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Carpe diem La vita da una parte toglie, dall’altra dà. Così, mentre cercavo di rimettere insieme quel che era rimasto di me dopo la disastrosa pagina di Sonia (Mummi e i suoi genitori mi portarono con loro in un viaggio in Sri Lanka per riprendermi), mi arrivò, del tutto inattesa, una proposta che avrebbe cancellato ogni altro mio pensiero. Una mattina venne inaspettatamente a trovarmi a scuola Pierluigi Ronchetti: Gigi Vesigna, suo direttore a “Tv Sorrisi e Canzoni”, di lì a qualche mese sarebbe uscito con un nuovo settimanale, “Noi: il settimanale degli italiani”. Era un giornale ambizioso, almeno nei propositi dell’editore, Silvio Berlusconi: avrebbe ben presto raggiunto il milione di copie (il milione sarebbe rispuntato qualche anno dopo nei discorsi di Silvio...) e si sarebbe imposto nel giro di pochi mesi come il settimanale popolare più amato dagli italiani. Non andò affatto così, ma per fortuna a quei tempi non potevo saperlo. Sulla carta era una grande sfida, non solo editoriale. E per vincerla, Vesigna aveva bisogno di una squadra nuova, giovane, piena di entusiasmo. “È la sua grande occasione, professore. Se ha mai pensato di cambiare vita, lasciando l’insegnamento per il giornalismo, questo è il momento giusto. Le concedo qualche giorno per pensarci”. Aveva ragione. Era il famoso treno da prendere al volo. Dentro di me conoscevo già la risposta. Ma lasciare l’inse95 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 95 06/10/14 14:25 gnamento non era facile. Avevo costruito con il passare del tempo un rapporto ideale con i ragazzi, avevo vissuto con loro momenti indimenticabili, avevo contribuito a scoprire talenti, a risolvere conflitti, a potenziare qualità. Abbandonare tutto questo mi sarebbe costato parecchio. Così come abbandonare i padri Gesuiti: il Leone XIII era un ambiente culturalmente stimolante, i corsi di aggiornamento per noi insegnanti rappresentavano un’occasione di arricchimento anche umano e unico nel suo genere. Nei corridoi di quella scuola si respirava il sapore dei vecchi collegi, sospesi nel tempo, immortalati dai grandi scrittori. Una sorta di isola felice, che certo non avrei trovato in nessuna redazione. Ciononostante il richiamo del giornalismo era molto più forte. Mi decisi perciò subito per la grande svolta. Ricordo ancora il giorno in cui comunicai la mia scelta al Padre rettore, ai colleghi e soprattutto agli allievi: fiumi di lacrime, biglietti, lettere di tristezza, ma anche di incoraggiamento, che ancora conservo gelosamente come la più bella testimonianza di un periodo della mia vita che non ritornerà mai più e a cui penso ancora oggi con infinita nostalgia. Fu uno shock. Non mi viene in mente un’altra parola per descrivere il passaggio dall’insegnamento alla vita di redazione. Mi ci volle, però, pochissimo tempo per capire che il più forte lì dentro sarebbe stato chi era in grado di mostrare maggiori abilità nelle relazioni, nel fornire notizie e nel rendersi sempre disponibile a viaggi e trasferte. Dopo anni e anni passati sui banchi di scuola, in biblioteche o dietro la gonna di una che mi aveva fatto fesso, quella vita faceva in tutto e per tutto al caso mio. Non conoscevo orari, mi ubriacavo di lavoro, frequentavo la gente più assurda che potesse fornirmi agganci, notizie, corsie preferenziali per raggiungere un personaggio. A ripensarci ora mi chiedo dove riuscissi a trovare la forza per sostenere quei ritmi, senza ricorrere a droghe o a eccitanti. Me li sono visti sfilare sotto gli occhi troppo spesso nel corso di quegli anni e tanti ci sono caduti, purtroppo: quante volte in case importanti, nel cuore di una festa o di una serata, i camerieri, su 96 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 96 06/10/14 14:25 vassoi d’argento, servivano strisce di cocaina pronte all’uso insieme a flûte di champagne. Non ho mai ceduto alla tentazione, semplicemente perché non ne avevo bisogno: io mi divertivo sul serio, non dovevo fingere. Avevo troppi anni da recuperare, non mi sembrava vero che mi pagassero per divertirmi a quel modo. Notte dopo notte, la mia agenda si faceva sempre più piena di contatti, di nomi importanti. In quella fase della mia carriera, che poi ha costituito la base del mio successo, non ho mai trascurato nulla e nessuno. Truccatori e politici, sarte e amministratori delegati, tassisti e grandi imprenditori: tutti sono stati per anni fonti indispensabili alle quali attingere. Per assecondare quella nuova vita e non nuocere alla tranquillità della mia famiglia, trovai finalmente un piccolo appartamento in affitto in zona Città Studi. Mamma e papà, poveretti, facevano la spola tra Cormano e la mia nuova abitazione per il cambio della biancheria e per rifornirmi il frigorifero. Ma il tempo che passavo a casa era veramente pochissimo. Il mattino ero fra i primi ad arrivare in redazione e la sera iniziava per me una nuova giornata di lavoro tra cene, feste, vernissage. Se oggi ho l’allergia a qualsiasi evento mondano, se da direttore rifiuto qualsiasi invito, anche i più istituzionali, è proprio perché di quel genere di cose ho fatto il pieno in passato. Quando ho capito di aver dedicato tutto il mio tempo a persone di cui non mi importava nulla e di avere trascurato chi davvero mi amava (“Tanto loro ci sono sempre” mi ripetevo), è stato troppo tardi. Ma a quei tempi non lo capivo. E forse è stato meglio così. Nel giro di pochi mesi, grazie a quella vita, mi misi subito in buona luce agli occhi dei capi. Se per tutti all’inizio ero solo il “professorino” per bene, di buona cultura e di belle speranze, a un certo punto incominciai a essere visto come un outsider, una vera sorpresa, una fonte di notizie indispensabile per mandare in edicola ogni settimana il giornale. Per giunta, insieme allo spirito del “cane segugio”, la mia formazione classica, la mia curiosità, il mio carattere estroverso e disponibile mi rendevano estremamente 97 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 97 06/10/14 14:25 facile entrare in confidenza con i vari personaggi, costruire con loro un rapporto fatto di fiducia e di intimità che si sarebbe rivelato prezioso nel corso del tempo. Il mio primo contributo importante per “Noi” fu un servizio di copertina che mi affidò direttamente il direttore, Gigi Vesigna. “La prossima settimana lanceremo in copertina il concorso Bugatti. La nostra testimonial sarà Francesca Dellera. Trattamela bene, mi raccomando” mi disse con il suo fare brusco. Io non avevo capito cosa Vesigna intendesse veramente con quel “trattamela bene”, ma ci impiegai poco per chiarirmi le idee. Era la donna più bella che avessi mai visto. Occhi grandissimi, di un verde profondo, pelle bianchissima, un seno rigoglioso, botticelliano. Viaggiava da Roma a Milano con l’aereo privato di Berlusconi, circondata da un manipolo di servitori, oserei dire cicisbei, sempre pronti a soddisfare ogni suo capriccio. Mi riferirono immediatamente che in quel momento era una delle donne più influenti e potenti nel mondo dello spettacolo, perché aveva una relazione con Silvio Berlusconi. E per questo erano tutti terrorizzati ad avere rapporti con lei. Io la trovai divertente, a suo modo surreale. Entrammo subito in sintonia. Dopo esserci conosciuti, passavamo intere serate al telefono a parlare e a sparlare di tutto e di tutti. In particolare di quella che lei definiva, senza mai nominarla direttamente, “il mostro”, cioè la sua rivale in amore. Una sera mi invitò a casa sua, nell’attico che possedeva ai Parioli. “Ti aspetto per mezzanotte.” Per ingannare l’attesa mi feci un piatto di pappardelle al sugo di lepre in una vecchia trattoria di Roma. Ero emozionatissimo: in quegli anni essere invitati a casa della Dellera era come essere ricevuti da Maria Antonietta ai tempi degli splendori di Francia. Non era proprio roba da tutti. Quando suonai il campanello, ebbi come una visione. Francesca indossava un top di seta color carne che metteva in risalto il suo meraviglioso décolleté, i fianchi erano fasciati da un paio di pantaloni pigiama palazzo di seta marrone. Avevo il sangue alla testa. Dopo poche parole, io e lei seduti vicinissimi sulla sua chaise-longue, 98 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 98 06/10/14 14:25 non so se per l’agitazione o per il freddo, fui vittima di una congestione colossale. “Ti spiace se vado un attimo in bagno?” le chiesi, madido di sudore. “Figurati, fai pure...” Mi ritrovai dopo un minuto con la testa infilata nel water della Dellera a vomitare anche l’anima. E lei, che dai versi disumani che facevo aveva capito tutto, fuori dalla porta, con il suo top mozzafiato, mi gridava: “Oddio, stai male? Poveraccio. Vuoi che ti faccia un canarino?”. Fra un conato e l’altro mi incazzavo sempre più con me stesso. Mi trovavo con una delle donne più desiderate dagli italiani, e io che facevo? All’una di notte vomitavo pappardelle e pezzi di lepre nel suo bagno. Ma fino a quando, mi chiedevo, la maledizione di Fantozzi avrebbe continuato a perseguitarmi? Quando scendevo a Roma per un servizio o un’intervista, ne approfittavo sempre per perdermi in qualche chiesa. Si respira aria di buono, di pulito nelle chiese barocche di Roma: il profumo dell’olio con cui il sacrista, perlopiù indiano o filippino, lucidava le panche, mescolato a quello dei fiori e dei ceri, la bella luce che filtrava dagli ampi finestroni, il silenzio che contrastava con il rumore spesso assordante della città... Le ho sempre trovate uniche e speciali. Ed è proprio in una di queste chiese che una mattina mi si avvicinò una signora. “Senta, mi scusi se la disturbo, ma vedo che lei viene spesso qui a pregare. Non è cosa di tutti i giorni trovare un giovane come lei che passa tanto tempo qui dentro. Mi fa tanto piacere.” Le parlai del mio amore per quei luoghi, dell’atmosfera di particolare raccoglimento che vi si respirava e lei, prendendomi la mano nella sua, così fredda e fragile, mi disse con una voce dolce: “Entrare in una chiesa di Roma è come ritornare nel grembo della mamma. Fa stare bene”. Quella signora era Giulietta Masina. Da quel giorno, ogni volta che mi capitava di andare a Roma, passavo verso le undici del mattino in quella chiesa, sicuro di trovarla lì, seduta su una panca con la sorella Matilde, che la accompagnava e la sorreggeva con amore. Quante mattine abbiamo trascorso sottobraccio a chiacchierare delle nostre vite. Lei era appena 99 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 99 06/10/14 14:25 uscita dall’ospedale e sapeva di essere condannata. Ma il suo maggiore rimpianto, senza che mai versasse una lacrima, era di non poter condividere un momento così delicato e cruciale con il compagno della sua vita, Federico Fellini, ricoverato al Gemelli per una malattia incurabile. “Insieme per tutta la vita, separati nella fine. Ecco, questa è la cosa più ingiusta di cui chiedo ragione al Signore ogni giorno. E non mi ha ancora risposto.” Mentre la accompagnavo nella sua casa di via Margutta, le raccontavo di me, della mia nuova vita, di quanto mi mancassero i miei ragazzi, dei corridoi austeri della mia scuola. “Ritorni a insegnare, mi dia retta. Il mondo delle luci spegne soltanto.” Giulietta teneva sempre con sé una lettera spiegazzata che il suo Federico le aveva scritto dall’ospedale. Ogni tanto me ne leggeva qualche frase, con voce bassa, velata dalla malinconia. Era la più bella lettera d’amore che io avessi mai ascoltato. Quando, dopo la morte di entrambi, spuntava ogni due per tre una delle ennesime amanti di Fellini, smaniose di ribalta e di pubblicità, avrei tanto voluto che la gente conoscesse le parole meravigliose che Federico aveva rivolto a sua moglie alla fine della vita dal suo letto di sofferenza. Sarebbero bastate per mettere a tacere qualsiasi insinuazione. Ma Giulietta e Federico non sarebbero stati d’accordo e quella lettera, che entrambi consideravano come una sorta di testamento spirituale della loro vita insieme, è stata sepolta accanto a Giulietta. Un giorno ricevetti una sua telefonata. “Alfonso caro, ho una bella notizia da darle. Il mio Federico ha avuto il permesso dall’ospedale e domenica viene a trovarmi. È un giorno speciale, sa? Festeggeremo cinquant’anni di matrimonio. Venga a salutarci, ci farà piacere. Gli ho parlato delle nostre belle passeggiate e sarà anche per lei una bella cosa passare qualche ora con lui. Dico solo qualche ora, perché vogliamo starcene un po’ da soli. Lei capirà...” Quel giorno, quando arrivai davanti a casa Fellini, c’era una ressa incredibile. Paparazzi, giornalisti, ma anche gente di Roma che voleva stringere in un abbraccio chi aveva racconta100 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 100 06/10/14 14:25 to quella città in modo straordinario e con tanta sensibilità. Verso mezzogiorno arrivò l’ambulanza che trasportava il regista. Quando gli sportelloni si aprirono, un rispettoso silenzio scese sulla piccola via piena di folla. Fellini era ormai l’ombra di se stesso, teneva la testa chinata sul petto, protetto da un ampio cappello. Due infermieri lo misero con fare sbrigativo su una sedia a rotelle. Improvvisamente scoppiò l’inferno. I paparazzi incominciarono a scattare. Vedere quell’uomo, gravemente malato, sotto la pioggia impietosa dei flash faceva stringere il cuore. A un certo punto, per far ritornare la calma, un fotografo sbottò a voce alta: “Ahó, che state a spigne a fà? Che tanto quello mica pò scappà”. A quelle parole Fellini alzò la testa e la sua bocca si trasformò in un ghigno disincantato, ma anche disperato, più eloquente di mille parole. Era il saluto del mondo che aveva raccontato per una vita intera, la scena più bella e drammatica di un film che non avrebbe mai girato. Quei pochi minuti mi lasciarono una tale amarezza che non ebbi più il coraggio di disturbare Giulietta e Federico: era giusto che si ritrovassero per l’ultima volta insieme, senza intrusi. Avevo fallito uno scoop, perché tutti in quel momento avrebbero voluto raccontare quella domenica a casa Fellini, ma mi parve giusto così. “Grazie, perché lei ha capito. Se vuole, ci facciamo ancora una bella chiacchierata delle nostre e questa volta la potrà pubblicare”: è stato l’ultimo regalo di Giulietta Masina, il racconto dei suoi cinquant’anni di vita e di amore accanto a Federico Fellini. Una delle più belle interviste che ho realizzato e che conservo con più affetto. La vita a “Noi” procedeva tra alti e bassi. Il giornale, pur sostenuto da una grande campagna pubblicitaria, navigava al di sotto delle aspettative. Eppure nei suoi due anni di vita per me è stato una scuola e una palestra formidabili. Ho percorso in pochissimo tempo tutta la gavetta necessaria a farmi le ossa. Spesso, per punire la mia esuberanza e il fatto che con le mie interviste e i miei contatti toglievo spazio alle firme di inviati di ben più lunga fama e carriera, i capi 101 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 101 06/10/14 14:25 mi davano un sacco di bozze da correggere. A quei tempi i testi uscivano ancora dalle tipografie, la digitalizzazione sarebbe arrivata molto più tardi. E così ci si sporcava ancora le mani di nero correggendo refusi o riscrivendo interi articoli di collaboratori, raccomandatissimi ma totalmente incapaci di elaborare una frase sensata. Io accettavo senza fiatare quel lavoro “sporco” (in gergo lo si chiamava così, per via delle dita annerite dai piombi della tipografia), ben sapendo che tutto avrebbe contribuito a fare di me un professionista. Ancora oggi mi trovo, da direttore, a riscrivere sommari e didascalie o a evidenziare refusi in un batter d’occhio: è un valore aggiunto, che devo a quell’esperienza. E così oggi dico grazie a quei colleghi che, pensando di mortificarmi, hanno involontariamente contribuito a fare di me quel che sono adesso. Negli ultimi mesi di vita, “Noi” mi regalò un’altra grande emozione: l’incontro con Marcello Mastroianni. Erano gli ultimi mesi del 1994 e Mastroianni era a Lisbona, impegnato sul set di Sostiene Pereira, insieme con Stefano Dionisi e Nicoletta Braschi. Non era facile riuscire a strappare al grande attore un’intervista, ma la mia insistenza e un buon rapporto con il suo ufficio stampa di allora riuscirono nel miracolo. Sull’aereo che mi portava in Portogallo ero euforico. Ripensavo a tutti i suoi film, da La dolce vita a Oci ciornie, e riflettevo sulla bellezza del mio lavoro, che mi dava la possibilità di conoscere e di raccontare il vissuto, le emozioni di chi fino a pochi anni prima avevo visto e ammirato solo al cinema o in TV. Arrivai a Lisbona che era già tardi. Raggiunsi l’albergo quando il ristorante era ormai chiuso. “Non importa, prenderò qualcosa al bar” dissi al portiere che si scusava per il disagio. In fondo al bar, seduto al bancone in penombra, c’era solo un vecchio. Con una mano teneva la sigaretta, con l’altra un bicchiere di whisky. Tremava e aveva lo sguardo perso nel vuoto. Quell’immagine mi trasmise subito una profonda tristezza, un disagio inquietante. Solo in un secondo momento, guardando un po’ meglio, mi accorsi che quel vecchio era 102 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 102 06/10/14 14:25 Marcello Mastroianni. Non sapevo che fare. Da un lato non volevo violare quel bisogno così intimo di solitudine con la mia presenza, dall’altro non volevo perdere l’occasione per presentarmi e creare un clima di maggiore familiarità con lui. Così mi avvicinai. “Signor Mastroianni, buonasera. Sono Alfonso Signorini, il giornalista di ‘Noi’: abbiamo appuntamento domani a mezzogiorno sul set per l’intervista. Mi scusi se la importuno, ma quando l’ho vista qui non ho potuto fare a meno di venire a salutarla. Per me è un onore conoscerla e avere l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere con lei...” Parlavo, parlavo, parlavo per riempire il silenzio. Mi sembrava di essere ritornato a vendere le enciclopedie porta a porta. A un tratto Mastroianni, che fino a quel momento non aveva distolto lo sguardo dal suo bicchiere, alzò la testa e mi guardò, attraverso una nuvola di fumo. “Da dove viene lei?” E io: “Da Milano. Ho preso l’ultimo aereo per Lisbona, così sono arrivato qua che il ristorante era già chiuso e...”. “E lei è venuto fin qua per sentire le mie stronzate?” Con quella battuta mi raggelò. Comunque avessi risposto, avrei sbagliato. Stavo per riaggiustare i pensieri quando Mastroianni aggiunse: “Adesso mi lasci solo, per cortesia. A domani”. Il tono era davvero scortese. Il classico attore che se la tira da grande intellettuale, pensai. La mia prima delusione professionale. Il mattino dopo mi alzai dal letto controvoglia. Non potevo essere certo entusiasta di confrontarmi con una persona che si era mostrata così distante e che non nascondeva di non avere nessuna voglia di dividere il suo tempo con me. Ma il mio rispetto per il dovere ebbe il sopravvento e alle dodici meno un quarto mi presentai sul set. Era un viavai nevrotico, inconsulto, di macchinisti, operatori di scena, truccatori. Ogni tanto si sentivano le urla di Roberto Faenza, il regista, mentre la Braschi e Mastroianni se la ridevano tra loro. Durante una pausa, Mastroianni mi passò davanti, ignorandomi completamente. Al ritorno lo salutai con enfasi: “Maestro, buongiorno”. Niente. Come se fossi trasparente. Il tempo passava. Mezzogiorno, la mezza, l’una, l’una e tre quarti. 103 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 103 06/10/14 14:25 Con il terrore di perdere l’aereo che avevo alle otto mi precipitai da un assistente di scena. “Senta, io a mezzogiorno avevo appuntamento con Mastroianni. Sono quasi le due. Che facciamo? Mica dovremo fare notte qui.” Quello allargò le braccia, scosse la testa e se ne andò biascicando: “Che vuole che le dica? Sono artisti. Loro sono artisti”. “Stop. Pausa pranzo. Si riprende tra un’ora”: finalmente il direttore di scena aveva imposto una pausa. Passò qualche minuto e vidi che Mastroianni si stava avvicinando. Teneva in mano un contenitore di plastica, di quelli alimentari, sì insomma, la classica schiscetta. “Mi segua, Signorini. Facciamo ’sta benedetta intervista.” Incominciò a mangiare lentamente fagioli e cotenne di maiale. “Forza, che aspetta?” mi disse, senza sollevare lo sguardo dal pasto. “Qual è la prima stronzata che le viene in mente che io possa scrivere?” gli chiesi con la mia solita incoscienza. Lui sospese il boccone per aria, con aria teatrale, mi guardò e proruppe in una sonora risata. Rompemmo il ghiaccio così. Andammo avanti a parlare per almeno due ore, infischiandocene del tempo che passava, dei rimbrotti del direttore di scena, del mio aereo delle otto. Parlammo della normalità e della straordinarietà della vita. Ricordo che cominciai il pezzo scrivendo: “Sono andato sulle montagne russe con un compagno d’eccezione, Marcello Mastroianni. Vi spiego perché”. Inutile dire che ero entusiasta. Avevo ottimo materiale per organizzare l’intervista in due puntate, cosa che feci, ricevendo complimenti da parte di tutti. Un mese dopo, mi squillò il telefono. “Signorini? Sono Mastroianni, buongiorno.” Avevo il cuore in gola. Temevo di avere scritto qualcosa che non gli andava a genio, di averlo ferito. “Senta, lei capita mai a Roma?” “Ci devo venire giusto domani” gli risposi, mentendo clamorosamente. “Bene, allora la aspetto a casa mia. Si segni l’indirizzo.” Il giorno dopo, verso le sei di sera, ero a casa Mastroianni. Venne ad aprirmi Flora, sua moglie, che se ne stava seduta su un piccolo divano a fare il mezzopunto. “Caro Signorini, come sta? Sa che ho letto i suoi pezzi tutti d’un fiato? 104 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 104 06/10/14 14:25 Complimenti. Sono sicuro che lei farà strada, ha una bella penna. E raramente sbaglio, soprattutto quando scrivono di me. Per sdebitarmi ora le darò uno scoop, ma con una promessa. Non dovrà scrivere nulla.” “Be’, questa sì che è una stronzata. Togliere uno scoop a un giornalista è come togliere un piatto di fagioli con le cotiche a uno che sta crepando di fame dopo sei ore di set. Però, non mi resta che ubbidire, visto che il padrone di casa è lei.” Ci facemmo una bella risata e poi, prendendomi sottobraccio, mi disse: “E adesso venga con me”. Mi condusse in bagno. Mi scappò un sorriso. “Che c’è da ridere, Signorini?” “Nulla, è che con i bagni ho una certa dimestichezza” gli risposi, pensando a quello della Dellera di qualche mese prima. Lui, ovviamente, non capì e mi domandò: “Cosa vede davanti a lei?”. “Be’, vedo un bagno. Me lo immaginavo però più spazioso...” “Lei non è un giornalista attento. Guardi bene.” A quelle parole cercai di concentrarmi e di osservare meglio, ma, nonostante gli sforzi, in quel bagno non riuscivo a trovare proprio nulla di particolare. “Lo vede lo sciacquone?” Non potevo credere ai miei occhi. Sopra il water, in bella mostra, c’erano il César che gli era stato consegnato due anni prima e il David di Donatello che aveva vinto con Oci ciornie. Mi brillavano gli occhi. Quella sì che sarebbe stata una foto straordinaria! Avrebbe fatto di sicuro il giro del mondo. “Sa, li tengo lì per ricordarmi di non montarmi troppo la testa. In fondo è quello il posto giusto. Si ricordi questa scena, quando comincerà a salire in alto.” Flora ci preparò un ottimo caffè. Nell’accompagnarmi alla porta, Marcello Mastroianni seppe stupirmi più di quanto non avesse fatto qualche minuto prima e si congedò da me a modo suo, dandomi la sua ultima, grande lezione. “Sa, Signorini, io le devo delle scuse.” “Ma che dice, Maestro?” “Quale Maestro, mi lasci parlare. Non mi sono comportato bene con lei quella sera a Lisbona e neppure la mattina dopo sul set. Ma sono un uomo malato. E quando si è malati, mi creda, si diventa gelosi perfino del tempo.” Un anno dopo morì. 105 INT_alfonso_signorini_l_altra_parte_di_me.indd 105 06/10/14 14:25