La scrittura ei dannati della terra

Transcript

La scrittura ei dannati della terra
La scrittura e i dannati della terra
Domenica 19 Maggio 2013 16:45
di Luis Sepúlveda, da Repubblica del 16/5/2013 - Suppongo che il primo documento che dà
voce a chi non ha voce sia il poema epico intitolato L’Auracana, scritto da un soldato poeta,
Alonso de Ercilla, che nel 1542 accompagnò García Hurtado de Mendoza nella conquista del
Cile. In quel poema, Ercilla testimonia il valore dell’Altro, dell’indio, di chi era diverso ma al
tempo stesso degno e coraggioso. Invece la testimonianza letteraria più nota di questo dar voce
a chi non ha, o non può far sentire, la propria voce è forse il J’accuse di Émile Zola, anche se in
realtà il capitano Dreyfus, malgrado l’enorme coraggio dell’articolo di Zola, non ebbe modo di
far conoscere il suo punto di vista e la verità non riuscì a imporsi in tutto il suo splendore.
Nella letteratura latinoamericana, a partire dal Settecento, sono molti gli esempi di scrittori che
hanno dato voce a chi non aveva alcuna possibilità di dire: «Esisto. Vivo e non sono invisibile».
Quando il cileno Baldomero Lillo pubblicò gli splendidi e durissimi racconti di Subterra e
Subsole, diede voce alla gente più miserabile in modo non meno efficace di Zola con
Germinale, soffermandosi però a identificare con assoluta chiarezza i responsabili delle
condizioni di vita poverissime, inumane, in cui consumavano le loro esistenze i minatori del
carbone nel Sud del Cile e i minatori del salnitro nel deserto di Atacama. Baldomero Lillo diede
la sua voce a questi uomini e a queste donne e contribuì a far entrare parole come giustizia e
diritto nel loro vocabolario di operai. Lo stesso si può dire del brasiliano Guimarães Rosa
perché, quando scrive Grande Sertão, sceglie come narratore un uomo che vaga in una terra
disastrata e attraverso quel racconto in linguaggio popolare avanza una durissima denuncia
sociale.
Nella nostra epoca, credo che lo scrittore più coerentemente impegnato a dar voce a chi non ha
voce sia stato il polacco Ryszard Kapuscinski. Un libro di racconti come Ebano ritrae l’identità
del continente africano nel suo sforzo di mettere fine al colonialismo e a una povertà che per le
potenze straniere era non meno naturale del colore della pelle degli africani.
Fortunatamente sono molti gli scrittori e le scrittrici che hanno compreso la dialettica implicita
nel dualismo persona- scrittore. Come persone abbiamo il dovere di stabilire un rapporto con la
vita e con la società improntato a un’etica rigorosa, che più è rigorosa più ci umanizza. Alla
letteratura siamo invece legati da un forte vincolo estetico. L’etica e l’estetica sono però
destinate a incrociarsi e quindi la cosa più interessante negli scrittori e nelle scrittrici che
apprezzo è che conferiscono alla loro letteratura la stessa carica etica con cui affrontano i fatti
sociali, mentre le loro vite si arricchiscono della stessa carica estetica che conferiscono alla
letteratura.
Non è un caso né un semplice stratagemma letterario che lo svedese Henning Mankell si serva
della trama di un noir scandinavo per dare voce alle vittime dell’apartheid in Sudafrica. Come
non è un caso che Doris Lessing abbia fatto della sua opera una continua tribuna da cui chi non
ha voce esprime la propria disillusione e al tempo stesso la propria speranza.
Per me è particolarmente difficile immaginare una letteratura priva del conflitto fra l’uomo e ciò
che gli impedisce di essere felice. Non potrei mai affrontare la letteratura, la scrittura, senza la
consapevolezza di essere la memoria del mio paese, del mio continente, di tutta l’umanità.
Mi sono trovato a vivere nella seconda parte del Ventesimo secolo, un secolo segnato dal
confronto tra due potenze che hanno fatto della guerra e della pace un ricatto per spaventarsi a
1/2
La scrittura e i dannati della terra
Domenica 19 Maggio 2013 16:45
vicenda, e hanno deciso che nelle rispettive zone d’influenza la libertà, la giustizia sociale e la
dignità fossero riservate all’élite.
So che a volte vengo considerato un individuo strano che sacrifica il suo talento e la sua
capacità di affermarsi (peccato che non abbia mai capito in cosa ci si possa affermare senza
schiacciare gli altri) e che spreca il suo tempo a raccontare storie di gente non molto
interessante.
E in effetti, per esempio, invece di raccontare l’audace vita di un uomo di affari che riesce a
diventare il maggior azionista di una fabbrica di rubinetti per l’acqua potabile, preferisco narrare
la storia di un umile idraulico preoccupato perché certi rubinetti gocciolano, perdono acqua, e
così, per evitarlo, al tramonto della sua vita condivide le proprie conoscenze con la gente umile
del quartiere, e gli do voce perché spieghi il portento dell’acqua, la duttilità di certi metalli, il
nesso che lega un attrezzo alla mano nell’esaudire un desiderio.
Qualche anno fa ho visitato il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Di quel posto sapevo
che, fra centinaia di migliaia di vittime dei nazisti, era stata assassinata anche una bambina,
Anne Frank, e che i suoi resti giacevano in una delle tante fosse comuni, delle tombe collettive,
dei monumenti all’orrore. Bergen-Belsen e tutti i campi di concentramento di qualsiasi luogo al
mondo sono posti che si visitano in silenzio, perché la voce si rifiuta di descrivere quello che
l’occhio vede, quello che vede la memoria, pur sapendo che dovremo compiere lo sforzo di
nominare tutto ciò che abbiamo visto con la forza inaugurale che hanno le parole.
In un angolo di Bergen-Belsen, vicino ai forni crematori, qualcuno — non so né chi né quando
— ha scritto delle parole che sono le fondamenta del mio essere scrittore, l’origine di tutto ciò
che scrivo. Quelle parole dicevano, dicono e continueranno a dire finché esiste gente decisa a
sacrificare la memoria: «Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia ». Mi sono
inginocchiato davanti a quelle parole e ho giurato che, chiunque le avesse scritte, io avrei
raccontato la sua storia, gli avrei dato la mia voce perché il suo silenzio smettesse di essere
una lapide carica del più infame degli oblii. Per questo scrivo.
2/2