali ho condiviso il cibo o più semplicemente,
che hanno avuto la pazienza di raccontarmi cosa stavano
facendo. Devo perciò ringraziare molte persone. Grazie ad
Akisu l’ugandese, a Rondha e Jenafor del Manitoba, a Dominka dalla Romania, a Adel, Blaise, Antoine del Benin, all’australiana Katrina, a Quyen, a Tatiana, a Flavio e Alfio
dal Brasile, a Vivienne della Nuova Zelanda, ad Andrea
dalla Spagna, ad Hans e Nanni dal Tirolo, a Giuseppe,
cuoco per tutte le stagioni... Grazie anche a mio marito
Cesare, il vero cuciniere di famiglia, a Irene per le illustrazioni,
a mio figlio Giambattista per le citazioni bibliche e a Lotta
che mi ha aperto il mondo del grande Nord, a Carlo
Galdravio per i suoi commenti ironici, a Livia, Tiziana e
Carla per avere acconsentito a sperimentare qualcosa di
quanto qui è scritto. Grazie, infine, alla redazione di “Popoli”
la rivista che mi ha ospitato e che per prima ha avuto l’idea
di raccontare il mondo attraverso le ricette.
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SAPORI & SAPERI
Raccogliere, conservare, trasformare
ominciò tutto da uno sguardo. Da quello sguardo,
più attento, che una donna, migliaia di anni fa, gettò
sul sentiero che stava percorrendo. Sufficiente per notare
qualcosa che, in seguito, avrebbe scoperto essere commestibile. Più tardi, la donna imparò a conservare quel
frutto, quella bacca vicino a casa. E più tardi ancora, stabilita una consuetudine, una amicizia data dalla cura
quotidiana, la pianta germogliata diventò domestica.
Chiusa in orti appena distinguibili dalla foresta (garten,
giardino, rimanda a gher, rinchiudere) quella pianta
diede origine all’agricoltura (Wulf, 2002). Che si nutre
della capacità tutta femminile di stabilire una consonanza
tra la propria fertilità e quella della terra, tra la propria
capacità di caricare sulle spalle il peso della sopravvivenza
della famiglia e la capacità della terra di essere periodicamente in grado di offrire nutrimento. Da quel momento,
l’essere umano, le piante e gli animali domesticati formeranno un gruppo originale entro le categorie dei
viventi (Haudricourt, Hédin, 1987).
Che all’origine della raccolta, e più tardi della agricoltura, ci sia la donna è più che una ipotesi per i paleo-antropologi. Basterebbe, per convincersene, vedere la
tenacia con la quale persistono, in Africa, certi costumi
che riservano alla donna il compito di coltivare i campi.
Oppure, osservare la lunga fila di donne e bambini che,
quando la mattina non è ancora resa faticosa dal
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Sapori & Saperi
solleone, si allontanano dai villaggi dell’interno brasiliano
per raccogliere le noci di cocco babaçu (Orbygnia martiana) dalle quali ricaveranno l’olio alimentare e il combustibile.
Raccolta e caccia hanno costituito la preistoria dell’umanità e ne hanno strutturato la mente, scrive
Marjore Shostack. Bulbi, ortaggi, radici, resina, miele,
bacche, frutti e germogli sono il bottino delle donne
!kung del Kalahari presso le quali lei ha vissuto: costituiscono testimonianza della prima economia umana e
della forma mentale che ne è derivata (Shostack, 2002).
La quale si esprime in comportamenti atavici, che riemergono quando, sfuggendo agli impegni di una società
troppo organizzata, si trova sollievo nell’arte di raccogliere
funghi, o fragole di bosco o, più semplicemente, nel cogliere le mele dall’albero.
Già in quella aurora dell’umanità, la cultura è sovrapposta alla natura. Questa è vista e classificata con
l’occhio del cacciatore e del raccoglitore, modificata
nella sua disposizione, soggetta a cure e rituali, a
regole, intrecciata alle vicende umane. La raccolta non
è, infatti, attività di predatori perché impone all’uomo
di selezionare le specie vegetali, in modo che esse
possano diventare “risorse genetiche” (Haudricourt,
1962). Storia naturale dell’uomo, dunque, e storia
umana della natura, al di qua di ogni antropocentrismo
(Descola, 2002).
La vicenda mitica della raccolta ha alimentato nei
secoli “utopie”, metafisiche e teologie, tutte giocate sull’idea di una natura generosa e di un uomo capace di
adeguarsi ai suoi ritmi, di vivere in sobrietà, sottraendosi
con ciò, alla schiavitù del lavoro e delle regole sociali.
Secondo questa metafisica la natura sola si assume il
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Raccogliere, conservare, trasformare
compito di sostenere l’umanità. In quella prima mattina
della storia della creazione (o nel tempo del sogno,
quando gli antenati, secondo gli australiani, cantando
facevano sorgere piante e animali) la natura prometteva
di non avere bisogno di aratri o zappe per offrire i suoi
doni. Come in Genesi 1, 29: «Osserva, ti ho dato ogni
pianta che porta seme, che è sulla terra, ed ogni albero
che porta frutto ed entro cui è il seme, questi ti saranno
di alimento». All’uomo sarebbe spettato solo il compito
di custodire il giardino e di mangiare di ogni albero,
tranne di quello della conoscenza.
Di questa convinzione sono vissuti i popoli raccoglitori:
questo mi ripeté l’anziano capo krahô nel Tocantins
brasiliano accompagnandomi a visitare i dintorni del
suo villaggio, Ken-Poi-Kre, riecheggiando inconsapevolmente le egloghe virgiliane del mondo rinnovato nel
quale la terra produce frutti senza fatica. La raccolta,
perciò, sembra situarsi al di qua della maledizione
biblica che colpisce la terra: «Maledetta sia la terra per
causa tua! Con sofferenza ne trarrai il nutrimento per
tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farò spuntare
per te, mentre tu dovrai mangiare le graminacee della
campagna» (Gen 3, 17).
E dunque, la coltivazione, come “ferita” inferta alla
terra, non sarebbe un progresso, piuttosto la dimostrazione evidente della retrocessione, dell’estromissione
dal paradiso (Giusti, 1996). L’antropologia sottintesa è
quella di una verginità della terra e dell’uomo, questi
capace della sublime virtù della sobrietà, non ancora
corrotto dal desiderio di abbondanza. La natura, scrive
Rousseau, offre il suo cibo, semplice e sano e l’uomo,
istintivamente, ne trae profitto. Ai vizi della civiltà, ai
suoi cibi pesanti, artefatti, ecco contrapposta la semplicità
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Sapori & Saperi
dell’alimento appena coltivato, vergine esso stesso,
buono, pedagogico, capace di fornire all’uomo tutti “i
soccorsi necessari”.
Ma, anche volendo dare credito a queste descrizioni
idilliache, all’idea delle società di caccia e raccolta come
“società della abbondanza”, alla reciprocità egualitaria
che le sostiene, alla libertà dello “stato di natura”, c’è
forse da dubitare che le cose stiano sempre così. La frugalità e la sobrietà possono essere non la scelta ascetica
dell’uomo libero dai lacci della civiltà (oppure la contrapposizione polemica di chi ne vuole uscire) quanto
piuttosto una condizione imposta e subìta (Teti, 1999).
Raccogliere è consegnarsi alla insicurezza e alla precarietà. C’è bisogno di mezzi per avventurarsi in luoghi
difficili, per difendersi dagli antagonisti animali, per
trasportare. Si deve diventare esperti di luoghi e di stagioni, di meteorologia: imparare che i funghi vengono
solo dopo una buona pioggia, che ogni frutto ha il suo
tempo. E poi, raccogliere non basta. Le bacche, i semi, i
frutti, sono deperibili, spesso non durano lo spazio del
viaggio di ritorno. Alcuni sono addirittura velenosi e
richiedono di essere trattati.
Perciò, la mandioca diventa farina (o farinha, alla
brasiliana, o garì, per le donne del Benin) dopo una
lunga procedura volta a togliere il liquido velenoso che
la pianta contiene, il miele viene conservato perché
serva al momento opportuno, i datteri sono seccati per
utilizzarli oltre la loro stagione, le arachidi sono tostate
perché non marciscano... C’è bisogno, infine, di tecniche
e strumenti per conservare nel tempo quanto è stato
raccolto: vasi di argilla o sistemi di conservazione dei
quali l’umanità ha fatto esperienza, dimostrando una
fantasia che ha dell’incredibile: dalla conservazione
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Raccogliere, conservare, trasformare
sotto sale, sotto la cenere, all’essicazione, l’affumicatura,
all’utilizzo dell’olio, dell’aceto, fino al sottovuoto dei
nostri giorni. Raccogliere, infatti, significa anche fare
scorta per i giorni dell’inverno, del freddo o della siccità,
per far fronte alle disavventure. «Prendi anche del frumento, dell’orzo, delle fave, delle lenticchie, del miglio,
del farro, mettili in un vaso, fattene pane...ne mangerai
per trecentonovanta giorni» (Ez, 4-9). Sembra un invito
prudente a garantirsi il futuro, invece è la descrizione
di giorni di pena e di carestia.
L’umanità, dall’era della raccolta, ha cambiato la faccia
della terra. Eppure, dobbiamo proprio agli attuali popoli
cacciatori e raccoglitori la difesa della biodiversità e la
salvaguardia di territori vergini, la conoscenza profonda
delle specie di piante del loro ambiente, lo sguardo
attento dal quale tutto ha preso inizio.
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PAESI ARABI
Miele, tra mito e storia
Alimento conosciuto fin dalla preistoria, nei secoli è diventato protagonista di molte leggende sia nelle culture
mediterranee sia in quelle africane.
econdo la mitologia greca, toccò ad Aristeo, figlio di
Apollo e della ninfa Cirene, il compito di insegnare
agli uomini l’arte dell’apicoltura. Ma, prima ancora, i
raccoglitori del Neolitico già possedevano tecniche per
rendere inoffensive le api selvatiche, che nidificavano
negli anfratti delle rocce o sugli alberi, e impossessarsi
del prezioso alimento, come documentano le pitture rupestri della Cueva de la Araña, in Spagna, o quelle dell’Africa australe. Tecniche ancora oggi utilizzate dagli
arditissimi raccoglitori nepalesi che si inerpicano sulle
rocce ad altezze vertiginose con scale di corda e cesti di
vimini.
Frutto della raccolta o dell’abilità dell’apicoltore, il
miele è stato oggetto di dono e di commercio. Israele,
come ricorda la Bibbia (Gen 43,11), invita i figli a
portare in dono «un pò di balsamo, un pò di miele,
resina e laudano, pistacchi e mandorle». Scrive il profeta
Ezechiele, parlando di Tiro: «Con te commerciavano
Giuda e il Paese di Israele. Ti davano in cambio grano
di Minnit, profumo, miele, olio e balsamo» (Ez 27,17).
Apicoltori esperti erano gli egizi per i quali la laboriosità
delle api evocava quella del loro sovrano. Questi insetti
S
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Sapori & Saperi
hanno rappresentato sia la capacità di difesa (ad esempio
sugli scudi dei soldati greci) sia la dignità regale: basti
ricordare il pendente ritrovato nel sito archeologico di
Mallia (Creta) e risalente al 1700 a.C., che raffigura due
api con un favo e una goccia di miele (Barbattini R., Fugazza S., L’ape nell’arte antica, Apitalia, 33, 10, 2006).
Ma se torniamo ai miti, la raccolta del miele e l’apicoltura
raccontano piuttosto la faticosa costruzione di regole
sociali. In un mito del popolo bororo, ricordato da LéviStrauss, il miele selvatico offerto ai membri del clan diventa immangiabile perché i raccoglitori avevano infranto
il tabù sessuale: un riferimento alla relazione tra dono
del cibo e dono della donna (Lévi-Strauss, 1966). Anche
Aristeo, che aveva rubato il miele alla ninfa Euridice,
sarà punito con la distruzione dei suoi alveari.
Miele amaro anche quello del mito karajà sull’origine
della vita breve. Racconta di uomini che vivevano nelle
viscere della terra. Incuriositi dal canto di un uccello
della savana, essi vollero esplorare la superficie. Vi trovarono frutti, api e miele. Alcuni, osservando anche del
legno secco, segno della presenza della morte, decisero di
ritornare da dove erano venuti, altri rimasero. Ed è per
questo, conclude il mito, che gli uomini discendenti di
quelli che sono rimasti muoiono prima di coloro che tornarono nel mondo sotterraneo (Lévi-Strauss, 1966).
22
Raccogliere, conservare, trasformare
LA RICETTA
Carne, spezie e miele
Piatto arabo diffuso nel Mediterraneo e tanto antico
da essere riportato su testi di culinaria egiziana e
andalusa del XIII secolo, il tabâhaja si distingue per la
disinvolta mescolanza di miele e spezie. Occorre
dapprima sbollentare la carne di agnello, farla dorare
in un poco di olio, poi continuare la cottura col brodo.
Mescolare miele, zafferano, pepe, un goccio di aceto,
pistacchi, e aggiungere la mistura alla carne continuando
la cottura. Prestare attenzione che il sugo non si
condensi troppo, nel caso aggiungere del brodo. Si può
anche utilizzare una miscela di spezie detta atraf al
tib, composta da alloro, noce moscata (myristica
fragrans Gronov) o il suo fiore il macis, chiodi di
garofano, pepe, zenzero e cardamomo.
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AUSTRALIA
La noce “ricca” degli aborigeni
Originaria dell’Australia, la macadamia contiene sostanze
nutritive come carboidrati, calcio, fosforo, proteine e vitamine.
om’era il mondo all’inizio della sua storia? O meglio,
come era nel tempo del sogno, quando tutto venne
creato? Allora gli antenati passarono cantando di luogo
in luogo e fecero sorgere piante, animali, uccelli, stagni,
pianure e montagne. Canguri, koala, marsupiali strani
come il vombato (vombatus ursinus) e il bandicoot (famiglia dei Peramelidi) apparvero sulla terra rossa e
aspra dell’Australia. Comparvero anche fiori selvaggi
come la banksia e la melaleuca generosa di medicamenti,
l’annona (annona muricata) dal delicato sapore, alberi
maestosi come la grevillea (grevillea bayleana). Sulle
rocce del deserto gli antichi abitanti disegnavano le
wondjinas portatrici di pioggia.
Gli aborigeni australiani vantano la più lunga storia
culturale del mondo: cinquantamila anni di arte, miti,
canti, leggende, riti (Morphy H., Aboriginal art, 1998).
Cacciatori e raccoglitori, essi hanno sempre saputo utilizzare la flora del loro territorio. Nelle foreste pluviali
del Queensland raccoglievano le noci oleose di una
pianta il cui fusto giungeva a 40 metri di altezza. Le
chiamavano gyndl, jindilli, boombera, kindal-kindal o
anche maroochi. Furono poi due botanici, Ferdinand
C
25
Sapori & Saperi
von Mueller, tedesco, e Walter Hill, australiano, a metà
del XIX secolo, a dare alla pianta il nome di macadamia
(macadamia F. Muell) in onore del medico e filosofo
John Mcadam. Cominciò subito dopo lo sfruttamento
commerciale delle uniche due specie commestibili: la
macadamia integrifolia e la macadamia tetraphylla.
La macadamia (famiglia delle proteaceae) è distinta in
nove specie originariamente diffuse tra l’Indonesia,
l’Australia e la Nuova Caledonia, ma molte producono
frutti tossici. Detta anche noce del Queensland oppure
bush nut o anche bauple nuts (con riferimento ai monti
Bauple), la noce macadamia è pregiata in quanto ricca
di acido palmitoleico, di minerali, di carboidrati, di
calcio, fosforo, proteine e vitamine A, B1 e B2. Il suo
commercio, infine, è reso vantaggioso dalla straordinaria
longevità della pianta che può arrivare a produrre fino
a cent’anni.
Attualmente molti Paesi, come Hawai, California, Brasile, Kenya, Nuova Zelanda, Sudafrica e Malawi affiancano l’Australia nella produzione di queste noci preziose.
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Raccogliere, conservare, trasformare
LA RICETTA
Trota affumicata con salsa
di piselli e macadamia
Affettare un filetto di trota affumicata (può andare
bene anche un filetto di salmerino), tagliare a pezzi
cinque o sei pomodorini, alcune noci di macadamia,
mezzo avocado. Aggiungere il succo di mezzo limone
e, volendo, salsa chili o tabasco. Lasciar riposare.
Scaldare in una padella un cucchiaio di olio (di
macadamia o oliva) con una cipolla tritata e mezza
tazza di noci macadamia tagliate grossolanamente.
Far soffriggere, poi aggiungere dell’acqua e portare
ad ebollizione. Aggiungere una mezza tazza di piselli,
del latte e far cuocere finché i piselli non saranno
morbidi e la salsa avrà una buona consistenza. Salare
e pepare. Togliere dal fuoco e frullare il tutto. La salsa
così preparata accompagnerà il filetto di trota precedentemente preparato.
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PAPUA NUOVA GUINEA
Le piadine di sago
Dal midollo delle palme viene ricavata una fecola che è
alla base della cucina locale, ma anche di alcune produzioni industriali.
al piccolo aereo che sorvola la regione del West
Sepik, in Papua Nuova Guinea, è facile individuare
i Monti Torricelli che separano i villaggi della montagna
da quelli affacciati sul mare di Bismark, come Lamieng,
Aitape, Sissano. Per il portoghese Jorge de Menezes,
che vi sbarcò nel 1526, era l’isla dos papuas, degli
uomini dai capelli crespi. Divenne poi Nuova Guinea,
come la Guinea africana. Nel Sepik si è costruita nel
secolo scorso la scienza antropologica. Pionieri come
Margaret Mead, Reo Fortune, Gregory Bateson ci hanno
lasciato vivide descrizioni dei ciambuli, dei mundugumur,
degli arapesh, degli iatmul, dei costumi, delle lingue,
della splendida arte espressa nelle haus tambaran (le
case degli uomini e degli antenati).
Ben prima di loro, sul finire dell’Ottocento, quelle
terre erano state raggiunte da esploratori e geografi
dell’Italia coloniale. Come il piemontese Carlo Vidua, i
liguri Giuseppe Emilio Cerruti e Luigi Maria de Albertis,
al quale si deve il nome della catena montuosa Vittorio
Emanuele, e che iniziò l’esplorazione dell’isola nel 1872
con Odoardo Beccari scoprendo diverse varietà di uccelli
del paradiso e raccogliendo crani umani, poi studiati
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Sapori & Saperi
dall’antropologo Paolo Mantegazza. O come l’etnografo
Lamberto Loria che, tra il 1888 e il 1897, raccolse
un’importante collezione.
Oggi come allora, dai villaggi profumati dal fiore di
frangipane, le donne raggiungono la foresta, raccolgono
il sago e preparano il cibo quotidiano. Il sago, un carboidrato con pochissime proteine, vitamine e minerali,
viene ricavato dalla palma Metroxylon sagu o da altri
tipi di palma come la Metroxylon salomonense e la Metroxylon amicarum. Si può estrarre anche dalla Cycas
revoluta, ma in questo caso la lavorazione diventa più
laboriosa perché si devono eliminare le tossine. Il procedimento è piuttosto lungo: la palma viene abbattuta,
il midollo è schiacciato, lavato e ridotto in pasta. La
fecola di sago sarà poi gettata in acqua bollente oppure
stesa a formare una piadina da cuocere sulla brace.
Il sago, o sak sak, è il cibo tradizionale dei popoli
della Papua Nuova Guinea, di quelli della Malesia, delle
Molucche, dell’Indonesia e del Borneo, dello Sri Lanka,
dell’India e di Sumatra.
Gli occidentali, invece, non si sono lasciati sedurre
dal gusto esotico: piuttosto ne hanno visto gli usi
redditizi. Con l’amido di sago, infatti, oggi l’industria
produce sciroppi contenenti glucosio e fruttosio. Ricava
anche etanolo e persino adesivi, carta e plastica biodegradabile. Varianti non culinarie di un alimento che ha
fatto la storia del Pacifico.
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Raccogliere, conservare, trasformare
LA RICETTA
Pudding di sago
Far bollire tre tazze di acqua in una padella bassa, poi
versare una tazza di perle di sago e zucchero di canna.
Si può aggiungere la polpa di cocco grattugiata o dei
tuorli d’uovo precedentemente sbattuti, aromatizzare
con cannella o limone. Occorre rimestare continuamente,
finché le perle non saranno traslucide. Versare il
pudding nei recipienti e servire con latte di cocco o
sciroppo di zucchero, oppure purea di mango, fette di
ananas o accompagnato da una meringa.
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GRECIA
Ulivo: dono degli dei al
Mediterraneo
La pianta, originaria dell’Asia, influenza da secoli la
cultura e l’alimentazione dei Paesi dell’Europa meridionale
e del Medio Oriente.
alete, il sapiente cui si fa risalire l’origine della filosofia, era certamente uno spirito contemplativo ma
non al punto da non prestare attenzione a quanto accadeva intorno a lui. Viaggiatore, grande osservatore del
cielo e altrettanto esperto del commercio, prevedendo
un abbondante raccolto di olive, ne fece incetta, ricavando
poi ingenti guadagni dalla vendita. Questo, almeno, è
quanto tramanda Aristotele nella Politica. Platone, ben
più metafisico, si concedeva tuttavia spuntini con fichi
e olive. Quei cibi semplici dei quali Epicuro diceva ci si
dovesse contentare per essere felici.
Olio e olive furono anche affare di divinità: poiché Poseidone e Atena si litigavano il controllo dell’Attica,
Zeus impose loro di cercare qualcosa di utile agli uomini.
Vinse Atena che portò l’ulivo, albero immortale dalle
cui bacche l’umanità avrebbe potuto ricavare nutrimento,
forza, luce, calore. E infatti l’olio divenne cibo, unguento
per gli atleti, combustibile per le lampade. Gli dei nascevano sotto l’ulivo e si portavano in processione i
rami durante le Pianepsie autunnali (festività in onore
di Apollo). Sempre con i rami si intrecciavano le corone
degli atleti. Con il legno d’ulivo erano fabbricati i letti,
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Sapori & Saperi
le bare e le statue degli spiriti della fecondità. Non diversamente, gli arabi ungevano di olio gli strumenti di
lavoro perché ne fossero santificati, mentre gli ebrei
fecero del ramo d’ulivo il simbolo dell’alleanza tra l’uomo
e Dio dopo il diluvio (Gen 8, 11).
Al di là del mito, la pianta delle oliacee, originaria dell’Asia minore, il cui nome scientifico è Olea europaea,
venne coltivata dal Neolitico nella pianura tra il Tigri e
l’Eufrate. Conosciuta anche in Egitto, fu, tramite i
fenici, diffusa nelle isole greche (il più antico frantoio è
quello in pietra lavica ritrovato a Santorini). Da qui, lo
sfruttamento dell’ulivo (nelle centinaia di varietà, tra le
quali dobbiamo almeno ricordare la koroneiki greca, la
leccino italiana, la ayvalik turca) si sparse in tutto il
Mediterraneo raggiungendo la Spagna, il Portogallo e
l’Italia, descrivendo quella singolare, impermeabile frontiera tra le popolazioni nordiche, dedite al burro e al
lardo, e le popolazioni meridionali che si affidano
piuttosto all’olio per la propria cucina. E dunque il tzatziki, il cui nome sembra derivi dal turco-armeno cacik,
può essere una delle ultime metamorfosi dell’ulivo.
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Raccogliere, conservare, trasformare
LA RICETTA
Tzatziki, la salsa per pesce e carne
Grattugiare un cetriolo e farne scolare l’acqua. Frullare
tre spicchi di aglio fino a ottenere una crema. Mettere
dello yogurt acido in una terrina (se non si ha lo
yogurt acido basta aggiungere qualche goccia di limone
ad uno yogurt bianco) aggiungere la crema di aglio e
il cetriolo. Versare tre quarti di tazzina di olio d’oliva
extravergine e un pò di aceto, mescolando vigorosamente
con una frusta. Aggiungere sale, quanto basta, pepe e
un pizzico di aneto. Guarnire con olive nere e foglie di
menta. Questa salsa si può conservare in frigorifero ed
è adatta sia come antipasto, sul pane, sia per accompagnare pietanze di carne o pesce.
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TIROLO AUSTRIACO
Mela: dal mito alla cucina
Simbolo del peccato originale, ma anche di bellezza, il
frutto è alla base di piatti delle tradizioni nordiche e
mediterranee
on era certo cominciata bene. Bastò l’invito a
cogliere la mela della conoscenza (anche se nella
Bibbia si parla di frutto e non di mela) perché Eva, perdendo il paradiso, desse inizio alla storia umana. Che
continuò con la guerra di Troia, scatenata da un altro
pomo, quello della discordia, lanciato dalla dea Eris nel
bel mezzo di un matrimonio. Ambiguo quanti altri mai,
questo frutto indicò, da allora, la tentazione e il peccato,
ma anche le gioie dell’amore. Simbolo sponsale nel
Cantico dei Cantici, diventa invito a ben più lascivi intrattenimenti nei Dialoghi delle cortigiane di Luciano
di Samosata (Dialogo XII). In mano a Eva o alla Vergine,
indicò la colpa o la redenzione. Raffigurò di volta in
volta l’eterna giovinezza, come nei miti scandinavi, l’invidia, come nella fiaba di Biancaneve, il coraggio, da re
Artù a Guglielmo Tell.
Originaria dell’Asia e diffusa in Europa fin dal
Neolitico, la mela (malus communis melo, famiglia delle
rosacee), nelle sue quasi mille varietà (Golden, Stark,
Jonathan, Renetta, Granny Smith, ecc., che si distinguono
per colore della buccia e consistenza della polpa), si
rivelò il più disponibile dei frutti. Intanto riuscì ad at-
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Sapori & Saperi
tecchire anche nelle lande nordiche e in quelle regioni,
al di qua e al di là delle Alpi, nelle quali il clima rigido
impediva altre coltivazioni, offrendo al folclore celtico
immagini di riti druidici e di mitiche isole delle mele:
Avalon.
Versatile come nessun altro frutto, la mela si prestò a
essere impiegata in cucina, con le carni (il tournedos di
cervo dei walser con salsa di mele renette), le paste (gli
gnocchi di mela ungheresi, i knödel del Tirolo), le
polente (la polenta di mele della Val d’Isarco), i dolci,
come lo strudel, diffuso in tutta l’area tedesca. Né il suo
utilizzo finisce qui. Cosmetico, servì a generazioni di
ragazze per ricercare i colori della giovinezza; medicamento economico, con le sue componenti di vitamine,
zuccheri, sali minerali, acidi, permise di «togliere il medico di torno», come recita il proverbio. Così, anche in
epoche come la nostra, poco inclini a suggestioni simboliche, la mela resta, nel contempo, emblema della vita
sana e delle tentazioni.
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Raccogliere, conservare, trasformare
LA RICETTA
Strudel dolce tirolese
Sciogliere 50 gr di burro in poca acqua calda e lasciar
intiepidire. Setacciare 250 gr di farina sulla spianatoia,
mettervi al centro una presa di sale, 1 cucchiaio di zucchero, 1 uovo e la miscela di acqua e burro. Impastare
per 20 minuti, fino a ottenere una pasta liscia e
morbida. Formare una palla e farla riposare per 30
minuti avvolta in un telo infarinato, sotto una pentola
calda. Sbucciare e tagliare a fette sottili un chilogrammo
di mele renette, mettere 100 gr di uva passa in acqua
tiepida per 10 minuti, mescolare 80 gr di zucchero con
mezzo cucchiaio di cannella in polvere e scorza di
limone, far tostare 50 gr di zucchero e 150 gr di pane
grattugiato. Porre la pasta su un telo infarinato,
stenderla con il mattarello e allargarla fino a farla
divenire sottile come un foglio di carta. Ungerla con
burro fuso e stendere il pane tostato, le mele, l’uvetta,
la miscela di zucchero, 6 cucchiai di marmellata di albicocche. Arrotolare lo strudel, saldare bene i bordi e
far scivolare sulla placca del forno. Spennellare con
burro fuso, cuocere in forno già caldo a 180 gradi per
1h. Servire spolverizzando con zucchero a velo.
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BENIN
Il “tofu” del Benin
Le donne del Benin centrale hanno imparato il procedimento per preparare il formaggio di soia. Segnale di
creatività in cucina ed esempio di sostenibilità alimentare
che lega insieme novità e tradizione.
na donna africana china sul fuoco: l’immagine
della tradizione immutabile. Una visione un pò stereotipata pensa che la cucina dei paesi del Sud del
mondo si ripeta sempre uguale a se stessa. Che utilizzi
ingredienti, metodi e tecniche tramandati da secoli e
non subisca né trasformazioni né contaminazioni. Perciò,
applicando ai fornelli la distinzione a noi trasmessa da
Lévi-Strauss tra civiltà calde e fredde, si pensa a cucine
“calde” (le nostre) nelle quali la creatività è la regola, e
“fredde” quelle dei popoli non occidentali, legate inesorabilmente a schemi arcaici.
Invece, in cucina le sorprese non finiscono mai. E,
dunque, può capitare di incontrare a Djoguagbo, un
sobborgo periferico di Bohicon-Abomey nel Benin centrale, donne intente a produrre formaggio di soia. Il
“tofu” del Benin è sicuramente una conquista recente.
Facile pensare che sia conseguenza di quella tragica
trasformazione, detta land grabbing, che consegna le
terre africane ai coltivatori di soia della Cina, dell’India
e del Brasile in cerca di spazi per la loro agricoltura
estensiva.
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Sapori & Saperi
La soia infatti (glycine max L.), conosciuta e coltivata
in Estremo Oriente fin dagli albori della agricoltura,
non ha mai fatto parte della dieta alimentare africana
(e neppure, a ben vedere, di quella europea, se non in
tempi moderni e legati alla diffusione di stili di alimentazione alternativi). Attente al nuovo, le donne Fon
hanno aggiunto la soia alle coltivazioni orticole di cui
sono esperte come il mais (zea mays L.), la manioca
(manihot esculenta) e l’igname (dioscorea L.). E, per
quanto riguarda la complessa arte della trasformazione
in “formaggio”, di sicuro ha giovato loro l’esperienza
dei popoli del nord, i Peuls pastori. Qui, il formaggio
(di latte vaccino) chiamato wagassi o warangashi o
anche ghasiigue nella lingua fulfuldé, viene lavorato
utilizzando come caglio l’estratto delle foglie della mela
di Sodoma (calotropis procera).
Allo stesso modo nella Nigeria, e servendosi invece
della papaina derivata dalle foglie di papaya (carica papaya), i pastori Fulani producono il wara o warankasi.
Viene dalla tradizione il “tofu” equatoriale prodotto all’ombra dei palazzi di terra rossa dei tredici re del Danxomè, ed esprime una creatività tutta moderna.
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Raccogliere, conservare, trasformare
LA RICETTA
Formaggio di Soia
alla maniera del Benin
Per preparare questo formaggio si debbono anzitutto
mettere a bagno per molte ore i semi di soia. Quando
saranno reidratati vanno macinati umidi. La farina
raccolta in un panno bianco va lasciata per un pò di
tempo in acqua fredda, strizzata e di nuovo rimessa in
acqua: operazione da ripetere per tre volte. Posta una
pentola d’acqua sul fuoco (circa dieci volte la quantità
della farina) si getta la soia e la si fa bollire per quindici-venti minuti. Si filtra la purea con un panno di
mussola per eliminare il residuo insolubile (crusca o
polpa) e la si rimette a bollire. L’operazione va ripetuta
più volte, con pentole pulite, finché il composto risulti
denso a sufficienza. Il “formaggio” viene poi messo in
un panno, collocato entro due assi di legno e pressato
con pesi perché esca l’acqua in eccesso, e si lascia
riposare per indurirlo. Il formaggio di soia può essere
aromatizzato con sale, pepe, aglio (o dado se si
preferisce), olio rosso di palma e olio di arachide. Si
conserva per lunghi periodi.
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