Rio Vitoschio storia

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Rio Vitoschio storia
Rio Vitoschio, storia.
Estratto dal libro “Le mie radici Serravalle di Carda e Monte Nerone” di Giovanni Martinelli
Rio Vitoschio è un luogo affascinante, ambientalisticamente singolare, dove la natura più aspra e selvaggia,
la flora e la fauna si sono fermate nel tempo, i molti esploratori che oggi risalgono il suo corso, vivono
un'avventura unica e ammirano paesaggi ormai introvabili altrove.
Sembra che il suo nome attuale derivi da una selva appartenente a un certo Vitoschio, ma anticamente era
chiamato "Rio tra le due parti", poiché segnava il confine tra i possedimenti di due rami della famiglia
Brancaleoni, quelli di Mondelacasa e quelli della Carda. Qualcuno ha pensato ad un confine tra Brancaleoni
e Ubaldini, ma questo è avvenuto solo dopo il 1270, data in cui gli Ubaldini divennero signori della Carda
mentre il toponimo "tra le due parti" esisteva almeno dal 1100.
Risalendo dalla confluenza con il Biscubio di alcune centinaia di metri troviamo "Le porte", due pareti di
roccia altissime che stringono le acque. Proviamo a tornare indietro nel tempo di qualche decina di migliaia
di anni, quando le due pareti non avendo subito l'azione erosiva dell'acqua, erano ancora unite; una cascata
altissima rovesciava schiume bianche nella valle sottostante e al suo interno si estendeva un lago di vaste
dimensioni, superato il quale iniziava una serie interminabile di salti più o meno alti.
In questo luogo magico, Monte Nerone elargiva le sue ricchezze, infatti da una fessura posta in un costone
di roccia, una sorgente di acqua trascinava fuori dal cuore della montagna piccole pagliuzze d'oro per
arrotondare i magri guadagni dei carbonari che lavoravano in quella zona. Oggi la sorgente è diventata avara
di acqua e quindi anche di oro.
Si racconta che un certo Tassi Giuseppe di Serravalle di Carda aveva posto un setaccio Sotto la sorgente e
periodicamente andava a raccogliere ciò che vi si accumulava, portandolo ad un orefice di Urbino; il Tassi
purtroppo morì improvvisamente senza rivelare il segreto ai famigliari. Si perse così la memoria di quel
luogo. Affascinato da questo mistero, negli anni '70, durante una delle mie escursioni, lo ritrovai; mi accorsi
subito che vi erano ancora i pali infissi nel terreno con legato un rudimentale setaccio di tela, il tutto sotto
un costone che forma una specie di grotta. Pochi anni dopo sfortunatamente, qualcuno andato a ripararsi li
sotto, vi aveva acceso un fuoco bruciando tutto.
Più a monte il Vitoschio si incrocia con il fosso del Pisciarello che scende fragorosamente dal Nerone e qui
cambia nome, prendendo quello di "fosso dell'Eremo". Questa parola è il preludio per entrare nell'argomento
più interessante e misterioso di cui si possa discutere in questo trattato: la storia dell'eremo e chiesa di San
Bartolomeo Apostolo.
Già illustri scrittori come il Tarducci, il Buroni, il Cardinale Palazzini hanno affrontato questo tema, essendo
costretti ad ammettere di non saper ubicare il luogo dove questa chiesa poteva sorgere. Dice il Palazzini:
“Oggi dell'eremo e chiesa non san più visibili neppure i ruderi”: Come loro, anche noi cercheremo di dare una
risposta a questo enigma, presentando il risultato della nostra ricerca. Questo eremo doveva essere molto
conosciuto anche in territori lontani dal nostro, se nel 1126 fu scelto da Sant'Ubaldo da Gubbio per ritirarsi
in solitudine e sfuggire alle pressanti richieste dei suoi concittadini che lo volevano come Vescovo.
Era una dipendenza dell'abbazia benedettina di San Cristoforo al Ponte di Urbania e fu gestito dai suoi frati
fino al 1471, data in cui misteriosamente i religiosi abbandonarono quel luogo. Eppure non era una chiesa
povera quella di San Bartolomeo, dice il Buroni che possedeva: "il podere di Rosaio, un tenimento di terra dieta
la Petrosa, ch'andava fino al loco dicto El Sangue dei Compari, la selva del Serone, pezzi di terra lavorativi ai vocaboli:
Balza, Ponte, Campo dei mendicanti, Magio, Fornace, Campo della Chiusa, più un manzetto e una giovenca di stima di
scudi trentuno". Saremmo curiosi di sapere perché monasteri come Fonte Avellana sono cresciuti nel tempo e
arrivati fino a noi e altri come Vitoschio sono scomparsi nel buio della storia.
Continuiamo comunque a riportare la cronaca di questo eremo. Nel 1526 il Priorato fu concesso a fra
Tebaldo della Carda, francescano che nel 1540 aumentò il capitale comperando un terreno nella cura di
Santo Stefano. Nel 1544 si ricorse al giudizio del duca d'Urbino poiché Monaldo Brancaleoni di Piobbico
aveva concesso il patronato dell'eremo a certo don Nicolò da Finale Ligure, ma Ottaviano Ubaldini della
Carda non ne teneva conto e mandava a pascolare abusivamente bestie bovine nei territori dell'eremo. C'è da
dire che nel 1557 don Nicolò vendeva il podere di Rosaia e l'anno successivo rinunciava all'incarico e se ne
tornava a casa sua.
È interessante un documento spedito dall'abbazia di San Cristoforo al Ponte a don Bernardo Brancaleoni,
Priore della chiesa di San Bartolomeo nel 1630 e ripetuto nel 1646 e nel 1654, dove si ingiungeva di
chiudere la porta della casa per la quale si entrava in chiesa, al fine di non far entrare pecore e capre, in più il
Palazzini afferma che la chiesa aveva un unico altare. Da qui si deduce quale poteva essere la composizione
del fabbricato.
Dopo varie alterne vicende si arriva al 1775, data in cui sia eremo che chiesa erano del tutto cadenti, quindi
furono abbandonati e il titolo trasferito nella chiesa di San Pietro in Piobbico.
In conclusione in base a documenti e testimonianze raccolte, crediamo di essere in grado di poter dimostrare
l'esatta ubicazione dove sorgeva questo complesso monastico, finora il luogo non è stato trovato perché
ognuno lo ha cercato nel posto più comodo, cioè la zona delle “Porte”: “'dove le pareti si fanno gibbo”: come
tutti hanno riportato e dove logicamente non poteva essere perché troppo vicino a luoghi abitati. Esiste
ancora il tracciato di un antico sentiero che da Mondelacasa taglia a mezza costa Monte Nerone, arriva in
uno spiazzo chiamato "l'aia di Vitosto" e quindi scende nel fosso del Pisciarello, dove questo confluisce nel
rio Vitoschio. Proprio qui sopra vi è un piccolo colle con pareti a strapiombo nella sommità del quale si trova
un piccolo rudere, la corona di muri che si vede, racchiudeva un ambiente di quattro metri per cinque, è poco
per essere quello che rimane di una chiesa con annesso eremo, ma è possibile che il tutto già cadente sia
precipitato nei fossi sottostanti durante il terremoto del 3 giugno 1781, che ebbe lì il proprio epicentro; infatti
il Michelini e il Buratta ci parlano di sisma disastroso che ha prodotto spaccature, voragini e dirupi di grossi
massi che rotolavano a valle nelle zone di Via Strada, Val d'Abisso e specie in località Ranco di Nino (è
questo l'ultimo nome con cui i carbonari chiamavano la valle). Per di più a poca distanza vi sono le mura di
due piccole case che sicuramente sono state utilizzate da carbonai, ma che potrebbero essere nate come
"romitori" .
Sempre nei pressi si trovano alcune grotte, anche di notevoli dimensioni, dove gli eremiti potevano ritirarsi
in solitudine e preghiera. Anche la toponomastica ha la sua importanza, infatti proprio lì sotto il rio
Vitoschio cambia nome in fosso dell'Eremo, proseguendo più avanti vi è una cascata con a fianco una grotta
e si chiama cascata dell'eremita. Le indicazioni più utili le fornisce sempre il Buroni, infatti ci propone un
documento presentato da Monaldo e Guido Brancaleoni nella citata protesta fatta al Duca d'Urbino contro gli
Ubaldini del quale riportiamo un passo: "[ ... ] dieta ecclesia ha tra le altre cose certe tenimente de selve, da un
certo Serone in entro verso dieta eremo perfino al fossato dove è posto dicto eremo et ascindendo per el fossato et
arrivando ad loco dicto el Morgone [ ... ]". Esplorando il letto del fiume abbiamo scoperto che esiste un altro
luogo dove le pareti della montagna "fanno gibbo"; qui vi è una strettoia con pareti a picco e acque molto
profonde, il luogo è insuperabile. Da una testimonianza del signor Girolamo Sparagnini, ex abitante di
Rosara e nostra guida in questa ricerca, abbiamo saputo che quel gorgo profondo si chiama "il Morgone";
suo nonno era uso andare a pescare le trote nel Morgone.
Come possiamo notare viene rispettata anche l'indicazione riportata da tutti i precedenti scrittori, ovvero che
l'eremo sorgeva nella zona "dove le pareti fanno gibbo".
Per quanto riguarda la selva del Serone, confinante con "dicto eremo" possiamo affermare che si trova
proprio in questo luogo, appartiene alla Confraternita del SS. Sacramento di Serravalle di Carda ed è stata
tagliata da questa lo scorso anno. Dice il Palazzini che l'eremo di San Bartolomeo pur essendo stato un
Patronato dei Brancaleoni, faceva parte prima, della parrocchia di San Giovanni Battista esistente nel
castello della Carda, e poi, della chiesa di San Cristoforo sempre di Carda, sulle quali, come gestore dei beni,
era fondata dal 1580 la Confraternita del Santo Rosario, alla quale fu aggiunta quella del SS. Sacramento di
Serravalle.
Nel periodo della dominazione napoleonica, quando le confraternite furono abolite e i beni confiscati, quella
del SS. Sacramento probabilmente resistette perché si trovava nel versante del Monte Nerone e quindi
rientrava nei diritti delle Università Agrarie che erano di "pascere et legnare':
Tuttora l'eremo di San Bartolomeo si trova nel territorio del comune di Apecchio.
Un'ulteriore conferma di quanto detto finora è scritta nella lapide che fu posta nel 1775 quando il titolo di
San Bartolomeo fu trasferito nella chiesa di San Pietro di Piobbico; riportiamo il tratto che ci interessa:"[ ... ]
nec non societ S.mi Sacramenti annuentib. haeredes patronat iure retento [ ... ]". Significa che: ciò era avvenuto
con il consenso della società del SS. Sacramento che ne teneva il diritto quale erede, in sostanza
concedevano il titolo ma si tenevano i beni.
Per concludere questa ricerca ci piace inserire una nota di cronaca rosa, che era stata trovata dal compianto
dottor Delio Bischi, poiché essa avvenne nei luoghi di cui abbiamo parlato finora. E’ tratta dagli atti di un
processo avvenute nel 1467, depositati all'archivio di stato di Urbino, per la causa intentata davanti al
giudice Francesco di Pietro Berardi da Lionello Brancaleoni della Rocca contro Gabriello Matterozzi della
Carda. Lionello Brancaleoni era innamorato di donna Laura della Carda, moglie di Gabriello Matterozzi e la
corteggiava assiduamente, volendo condurla a fare delle passeggiate la stimolava dicendo: "Esiste un luogo
poetico, fatto per amare, simile a un verde giardino, un paradiso che odora di rose, sotto il cielo tra svolazzi festosi e
colorati, è questo Rosaio",
Il Matterozzi accortosi della tresca, per vendicarsi assoldò dei sicari per farlo uccidere. Il capo di questi,
certo Gnogni detto “il Gaggia” si rivolgeva a un tal Meo detto "Mignatella" per convincerlo ad essere della
partita; il discorso è fedelmente riportato: "Oh Meio, non avere paura, quando Lionello passa per Rosaia e va a la
Carda, anche uno solo saria sufficiente ad ammazzarlo, ma noi serimo in quattro, ci sono doi da Sant'Angelo in Vado,
Mentaccbia di Tebaldelli e Luca del Fiordo a li quali ho promesso venticinque ducati e un giupparello per ciascuno".
Tesero l'agguato ma il Brancaleoni si difese con la spada, ferì i malfattori e li catturò.
Alla fine, a sostegno del detto che i ricchi non pagano mai, le controversie di quei nobili le pagarono altri,
poiché a rimetterei la testa furono proprio quei poveracci.