Report di restituzione

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Report di restituzione
Progetto PON-FSE “Supporto alla Transnazionalità”
Progetto La.Fem.Me.
Seminario tecnico internazionale
“Work-life balance ed innovazione organizzativa per aumentare la produttività delle imprese”
24 ottobre 2013
Roma
Sintesi
Indice
1. Obiettivi del seminario
2. Apertura dei lavori
3. Sessione I: Il rapporto tra misure di conciliazione e performance delle imprese
4. Sessione II: Innovazione e flessibilità degli orari tra organizzazione e contrattazione
1. Obiettivi del seminario
Il 24 ottobre 2013 si è tenuto a Roma un seminario tecnico ad inviti, sul tema della conciliazione e del valore che le
pratiche di conciliazione possono avere nei confronti dei lavoratori e delle imprese. Il tema si inquadra nelle attività
del progetto La.Fem.Me., realizzato da Italia Lavoro per conto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in
un’ottica di diffusione di misure atte a facilitare l’adozione in impresa di misure di conciliazione, per una maggiore
occupazione femminile e una più elevata produttività aziendale.
L’incontro ha visto la partecipazione, in qualità di relatori, di studiosi ed esperti sul tema, che si sono impegnati su
due fronti: da un lato la presentazione di indagini empiriche, aventi a oggetto la valutazione degli effetti derivanti
dall’adozione di politiche di conciliazione, in termini di convenienza economica/efficienza e di produttività aziendale,
di mantenimento in azienda di capitale umano con skills elevate, di benessere organizzativo e motivazione dei
lavoratori; dall’altro l’illustrazione di casi di studio relativi a imprese italiane ed europee che si sono dotate di misure
di conciliazione, con riferimento ai riflessi che tale innovazione organizzativa ha avuto sia sulle imprese che sui
lavoratori.
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Il Seminario è stato articolato in una presentazione delle attività del progetto La.Fem.Me., attuali e future, in
tema di incentivazione delle misure di welfare aziendale, seguita da due sessioni: la prima sul rapporto tra misure
di conciliazione e performance delle imprese, la seconda sul tema della innovazione e flessibilità degli orari
tra organizzazione e contrattazione.
2. Apertura dei lavori
L’apertura dei lavori è stata affidata al Presidente di Italia Lavoro Paolo Reboani, il quale ha sottolineato il
carattere quasi sperimentale, rispetto alla mission storica di Italia Lavoro, del progetto La.Fem.Me. e della
assistenza tecnica da questi fornita, senza utilizzo di incentivi finanziari, diretta alla creazione di una rete di contatti
ed alla diffusione di una cultura della conciliazione, mirata principalmente, ma non esclusivamente, alle donne.
Ha proseguito l’intervento di apertura lavori la responsabile del progetto La.Fem.Me. Antonella Marsala, che ha
illustrato la vision del progetto, e che si può articolare in tre punti principali:
1. la collocazione del tema dell’occupazione femminile nell’ambito delle politiche economiche e dello sviluppo
economico;
2. il collegamento tra misure di work-life balance ed esigenze di flessibilità organizzativa delle imprese
(innovazione organizzativa), per verificarne l’impatto in termini di produttività e competitività aziendale;
3. la progettazione di misure di conciliazione basata sul ciclo di vita delle persone, e sulle diverse esigenze
che ne scaturiscono1.
In tema di occupazione femminile le principali problematiche che si devono affrontare in Italia sono: il basso tasso
di attività e di occupazione delle donne, con forti differenziazioni territoriali tra il Nord ed il Sud; la scarsa diffusione
e l’onerosità dei servizi di supporto alle famiglie; la prevalenza di un modello familiare che vede l’uomo come
“sostegno economico della famiglia” e la cura dei bambini affidata alle nonne; le ridotte dimensioni delle imprese e
la scarsa sensibilità alle tematiche di work-life balance.
Tuttavia, anziché porsi il problema dei costi della conciliazione, va affrontato, all’opposto, il problema dei costi della
non-conciliazione, punto evidenziato ad esempio da uno studio condotto dalla società tedesca Prognos AG2,
effettuato nel 2005, che ha quantificato i vantaggi economici derivanti alle imprese dall’adozione di una corretta
politica di welfare.
I costi della non-conciliazione sono rappresentati da: assenteismo, turnover, bassa soddisfazione dei clienti e della
motivazione del personale, difficoltà di rispetto dei tempi di consegna, difficoltà di gestione dei picchi di
produzione/servizio, abuso dello straordinario, cattivo utilizzo dei contratti flessibili e a termine, cattivo utilizzo del
welfare - ove presente – visto come concessione, anziché come leva per incrementare la produttività.
A questo proposito sono stati menzionati due dati emblematici della realtà italiana:
Il progetto La.Fem.Me. ha prodotto, nel 2013, un position paper sul tema delle “Misure di conciliazione come fattore di
incremento della produttività aziendale”.
2 Prognos, 2005: “Betriebswirtschaftliche Effekte familienfreundlicher Maßnahmen – Kosten-Nutzen-Analyse“ http://www.bmfsfj.de/RedaktionBMFSFJ/Broschuerenstelle/Pdf-Anlagen/BetriebswirtschaftlicheEffekte,property=pdf,bereich=bmfsfj,sprache=de,rwb=true.pdf
Una traduzione non ufficiale in italiano a cura del Progetto PON “Supporto alla Transnazionalità 2012-2014” è disponibile, a
richiesta.
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solo l’1,1% dei lavoratori gode di una flessibilità oraria a banca-ore, contro una media europea del 10,3%
(23,2% in Germania). Nel nostro Paese, che si posiziona all’ultimo posto in Europa per questo aspetto,
pochissimi lavoratori possono modificare gli orari per venire incontro alle proprie esigenze e a quelle
dell’impresa;
il lavoro part-time riguarda solo il 5,9% degli uomini (media UE 27: 9%), contro il 29,3% delle donne (media
UE-27: 32,1%). Tra questi lavoratori, hanno indicato il carattere “involontario” dell’orario ridotto (situazione
unica in Europa, che nasconde in parte fenomeni di lavoro in “nero” o sottopagato) il 63,8% degli uomini e il
50,2% delle donne.
Nel corso dell’intervento sono state illustrate le attività del Progetto La.Fem.Me., le prospettive future, le modalità di
utilizzo delle risorse, le lezioni apprese e, infine, le ipotesi di sviluppo per la programmazione 2014–2020.
L’occupazione femminile deve diventare un tema trasversale a tutte le politiche, in quanto elemento di uguaglianza;
pertanto le ipotesi di sviluppo del progetto per la prossima programmazione 2014–2020 includono l’offerta di
supporto alla programmazione FSE in maniera condivisa con i vari operatori, lo sviluppo di strumenti trasversali,
quali ad esempio il potenziamento del portale, creato da La.Fem.Me., in particolare della sezione dedicata alla
contrattazione di secondo livello, come suggerito anche dalle Parti sociali.
La presentazione del Progetto La.Fem.Me. è proseguita con l’illustrazione, a cura della coordinatrice operativa
Emanuela Mastropietro, dei casi di consulenza aziendale che il Progetto ha seguito nel corso dell’ultimo anno, in
grado di offrire spunti interessanti ai fini dell’impostazione di una politica di supporto alle imprese e al territorio, in
tema di conciliazione e flessibilità oraria:
perché farla? Per dimostrare il legame tra produttività e conciliazione tra vita personale e lavorativa.
verso chi indirizzarla? Target delle PMI, con alta presenza femminile. Opportuno il coinvolgimento dei
soggetti che operano con le aziende (ad es.: Consulenti del lavoro, commercialisti ecc.) in grado di agire come
“moltiplicatori”.
che cosa fare? Consulenza per la diffusione delle pratiche e delle soluzioni presso le aziende. La consulenza
non è onerosa, tuttavia l’azienda deve collaborare e impegnarsi, ricercando e mettendo a disposizione i dati da
analizzare. Eventuali incentivi economici –non necessariamente presenti- possono essere previsti solo dopo
l’individuazione di soluzioni e devono a queste essere collegati.
come farla? Incrementare il numero di consulenti, creando dei team multidisciplinari, in quanto gli aspetti da
considerare riguardano diverse materie (consulenza fiscale, organizzazione del lavoro, ecc.). Coinvolgere sia
la direzione dell’impresa che i lavoratori. Essere preparati ad arginare il sospetto e ad affrontare ripensamenti.
Adeguare i tempi delle misure ai tempi dei cambiamenti organizzativi. Replicare il metodo, contestualizzando
le soluzioni.
In un anno di lavoro, La.Fem.Me. ha ricevuto 63 manifestazioni di interesse in tema di accompagnamento verso
forme di innovazione organizzativa: di queste, si sono concretizzate 39 collaborazioni, in corso o in fase di
completamento.
Per il seminario sono stati selezionati 3 casi riguardanti PMI del Sud, in grado di esemplificare situazioni di
superamento dell’apparente contraddizione tra misure di conciliazione e produttività aziendale, e dimostrare, anche
con riferimento alla piccola dimensione aziendale, la praticabilità su larga scala delle politiche di conciliazione. Si
tratta, in tutti e tre i casi, di misure di welfare accompagnato da incentivi fiscali, in cui, a partire da una accurata
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analisi delle esigenze aziendali e delle tipologie di lavoratori/trici presenti in azienda e relativi bisogni, si sono
costruite delle proposte di orario di lavoro flessibile.
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Box 1 – Casi studio: Adozione di misure di conciliazione sviluppati con la consulenza del progetto
La.Fem.Me.
I tre casi presentati dal progetto, a dimostrazione della praticabilità su larga scala delle politiche di conciliazione,
anche con riferimento alla piccola dimensione aziendale , riguardano:
1. l’introduzione di misure di welfare aziendale in una microimpresa siciliana, operante nel settore dei servizi
farmaceutici, composta da 10 persone, di cui 8 donne, inclusa la titolare. Le problematiche aziendali: costi
aziendali incrementati (specie il costo del lavoro), stress a causa degli orari di apertura lunghi, con picco
stagionale nel periodo 1 giugno–30 settembre (24 ore di apertura). La collaborazione richiesta al Progetto
dalla titolare riguardava l’impostazione di un piano di benefit aziendali. La proposta messa a punto, a seguito
dell’analisi della situazione aziendale, ha previsto, prima ancora del progetto di welfare, una flessibilità oraria
a banca ore. Sono stati così definiti:
- un orario che prevedesse per ciascun dipendente la possibilità di far confluire in banca ore un massimo di
180 ore. Alla fine di ciascun trimestre, i singoli lavoratori scelgono se farsi pagare le ore lavorate in più
oppure usufruire del riposo compensativo;
- un piano di welfare aziendale, che fa buon uso dei rapporti privilegiati della titolare con strutture sanitarie
e altri servizi (servizio sostitutivo di mensa aziendale presso il bar sito nei pressi dell’azienda; rimborso
spese per istruzione e centri estivi; servizi gratuiti riguardanti, a scelta: visite e cure dentarie; visite, servizi
diagnostici e analisi; visite e trattamenti presso un centro di fisioterapia), predisposto in modo tale da
usufruire di benefici fiscali.
I risultati prodotti dall’introduzione della flessibilità oraria sono stati decisamente positivi: due persone hanno
rinunciato al part-time, potendo meglio gestire il proprio tempo, e la maggiore redditività dell’impresa ha
consentito di assumere altri due dipendenti.
2. Il caso di una cooperativa di consumo con 54 dipendenti (in prevalenza donne) occupati in 4 piccoli
supermercati, localizzata in un piccolo centro della Puglia. Le problematiche aziendali: concorrenza dei grandi
centri commerciali; richiesta di orario part-time da parte di alcune dipendenti, con preferenza espressa per il
mattino (distribuzione che avrebbe fortemente incrementato il lavoro straordinario e peggiorato il servizio ai
clienti). La richiesta di collaborazione proveniva dal Consulente del lavoro dell’impresa. Sulla base di una
attenta analisi degli andamenti delle vendite e dei picchi di lavoro, sono state definite quattro possibili
soluzioni di part-time, atte a soddisfare sia le esigenze aziendali, con una maggiore presenza del personale
nelle ore di punta, che le preferenze espresse dalle lavoratrici. In tal modo si è potuto sfatare il mito che il
part-time possa essere utile solo alle esigenze di conciliazione del personale.
3. Il caso di un call center con 311 dipendenti (77% donne) anch’esso situato in Puglia. L’esigenza manifestata
dall’azienda era arrivare ad una offerta di flessibilità oraria che potesse coprire l’intera giornata, venendo allo
stesso tempo incontro alle esigenze del personale. La scelta si è orientata sull’offerta di orari “a menù” (ossia
Gli altri
casi aziendali
seguiti dal
variegati,
cercano una
soluzione
a differenti
di
a scelta),
dopo un’analisi
delleProgetto,
esigenzealquanto
dei lavoratori,
appartenenti
a diverse
tipologie
sociali eesigenze
quindi con
produttività,
flessibilità,
conciliazione
lavoro-famiglia.
esigenze molto diverse. Ad esempio, i dipendenti comprendono: madri con figli piccoli, interessate al tempo
pieno al mattino, poco disposte a lavorare il sabato ed a fare straordinari, ma disponibili a cambiare turno se
pianificato in anticipo; giovani senza figli con orario part-time, molto flessibili e disposti, anche con un
preavviso di 24/48 ore, a integrare l’orario di lavoro con ore supplementari distribuite secondo le necessità
aziendali; giovani senza figli con orario serale, disposti a cambio turno periodico e a straordinari, oltre a
lavorare eventualmente un sabato al mese.
La soluzione adottata, che mira alla copertura oraria del carico di lavoro su base totalmente volontaria,
consiste in: una sperimentazione su due team di gestione degli orari a preferenza, per addivenire a menù
orari stabili; definizione settimanale della pianificazione dei turni; condivisione con il team delle esigenze e
raccolta adesioni da parte dei dipendenti; definizione di principi generali per una equa distribuzione dei
sacrifici da parte dei lavoratori (es.: uno slittamento di turno a settimana; un sabato lavorativo ogni 4 ecc.).
L’esempio consente di sfatare il mito che un’ampia flessibilità oraria sia incompatibile con un equilibrio tra vita
lavorativa e personale.
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3. Sessione I: Il rapporto tra misure di conciliazione e performance delle imprese
La prima sessione, introdotta da Anna Maria Ponzellini, sociologa e consulente di Italia Lavoro, si è focalizzata
prevalentemente su studi teorici, che vanno a controbattere l’opinione diffusa secondo la quale le misure di
conciliazione sono misure di tutela, rivolte in particolar modo alle donne, e che rappresentano un costo per le
aziende. Questi studi, prevalentemente anglosassoni, sono essenziali per dimostrare la fallacia di questo
presupposto e convincere le imprese, innanzitutto, della convenienza economica derivante dall’adozione di
politiche di conciliazione e, in secondo luogo, dell’opportunità di mettere in piedi, insieme all’adozione delle misure,
un sistema di misurazione/monitoraggio atto a verificare i risultati prodotti.
Tra gli indicatori utilizzati più di frequente:
misure di tipo quantitativo (ad esempio: misure aggregate di carattere economico, quali il ROI);
indicatori gestionali (ad esempio: assenteismo, turn-over, discontinuità dell’occupazione femminile, attrattività
dell’impresa);
indicatori di tipo qualitativo (clima aziendale; motivazione del personale);
indicatori globali di produttività, soprattutto nel caso di introduzione di misure di flessibilità oraria e di
innovazione organizzativa.
L’aspetto della convenienza delle politiche di conciliazione è stato affrontato in alcuni studi econometrici e, da
alcuni anni, anche Eurofound monitora gli effetti dell’introduzione di misure di innovazione organizzativa (High
performance work practices - HPWP3) sulla produttività e sul benessere dei lavoratori. Anche qui, in relazione alla
capacità di rilevare e quantificare la convenienza delle misure di work-life balance, si ricorda il già citato studiopilota realizzato dalla Prognos AG in Germania nel 2005 su una diecina di imprese di varie dimensioni, il quale ha
constatato che l’introduzione in azienda di un pacchetto di misure “family friendly” poteva tradursi in risparmi in
termini di ROI compresi tra il 25% ed il 78%.
Le High Performance Working Practices (HPWP) sono tecniche di gestione delle risorse umane dirette ad incrementare le
prestazioni complessive e/o l'efficacia della organizzazione, attraverso un miglior utilizzo delle competenze dei dipendenti e
migliorando il loro impegno verso l'organizzazione. Tali tecniche prevedono l’adozione in azienda di “pacchetti” di pratiche di
lavoro integrate, che coprono tre grandi settori. Il primo riguarda le pratiche di coinvolgimento del dipendente, che incoraggiano
una maggior fiducia e comunicazione tra datore di lavoro e dipendenti. Queste pratiche responsabilizzano i dipendenti
all’esercizio di un maggior controllo sul proprio lavoro e nel decison-making quotidiano. Ne derivano più alti livelli di
motivazione, leadership, comunicazione e lavoro di squadra. Pratiche tipiche includono i team autonomi, circoli di qualità e di
condivisione/accesso alle informazioni aziendali. Il secondo settore riguarda pratiche nell’area della gestione delle risorse
umane, focalizzate sull’investimento in capitale umano e nello sviluppo delle competenze all'interno dell'organizzazione. Ad
es.: processi specifici di reclutamento, valutazione delle prestazioni, riprogettazione dei processi di lavoro, formazione e
sviluppo, pianificazione strategica della forza lavoro e programmi di miglioramento continuo dell'organizzazione. La terza area
di HPWP riguarda i temi del compenso e dell’impegno, e si tratta di pratiche volte a incrementare l’impegno verso
l’organizzazione. Ad esempio: ricompense finanziarie, quali la partecipazione ai profitti; retribuzioni legate alla performance,
ma anche politiche favorevoli alla famiglia, lavoro flessibile, piani di carriera e opportunità di formazione sovvenzionati.
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Francesca Rizzi, Practice Manager della McKinsey & Company, ha presentato i risultati di una recentissima
indagine quali-quantitativa4 svolta su un campione di 1.300 dipendenti (50% donne, 50% uomini; per l’80% fruitori
di welfare aziendale) di imprese, sia grandi che piccole, associate a Valore D (associazione di aziende e manager
impegnati nel sostenere la crescita professionale delle donne). Obiettivo della ricerca: quantificare i benefici del
welfare aziendale, per l’azienda e per i dipendenti.
In premessa è stata sottolineata la difficoltà di reperimento di dati che permettano la misurazione dei vantaggi e dei
costi, anche nel caso di imprese che hanno già in essere politiche di work-life balance: i dati sono dispersi in
azienda, raramente viene messo in piedi un sistema di misurazione degli effetti risultanti dalla introduzione di
misure di conciliazione.
I risultati dell’indagine hanno dimostrato l’erroneità delle convinzioni iniziali da cui spesso le imprese muovono nella
decisione di attivare misure di work-life balance. In particolare le principali semplificazioni possono rappresentarsi
come segue:
Per chi? Per le donne, soprattutto per le mamme;
Cosa? Asili nido aziendali, part-time, campus estivi;
Quali benefici? Valore economico della prestazione;
Perché? Imprenditoria illuminata. Welfare paternalistico;
Come? Maggiori costi per l’azienda, adatto solo per aziende di grandi dimensioni.
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Alla luce dello studio effettuato, i risultati ottenuti consentono appunto di smentire i pregiudizi più diffusi:
Per chi? Per tutti. Il 93% degli intervistati ha espresso il bisogno di politiche di welfare aziendale, senza
differenze significative di carattere socio-demografico o economico.
Cosa? Bisogni diversi, che si evolvono in rapporto al ciclo di vita del soggetto. La ricerca dimostra l’importanza
di partire da un’analisi dei bisogni dei lavoratori, senza sviluppare politiche rivolte ad un solo gruppo target, che
rischiano di portare all’emarginazione di tale gruppo, oltre a non essere apprezzate dal personale. Nel ranking
dei servizi auspicati, ad esempio, l’assistenza agli anziani e la flessibilità oraria risultano ai primi posti, e
vengono prima dei servizi legati alla cura dei figli.
Quali benefici? Il valore percepito dei servizi offerti, da parte del dipendente, è significativamente superiore al
reale costo del servizio, sia per il peso che l’azienda ha nelle trattative con i fornitori (che può consentire costi
inferiori o prestazioni migliori), sia per le possibilità di usare, in certi casi, spazi aziendali per l’effettuazione del
servizio. In alcuni casi la forbice tra valore percepito e costo aziendale è enorme (ad es.: flessibilità oraria),
arrivando fino al 70%. Di conseguenza, non conviene sostituire l’offerta di servizi con gratifiche retributive.
Perché? Per il beneficio economico che ne deriva all’azienda. L’ipotesi di calcolo sviluppata con riferimento ad
un’azienda “tipo” di 2.500 dipendenti, dimostra che l’adozione di un piano di welfare aziendale ben organizzato
(comprendente servizi legati all’assistenza agli anziani, ai figli, servizi “salvatempo”, ecc.) può portare
La ricerca “Il welfare sussidiario: un vantaggio per aziende e dipendenti” del 2013, è stata prodotta dalla McKinsey &
Company per conto di Valore D.
http://www.mckinsey.it/storage/first/uploadfile/attach/143539/file/sintesi_ricerca_mckinsey_il_welfare_sussidiario.pdf
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all’azienda un beneficio economico netto fino a due volte superiore al costo sostenuto. Il beneficio economico
deriva dal maggior benessere organizzativo, che si traduce in una maggiore soddisfazione e nella disponibilità
a lavorare di più; maggiore retention; assenze dal lavoro più brevi e ridotto assenteismo.
Come? Anche “in economia”, magari condividendo le risorse tra più aziende geograficamente vicine.
L’importante è pianificare e gestire attentamente l’offerta di welfare, basandola sui bisogni del personale,
altrimenti l’impatto risulta limitato, il dipendente non percepisce il valore dei servizi offerti, si ha un basso
ritorno sull’investimento. L’offerta deve essere: flessibile, modulabile, e i risultati misurabili. Anche per le
aziende che hanno già un piano di welfare, è opportuno: analizzare i bisogni dei dipendenti, definire con
chiarezza gli obiettivi, identificare le risorse, e quindi realizzare (o eventualmente modificare) il piano.
Penny Tamkin, direttrice aggiunta dell’Institute for Employment Studies (IES), ha presentato i risultati di uno studio
commissionato da Eurofound5, e diretto ad esplorare le innovazioni organizzative adottate dalle imprese ed il loro
impatto sulla performance aziendale e sui lavoratori, nonché il ruolo che gli stessi lavoratori possono giocare nel far
funzionare le innovazioni. Le imprese esaminate sono 13, appartenenti a settori e Paesi diversi. Ai fini del
seminario, la presentazione è stata in particolare focalizzata su quelle imprese le cui novità organizzative
riguardano anche benessere aziendale e work-life balance: Abbott (prodotti farmaceutici e attrezzature sanitarie,
Irlanda), Elica (cappe da cucina, Italia), Kellogg’s (prodotti alimentari, Spagna), Rabobank (servizi finanziari,
Olanda), Retail Group (supermercati, Slovenia), ROFF (servizi IT legati a SAP, Portogallo).
Le pratiche innovative ad alta prestazione (HPWP) introdotte nelle imprese considerate, con riferimento all’area
della conciliazione e del benessere aziendale, riguardavano:
Abbott, flessibilità di orario e spazi di lavoro;
Elica, work-life balance, benessere aziendale, (oltre a lean production6 e lavoro in équipe);
Kellogg’s, flessibilità di orario e spazi di lavoro;
Rabobank, flessibilità di orario e spazi di lavoro (programma “Rabo unplugged”);
Retail Group, riprogettazione dell’ambiente di lavoro per migliorare il benessere del personale;
ROFF, flessibilità, management non gerarchico, comunicazione interna per una maggiore coinvolgimento del
personale.
In tutti i casi la spinta innovativa proveniva in parte dall’esterno (contesto innovativo di carattere nazionale, contesto
del business, contesto organizzativo) e in parte da condizioni favorevoli interne all’azienda.
L’introduzione delle HPWP in azienda è riconducibile ad uno dei seguenti obiettivi:
miglioramento della performance aziendale;
miglioramento dell’efficienza aziendale e del benessere dei dipendenti (es. Elica)
Lo studio, del 2012, è pubblicato da Eurofound col titolo “Work organisation and innovation”
http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2012/72/en/1/EF1272EN.pdf
6 La Lean Production costituisce un insieme di principi e di metodi ispirati al sistema di produzione Toyota, che, applicati in
modo organico, consentono di portare all’eccellenza i processi operativi dell’azienda, evitando al massimo gli sprechi.
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miglioramento del benessere dei dipendenti (es.: Retail Group Slovenia; ROFF. Anche in questi casi, obiettivo
sotteso è una migliore performance/produttività aziendale, come riflesso della migliore condizione psico-fisica
dei dipendenti).
Il metodo di implementazione delle innovazioni segue due modelli principali, che riflettono la cultura locale:
innovazione guidata dai dipendenti (tipicamente scandinava, dove è grande la partecipazione delle Parti sociali),
oppure dal management. Nel mezzo, ci sono vari gradi di partecipazione dei lavoratori al processo innovativo.
Per quanto riguarda il riflesso che le innovazioni organizzative hanno avuto sul comportamento e sul benessere del
personale, lo studio evidenzia diversi tipi di impatto, in risposta alle diverse innovazioni: ad esempio, il lean
management7 migliora la partecipazione dei dipendenti, pur se in qualche caso risulta non gradito ai responsabili;
le innovazioni, specie quelle dirette al miglioramento della work-life balance o delle condizioni di lavoro, hanno
effetti prevalentemente positivi, in termini ad esempio di soddisfazione lavorativa e migliore qualità di vita. Sono
stati notati, tuttavia, anche degli impatti negativi: ad esempio, le pratiche di lean management, cui corrisponde una
maggiore responsabilizzazione dei dipendenti, incrementano lo stress.
Gli effetti sulla performance organizzativa derivanti dall’introduzione delle innovazioni organizzative sono stati in
linea di massima positivi: la flessibilità, il lean management, il lavoro in équipe, il coinvolgimento dei dipendenti si
traducono in maggiore qualità, efficienza e produttività e minori costi operativi.
In generale si può notare come ad una maggiore flessibilità corrisponda una maggiore soddisfazione e un miglior
equilibrio tra vita familiare e lavorativa per i lavoratori e, sul fronte delle imprese, una maggiore produttività e un
miglioramento della qualità del prodotto/servizio.
Ci sono stati tuttavia dei casi in cui le aziende hanno dovuto correggere il tiro: per esempio Rabobank, che, con
l’iniziativa “Rabo unplugged” aveva previsto la massima libertà di lavoro (luogo, orario) per i propri dipendenti,
vincolati al solo risultato del lavoro. L’innovazione ha tuttavia prodotto un senso di isolamento e di mancanza di
contatto sociale, e ha avuto come conseguenza un aumento del turnover, specialmente tra i neo-assunti, portando
l’impresa a ripensare in parte l’organizzazione del lavoro.
In conclusione, l’innovazione organizzativa produce un impatto positivo se, oltre a perseguire una maggiore
produttività, mira anche al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Risultati ancor più positivi si hanno
quando ai lavoratori è riconosciuto un ruolo attivo nella pianificazione dell’innovazione organizzativa.
7 “Obiettivo primario del Lean management è la massimizzazione del valore per il cliente, e la contemporanea riduzione delle
risorse necessarie a generarlo. Per conseguirlo, è necessario riorganizzare i processi aziendali secondo 5 principi
fondamentali (valore, flusso del valore, flusso continuo, pull, perfezione) e quindi, mediante la minimizzazione degli sprechi
lungo tutta la catena del valore e la diffusione della cultura del miglioramento continuo e del problem solving, liberare le migliori
risorse aziendali per reimpiegarle in nuove sfide strategiche, garantendo la crescita comune. Il Lean management è soprattutto
una filosofia manageriale, un sistema di valori e comportamenti che vanno oltre la mera applicazione dello strumento e che,
una
volta
interiorizzati,
costituiranno
il
nucleo
portante
della
cultura
aziendale”.
Fonte:
http://www.leancenter.it/LeanManagement/tabid/75/language/it-IT/Default.aspx
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Sul tema delle “Politiche di conciliazione tra convenienze e difficoltà di implementazione” è intervenuto Egidio
Riva, professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Sulle politiche di conciliazione e sulla
misurazione degli loro effetti sia sui dipendenti che sulle aziende, e –in misura molto minore- dell’effetto aggregato,
esiste una ampia letteratura, per lo più di origine anglosassone, sviluppata a partire dalla fine degli anni Novanta. A
fronte di numerosi studi che evidenziano l’effetto positivo –sia per gli individui che per le imprese- delle politiche di
work-life balance, e il legame intuitivo tra queste e i benefici aziendali, ci sono anche analisi che, all’opposto,
rilevano una scarsa efficacia di tali politiche. E’ di conseguenza importante chiarire i meccanismi sottostanti alla
correlazione, prendendo in considerazione anche i “fattori di moderazione”, al fine di migliorare gli effetti positivi
delle misure di conciliazione.
La presentazione ha preso in considerazione, separatamente:
-
l’effetto delle politiche organizzative sul conflitto percepito, sia dal lavoro verso la famiglia, che dalla famiglia
verso il lavoro;
-
come gli effetti del conflitto percepito vanno ad impattare in positivo o in negativo sul business o sulla
performance dell’impresa.
Nel considerare il primo punto - quale effetto hanno le politiche organizzative sul conflitto – va preso in
considerazione il primo fattore di moderazione: l’ambiente organizzativo.
Le misure di work-life balance producono impatti positivi se ci sono una serie di condizioni, ed in particolar modo se
l’utilizzo delle stesse riceve supporto, soprattutto da parte del management. I fattori da prendere in considerazione
comprendono, tra gli altri: le modalità di utilizzo delle misure esistenti; la diffusione dell’utilizzo delle misure;
l’impatto sulla carriera delle misure di conciliazione -ad esempio del part-time-; i soggetti utilizzatori (solo donne?);
la presenza di misure adatte alle diverse esigenze del ciclo di vita del lavoratore.
La cultura organizzativa influenza gli effetti prodotti dalle misure di conciliazione.
In secondo luogo, viene analizzata la misura in cui gli effetti del conflitto percepito vanno a modificare in positivo o
in negativo la produttività. All’aumentare del conflitto tra vita personale e vita lavorativa, corrisponde un decremento
della produttività: una minore presenza di politiche di conciliazione, formali ed informali, produce maggiore stress,
ansia, aumento del turnover ecc.
Gli studi non si occupano molto degli effetti delle misure aggregate.
In conclusione, le politiche di conciliazione hanno dei vantaggi, ma questi devono essere misurati al netto degli
effetti intervenienti: l’ambiente organizzativo come antecedente del conflitto e la dimensione individuale come
meccanismo di trasmissione a livello aggregato.
Un’indicazione per nuovi sviluppi in fatto di analisi: sono da sviluppare degli studi longitudinali, per vedere quali
misure migliorano la produttività; viene suggerito inoltre l’utilizzo di tecniche sperimentali nella raccolta dei dati
individuali, per misurare separatamente l’impatto sulle persone che utilizzano le misure di conciliazione e su quelle
che non le utilizzano.
4. Sessione II: Innovazione e flessibilità degli orari tra organizzazione e contrattazione
La seconda sessione si è proposta di migliorare la comprensione degli elementi d’innovazione e flessibilità in
termini di organizzazione e di contrattazione collettiva, attraverso la presentazione di alcuni casi italiani e stranieri e
l’analisi di alcuni studi di Eurofound.
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Luciano Pero, professore del Politecnico di Milano e consulente di Italia Lavoro, ha presentato alcuni casi, italiani
e stranieri, di flessibilità “ricca”.
Due concetti chiave, nel trattare la tematica delle misure di conciliazione, sono quelli di:
flessibilità “ricca” (o sostenibile);
“orari a menù” (metodo per conciliare vita e lavoro).
In Italia il termine “flessibilità” ha una connotazione negativa, dal momento che da noi si è fatto in larga parte uso di
una flessibilità numerica, “ingegneristica”, caratterizzata dall’utilizzo di lavoro interinale, straordinario, CIG,
prevalentemente diretta alla riduzione dei costi, e che ha avuto l’effetto di ampliare il numero dei lavoratori precari.
Con riferimento all’orario di lavoro, le imprese che utilizzano la flessibilità “bassa”, fanno ricorso, per venire incontro
alle esigenze produttive, a mutamenti drastici dei turni, con peggioramento dell’orario di lavoro e della condizione
lavorativa dei dipendenti.
A questo tipo di flessibilità, appunto, si contrappone quella “ricca” o “sostenibile” (organizzativa, strategica), più
adattabile alle turbolenze dei mercati, che presuppone un management di elevata qualità, e prevede l’utilizzo
sinergico di molteplici leve (es. sviluppo organizzativo, gestione delle risorse umane, gestione della flessibilità) e
una maggiore qualità delle risorse, declinata oggi nelle HPWP (High Performance Work Practices).
Con riferimento agli orari di lavoro, in un contesto di flessibilità “alta” è possibile concepire l’utilizzo di orari a menù,
finalizzati a conciliare i turni di lavoro con i “desiderata” dei lavoratori. L’idea alla base dell’orario a menù parte
dall’analisi di due fattori: da un lato, le diverse tipologie di lavoratori presenti in azienda (“figure socio-temporali”, di
regola molto variegate), in termini di disponibilità di tempo; dall’altro, le esigenze aziendali imprescindibili. A
seguire: va effettuato il matching tra i due diversi tipi di esigenze, offrendo un mix di orari in grado di soddisfare sia
le esigenze aziendali che quelle del personale. Lo schema è sintetizzato nella slide che segue.
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In Italia ci si scontra in proposito con due grandi pregiudizi: da una parte ci sono i manager aziendali che, a fronte
di un’innovazione di tipo tecnologico o altro, concepiscono un’unica soluzione in termini di orario, diretta a
soddisfare unicamente le esigenze dell’impresa e il più delle volte insoddisfacente per i lavoratori; dall’altra parte, i
sindacati che vogliono regole generali di orario standard, possibilmente in accordo col CCNL, e ammettono poche
eccezioni predefinite (tra le quali: madri con figli piccoli; legge 104).
Tuttavia, l’internazionalizzazione dei sistemi industriali e la forte pressione che ne deriva sull’adattabilità ai mercati
e sulla competizione in termini di tempi di produzione sta spingendo le imprese nella direzione di una maggiore
flessibilità, in quanto questa risulta essenziale per la sopravvivenza.
I nuovi orari flessibili a menù possono prevedere diverse opzioni: da un lato, i menù possono essere stabili (ossia i
lavoratori sono assegnati ad un menù per un tempo abbastanza lungo) o variabili (su schema predefinito o
adattativo), dall’altro, la gestione della flessibilità può essere: a richiesta del singolo lavoratore, centrata sul team,
negoziata con le RSU aziendali o, come nel caso della Fiat di Pomigliano, decisa dall’azienda.
La pratica ha dato modo di comprendere che arrivare alla proposta di orari a menù di reciproca soddisfazione è
semplice se si coinvolgono direttamente i lavoratori.
Box 2 - Alcuni casi di studio relativi all’introduzione di orari flessibili a menù
I casi rappresentano degli esempi pratici della possibilità di superare l’apparente contraddizione tra misure di
conciliazione e produttività aziendale.
1. Un primo caso “storico” di adozione (inconsapevole) di orari a menù, fino a poco tempo fa unico, riguarda la
sede italiana della ZF Marine, azienda tedesca, la quale nel 2001 ha concepito un contratto in cui si prevedeva
l’articolazione del lavoro su molteplici livelli di orario, cambiabili ogni due mesi. Tra le premesse del contratto:
l’abolizione dello straordinario.
Altri casi più recenti di orari a menù riguardano:
2. Il caso di una impresa operante del settore della meccanica di precisione, con uno stabilimento in Italia ed uno
in Germania. L’innovazione ha assunto due diverse connotazioni: in Germania, è stata introdotta sin dagli anni
’90 la lean production, il lavoro è su team ad elevata autonomia, che si gestiscono autonomamente il lavoro
all’interno, per il rispetto delle consegne; lo straordinario non è retribuito, i salari sono alti. In Italia, lean
production e kan ban (sistema di reintegrazione delle scorte mano a mano che vengono consumate) sono meno
formalizzati e di più recente introduzione, i team sono informali e privi di autonomia; i salari sono bassi, ma lo
straordinario è retribuito. In entrambi gli stabilimenti l’innovazione ha prodotto forti miglioramenti nei tempi di
consegna.
3. Il caso relativo ad un call center (legato al progetto La.Fem.Me., e già descritto in maggior dettaglio nel Box 1),
che lavora su team, i quali garantiscono il risultato, con una gestione affidata esclusivamente al team leader.
Questa impresa sta cercando di incrementare l’efficienza del sistema in relazione ai carichi di lavoro, attraverso
un sistema sofisticato di menù, ma delegando al team la gestione di una mini-flessibilità (possibilità di chiedere
al personale di utilizzare la flessibilità o protrarre l’attività, in base alla intensità del lavoro). Questa gestione è
stata suggerita dagli stessi lavoratori.
4. Il caso di un polo logistico globale, con un network di produzione e vendite di livello mondiale, e la necessità di
una copertura oraria estremamente complessa, al fine di poter offrire il livello di servizio necessario. Dall’analisi
delle esigenze del personale e di quelle aziendali, è scaturita una proposta che comprende 10 orari a menù (10
diversi part-time), la cui applicazione ha prodotto risultati eccezionali a livello di incremento della produttività,
riduzione dell’assenteismo ecc.
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La slide di seguito riportata illustra graficamente la tipologia di soluzioni di orari a menù, adottate nei casi di studio
presentati.
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Il seminario si è concluso con l’intervento di Oscar Vargas Llave, ricercatore Eurofound, sul tema della
organizzazione dell’orario di lavoro e delle implicazioni che essa ha sulle condizioni lavorative e la produttività.
Secondo la strategia Europa 2020, flessibilità e politiche di work-life balance sono un impegno per i Governi, oltre
che per le imprese.
La presentazione, in una prospettiva europea, si è prevalentemente basata sui dati dell’indagine “Organisation of
working time. Implications for productivity and working conditions”, realizzata su 5 imprese appartenenti al settore
automobilistico e del commercio al dettaglio, localizzate in Olanda, Belgio e Ungheria, incrociati con i risultati, di
altri due studi di Eurofound: la “European Company Survey” (ECS) e la “European Working Condition Survey”
(EWCS) per dare una panoramica più ampia della relazione tra flessibilità oraria, produttività e condizioni di lavoro.
La ECS, basata su interviste a lavoratori e datori di lavoro, analizza le prassi aziendali in materia di flessibilità e di
diffusione del Dialogo sociale nelle imprese, mentre la EWCS è uno studio condotto in 28 Paesi, che analizza la
relazione tra diversi tipi di flessibilità e conciliazione vita-lavoro.
I risultati dell’indagine ECS sembrerebbero indicare, in linea generale, una correlazione positiva tra pratiche di
flessibilità oraria e performance aziendale in termini di produttività, più intensa (superiore alla media) per alcuni
settori economici come il commercio, sotto la media per i settori manifatturieri, data la maggiore standardizzazione
del lavoro che caratterizza le imprese di quest’ultimo tipo.
L’analisi EWCS evidenzia che: orari maggiormente programmati e orari decisi col coinvolgimento dei lavoratori
hanno una maggiore possibilità di generare un equilibrio soddisfacente tra vita lavorativa e familiare, mentre il
lavoro a chiamata o su turni ha un effetto meno positivo sulla work-life balance; il 18% dei lavoratori in Europa ha
difficoltà a coniugare lavoro e vita privata (la media sale al 25% in Italia), ed in particolare si posizionano sopra la
media i lavoratori con orario di lavoro irregolare o su turni (ad es.: i lavoratori del settore manifatturiero, in misura
maggiore).
Passando all’analisi dei casi esaminati nello studio “Organisation of working time. Implications for productivity and
working conditions” , si possono notare differenze sia tra Paesi (in base alla cultura, al quadro legislativo, ecc.), che
in base ai settori produttivi: ad esempio nel commercio, la possibilità per i lavoratori di influenzare l’organizzazione
dell’orario di lavoro è maggiore ed i dipendenti hanno più possibilità di conciliare vita lavorativa e familiare, mentre
nel settore automobilistico, in cui per esigenze produttive i turni vengono decisi a livello collettivo, l’autonomia dei
lavoratori è più limitata. Le imprese considerate, di non grandissime dimensioni, dotatesi di flessibilità oraria,
erano: in Belgio, una grande catena di supermercati; in Olanda, una catena di supermercati ed una industria del
settore automobilistico; in Ungheria: due industrie del settore automobilistico. L’analisi ha preso in considerazione il
punto di vista sia del management che dei sindacati: entrambi concordavano sui risultati positivi prodotti dalla
flessibilità in termini di conciliazione e di produttività.
Nel Box 3 viene presentato il caso approfondito nel corso dell’esposizione, relativo alla catena di supermercati
belga.
Box 3 - Da “Organisation of working time. Implications for productivity and working conditions”: il caso di
una catena di supermercati in Belgio
Il caso esaminato riguarda una delle maggiori società di supermercati low cost, con 222 punti vendita. La flessibilità
introdotta ha riguardato la sola area delle vendite. L’accordo sulla flessibilità era basato su un accordo collettivo,
ma più favorevole rispetto a questo, nei confronti del personale.
Le problematiche affrontate dall’azienda: picchi di lavoro, alta competitività, pressioni sui costi, variazioni
intervenute nel personale, con una maggiore presenza femminile.
Diverse le tipologie di flessibilità oraria introdotte: flexitime, banca delle ore, orari personalizzati, possibilità di
variazione degli orari su richiesta del lavoratore ecc.. I lavoratori hanno la possibilità di influenzare la flessibilità
oraria, in quanto la scelta dell’orario è, ove possibile, su base volontaria, e la pianificazione è a lungo e medio
termine.
L’impatto della flessibilità sulla produttività: la società è stata in grado di ampliare gli orari di apertura, utilizzando
meno lo straordinario e senza assumere altro personale e quindi ha potuto incrementare le vendite riducendo i
costi del personale.
Come effetti indiretti: maggiore soddisfazione della clientela e del personale. I dipendenti sono risultati più
soddisfatti in termini di: maggiore equilibrio tra vita lavorativa e familiare, introduzione di un sistema trasparente di
gestione della flessibilità; maggiori pari opportunità per uomini e donne, grazie alla flessibilità e alla possibilità di
scegliere gli orari.
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Le principali conclusioni dello studio di Eurofound, basate sull’analisi dei cinque casi di studio possono riassumersi
come segue:
Nel caso di flessibilità oraria decisa dal management, senza il coinvolgimento dei lavoratori, questa può
comunque essere adattata alle esigenze dei lavoratori e contribuire ad un migliore equilibrio vita-lavoro,
attraverso la negoziazione ed il dialogo sociale;
L’adattabilità alle esigenze dei lavoratori varia in relazione ai diversi paesi, ma soprattutto in relazione ai diversi
settori produttivi;
Per quanto concerne il legame tra flessibilità e produttività: la flessibilità oraria, pur introdotta per lo più allo
scopo di incrementare la produttività, adattando meglio gli orari alle esigenze produttive, sembra avere
un’influenza modesta sulla produttività, rispetto ad altre misure. In particolare, l’utilizzo di più leve integrate
aumenta la possibilità di una maggiore produttività (ad esempio: miglioramento dei processi produttivi,
maggiore informazione da parte del management, negoziazioni preliminari con la forza-lavoro);
Per quanto riguarda il legame tra flessibilità e conciliazione vita-lavoro:
o l’introduzione di orari di lavoro flessibili sembra avere un impatto positivo su conciliazione, benessere e
sicurezza dei lavoratori, soprattutto se influenzata dai lavoratori;
o alcuni tipi di flessibilità hanno effetti positivi sulle condizioni di lavoro in misura maggiore di altri (es.:
flexitime, in contrapposizione ad orari altamente variabili, lavoro a chiamata, turni variabili);
Nell’ambito degli accordi di flessibilità oraria, alcuni aspetti sono in grado di migliorare sia la produttività che le
condizioni di lavoro dei dipendenti, quali ad es.: la possibilità per i lavoratori di esprimere preferenze sul
proprio orario di lavoro; la gestione trasparente degli accordi di flessibilità, una migliore organizzazione dei
processi di lavoro; il Dialogo sociale e la negoziazione di accordi.
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