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Carpe diem
La vita da una parte toglie, dall’altra dà. Così, mentre cercavo di rimettere insieme quel che era rimasto di me dopo
la disastrosa pagina di Sonia (Mummi e i suoi genitori mi
portarono con loro in un viaggio in Sri Lanka per riprendermi), mi arrivò, del tutto inattesa, una proposta che avrebbe
cancellato ogni altro mio pensiero. Una mattina venne inaspettatamente a trovarmi a scuola Pierluigi Ronchetti: Gigi
Vesigna, suo direttore a “Tv Sorrisi e Canzoni”, di lì a qualche mese sarebbe uscito con un nuovo settimanale, “Noi: il
settimanale degli italiani”. Era un giornale ambizioso, almeno nei propositi dell’editore, Silvio Berlusconi: avrebbe
ben presto raggiunto il milione di copie (il milione sarebbe
rispuntato qualche anno dopo nei discorsi di Silvio...) e si
sarebbe imposto nel giro di pochi mesi come il settimanale popolare più amato dagli italiani.
Non andò affatto così, ma per fortuna a quei tempi non
potevo saperlo. Sulla carta era una grande sfida, non solo
editoriale. E per vincerla, Vesigna aveva bisogno di una
squadra nuova, giovane, piena di entusiasmo. “È la sua
grande occasione, professore. Se ha mai pensato di cambiare
vita, lasciando l’insegnamento per il giornalismo, questo è
il momento giusto. Le concedo qualche giorno per pensarci”. Aveva ragione. Era il famoso treno da prendere al volo.
Dentro di me conoscevo già la risposta. Ma lasciare l’inse95
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gnamento non era facile. Avevo costruito con il passare del
tempo un rapporto ideale con i ragazzi, avevo vissuto con
loro momenti indimenticabili, avevo contribuito a scoprire
talenti, a risolvere conflitti, a potenziare qualità. Abbandonare tutto questo mi sarebbe costato parecchio. Così come
abbandonare i padri Gesuiti: il Leone XIII era un ambiente
culturalmente stimolante, i corsi di aggiornamento per noi
insegnanti rappresentavano un’occasione di arricchimento
anche umano e unico nel suo genere. Nei corridoi di quella
scuola si respirava il sapore dei vecchi collegi, sospesi nel
tempo, immortalati dai grandi scrittori. Una sorta di isola felice, che certo non avrei trovato in nessuna redazione.
Ciononostante il richiamo del giornalismo era molto più
forte. Mi decisi perciò subito per la grande svolta. Ricordo
ancora il giorno in cui comunicai la mia scelta al Padre rettore, ai colleghi e soprattutto agli allievi: fiumi di lacrime,
biglietti, lettere di tristezza, ma anche di incoraggiamento, che ancora conservo gelosamente come la più bella testimonianza di un periodo della mia vita che non ritornerà mai più e a cui penso ancora oggi con infinita nostalgia.
Fu uno shock. Non mi viene in mente un’altra parola per
descrivere il passaggio dall’insegnamento alla vita di redazione. Mi ci volle, però, pochissimo tempo per capire che il
più forte lì dentro sarebbe stato chi era in grado di mostrare maggiori abilità nelle relazioni, nel fornire notizie e nel
rendersi sempre disponibile a viaggi e trasferte. Dopo anni
e anni passati sui banchi di scuola, in biblioteche o dietro
la gonna di una che mi aveva fatto fesso, quella vita faceva in tutto e per tutto al caso mio. Non conoscevo orari, mi
ubriacavo di lavoro, frequentavo la gente più assurda che
potesse fornirmi agganci, notizie, corsie preferenziali per
raggiungere un personaggio. A ripensarci ora mi chiedo
dove riuscissi a trovare la forza per sostenere quei ritmi,
senza ricorrere a droghe o a eccitanti. Me li sono visti sfilare sotto gli occhi troppo spesso nel corso di quegli anni e
tanti ci sono caduti, purtroppo: quante volte in case importanti, nel cuore di una festa o di una serata, i camerieri, su
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vassoi d’argento, servivano strisce di cocaina pronte all’uso
insieme a flûte di champagne. Non ho mai ceduto alla tentazione, semplicemente perché non ne avevo bisogno: io mi
divertivo sul serio, non dovevo fingere. Avevo troppi anni
da recuperare, non mi sembrava vero che mi pagassero per
divertirmi a quel modo. Notte dopo notte, la mia agenda
si faceva sempre più piena di contatti, di nomi importanti. In quella fase della mia carriera, che poi ha costituito la
base del mio successo, non ho mai trascurato nulla e nessuno. Truccatori e politici, sarte e amministratori delegati,
tassisti e grandi imprenditori: tutti sono stati per anni fonti indispensabili alle quali attingere.
Per assecondare quella nuova vita e non nuocere alla
tranquillità della mia famiglia, trovai finalmente un piccolo appartamento in affitto in zona Città Studi. Mamma
e papà, poveretti, facevano la spola tra Cormano e la mia
nuova abitazione per il cambio della biancheria e per rifornirmi il frigorifero. Ma il tempo che passavo a casa era veramente pochissimo. Il mattino ero fra i primi ad arrivare
in redazione e la sera iniziava per me una nuova giornata
di lavoro tra cene, feste, vernissage. Se oggi ho l’allergia a
qualsiasi evento mondano, se da direttore rifiuto qualsiasi
invito, anche i più istituzionali, è proprio perché di quel genere di cose ho fatto il pieno in passato. Quando ho capito
di aver dedicato tutto il mio tempo a persone di cui non mi
importava nulla e di avere trascurato chi davvero mi amava (“Tanto loro ci sono sempre” mi ripetevo), è stato troppo tardi. Ma a quei tempi non lo capivo. E forse è stato meglio così. Nel giro di pochi mesi, grazie a quella vita, mi misi
subito in buona luce agli occhi dei capi. Se per tutti all’inizio ero solo il “professorino” per bene, di buona cultura e
di belle speranze, a un certo punto incominciai a essere visto come un outsider, una vera sorpresa, una fonte di notizie indispensabile per mandare in edicola ogni settimana
il giornale. Per giunta, insieme allo spirito del “cane segugio”, la mia formazione classica, la mia curiosità, il mio carattere estroverso e disponibile mi rendevano estremamente
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facile entrare in confidenza con i vari personaggi, costruire
con loro un rapporto fatto di fiducia e di intimità che si sarebbe rivelato prezioso nel corso del tempo.
Il mio primo contributo importante per “Noi” fu un servizio di copertina che mi affidò direttamente il direttore,
Gigi Vesigna. “La prossima settimana lanceremo in copertina il concorso Bugatti. La nostra testimonial sarà Francesca Dellera. Trattamela bene, mi raccomando” mi disse
con il suo fare brusco. Io non avevo capito cosa Vesigna intendesse veramente con quel “trattamela bene”, ma ci impiegai poco per chiarirmi le idee. Era la donna più bella che
avessi mai visto. Occhi grandissimi, di un verde profondo,
pelle bianchissima, un seno rigoglioso, botticelliano. Viaggiava da Roma a Milano con l’aereo privato di Berlusconi,
circondata da un manipolo di servitori, oserei dire cicisbei,
sempre pronti a soddisfare ogni suo capriccio. Mi riferirono
immediatamente che in quel momento era una delle donne
più influenti e potenti nel mondo dello spettacolo, perché
aveva una relazione con Silvio Berlusconi. E per questo erano tutti terrorizzati ad avere rapporti con lei. Io la trovai divertente, a suo modo surreale. Entrammo subito in sintonia.
Dopo esserci conosciuti, passavamo intere serate al telefono a parlare e a sparlare di tutto e di tutti. In particolare di
quella che lei definiva, senza mai nominarla direttamente,
“il mostro”, cioè la sua rivale in amore. Una sera mi invitò
a casa sua, nell’attico che possedeva ai Parioli. “Ti aspetto
per mezzanotte.” Per ingannare l’attesa mi feci un piatto
di pappardelle al sugo di lepre in una vecchia trattoria di
Roma. Ero emozionatissimo: in quegli anni essere invitati
a casa della Dellera era come essere ricevuti da Maria Antonietta ai tempi degli splendori di Francia. Non era proprio roba da tutti. Quando suonai il campanello, ebbi come
una visione. Francesca indossava un top di seta color carne
che metteva in risalto il suo meraviglioso décolleté, i fianchi erano fasciati da un paio di pantaloni pigiama palazzo di seta marrone. Avevo il sangue alla testa. Dopo poche
parole, io e lei seduti vicinissimi sulla sua chaise-longue,
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non so se per l’agitazione o per il freddo, fui vittima di una
congestione colossale. “Ti spiace se vado un attimo in bagno?” le chiesi, madido di sudore. “Figurati, fai pure...” Mi
ritrovai dopo un minuto con la testa infilata nel water della
Dellera a vomitare anche l’anima. E lei, che dai versi disumani che facevo aveva capito tutto, fuori dalla porta, con
il suo top mozzafiato, mi gridava: “Oddio, stai male? Poveraccio. Vuoi che ti faccia un canarino?”. Fra un conato e
l’altro mi incazzavo sempre più con me stesso. Mi trovavo
con una delle donne più desiderate dagli italiani, e io che
facevo? All’una di notte vomitavo pappardelle e pezzi di
lepre nel suo bagno. Ma fino a quando, mi chiedevo, la maledizione di Fantozzi avrebbe continuato a perseguitarmi?
Quando scendevo a Roma per un servizio o un’intervista, ne approfittavo sempre per perdermi in qualche chiesa.
Si respira aria di buono, di pulito nelle chiese barocche di
Roma: il profumo dell’olio con cui il sacrista, perlopiù indiano o filippino, lucidava le panche, mescolato a quello
dei fiori e dei ceri, la bella luce che filtrava dagli ampi finestroni, il silenzio che contrastava con il rumore spesso assordante della città... Le ho sempre trovate uniche e
speciali. Ed è proprio in una di queste chiese che una mattina mi si avvicinò una signora. “Senta, mi scusi se la disturbo, ma vedo che lei viene spesso qui a pregare. Non è
cosa di tutti i giorni trovare un giovane come lei che passa tanto tempo qui dentro. Mi fa tanto piacere.” Le parlai
del mio amore per quei luoghi, dell’atmosfera di particolare raccoglimento che vi si respirava e lei, prendendomi
la mano nella sua, così fredda e fragile, mi disse con una
voce dolce: “Entrare in una chiesa di Roma è come ritornare nel grembo della mamma. Fa stare bene”. Quella signora era Giulietta Masina. Da quel giorno, ogni volta che
mi capitava di andare a Roma, passavo verso le undici del
mattino in quella chiesa, sicuro di trovarla lì, seduta su una
panca con la sorella Matilde, che la accompagnava e la sorreggeva con amore. Quante mattine abbiamo trascorso sottobraccio a chiacchierare delle nostre vite. Lei era appena
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uscita dall’ospedale e sapeva di essere condannata. Ma il
suo maggiore rimpianto, senza che mai versasse una lacrima, era di non poter condividere un momento così delicato
e cruciale con il compagno della sua vita, Federico Fellini,
ricoverato al Gemelli per una malattia incurabile. “Insieme
per tutta la vita, separati nella fine. Ecco, questa è la cosa
più ingiusta di cui chiedo ragione al Signore ogni giorno. E
non mi ha ancora risposto.” Mentre la accompagnavo nella sua casa di via Margutta, le raccontavo di me, della mia
nuova vita, di quanto mi mancassero i miei ragazzi, dei corridoi austeri della mia scuola. “Ritorni a insegnare, mi dia
retta. Il mondo delle luci spegne soltanto.” Giulietta teneva sempre con sé una lettera spiegazzata che il suo Federico le aveva scritto dall’ospedale. Ogni tanto me ne leggeva qualche frase, con voce bassa, velata dalla malinconia.
Era la più bella lettera d’amore che io avessi mai ascoltato.
Quando, dopo la morte di entrambi, spuntava ogni due per
tre una delle ennesime amanti di Fellini, smaniose di ribalta e di pubblicità, avrei tanto voluto che la gente conoscesse le parole meravigliose che Federico aveva rivolto a sua
moglie alla fine della vita dal suo letto di sofferenza. Sarebbero bastate per mettere a tacere qualsiasi insinuazione. Ma
Giulietta e Federico non sarebbero stati d’accordo e quella
lettera, che entrambi consideravano come una sorta di testamento spirituale della loro vita insieme, è stata sepolta
accanto a Giulietta.
Un giorno ricevetti una sua telefonata. “Alfonso caro, ho
una bella notizia da darle. Il mio Federico ha avuto il permesso dall’ospedale e domenica viene a trovarmi. È un giorno speciale, sa? Festeggeremo cinquant’anni di matrimonio. Venga a salutarci, ci farà piacere. Gli ho parlato delle
nostre belle passeggiate e sarà anche per lei una bella cosa
passare qualche ora con lui. Dico solo qualche ora, perché
vogliamo starcene un po’ da soli. Lei capirà...” Quel giorno, quando arrivai davanti a casa Fellini, c’era una ressa incredibile. Paparazzi, giornalisti, ma anche gente di Roma
che voleva stringere in un abbraccio chi aveva racconta100
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to quella città in modo straordinario e con tanta sensibilità. Verso mezzogiorno arrivò l’ambulanza che trasportava
il regista. Quando gli sportelloni si aprirono, un rispettoso silenzio scese sulla piccola via piena di folla. Fellini era
ormai l’ombra di se stesso, teneva la testa chinata sul petto, protetto da un ampio cappello. Due infermieri lo misero con fare sbrigativo su una sedia a rotelle. Improvvisamente scoppiò l’inferno. I paparazzi incominciarono a
scattare. Vedere quell’uomo, gravemente malato, sotto la
pioggia impietosa dei flash faceva stringere il cuore. A un
certo punto, per far ritornare la calma, un fotografo sbottò
a voce alta: “Ahó, che state a spigne a fà? Che tanto quello mica pò scappà”. A quelle parole Fellini alzò la testa e la
sua bocca si trasformò in un ghigno disincantato, ma anche disperato, più eloquente di mille parole. Era il saluto del mondo che aveva raccontato per una vita intera, la
scena più bella e drammatica di un film che non avrebbe
mai girato. Quei pochi minuti mi lasciarono una tale amarezza che non ebbi più il coraggio di disturbare Giulietta
e Federico: era giusto che si ritrovassero per l’ultima volta insieme, senza intrusi. Avevo fallito uno scoop, perché
tutti in quel momento avrebbero voluto raccontare quella
domenica a casa Fellini, ma mi parve giusto così. “Grazie,
perché lei ha capito. Se vuole, ci facciamo ancora una bella
chiacchierata delle nostre e questa volta la potrà pubblicare”: è stato l’ultimo regalo di Giulietta Masina, il racconto
dei suoi cinquant’anni di vita e di amore accanto a Federico Fellini. Una delle più belle interviste che ho realizzato e
che conservo con più affetto.
La vita a “Noi” procedeva tra alti e bassi. Il giornale, pur
sostenuto da una grande campagna pubblicitaria, navigava al di sotto delle aspettative. Eppure nei suoi due anni di
vita per me è stato una scuola e una palestra formidabili. Ho
percorso in pochissimo tempo tutta la gavetta necessaria a
farmi le ossa. Spesso, per punire la mia esuberanza e il fatto che con le mie interviste e i miei contatti toglievo spazio
alle firme di inviati di ben più lunga fama e carriera, i capi
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mi davano un sacco di bozze da correggere. A quei tempi
i testi uscivano ancora dalle tipografie, la digitalizzazione
sarebbe arrivata molto più tardi. E così ci si sporcava ancora le mani di nero correggendo refusi o riscrivendo interi
articoli di collaboratori, raccomandatissimi ma totalmente
incapaci di elaborare una frase sensata. Io accettavo senza
fiatare quel lavoro “sporco” (in gergo lo si chiamava così,
per via delle dita annerite dai piombi della tipografia), ben
sapendo che tutto avrebbe contribuito a fare di me un professionista. Ancora oggi mi trovo, da direttore, a riscrivere sommari e didascalie o a evidenziare refusi in un batter
d’occhio: è un valore aggiunto, che devo a quell’esperienza. E così oggi dico grazie a quei colleghi che, pensando di
mortificarmi, hanno involontariamente contribuito a fare
di me quel che sono adesso.
Negli ultimi mesi di vita, “Noi” mi regalò un’altra grande emozione: l’incontro con Marcello Mastroianni. Erano
gli ultimi mesi del 1994 e Mastroianni era a Lisbona, impegnato sul set di Sostiene Pereira, insieme con Stefano Dionisi e Nicoletta Braschi. Non era facile riuscire a strappare
al grande attore un’intervista, ma la mia insistenza e un
buon rapporto con il suo ufficio stampa di allora riuscirono nel miracolo. Sull’aereo che mi portava in Portogallo
ero euforico. Ripensavo a tutti i suoi film, da La dolce vita
a Oci ciornie, e riflettevo sulla bellezza del mio lavoro, che
mi dava la possibilità di conoscere e di raccontare il vissuto, le emozioni di chi fino a pochi anni prima avevo visto
e ammirato solo al cinema o in TV. Arrivai a Lisbona che
era già tardi. Raggiunsi l’albergo quando il ristorante era
ormai chiuso. “Non importa, prenderò qualcosa al bar”
dissi al portiere che si scusava per il disagio. In fondo al
bar, seduto al bancone in penombra, c’era solo un vecchio.
Con una mano teneva la sigaretta, con l’altra un bicchiere
di whisky. Tremava e aveva lo sguardo perso nel vuoto.
Quell’immagine mi trasmise subito una profonda tristezza, un disagio inquietante. Solo in un secondo momento,
guardando un po’ meglio, mi accorsi che quel vecchio era
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Marcello Mastroianni. Non sapevo che fare. Da un lato non
volevo violare quel bisogno così intimo di solitudine con
la mia presenza, dall’altro non volevo perdere l’occasione
per presentarmi e creare un clima di maggiore familiarità
con lui. Così mi avvicinai. “Signor Mastroianni, buonasera.
Sono Alfonso Signorini, il giornalista di ‘Noi’: abbiamo appuntamento domani a mezzogiorno sul set per l’intervista.
Mi scusi se la importuno, ma quando l’ho vista qui non ho
potuto fare a meno di venire a salutarla. Per me è un onore
conoscerla e avere l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere con lei...” Parlavo, parlavo, parlavo per riempire il
silenzio. Mi sembrava di essere ritornato a vendere le enciclopedie porta a porta. A un tratto Mastroianni, che fino
a quel momento non aveva distolto lo sguardo dal suo bicchiere, alzò la testa e mi guardò, attraverso una nuvola di
fumo. “Da dove viene lei?” E io: “Da Milano. Ho preso l’ultimo aereo per Lisbona, così sono arrivato qua che il ristorante era già chiuso e...”. “E lei è venuto fin qua per sentire
le mie stronzate?” Con quella battuta mi raggelò. Comunque avessi risposto, avrei sbagliato. Stavo per riaggiustare
i pensieri quando Mastroianni aggiunse: “Adesso mi lasci
solo, per cortesia. A domani”. Il tono era davvero scortese.
Il classico attore che se la tira da grande intellettuale, pensai. La mia prima delusione professionale. Il mattino dopo
mi alzai dal letto controvoglia. Non potevo essere certo entusiasta di confrontarmi con una persona che si era mostrata così distante e che non nascondeva di non avere nessuna
voglia di dividere il suo tempo con me. Ma il mio rispetto per il dovere ebbe il sopravvento e alle dodici meno un
quarto mi presentai sul set. Era un viavai nevrotico, inconsulto, di macchinisti, operatori di scena, truccatori. Ogni
tanto si sentivano le urla di Roberto Faenza, il regista, mentre la Braschi e Mastroianni se la ridevano tra loro. Durante una pausa, Mastroianni mi passò davanti, ignorandomi
completamente. Al ritorno lo salutai con enfasi: “Maestro,
buongiorno”. Niente. Come se fossi trasparente. Il tempo
passava. Mezzogiorno, la mezza, l’una, l’una e tre quarti.
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Con il terrore di perdere l’aereo che avevo alle otto mi precipitai da un assistente di scena. “Senta, io a mezzogiorno avevo appuntamento con Mastroianni. Sono quasi le
due. Che facciamo? Mica dovremo fare notte qui.” Quello allargò le braccia, scosse la testa e se ne andò biascicando: “Che vuole che le dica? Sono artisti. Loro sono artisti”.
“Stop. Pausa pranzo. Si riprende tra un’ora”: finalmente il
direttore di scena aveva imposto una pausa. Passò qualche
minuto e vidi che Mastroianni si stava avvicinando. Teneva in mano un contenitore di plastica, di quelli alimentari, sì insomma, la classica schiscetta. “Mi segua, Signorini.
Facciamo ’sta benedetta intervista.” Incominciò a mangiare
lentamente fagioli e cotenne di maiale. “Forza, che aspetta?” mi disse, senza sollevare lo sguardo dal pasto. “Qual
è la prima stronzata che le viene in mente che io possa scrivere?” gli chiesi con la mia solita incoscienza. Lui sospese
il boccone per aria, con aria teatrale, mi guardò e proruppe in una sonora risata. Rompemmo il ghiaccio così. Andammo avanti a parlare per almeno due ore, infischiandocene del tempo che passava, dei rimbrotti del direttore di
scena, del mio aereo delle otto. Parlammo della normalità
e della straordinarietà della vita. Ricordo che cominciai il
pezzo scrivendo: “Sono andato sulle montagne russe con
un compagno d’eccezione, Marcello Mastroianni. Vi spiego
perché”. Inutile dire che ero entusiasta. Avevo ottimo materiale per organizzare l’intervista in due puntate, cosa che
feci, ricevendo complimenti da parte di tutti.
Un mese dopo, mi squillò il telefono. “Signorini? Sono
Mastroianni, buongiorno.” Avevo il cuore in gola. Temevo di avere scritto qualcosa che non gli andava a genio, di
averlo ferito. “Senta, lei capita mai a Roma?” “Ci devo venire giusto domani” gli risposi, mentendo clamorosamente. “Bene, allora la aspetto a casa mia. Si segni l’indirizzo.”
Il giorno dopo, verso le sei di sera, ero a casa Mastroianni.
Venne ad aprirmi Flora, sua moglie, che se ne stava seduta su un piccolo divano a fare il mezzopunto. “Caro Signorini, come sta? Sa che ho letto i suoi pezzi tutti d’un fiato?
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Complimenti. Sono sicuro che lei farà strada, ha una bella penna. E raramente sbaglio, soprattutto quando scrivono di me. Per sdebitarmi ora le darò uno scoop, ma con
una promessa. Non dovrà scrivere nulla.” “Be’, questa sì
che è una stronzata. Togliere uno scoop a un giornalista è
come togliere un piatto di fagioli con le cotiche a uno che
sta crepando di fame dopo sei ore di set. Però, non mi resta che ubbidire, visto che il padrone di casa è lei.” Ci facemmo una bella risata e poi, prendendomi sottobraccio,
mi disse: “E adesso venga con me”. Mi condusse in bagno. Mi scappò un sorriso. “Che c’è da ridere, Signorini?”
“Nulla, è che con i bagni ho una certa dimestichezza” gli
risposi, pensando a quello della Dellera di qualche mese
prima. Lui, ovviamente, non capì e mi domandò: “Cosa
vede davanti a lei?”. “Be’, vedo un bagno. Me lo immaginavo però più spazioso...” “Lei non è un giornalista attento. Guardi bene.” A quelle parole cercai di concentrarmi e
di osservare meglio, ma, nonostante gli sforzi, in quel bagno non riuscivo a trovare proprio nulla di particolare. “Lo
vede lo sciacquone?” Non potevo credere ai miei occhi. Sopra il water, in bella mostra, c’erano il César che gli era stato consegnato due anni prima e il David di Donatello che
aveva vinto con Oci ciornie. Mi brillavano gli occhi. Quella sì che sarebbe stata una foto straordinaria! Avrebbe fatto
di sicuro il giro del mondo. “Sa, li tengo lì per ricordarmi
di non montarmi troppo la testa. In fondo è quello il posto giusto. Si ricordi questa scena, quando comincerà a salire in alto.” Flora ci preparò un ottimo caffè. Nell’accompagnarmi alla porta, Marcello Mastroianni seppe stupirmi
più di quanto non avesse fatto qualche minuto prima e si
congedò da me a modo suo, dandomi la sua ultima, grande lezione. “Sa, Signorini, io le devo delle scuse.” “Ma che
dice, Maestro?” “Quale Maestro, mi lasci parlare. Non mi
sono comportato bene con lei quella sera a Lisbona e neppure la mattina dopo sul set. Ma sono un uomo malato. E
quando si è malati, mi creda, si diventa gelosi perfino del
tempo.” Un anno dopo morì.
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