La crisi del pensiero nel bambino, nell`adolescenza, nell`adulto

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La crisi del pensiero nel bambino, nell`adolescenza, nell`adulto
15 Febbraio 1997
LA CRISI DEL PENSIERO
NEL BAMBINO,
NELL’ADOLESCENZA,
NELL’ADULTO
GIACOMO B. CONTRI
Nel titolo dell’incontro odierno è presente una triade: il bambino, e questa parola designa un individuo;
l’adolescenza, che non designa un individuo ma un’astrazione maligna; l’adulto, la cui esistenza nel nostro
mondo è più difficile da dimostrare dell’esistenza di Dio.
A partire dagli anni ’70, e per qualcuno anche prima, nell’interrogarsi sui tempi della vita, e specialmente
per rispondere alla domanda ordinaria, spontanea e persino tradizionale sulla causa del fatto che si sta male,
si è cominciato a porre quello che è stato chiamato il «problema della causalità». È notevole il fatto  e
questo fatto è un errore  che non ci si chieda qual è la causa dello star bene, quelle alcune volte in cui si sta
bene. Ci si immagina  e questo mostra che immaginare non è sempre qualcosa di ben fatto  che star bene
sia come respirare in una bella giornata, che sia spontaneo, naturale. Ma proprio «naturale» è la parola di
tutti i nostri sbagli. Si sbaglia anche quando si dice: «Buono questo vino, è veramente naturale!». Nulla è più
artefatto del vino, per niente affatto presente in natura.
Fra le idee correnti, e errate, che tutti abbiamo c’è quella secondo cui esisterebbe uno sviluppo psichico
naturale, un po’ come si dice che la pianta viene dal seme. Non è vero: quella specie di enti che ognuno di
noi è  uomini, esseri umani  non ha sviluppo, ma soltanto storia. Lo sviluppo è progressivo, ma soprattutto
senza drammi  al più possiamo ammettere drammaticità in una gelata che brucia tutte le viti, benché in
questo caso cessi lo sviluppo e muoia la vita. C’è invece storia per il fatto che esiste una sequenza  per nulla
assicurata o garantita nel suo termine né da una banca né da un notaio  designata da tre parole:
Avvenimento.
Ma quale?
Crisi.
Ecco il dramma.
Correzione.
È da prendersi come stretto sinonimo di guarigione. La guarigione è l’esito, il frutto, di una correzione o
di una cura, termini che possono essere considerati sinonimi.
Sarebbe interessante se a qualcuno, sia pure per un valore frazionario di secondo, accadesse quell’evento,
che a pieno titolo, secondo la buona terminologia dell’intera era scientifica moderna, merita il nome di
scoperta. La res, l’ente, la cosa di questa scoperta è una parola facile, corrente, che fino a un secolo fa quasi
© Opera Omnia di Giacomo B. Contri
Testo non rivisto dall’Autore
STUDIUM CARTELLO 1996-1997
SEMINARIO DI GENOVA
nessuno aveva pensato di considerare come l’argomento di una scoperta mai avvenuta per alcuni millenni,
assai più notevole della scoperta della fissione dell’atomo: l’evento, l’avvenimento, l’accadimento di cui si
può parlare in termini di cronaca giornalistica e di cui non si parla mai, essendo però l’unico per cui ogni
altro è fatto, e nell’accedere del quale essere e accadere sono sinonimi  i filosofi avrebbero tutto da
guadagnare nell’uscire dalla loro tecnica, schizofrenia, psicosi in senso lato, riconoscendo quanto non hanno
visto da millenni  tale evento è il corpo.
È stato necessario arrivare a fine Ottocento, primi Novecento, a un signore che si chiamava Freud, per
cominciare a scoprire il corpo, per cominciare ad accorgersi che il corpo  quando è  è un avvenimento. La
scoperta del corpo, nel significato con cui figura nella storia delle scienze, nella storia dell’intelligenza
umana, nella storia del pensiero umano ha avuto inizio un secolo fa.
Il corpo non è l’anatomia, che pochissimo ha da dire sul corpo: sul tavolo anatomico si studiano il
cadavere e i suoi pezzi. Il corpo in quanto biologico è ancora lontano dall’essere il corpo: vi si tratta di
funzioni e le funzioni ancora non camminano. Fra i tanti moltissimi errori illusori che albergano nei nostri
intelletti, vi è il credere  autentica credenza falsa, fasulla  che gli animali abbiano il corpo, mentre un
animale non è che uno schema di condotta rivestito di un po’ di carne, un algoritmo, un sistema di equazioni,
ossia uno schema istintivo e dunque uno schema di condotta. Se si toglie la pelle ai cyborg, gli organismi
cibernetici dei nostri giorni, troviamo i circuiti.
Solo l’uomo, ammesso che ci arrivi, ha un corpo. Potremmo non averci mai pensato!
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Da dove veniamo? Prendendola alla lontana, ma non troppo, potremmo rispondere che veniamo da
Adamo ed Eva dopo la caduta. [1] Dopo quella caduta che è stata chiamata peccato originale, che cosa
significa il loro essere nudi, associato alla vergogna? La risposta a questa domanda getta all’aria le idee
correnti. In genere si pensa che un corpo spogliato è nudo. Sbagliato: essere nudi significa non che è caduto
il vestito, ma che è caduto il corpo. L’essere nudi è perdita del corpo. La vergogna non viene dal corpo, ma
dalla perdita del corpo. È pressoché impossibile riuscire a fare questo passaggio, anche se intellettualmente
si crede di coglierlo subito: è nell’idea di tutti che la nostra vergogna stia nello spogliarsi davanti agli altri. È
del tutto ovvio che non sto facendo apologia di pornografia, che in fin dei conti altro non è che un sistema
consolatorio molto a buon mercato  uno, tra gli altri  per dire che abbiamo sempre avuto il corpo, che non
l’abbiamo mai perduto.
La vergogna e il senso di nudità sono la mancanza, la caduta del corpo. È proprio il caso di Adamo ed
Eva e, trascurando i nostri progenitori, è il caso dell’esperienza di ogni bambino. Sappiamo bene che il
bambino fino a un certo punto non ha alcuna vergogna del corpo spogliato, che non significa ancora nudo,
bisogna che diventi adolescente per ripetere l’esperienza dei nostri progenitori. Chi ha vent’anni, ha fatto
questa esperienza appena dieci anni prima. Ho uguagliato l’adolescenza alla condizione della caduta o,
volendo, allo star male, al non stare più così bene. L’adolescenza non è affatto una tappa dello sviluppo, ma
soltanto qualcosa che ha cominciato ad andare storto. Ecco un poco introdotta la parola crisi. È sbagliato
dunque parlare di «crisi dell’adolescenza»: l’adolescenza è crisi, caduta, danno, deviazione, qualcosa che si
può correggere.
È geniale l’etimo di adolescenza, che viene da adolescere, profumare, momento fiorito. Purtroppo non
corrisponde ai fatti: l’adolescenza è un errore, non una tappa più o meno lunga. Se la facciamo cominciare a
dodici - tredici anni e durare fino ai trent’anni, come più o meno accade, abbiamo diciotto anni di
adolescenza. Passare diciotto anni nel ghetto adolescenziale è uno dei peggiori scandali del nostro mondo,
più scandaloso dello sfruttamento della manodopera infantile nelle miniere del secolo scorso. Per di più è un
ghetto che non viene neanche riconosciuto come ghetto, ma indicato come «epoca psico-socio-naturale»
della nostra vita. Oltre al danno, la beffa di un falso da tutti posto e da tutti condiviso.
Una mia fantasia, che sogno diventi realtà, è che i miei figli, maschi e femmine, facessero figli a quindici
anni, con quanto si correla al fare figli: occorre denaro per una casa, non abbandonare i bambini davanti al
convento... Il contenuto della fantasia si mostra realistico, non nella sua probabilità  con i tempi che corrono
 ma per la enormità e immensità di conseguenze cui si presta. Provate a immaginare quell’uomo e quella
donna quindicenni, Uomo e Donna, non adolescenti  li insulto, se chiamo adolescenti i miei figli
quindicenni  che si uniscono, si legano e hanno dei bambini. Poiché ai giorni nostri, grazie alla medicina,
agli antibiotici, all’igiene, la durata media della vita è di ottant’anni, se hanno avuto un figlio a quindici anni,
il loro modo di pensare il futuro cambia completamente: hanno davanti a sé sessantacinque anni. È la più
ovvia e macroscopica delle conseguenze. «Che cosa farò da grande?»: tale quesito, puramente adolescenziale
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e malato  che per di più capita di farsi a 25-30 anni  cesserà di essere: dato che grandi, adulti già si è, ivi
compreso l’avere figli, per una volta nella vita  cosa che non accade a molti da molti secoli  si comincerà a
essere seri e la serietà sarebbe una componente non pedante, ma costitutiva del pensare le proprie future
azioni, perché sarebbe a partire dal fatto che a quindici anni si è già fatto tutto. Sarebbe interessante trovarsi
così giovani, quanto a età cronologica, a potersi dire: «Ho già fatto tutto». I sessantacinque anni davanti a sé
diventerebbero una vera questione di investimento e non di sopravvivenza, un pensiero privo di peso e di
tristezza. L’esperienza della noia è un’esperienza dell’adolescenza.
Circa il terzo, l’adulto: sarebbe bello vederne! Diamo per certo l’adulto, mentre abbiamo per certo solo il
bambino, e fino a una certa età; dell’adolescenza, che è un errore, meglio non essere certi: non è un evento
psichico, e non perché i miei ormoni, fra gli 11-16 anni mi facciano capitare quella certa cosa.
L’evento psichico che si chiama corpo è già accaduto nel bambino dei primi anni di vita. Nel nostro
mondo l’adulto è soltanto un adolescente prolungato. [2] L’adulto, se fosse, sarebbe il guarito. La parola
adulto e la parola guarito vengono infatti ad avvicinarsi molto. E l’adulto è nient’altro che il riscatto, la
riacquisizione o, usando una parola cristiana, la redenzione  che vuol poi dire «riscatto»  del corpo che nei
primi anni della vita, e solo nei primi anni della vita, è stato un fatto, di cui peraltro non ci rendevamo
perfettamente conto. L’adulto è il bambino realizzato. E realizzato dopo una crisi, dunque dopo un lavoro, e
con la massima serietà, senza la stucchevolezza di solito annessa alla parola e al concetto di lavoro.
Dopo anni in cui, come ho accennato, ci siamo trovati impigliati nel tema della causalità, nella questione
dell’origine della malattia, anche verbalmente, oltre che concettualmente, siamo decisamente passati a
comprendere che non si tratta di causalità: non sono malato perché c’è stata una certa causa. Sono malato, o
sano, perché da qualche parte, e anche per quanto mi riguarda, c’è stato un merito o un demerito. Si tratta
non di causalità, ma di imputabilità. Si è trattato di un passaggio importante che oggi decide della maggior
parte delle cose che diciamo e facciamo.
Abbiamo scoperto che «il» nemico  volendo riandare al racconto delle origini in cui di «il» nemico si
parla  il nemico attuale, che non deduco affatto dal grande racconto iniziale, si chiama dispositivo, ossia
comandare, senza neanche un comandante, senza un Führer di turno. Nell’era del computer, anche per
coloro che non sanno come funziona un computer e quale ne sia la teoria soggiacente, tutti sanno che cosa
sia un dispositivo: tutto funziona perché tutto è già disposto, basta poi schiacciare un tasto come sulla
macchina da scrivere. Tutto è predisposto e io posso fare solo alcune piccole mosse. Il nemico è il
dispositivo. Una volta avevo dimostrato che è il maligno, l’ingannatore, detto anche «diavolo», colui che
pretende di farci funzionare per dispositivi. Le nostre malattie sono dei dispositivi.
NOTE
[1] Sono contrario a concepire il racconto delle prime pagine della Bibbia come un mito: se anche proprio
non ci credessi, è così perfettamente aderente a quanto siamo oggi, da sembrare un articolo scritto ieri da
una persona dotata di sufficiente intelletto; in forma di narrazione è alla fin fine un racconto abbastanza
preciso di come siamo, di come cominciamo, di come tutto va in crisi ed è insieme una prima idea di come
potrebbe avvenire una correzione, una cura, una guarigione. 
[2] Ho orrore delle odierne discussioni sul pensionamento: sono ben d’accordo con un certo aspetto
economico del pensionamento, ma del pensionamento si parla come di tarda adolescenza. È più onesta l’idea
della vecchiaia come rimbambimento. 
© Studium Cartello – 2007
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