46 - Marinai d`Italia
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46 - Marinai d`Italia
Drammi del mare dagli algerini” all’interno del consolato francese, in attesa del completamento delle formalità burocratiche. Fu così che la signora Balboni, moglie del cuoco di bordo Ferdinando, lo riconobbe e così avvenne per la madre del secondo ufficiale Dell’Andrea, che riconobbe il figlio, per i familiari del fuochista D’Onofrio, del marinaio di coperta Grafeo e del marconista Cesca: tutti firmarono, davanti ad un notaio, il riconoscimento “senza possibilità di equivoco”. È quindi possibile che alcuni membri dell’equipaggio, scampati al naufragio, abbiano preso fortunosamente terra finendo poi nelle mani (e nelle galere) degli insorti algerini. Che fine ha fatto la motonave Hedia Paolo Pagnottella C hi pensa che terribili naufragi in acque tempestose, intrighi internazionali, misteri del mare appartengano alla letteratura dell’ottocento, farebbe bene a leggere questo scritto, che vuole riportare all’attenzione un fatto, accaduto solamente cinquanta anni fa dalle nostre parti. Era il 14 marzo del 1962 quando l’Hedia, varato nel 1919 in Svezia, un mercantile di 4300 tonnellate di stazza, battente bandiera liberiana ma appartenente alla Compagnia Naviera General di Panama, con diciannove marinai italiani e un gallese a bordo, scomparve al largo delle coste dell’Africa Settentrionale. L’ultimo messaggio radio lanciato dal Comandante, Federico Agostinelli di Fano, fu captato anche dalla moglie – che possedeva in casa una ricetrasmittente per mantenere i contatti col marito – e riferiva che la nave stava attraversando una tempesta “forza 8”. Il “presunto” naufragio della Hedia fu subito seguito da voci contraddittorie, sospetti, illazioni: alcuni ipotizzarono perfino il siluramento da parte di unità della marina francese, impegnata in quelle acque a stroncare il contrabbando di armi verso la guerriglia indipendentista algerina, magari frutto di un tragico errore. Mi sembra che il tempo trascorso consenta ormai di sollevare il velo steso forse troppo frettolosamente sulla sorte toccata ai nostri marinai, vittime del mare o forse di un giallo, addirittura “il più incredibile giallo marinaro di questo secolo”, come si lesse sull’”Europeo”. La Hedia era all’ultimo viaggio prima della radiazione, quando partì da Ravenna il 16 febbraio 1962 diretta in Spagna, con uno scalo intermedio a Casablanca sulla rotta del ritorno. Si sa per certo che il 5 marzo la nave era a Burriana, dove scaricò alcune tonnellate di concimi chimici e il 10 successivo, a Casablanca, caricò quattromila tonnellate di fosfati, destinazione Venezia (ma è strano che nessun familiare 46 Marinai d’Italia Gennaio/Febbraio 2014 abbia mai ricevuto nemmeno una cartolina da Casablanca). Poi più nulla, solo quella segnalazione della tempesta nel canale di Sicilia. Quando iniziarono le ricerche in seguito al mancato ingresso nelle acque italiane – ricerche effettuate da unità della Marina Militare Italiana e statunitense – il mare era ancora forza 5. E cominciano le incongruenze: il 22 marzo il centro radio di Malta intercetta un messaggio lanciato “all’aria” dal comando del porto di Tunisi con il quale si dava informazione a tutti i natanti in navigazione che il giorno prima, 21 marzo, il mercantile Hedia aveva notificato la sua posizione a ridosso dell’isola di La Galite e si trovava in difficoltà causa mare. Questo messaggio sarà prima confermato poi in seguito smentito dalle autorità tunisine, ma determinò il concentramento delle ricerche in quella zona, (distraendo le unità da altre ?). Che cosa successe a bordo della nave, si chiede l’esperto marinaio, per non trovare il tempo di lanciare un “mayday”, quale evento così improvviso – e non certo una tempesta annunciata e affrontata coscientemente – colse di sorpresa l’equipaggio? Il 26 marzo tre pescherecci di Lampedusa, al rientro in porto, comunicano di avere recuperato alcuni rottami riconducibili alla nave: due salvagente con la scritta “Hedia-Monrovia”, una cintura di salvataggio con la scritta “Milly-Monrovia” (era il nominativo precedente della nave) e due pezzi di boccaporto sporchi di nafta. Sufficienti a dimostrare un naufragio? No di certo, poiché il mare in burrasca può strappare materiali mal rizzati o sistemati in coperta. Non per il signor Romeo Ceschia, triestino, padre del giovane marconista diciannovenne della Hedia, Claudio, che comincia a tempestare di telegrammi la presidenza della Repubblica, la RAI, il ministero della Marina Mercantile dal quale riceve una telefonata, il 27 marzo, annunciante che la nave è salva e sta risalendo l’Adriatico verso Venezia, salvo poi smentire la notizia il 30 marzo successivo. Egli allora invia un suo cugino a interrogare pescatori e autorità tunisine, ottenendo solamente il suggerimento di interpellare il governo francese: ma cosa c’entrava il governo francese? La fidanzata del marconista ottiene dalla Croce Rossa Internazionale che il quotidiano tunisino “La Presse” inserisca un articolo sulla Hedia, che suscita le ire del Ministero della Guerra francese: ancora una volta, come entra nella vicenda un ministero francese? Perché tanta suscettibilità? È lecito pensare che il comandante Agostinelli si sia trovato, a causa della tempesta, fuori rotta e, forse, in area sottoposta a vigilanza anticontrabbando da parte francese? C’entra qualcosa che Francia e Algeria stavano proprio in quei giorni trattando il cessate-il-fuoco che avrebbe poi condotto, il successivo 19 marzo, al trattato di pace di Evian, al quale non avrebbe certo giovato la notizia di un “siluramento” (anche se solo per errore) da parte francese? Erano certamente giorni “caldi” nell’area, dove l’OAS (Organization de l’Armèe Secrète), contraria agli accordi e all’indipendenza algerina, aveva iniziato la campagna di reazione e l’anarchia istituzionale era seguita alla firma dell’indipendenza (3 luglio 1962). In questo clima centinaia di persone furono rapite e rinchiuse in campi di prigionia. Il 14 settembre il giornale “Il Gazzettino di Venezia” pubblica una foto scattata da un reporter inglese dell’United Press che raffigura “un gruppo di prigionieri europei rilasciato Da Parigi, l’agenzia proprietaria della foto fa sapere che la medesima risaliva al 2 settembre, giorno in cui il consolato fu attaccato da fazioni rivali degli insorti algerini e, nella confusione generale, mentre i carri armati di Ben Bella circondano la città, si perdono le tracce degli occupanti (dunque, eventualmente, anche dei nostri marinai). Perché non hanno gridato al fotografo (e al cineoperatore che, si seppe poi, stava riprendendo la scena) di essere gli italiani della Hedia ? L’ultima puntata del mistero (o presunto tale) vede un giornalista veneziano, Vitaliano Pesante, recarsi in Algeria e rintracciare l’uomo più in vista della fotografia, tale Jean Solert, ex legionario, il quale nega che nel consolato fossero presenti degli Italiani e fornisce identità differenti degli uomini somiglianti ai nostri marinai, attribuendole a un cuoco di Algeri e a un ex-detenuto poi partito per Tolone (entrambi risultati poi irreperibili). Dopo qualche mese la Liberia chiede ai Lloyds di cancellare la Hedia dal registro navale, l’assicurazione paga l’armatore, la cassa marittima paga 400 mila lire a ogni famiglia per le spese funerarie e il Regno Unito fa sapere di considerare “presumibilmente morto” Anton Narusberg di Cardiff, l’unico straniero a bordo della nave. L’equipaggio della Hedia Federico Agostinelli di Fano Comandante Colombo Furlani di Fano Primo Ufficiale Elio Dell’Andrea di Venezia Secondo Ufficiale Otello Leonardi di Fano Direttore di macchina Michele Marangia di Molfetta Secondo Ufficiale di macchina Claudio Cesca di Trieste Marconista Nicola Caputi di Molfetta Marinaio Giovanni Pagan di Chioggia Marinaio Giorgio Bandiera di Mestre Capo fuochista Corrado Caputi di Molfetta Ingrassatore Dino Bullo di Chioggia Marinaio Giuseppe Orofino di Catania Fuochista Cosimo Gadaletta di Molfetta Marinaio Giovanni Salvagno di Chioggia Marinaio Ferdinando Balboni di Venezia Cuoco Damiano Bufi di Molfetta Marinaio Edoardo Nordio di Chioggia Marinaio Filippo Graffeo di Sciacca Marinaio Giuseppe Uva di Molfetta Giovanotto Anton Narusberg di Cardiff Macchinista A novembre di quest’anno Accursio Graffeo, pronipote del marinaio Filippo, ha reso nota una lettera scritta il 14 ottobre 1963 da Romeo Cesca, il padre del marconista Claudio, a sua madre. Nella missiva si afferma che durante la campagna elettorale del 1963 proprio la signora Graffeo (che volle sempre mantenere il segreto) entrò in contatto con un esponente della Democrazia Cristiana (il dott. F.) il quale le confermò di conoscere il destino della nave – che, a suo dire, effettuava contrabbando di armi in favore degli algerini – e di essere stato presente ad una telefonata del Ministro Plenipotenziario (sig. A.) ad una autorità estera. In quella telefonata, l’interlocutore straniero (francese?) disse che gli uomini dell’equipaggio erano tenuti prigionieri e che non sarebbero stati rilasciati fono a quando non avessero dichiarato per conto di quale governo avevano effettuato il trasporto. Entra ora nel gioco anche un parroco di Sciacca, don Michele Arena che, attivato dalla signora Graffeo, prese contatti con varie autorità, nazionali e francesi, riferendo che la notizia della detenzione era vera (don Arena era stato insignito della Legion d’Onore per l’opera prestata in favore delle vittime francesi del dirigibile Dixmude, precipitato in mare al largo di Sciacca nel 1923). I familiari chiesero al Ministero di interrogare il politico DC ed il plenipotenziario, ma la risposta fu che “essi, interrogati, negavano ogni cosa”. Oggi sono passati più di cinquant’anni da quei giorni di attesa, sofferenza, misteri, false piste e silenzi: l’Italia è in ottime relazioni diplomatiche con la Tunisia e l’Algeria, la Francia è con noi nell’Unione Europea, i politici e le politiche di quel tempo sono superarti e appartengono alla storia. Perché non tentare di sapere la verità, qualunque essa sia? Chi sa, può aiutarci a fare luce e dare qualche contributo serio, atto a svelare il mistero dei nostri marinai? Basta che non ci sia un altro Amintore Fanfani che, a margine di un incontro con i familiari dei dispersi, ebbe a dire “per venti persone non si può fare una guerra”. Vorrei anche ricordare che solo diciotto anni dopo quanto qui narrato, un altro caso, per certi versi analogo, è occorso ad altri connazionali: mi riferisco all’aereo di Ustica. In questo caso, magistrati, politici, giornalisti hanno tenuto desta la fiammella dell’interesse con caparbietà e tenacia, esaminando tutte le ipotesi, indagando senza soste fino a che, proprio pochi giorni or sono – seppure con trentatre anni di ritardo – si è addivenuti ad una sentenza definitiva che indica cause e modalità del sinistro. Forse che, come solito, i marinai sono “una razza a parte”, cittadini di serie minore? Vero è che già Tucidide sosteneva che esistono tre generi di umanità, i vivi, che interessano a tutti e di cui tutti si ricordano,i morti, che interessano a pochi e di cui pochi si ricordano e i marinai, che non interessano a nessuno e di cui nessuno si ricorda. Salvo che a noi, marinai d’Italia che vorremmo che ci fosse sempre giustizia per tutti, “un giudice a Berlino” e una legge uguale per tutti. nnn Marinai d’Italia Gennaio/Febbraio 2014 47